Algebra o grammatica
dell’essere?
Peano e Heidegger
Giuseppe
Boscarino
Democrito
chiamava “ente” il pieno e “non ente” il vuoto.
(Aristotele,
Metafisica, I, 4, 985b, 5-10)
Abstract
In this article I argue how in the history of philosophy the meaning of
the term “being” was disputed over by two research programmes: the Platonic-Aristotelian one up to Heidegger and
the Pythagorean-Parmenidean-Democritean one through Hobbes and Boole up to
Peano. I call the former “grammatical” type, the latter “algebraic
linguistical” type. As in the grammatical classifications, in the former formal
or linguistical distinctions are mistaken for distinctions of logical type, or
even of real or, as it is said, metaphysical type; hence its empty
philosophical verbalism. In the latter, the term “being” is taken in its merely
linguistical meaning to build the science of reality, which should be known
starting from rational principles, the “ideas”, as Democritus called them,
through an adequate language.
Nella
storia della filosofia si sono fronteggiati due programmi di ricerca intorno
al significato del termine “essere”, quello platonico-aristotelico e quello
pitagorico-parmenideo-democriteo-peaniano. Il primo lo chiamo di tipo
“grammaticale”, il secondo lo chiamo di tipo “algebrico-linguistico”.
Platone
ed Aristotele assumono distinzioni formali, linguistiche o grammaticali e le
interpretano come distinzioni logiche, o addirittura reali e metafisiche. (1)È quanto
anche fa Heidegger nelle sue speculazioni filosofiche, nelle quali, dopo la
cosiddetta svolta (Kehre), interpreta la storia del pensiero filosofico a
partire da mere distinzioni formali, grammaticali o verbali. Heidegger
interpreta infatti la storia della metafisica come storia dell’ente, essendo
stato dimenticato l’essere. C’è stata a suo parere storia dell’ente (ora
interpretato come idea, ora come Dio, ora come spirito, ora come volontà di
potenza, ecc...), non tematizzando l’essere.
Nella
sua “Introduzione alla metafisica” scrive:
“Ma dov’è all’opera il vero nichilismo?
Là dove si rimane attaccati all’essente consueto, dove si pensa che
sia sufficiente assumere
l’essente, come è fatto fino ad oggi, come essente puro e semplice e
basta. Ciò significa respingere la domanda sull’essere e trattare l’essere
come un nulla (nihil): il che anche in un certo senso esso « è», in quanto non sussiste come un
essentc, ma si essenzia (west). Il nichilismo è questo occuparsi soltanto
dell’essente dimenticando l’essere”.(2)
E ancora in ‘‘Sentieri interrotti’’: “L’essenza del nichilismo risiede nella
storia, in virtù della quale, nell’apparire stesso dell’ente come tale nel suo insieme, ne è nulla dell’essere come
tale e della sua verità; sicché la verità dell’ente come tale passa per
l’essere, mentre è assente la verità dell’essere.
…Ma se l’essenza del nichilismo risiede nella storia
in virtù della quale nell’apparire dell’ente come tale nel suo insieme è
assente la verità dell’essere, cosicché nulla ne è dell’essere stesso e della
sua verità, ne consegue che la metafisica, in quanto storia della verità
dell’ente come tale, è nichilismo nella sua stessa essenza. Poiché la
metafisica è il fondamento storico radicale della storia universale,
determinata su basi occidentali ed europee, ne consegue che quest’ultima è
nichilistica in un senso del tutto nuovo.
Muovendo
dalla struttura-destino dell’essere stesso (aus dem Geschik des Seins) il nihil
del nichilismo significa che l’essere è tenuto per nulla. L’essere non entra
nella luce della propria essenza. Nell’apparire dell’ente come tale, l’essere
rimane escluso. La verità dell’essere sfugge; è dimenticata.”(3)
Ma “ente” ed “essere” sono distinzioni
grammaticali (l’uno, in grammatica, è participio presente, l’altro è
infinito), formali, non
logiche, non metafisiche a meno che Heideggcr vuol trovarne di proprie!
La grammatica distingue il nome “uomo”, nome
concreto, dal nome “umanità”, nome astratto, ma dà ai due termini “concreto” e
“astratto” significati reali, cioè come riferentisi a “cose” e non a “nomi”.
