Algebra o grammatica dell’essere?

Peano e Heidegger

Giuseppe Boscarino

 

 

Democrito chiamava “ente” il pieno e “non ente” il vuoto.

(Aristotele, Metafisica, I, 4, 985b, 5-10)

 

 

Abstract

 

In this article I argue how in the history of philosophy the meaning of the term “being” was disputed over by two research programmes: the Platonic-Aristotelian one up to Heidegger and the Pythagorean-Parmenidean-Democritean one through Hobbes and Boole up to Peano. I call the former “grammatical” type, the latter “algebraic linguistical” type. As in the grammatical classifications, in the former formal or linguistical distinctions are mistaken for distinctions of logical type, or even of real or, as it is said, metaphysical type; hence its empty philosophical verbalism. In the latter, the term “being” is taken in its merely linguistical meaning to build the science of reality, which should be known starting from rational principles, the “ideas”, as Democritus called them, through an adequate language.

 

 

 

Nella storia della filosofia si sono fronteggiati due programmi di ricer­ca intorno al significato del termine “essere”, quello platonico-aristotelico e quello pitagorico-parmenideo-democriteo-peaniano. Il primo lo chiamo di tipo “grammaticale”, il secondo lo chiamo di tipo “algebrico-linguistico”.

Platone ed Aristotele assumono distinzioni formali, linguistiche o gram­maticali e le interpretano come distinzioni logiche, o addirittura reali e metafisiche. (1)È quanto anche fa Heidegger nelle sue speculazioni filosofiche, nelle quali, dopo la cosiddetta svolta (Kehre), interpreta la storia del pensiero filo­sofico a partire da mere distinzioni formali, grammaticali o verbali. Heidegger interpreta infatti la storia della metafisica come storia dell’ente, essendo sta­to dimenticato l’essere. C’è stata a suo parere storia dell’ente (ora interpreta­to come idea, ora come Dio, ora come spirito, ora come volontà di potenza, ecc...), non tematizzando l’essere.

Nella sua “Introduzione alla metafisica” scrive: “Ma dov’è all’opera il vero nichilismo? Là dove si rimane attaccati all’essente consueto, dove si pensa che sia sufficiente assumere l’essente, come è fatto fino ad oggi, come essente puro e semplice e basta. Ciò significa respingere la domanda sull’es­sere e trattare l’essere come un nulla (nihil): il che anche in un certo senso esso « è», in quanto non sussiste come un essentc, ma si essenzia (west). Il nichilismo è questo occuparsi soltanto dell’essente dimenticando l’esse­re”.(2)

   E ancora in ‘‘Sentieri interrotti’’: “L’essenza del nichilismo risiede nel­la storia, in virtù della quale, nell’apparire stesso dell’ente come tale nel suo insieme, ne è nulla dell’essere come tale e della sua verità; sicché la verità dell’ente come tale passa per l’essere, mentre è assente la verità dell’essere.

…Ma se l’essenza del nichilismo risiede nella storia in virtù della quale nell’apparire dell’ente come tale nel suo insieme è assente la verità dell’essere, cosicché nulla ne è dell’essere stesso e della sua verità, ne consegue che la metafisica, in quanto storia della verità dell’ente come tale, è nichilismo nella sua stessa essenza. Poiché la metafisica è il fondamento storico radica­le della storia universale, determinata su basi occidentali ed europee, ne consegue che quest’ultima è nichilistica in un senso del tutto nuovo.

Muovendo dalla struttura-destino dell’essere stesso (aus dem Geschik des Seins) il nihil del nichilismo significa che l’essere è tenuto per nulla. L’essere non entra nella luce della propria essenza. Nell’apparire dell’ente come tale, l’essere rimane escluso. La verità dell’essere sfugge; è dimenticata.”(3)

Ma “ente” ed “essere” sono distinzioni grammaticali (l’uno, in gram­matica, è participio presente, l’altro è infinito), formali,  non logiche, non metafisiche a meno che Heideggcr vuol trovarne di proprie!

La grammatica distingue il nome “uomo”, nome concreto, dal nome “umanità”, nome astratto, ma dà ai due termini “concreto” e “astratto” signi­ficati reali, cioè come riferentisi a “cose” e non a “nomi”. Eppure dal punto di vista logico sono uguali, sebbene diversi dal punto di vista formale. I significati formali, grammaticali, sono infatti diversi,  il significato reale è uguale.