Eppure dal punto di vista logico sono uguali, sebbene
diversi dal punto di vista formale. I significati formali, grammaticali, sono
infatti diversi, il
significato reale è uguale.
Uomo
= Umanità
o se si vuole Umanità = essere uomo.
Nel qual caso, tra l’altro, assumiamo informazioni
circa il significato del termine “essere” e del termine “ente”, che nella
speculazione heideggeriana si assumono come distinti.
Si usa dire infatti:
“La tua
entitá di uomo... = Il tuo
essere uomo... = La tua uman(ità)...”
Si
hanno allora le seguenti identità semantiche:
(1) entità = essere = ...ità
come vale anche la seguente identità “essere = ente”.
Si usa
dire infatti:
“L’uomo è un essere razionale = L’uomo è un ente razionale = 1’uomo è razionale.”
In tal caso
(2)
ente = essere
ma per (1) segue
(3) ente = entità = essere.
Peano nella sua algebra
della grammatica ha studiato il significato dei termini “essere” ed “ente”,
tanto usati dai filosofi, arrivando alla conclusione che il loro significato è
nullo, ovvero che “ente = esssere = 0” nell’algebra dei suffissi grammaticali, per i quali valgono le
operazioni di addizione e sottrazione come nell’algebra dei numeri. (Il termine
“essere” nell’algebra delle classi può essere interpretato come l’elemento
neutro, rispetto all’operazione di intersezione, o se si vuole usare il linguaggio algebrico simbolico di Boole, come
l’universo del discorso, il cui valore é 1).
Scrive a tal proposito
Peano : “Se aggiungiamo « è» ad un aggettivo
derivato da un verbo con 1’operazione A - V riotteniamo il verbo primitivo:
è studente = studia
Quindi: è (uno) che
studia = (uno) studia, e, dall’altra parte, (uno) che studia = (uno) studente.
Possiamo scrivere come in algebra il segno + tra i due elementi, indicando con
0 un espressione con valore nullo,
è che = che é = 0
Se davanti ad un aggettivo poniamo « è», otteniamo un verbo.
Esempi: aiuta = è
aiutante, agisce = è agente,
chiama = è chiamante ecc...
0 similmente: amministra = è amministratore,
agisce = é attore.
Possiamo indicare con i1 simbolo V - A la voce «
è», che ha valore opposto a A-V. Si ha
è = V-A (V-A)
+ (A-V) = 0
L’uguaglianza “è + che =
0” ci dirà che il participio presente di «è» ha valore nullo. Infatti non
esiste nel latino classico.
Tuttavia
esiste in greco sotto la forma « ont-» da cui « ontologia», che Quintiliano, nell’anno
100, trasforma in « ente» vocabolo che é rimasto in italiano, «ente» o
«essere», e in francese «être»: in modo simile viene costruito l’inglese
«being». Tale vocabolo è di uso comune nella filosofia.
Si verifica subito il suo vabore nullo:
inglese:
“man is a rational being = l’uomo é razionale”
italiano:
“1’uomo è un ente razionale = 1’uomo è razionale” (4)
Eppure Heidegger crede
di individuare nei due termini “essere” ed “ente” significati diversi, una
differenza ontologica. Difficile trovare nella sua produzione filosofica una
precisa distinzione logica, che ne fissi i significati in modo rigoroso. (5)
Ho trovato nell’«Introduzione alla metafisica», opera
dedita principalmente alla riflessione sull’essere, un tentativo in tal senso.
Scrive Heidegger: “L ‘essente e il
suo essere sono la stessa cosa ? In che cosa consiste la loro djfferenza?
Cos’è, per esempio, in questo pezzo
di gesso l’essente ? Già la domanda è
di per sé ambigua, in quanto la parola «essente» può assumere due
significati, come in greco, τò
őν. L’essente significa anzitutto ciò che
(was), nei singoli casi, è essente. Nel caso specifico, questa massa di un
grigio tendente al bianco, di una forma determinata, leggera, friabile.