                        Uomo = Umanità

o se si vuole                Umanità = essere uomo.

Nel qual caso, tra l’altro, assumiamo informazioni circa il significato del termine “essere” e del termine “ente”, che nella speculazione heideggeriana si assumono come distinti.

Si usa dire infatti:

“La   tua entitá di uomo... = Il tuo essere uomo... = La tua uman(ità)...”

Si hanno allora le seguenti identità semantiche:

(1)     entità = essere = ...ità

come  vale anche la seguente identità “essere = ente”.

Si usa dire infatti:

“L’uomo è un essere razionale = L’uomo è un ente razionale = 1’uomo è razionale.”

In tal caso

                 (2) ente = essere
ma per        (1) segue
                 (3) ente = entità = essere.

Peano nella sua algebra della grammatica ha studiato il significato dei termini “essere” ed “ente”, tanto usati dai filosofi, arrivando alla conclusione che il loro significato è nullo, ovvero che “ente = esssere = 0” nell’algebra dei suffissi grammaticali, per i quali valgono le operazioni di addizione e sottrazione come nell’algebra dei numeri. (Il termine “essere” nell’algebra delle classi può essere interpretato come l’elemento neutro, rispetto all’ope­razione di intersezione, o se si vuole usare il linguaggio algebrico simbolico di Boole, come l’universo del discorso, il cui valore é 1).

Scrive a tal proposito Peano : “Se aggiungiamo « è» ad un agget­tivo derivato da un verbo con 1’operazione A - V riotteniamo il verbo primi­tivo:

è studente = studia

Quindi: è (uno) che studia = (uno) studia, e, dall’altra parte, (uno) che studia = (uno) studente. Possiamo scrivere come in algebra il segno + tra i due elementi, indicando con 0 un espressione con valore nullo,

è che = che é = 0

Se davanti ad un aggettivo poniamo « è», otteniamo un verbo.

Esempi: aiuta = è aiutante, agisce = è agente, chiama = è chiamante ecc...

0 similmente: amministra = è amministratore, agisce = é attore.

Possiamo indicare con i1 simbolo V - A la voce « è», che ha valore oppo­sto a A-V. Si ha

                    è = V-A            (V-A) + (A-V) = 0

L’uguaglianza “è + che = 0” ci dirà che il participio presente di «è» ha valore nullo. Infatti non esiste nel latino classico.

Tuttavia esiste in greco sotto la forma « ont-» da cui « onto­logia», che Quintiliano, nell’anno 100, trasforma in « ente» vocabo­lo che é rimasto in italiano, «ente» o «essere», e in francese «être»: in modo simile viene costruito l’inglese «being». Tale voca­bolo è di uso comune nella filosofia.

Si verifica subito il suo vabore nullo:

inglese: “man is a rational being = l’uomo é razionale”

italiano: “1’uomo è un ente razionale = 1’uomo è razionale” (4)

Eppure Heidegger crede di individuare nei due termini “essere” ed “ente” significati diversi, una differenza ontologica. Difficile trovare nella sua pro­duzione filosofica una precisa distinzione logica, che ne fissi i significati in modo rigoroso. (5)

Ho trovato nell’«Introduzione alla metafisica», opera dedita princi­palmente alla riflessione sull’essere, un tentativo in tal senso. Scrive Heidegger: L ‘essente e il suo essere sono la stessa cosa ? In che cosa consi­ste la loro djfferenza? Cos’è, per esempio, in questo pezzo di gesso l’essen­te ? Già  la domanda è di per sé ambigua, in quanto la parola «essente» può assumere due significati,  come in greco, τò őν. L’essente significa anzi­tutto ciò che (was), nei singoli casi, è essente. Nel caso specifico, questa massa di un grigio tendente al bianco, di una forma determinata, leggera, friabile. L’essente significa, in secondo luogo, ciò che, per così dire, <fa» sì che la cosa in questione sia un essente, anziché non essente; ciò che nel­l’essente, se è un essente, costituisce il suo essere. In conformità di questa doppia significazione «essente», il greco τò őν riveste spesso il secondo significato, indica cioè non 1’essente (das Seiende) stesso, ciò che (was) é essente, ma il «il fatto di essere» (das Seiend), 1’essentità (die Seiendheit), 1’essere-essente (das Seiendsein). L’essere per contro, 1’essente nel primo caso designa le stesse cose esistenti, prese singolarmente o nel loro insieme, in altri termini: tutto ciò che è in rapporto ad esse e non alla loro essentità (Seiendheit), l’ουσία. II primo significato di τò őνcorrisponde a τά őντα (entia), il secondo a τò είναι (esse)”.(6)