L’essente significa, in secondo luogo, ciò che, per così dire, <fa» sì che
la cosa in questione sia un essente, anziché non essente; ciò che nell’essente,
se è un essente, costituisce il suo essere. In conformità di questa doppia
significazione «essente», il greco τò őν riveste spesso il secondo significato, indica
cioè non 1’essente (das Seiende) stesso, ciò che (was) é essente, ma il «il
fatto di essere» (das Seiend), 1’essentità (die Seiendheit), 1’essere-essente
(das Seiendsein). L’essere per contro, 1’essente nel primo caso designa le
stesse cose esistenti, prese singolarmente o nel loro insieme, in altri
termini: tutto ciò che è in rapporto ad esse e non alla loro essentità
(Seiendheit), l’ουσία. II primo significato di “τò
őν” corrisponde a τά őντα (entia), il secondo a τò είναι
(esse)”.(6)
Arduo a districarsi
entro questa torbida terminologia ontologica alla ricerca di precisi
significati logici o razionali. Lo stesso termine «essere» è definito in svariatissimi
modi in tutta quest’opera, per non dire in tutta la produzione heideggeriana.
Heidegger assume distinzioni verbali o della lingua tedesca (das Seiend, das Seeiende, das Seiendheit,
ecc) o dalla lingua greca (τò őν, τò είναι) e va
alla ricerca di presunte distinzioni logiche o metaftsiche.
Qui sulla terminologia di tipo “ontologico” le vie
della ricerca sono due o quella peaniana, già in parte richiamata, per
cui si scandaglia l’uso del termine “essere” entro l’universo del discorso, ed inoltre si prendono in
esame, come vedremo, i significati logici che esso assume quando fa da copula
tra termini e quali relazioni intrattiene con gli altri operatori logici (es.
il “non”) o altrimenti quella heideggeriana, di matrice
platonica-aristotelica, per cui si va alla ricerca di arbitrarie etimologie, di
significati originari, primitivi, prelogici, di presunte classificazioni
metafisiche e periodizzazioni storico-filosofiche a partire da mere
classificazioni grammaticali e formali, quali “essere” ed “ente”
Peano in modo preciso e rigoroso ha individuato
per primo il significato che il termine “essere” assume quando fa da copula
tra termini. Esso può avere il significato di “appartenenza” di un individuo
alla classe, indicato dal simbolo (ε), di
“inclusione” di una classe in un’altra, indicato dal simbolo (Ì),
di “uguaglianza” tra classi o individui, indicato dal simbolo (=) , di “esistenza”
di classi, indicato dal simbolo ($ ).
Peano inoltre ha studiato il rapporto che la
copula “essere”, nei due significati di “appartenenza e di inclusione”,
intrattiene con gli altri operatori logiei, quali il “non”, (–), e il simbolo (ι) (= iota, il simbolo che fa passare dalla classe al suo
concetto o dall’individuo alla sua idea), pervenendo alle seguenti conclusioni:
(1) – ε .=. ε –
(il
simbolo (ε) commuta con il “non”)
(2) – Ì .¹. Ì –
(il simbolo Ì non
commuta con il “non”)
(3) ε ι .=def. =
(il
simbolo (ε) in unione con iota diventa
uguale (=) (7)
È da richiamare l’attenzione sul fatto che l’analisi di Peano dei significati del termine “essere” si muove entro l’universo dei linguaggi di matrice indoeuropeo, nei quati la parola “essere” ha assunto un ruolo centrale nella loro strutturazione.
Già il filosofo Hobbes, duro critico
dell’ontotogia aristotelica, metteva in guardia contro l’enfatizzazione
dell’uso del termine “essere” nel linguaggio comune e di conseguenza nella
speculazione filosofica, elaborata a partire da quella, e l’uso improprio del
lessico filosofico, muovendo da quello ontologico.