Arduo a districarsi entro questa torbida terminologia ontologica alla ricerca di precisi significati logici o razionali. Lo stesso termine «essere» è definito in svariatissimi modi in tutta quest’opera, per non dire in tutta la produzione heideggeriana. Heidegger assume distinzioni verbali o della lin­gua tedesca (das Seiend, das Seeiende, das Seiendheit, ecc) o dalla lingua greca (τò őν, τò είναι) e va alla ricerca di presunte distinzioni logiche o metaftsiche.

Qui sulla terminologia di tipo “ontologico” le vie della ricerca sono due o quella peaniana, già in parte richiamata, per cui si scandaglia l’uso del termine “essere” entro l’universo del discorso, ed inoltre si prendono in esa­me, come vedremo, i significati logici che esso assume quando fa da copula tra termini e quali relazioni intrattiene con gli altri operatori logici (es. il “non”) o altrimenti quella heideggeriana, di matrice platonica-aristotelica, per cui si va alla ricerca di arbitrarie etimologie, di significati originari, pri­mitivi, prelogici, di presunte classificazioni metafisiche e periodizzazioni sto­rico-filosofiche a partire da mere classificazioni grammaticali e formali, quali “essere” ed “ente”

Peano in modo preciso e rigoroso ha individuato per primo il significa­to che il termine “essere” assume quando fa da copula tra termini. Esso può avere il significato di “appartenenza” di un individuo alla classe, indicato dal simbolo (ε), di “inclusione” di una classe in un’altra, indicato dal simbolo (Ì), di “uguaglianza” tra classi o individui, indicato dal simbolo (=) , di “esi­stenza” di classi, indicato dal simbolo ($ ).

Peano inoltre ha studiato il rapporto che la copula “essere”, nei due significati di “appartenenza e di inclusione”, intrattiene con gli altri operatori logiei, quali il “non”, (–), e il simbolo (ι) (= iota, il simbolo che fa passare dalla classe al suo concetto o dall’individuo alla sua idea), pervenendo alle seguenti conclusioni:

                         (1) – ε  .=.  ε

(il simbolo (ε) commuta con il “non”)

(2) – Ì   .¹.  Ì

(il simbolo Ì non commuta con il “non”)

(3) ε ι  .=def.  =

(il simbolo (ε) in unione con iota diventa uguale (=) (7)

È da richiamare l’attenzione sul fatto che l’analisi di Peano dei signifi­cati del termine “essere” si muove entro l’universo dei linguaggi di matrice indoeuropeo, nei quati la parola “essere” ha assunto un ruolo centrale nella loro strutturazione.

Già il filosofo Hobbes, duro critico dell’ontotogia aristotelica, metteva in guardia contro l’enfatizzazione dell’uso del termine “essere” nel linguag­gio comune e di conseguenza nella speculazione filosofica, elaborata a parti­re da quella, e l’uso improprio del lessico filosofico, muovendo da quello ontologico.

Scrive Hobbes infatti: “Si è soliti chiamare il nome che viene prima «soggetto» o «antecedente o contenuto», ed il nome che viene dopo «predicato, conseguente o contenente»; ed il segno della connessione, presso la maggior parte delle popolazioni, o è una voce, come quell’«è», come nelle proposizioni «l’uomo è animale» o è il caso o desinenza di una voce, come in questa proposizione: «l’uomo cammina», che equivale a «1’uomo è camminante»; la desinenza, per la quale si dice «cammina» anzi che «camminante», è segno che quei nomi  sono concepiti come uniti o come nomi della stessa cosa. Vi sono, poi, alcune popolazioni, e certamente possono esservi, che non posseggono affatto alcuna voce corrispondente al nostro verbo «è», tuttavia formano proposizioni unicamen­te ponendo un nome dopo l’altro, come se, invece che «l’uomo è anima­le», dicessero soltanto «l’uomo animale»: ed invero anche questo ordine di nomi può abbastanza indicare la sua connessione; né quelli che non posseggono la voce « è », per questo sono meno idonei alla filosofia.” (8)