Scrive Hobbes infatti: “Si è soliti
chiamare il nome che viene prima «soggetto» o «antecedente o contenuto», ed il
nome che viene dopo «predicato, conseguente o contenente»; ed il segno della
connessione, presso la maggior parte delle popolazioni, o è una voce, come
quell’«è», come nelle proposizioni «l’uomo è animale» o è il caso o desinenza
di una voce, come in questa proposizione: «l’uomo cammina», che equivale a
«1’uomo è camminante»; la desinenza, per la quale si dice «cammina» anzi
che «camminante», è segno che quei nomi
sono concepiti come uniti o come nomi della stessa cosa. Vi sono, poi,
alcune popolazioni, e certamente possono esservi, che non posseggono
affatto alcuna voce corrispondente al nostro verbo «è», tuttavia formano
proposizioni unicamente ponendo un nome dopo l’altro, come se, invece che
«l’uomo è animale», dicessero soltanto «l’uomo animale»: ed invero anche
questo ordine di nomi può abbastanza indicare la sua connessione; né quelli che
non posseggono la voce « è », per questo sono meno idonei alla
filosofia.” (8)
E ancora: “Di qui traggono origine i grossolani
errori di certi metafisici; cioè dal fatto che si può considerare il pensiero
senza considerare il corpo traggono la conclusione che non c’è bisogno del
corpo che pensa; e, per il fatto che si può considerare la quantità senza
considerare il corpo, pensano
che esiste anche una quantità senza il corpo e un corpo senza quantità, di
modo che, aggiunta ía quantità al corpo, ne verrebbe fuori un corpo di
una determinata quantità.. Dalla stessa fonte noscono le voci «sostanze astratte»,
«essenza separata» ed altre simili; ed anche la confusione delle voci derivate
dal verbo «è», come: «essenza, essenzialità,
entità, entitativo, e realtà, aliquiddità, quiddità»; le quali non sarebbe
possibile udire presso le popoiazioni che non conoscono la copulazione con il
verbo «è», ma con aggettivi come «corre, legge, etc, o con la semplice giustapposizione dei
nomi; e tuttavia poiché queste popolazioni possono fllosofare come le altre,
per la filosofia non sono necessarie le voci «essenza, entità» e tutto il
barbarico lessico di questa specie.”(9)
E infine: “sono false le proposizioni in cui i
nomi astratti sono congiunti con nomi concreti; esempi: «l’essere è ente, 1’essenza è ente, tò ti ên eî nai cioè
la quiddità ê ente» e molte proposizioni del genere che si tovano nella
Metafisica di Aristotele”. (10)
Nell’algebra della logica di Boole sulla scia del
programma di Hobbes e di Leibniz di voler costruire un calcolo logico si usa
come unica relazione tra i termini delle proposizioni il simbolo di “uguale”
(=) in sostituzione del simbolo copulativo «essere».(11)
Il termine “essere” insomma ha un significato
puramente linguistico, formale, riguarda l’uso dei segni, non il loro
significato reale.
La metafisica platonica-aristotelica-heideggeriana
assume invece il lessico ontologico come proiezione da cose reali, da
significati reali a segni linguistici.
In verità scambia significati formali per
significati reali, forme linguistiche per forme reali. Da qui il suo
grammaticalismo o verbalismo fllosofico!
Nella metafisica di Peano, come in quella di
Democrito, Hobbes, Boole, il lessico “ontologico” ha un significato
puramente linguistico, formale.
“Ente” per Democrito è “i1 pieno”, il “non-ente”
è “il vuoto”, il non pieno. Testimonia a tal proposito Aristotele: “Empedocie
ha avuto questa concezione circa i principi (archai) e il loro numero.
Leucippo, invece, e il suo
discepolo Democrito pongono che sono elementi (stoicheia) il pieno (tò plêres)
e il vuoto (tò kenòn), chiamando l’uno essere (tò őn) e 1’altro non essere (tò
me őn), e precisamente chiamano essere il pieno e il
solido, non essere il vuoto e il raro (onde essi affermano che 1’essere
non è affatto più reale del non essere, perché neanche il vuoto è «meno
reale» del corpo) e pongono questi <elementi> come cause materiali degli
esseri (tôn őnton).”(12)
Interpretando questa testimonianza che cosa sono
allora “ente” e “non-ente” per Democrito?
“Ente” è il «nome» del pieno, “non-ente” è
il «nome» del vuoto.
“Ente” quindi è un mero nome, o se si
vuole è il nome proprio di “pieno”, come “non-ente” è il nome proprio
del “vuoto”. Il loro significato è puramente nominale, linguistico, a cui
Democrito però associa un significato razionale.
Di essi, dell’ente e del non-ente, secondo
Democrito si può dire che esistono, ovvero che sono “idee” o,
altrimenti, che non sono parole senza significato. Stando alle testimonianze,
Democrito chiamava i principi (archai), il pieno e il vuoto, “idee”.
Essi sono allora idee, indicano cose esistenti, anche se di natura razionale.
Si può dire pertanto che “pieno e vuoto” sono (= esistono = sono essere =
appartengono all’essere). Essi, il pieno e il vuoto, sono idee non
contraddittorie, per questo di essi si può dire che esistono.