E ancora: “Di qui traggono origine i grossolani errori di certi metafisici; cioè dal fatto che si può considerare il pensiero senza considerare il corpo traggono la conclusione che non c’è bisogno del corpo che pensa; e, per il fatto che si può considerare la quantità senza considerare il corpo,  pensano che esiste anche una quantità senza il corpo e un corpo senza quantità, di modo che, aggiunta ía quantità al corpo, ne verrebbe fuori un corpo di una determinata quantità.. Dalla stessa fonte noscono le voci «sostanze astrat­te», «essenza separata» ed altre simili; ed anche la confusione delle voci derivate dal verbo «è», come: «essenza, essenzialità, entità, entitativo, e realtà, aliquiddità, quiddità»; le quali non sarebbe possibile udire presso le popoiazioni che non conoscono la copulazione con il verbo «è», ma con aggettivi come «corre, legge, etc, o con la semplice giustapposizione dei nomi; e tuttavia poiché queste popolazioni possono fllosofare come le altre, per la filosofia non sono necessarie le voci «essen­za, entità» e tutto il barbarico lessico di questa specie.”(9)

E infine: “sono false le proposizioni in cui i nomi astratti sono con­giunti con nomi concreti; esempi: «l’essere è ente, 1’essenza è ente, tò ti ên eî nai cioè la quiddità ê ente» e molte proposizioni del genere che si tova­no nella Metafisica di Aristotele”. (10)

Nell’algebra della logica di Boole sulla scia del programma di Hobbes e di Leibniz di voler costruire un calcolo logico si usa come unica relazione tra i termini delle proposizioni il simbolo di “uguale” (=) in sostituzione del simbolo copulativo «essere».(11)

Il termine “essere” insomma ha un significato puramente linguistico, formale, riguarda l’uso dei segni, non il loro significato reale.

La metafisica platonica-aristotelica-heideggeriana assume invece il lessico ontologico come proiezione da cose reali, da significati reali a segni linguistici.

In verità scambia significati formali per significati reali, forme lingui­stiche per forme reali. Da qui il suo grammaticalismo o verbalismo fllosofico!

Nella metafisica di Peano, come in quella di Democrito, Hobbes, Boole, il lessico “ontologico” ha un significato puramente linguistico, formale.

“Ente” per Democrito è “i1 pieno”, il “non-ente” è “il vuoto”, il non pieno. Testimonia a tal proposito Aristotele: “Empedocie ha avuto questa concezione circa i principi (archai) e il loro numero.

Leucippo, invece, e il suo discepolo Democrito pongono che sono ele­menti (stoicheia) il pieno (tò plêres) e il vuoto (tò kenòn), chiamando l’uno essere (tò őn) e 1’altro non essere (tò me őn), e precisamente chiamano essere il pieno e il solido, non essere il vuoto e il raro (onde essi affermano che 1’essere non è affatto più reale del non essere, perché neanche il vuoto è «meno reale» del corpo) e pongono questi <elementi> come cause ma­teriali degli esseri (tôn őnton).”(12)

Interpretando questa testimonianza che cosa sono allora “ente” e “non-­ente” per Democrito?

“Ente” è il «nome» del pieno, “non-ente” è il «nome» del vuoto.

“Ente” quindi è un mero nome, o se si vuole è il nome proprio di “pieno”, come “non-ente” è il nome proprio del “vuoto”. Il loro significato è pu­ramente nominale, linguistico, a cui Democrito però associa un significato razionale.

Di essi, dell’ente e del non-ente, secondo Democrito si può dire che esistono, ovvero che sono “idee” o, altrimenti, che non sono parole senza significato. Stando alle testimonianze, Democrito chiamava i principi (archai), il pieno e il vuoto, “idee”. Essi sono allora idee, indicano cose esistenti, anche se di natura razionale. Si può dire pertanto che “pieno e vuoto” sono (= esistono = sono essere = appartengono all’essere). Essi, il pieno e il vuoto, sono idee non contraddittorie, per questo di essi si può dire che esistono.

Lucrezio, di tradizione democritea, dimostra ad esempio, l’esistenza del vuoto a partire dalla contraddittorietà dell’ipotesi dell’esistenza del non vuoto.

La dimostrazione dell’esistenza del vuoto (Est in rebus inane, verso 330) è data da Lucrezio nei versi 329-369, del «De rerum natura», libro I. Per Lucrezio vale la seguente definizione nominale di «inane»:

“Locus est (=) intactus inane vacansque = L’inane è luogo intatto e privo di materia “, verso 334.

La dimostrazione dell’esistenza del vuoto è data pen assurdo. Si neghi la tesi, e cioè che “non esiste il vuoto”, ne seguirebbe che ogni cosa non potrebbe muoversi, perché stipata a restare dove è da tutte le altre cose.

        (Testo latino: Quod si non esset, nulla ratione moveri respossent, trad.: infatti se non fosse, le cose non potrebbero essere mosse da alcuna causa (ratione) e pertanto: Nulla res daret principium cedendi, trad.: nessuna cosa darebbe un inizio di spostamento o cedimento). Ora noi vediamo che le cose si muovono per maria et terras, ecc, quindi perché non ci sia la contraddizio­ne di negare il movimento e contemporaneamente di ammetterlo, perché te­stimoniato dai sensi, deve esistere il vuoto, poiché non ci sarebbe né movi­mento né nascita, in quanto la materia starebbe tutta stipata.

Il concetto di vuoto è allora non contraddittorio, quindi di esso si può dire che esiste. La negazione del vuoto porta invece alla contraddizione. La struttura argomentativa di Lucrezio è di tipo parmenideo (Di ciò che è con­traddittorio non si può dire che esiste), ma al di là di Parmenide vuole “sal­vare i fenomeni”, non ridurli a mera apparenza, illusione. Il vuoto, in quanto ente puramente razionale non contraddittorio, spiega il fenomeno del movi­mento e del nascimento. Di esso, benché non se ne abbia esperienza, si può dire che esiste. Inoltre dice Lucrezio: per poter spiegare come nelle roccie scorre l’acqua e da esse gocciola, come crescono gli alberi grazie alla linfa che sale dalle radici sino al tronco e ai rami, come le voci ci si insinuano tra i muri, bisogna ammettere l’esistenza del vuoto.

E ancora: come spiegare il fatto che due corpi di uguale volume abbia­no l’uno un peso maggiore dell’altro? Ciò può essere spiegato solo con l’am­mettere il fatto che nel primo c’è un minor vuoto del secondo. Se non ci fosse il vuoto, i due corpi di ugual volume dovrebbero avere lo stesso peso, ma questo non risulta ai nostri sensi, quindi deve esistere il vuoto, che spiega la diversità dei pesi, dati i volumi uguali. La conclusione di Lucrezio è: “Esiste dunque certamente ciò che con acuto ragionamento cerchiamo, commisto alle cose, che chiamo vuoto” (In latino: “Est igitur id quod ratione sargaci quaerimus, admixtum rebus, quod inane vocamus”).(13)

Dopo questa breve disgressione su Lucrezio e l’esistenza del vuoto pos­siamo dire allora che per Democrito, come per lo stesso Lucrezio vale la seguente uguaglianza:

Esistere = essere = non con traddittorio.

Il mondo dell’ente e del non ente, in quanto mondo non contraddittorio, è il mondo dell’essere. Se scriviamo questo nell’algebra delle classi e delle sue operazioni, allora possiamo scrivere

Essere = Physis = (Ente  U  Non-ente).

L’essere, che Democrito chiama “physis”, è il nome comune di ente e non-ente. I1 significato di Physis di Democrito e di Lucrezio è il significato di Essere parmenideo; esso, in quanto principio degli esistenti, o idea, ha come elementi, il pieno e il vuoto.

Nel linguaggio aristotelico, come dei dossografi, degradato dal punto di vista di un rigoroso linguaggio filosofico-scientifico, si perde la distinzio­ne tra elemento (stoicheion) e principio (arché), ovvero tra l’elemento e la sua idea. Ecco perché Democrito chiamava i principi “idee”!

Democrito si muove dentro la tradizione di pensiero di Parrnenide, per il quale le cose sensibili o apparenti non sono l’essere. Per Democrito infatti non sono “ente e non-ente” le cose sensibili o apparenti, sono invece “ente e non-ente” il pieno e il vuoto, che sono physis, essere. Sono essi la physis, l’essere, ciò che può essere pensato e detto, stando alle indicazioni di Parmenide.

Essi, il pieno e il vuoto, hanno le proprietà dell’essere parrnenideo: sono “uno”, tanto il pieno, come tutto, quanto il vuoto, suo complementare, sono “indivisibili”, poiché non si può dividere il vuoto (la dizione di “atomo= indivisibile” riferita al “pieno” è solo della nomenclatura piatta e volgare degli aristotelici e dei dossografi), come non si può dividere il pieno, in quanto elemento, assieme al vuoto, dell’idea di essere o di physis, sono quindi “con­tinui”, “limitati” l’uno dall’altro, “immutevoli” (non può passare l’uno nel­l’altro), e quindi “eterni”.

L’essere, come unione di “ente e non-ente”, di ciò che in quanto “tutto” (l’“omne” di Lucrezio) non è contraddittorio, è razionale.

Se si vuole restare alle indicazioni di Democrito per cui l’essere è il Mondo del razionalmente compatibile, si può dire pertanto che con la tradi­zione aristotelica si è smarrita la via dell’essere per seguire la via dell’ente, ma, per restare al linguaggio heideggeriano, dell’ente sensibile, apparente!

Per Aristotele l’essere si dice in tanti modi: come categoria, come so­stanza, come potenza e atto, come vero o falso, come accidente.

Ma questo è piatto empirismo, poiché questi sono proprietà degli enti sensibili, anzi modi di dire del linguaguio comune. Di questi Parmenide scri­verebbe:

“Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero né l’abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa lungo questa via a usar l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba di suoni illusori e la lingua, ma giudica col raziocinio la pugnace disamina che io ti espongo……

È la stessa cosa pensare e pensare che è perché senza l’essere, in ciò che è detto, non troverai il pensare

……

Perciò saranno tutte soltanto parole,

Quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero il nascere e il perire, essere o non essere, cambiamento di luogo e mutazione di brillante colore (14)

L’essere aristotelico, in quanto rispecchia modi del parlare, conformi alla mera conoscenza sensibile, non può essere la realtà, la quale può essere solo razionalmente costruita. Heidegger pensa di andare oltre Platone e Aristotele, per ritornare a Parmenide . In realtà resta aristotelico, appunto perché vuol capire l’essere a partire dal linguaggio, mentre l’essere è com­prensibile a partire dall’idea, dall’elemento razionale, a cui va però associato un linguaggio adeguato.

Almeno questa è l’indicazione di Democrito, espressione di una tradi­zione di pensiero che Heidegger trascura, tace in tutta la sua produzione, facendo solo i conti con la tradizione platonica-aristotelica, volendosene al­lontanare, ma rimanendovi in realtà impigliato.

 

 

 

 

NOTE

1)               Cfr. a questo proposito G.Boscarino, Tradizioni di pensiero. La tradizione filosofìca italica della scienza e della realtà, La scuola italica, Sortino, 1999. TORNA

2)               Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, 1990, p.207   TORNA

3)               Cfr. M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, pp- 242-243   TORNA

4)               Vedi Mondotre, n.8, 1l nome della cosa, in Appendice, dove si dà tradotto da Interlingua un articolo di Peano di algebra della grammatica, De derivatione, da cui è tratta la citazione.   TORNA

5)               Si tenta invece una sottile e rigorosa distinzione logica di “ente”, “esistente” e di “essere” nel libro citato, Giuseppe Boscarino, Tradizioni di pensiero. ... nella Parte prima, Cap.2.6, in Elementi di logica formale e di ontologia.   TORNA

6)               Cfr. M. Heidegger. Introduzione alla metafisica, Mursia, p. 41.    TORNA

7)               Cfr. G. Peano, Formulario matematico, Cremonese, Firenze, 1960.   TORNA

8)               Cfr. T. Hobbes, Elementi difilosofia, Utet, Torino, 1972, pp. 94-95   TORNA

9)               ibidem. p.97   TORNA

10)            ib.p. 119   TORNA

11)            Vedi G. Boole, Indagini sulle leggi del pensiero, Einaudi, Torino.   TORNA

12)             Vedi Aristotelis, Metaphysica, A, 985b 1-10, Oxford classical tests, 1985.    TORNA

13)             Vedi a questo proposito sempre nell’opera citata di Giuseppe Boscarino in Parte prima, Cap. 4.5, Lucrezio La dimostrazione dell’esistenza del vuoto.    TORNA

14)            Cfr. I presocratici, Parmenide, Laterza, Bari.   TORNA