Lucrezio, di tradizione democritea, dimostra ad
esempio, l’esistenza del vuoto a partire dalla contraddittorietà dell’ipotesi
dell’esistenza del non vuoto.
La dimostrazione dell’esistenza del vuoto (Est
in rebus inane, verso 330) è data da Lucrezio nei versi 329-369, del «De
rerum natura», libro I. Per Lucrezio vale la seguente definizione nominale
di «inane»:
“Locus est (=) intactus inane vacansque =
L’inane è luogo intatto e privo di materia “, verso 334.
La dimostrazione dell’esistenza
del vuoto è data pen assurdo. Si neghi la tesi, e cioè che “non esiste
il vuoto”, ne seguirebbe che ogni cosa non potrebbe muoversi, perché stipata a
restare dove è da tutte le altre cose.
(Testo
latino: Quod si non esset, nulla ratione moveri respossent, trad.: infatti
se non fosse, le cose non potrebbero essere mosse da alcuna causa (ratione) e
pertanto: Nulla res daret principium cedendi, trad.: nessuna cosa
darebbe un inizio di spostamento o cedimento). Ora noi vediamo che le cose
si muovono per maria et terras, ecc, quindi perché non ci sia la
contraddizione di negare il movimento e contemporaneamente di ammetterlo,
perché testimoniato dai sensi, deve esistere il vuoto, poiché non ci sarebbe
né movimento né nascita, in quanto la materia starebbe tutta stipata.
Il concetto di vuoto è allora non
contraddittorio, quindi di esso si può dire che esiste. La negazione del vuoto
porta invece alla contraddizione. La struttura argomentativa di Lucrezio è di
tipo parmenideo (Di ciò che è contraddittorio
non si può dire che esiste), ma al di là di Parmenide vuole “salvare i fenomeni”, non ridurli a
mera apparenza, illusione. Il vuoto, in quanto ente puramente razionale non
contraddittorio, spiega il fenomeno del movimento e del nascimento. Di esso,
benché non se ne abbia esperienza, si può dire che esiste. Inoltre dice
Lucrezio: per poter spiegare come nelle roccie scorre l’acqua e da esse
gocciola, come crescono gli alberi grazie alla linfa che sale dalle radici sino
al tronco e ai rami, come le voci ci si insinuano tra i muri, bisogna ammettere
l’esistenza del vuoto.
E
ancora: come spiegare il fatto che due corpi di uguale volume abbiano l’uno un
peso maggiore dell’altro? Ciò può essere spiegato solo con l’ammettere il
fatto che nel primo c’è un minor vuoto del secondo. Se non ci fosse il vuoto, i
due corpi di ugual volume dovrebbero avere lo stesso peso, ma questo non
risulta ai nostri sensi, quindi deve esistere il vuoto, che spiega la diversità
dei pesi, dati i volumi uguali. La conclusione di Lucrezio è: “Esiste dunque certamente ciò che con acuto
ragionamento cerchiamo, commisto alle cose, che chiamo vuoto” (In latino: “Est igitur id quod ratione sargaci
quaerimus, admixtum rebus, quod inane vocamus”).(13)
Dopo
questa breve disgressione su Lucrezio e l’esistenza del vuoto possiamo dire
allora che per Democrito, come per lo stesso Lucrezio vale la seguente
uguaglianza:
Esistere = essere = non con traddittorio.
Il mondo dell’ente e del non ente, in quanto mondo
non contraddittorio, è il mondo dell’essere. Se scriviamo questo nell’algebra
delle classi e delle sue operazioni, allora possiamo scrivere
Essere = Physis = (Ente U
Non-ente).
L’essere,
che Democrito chiama “physis”, è il nome
comune di ente e non-ente. I1 significato
di Physis di Democrito e di Lucrezio è il significato di Essere parmenideo; esso, in quanto principio degli esistenti, o idea, ha come elementi, il pieno e il vuoto.
Nel linguaggio aristotelico, come dei dossografi, degradato dal punto di vista
di un rigoroso linguaggio filosofico-scientifico, si perde la distinzione tra
elemento (stoicheion) e principio (arché), ovvero tra l’elemento e la sua idea.
Ecco perché Democrito chiamava i principi “idee”!
Democrito si muove dentro la tradizione di pensiero di Parrnenide, per il
quale le cose sensibili o apparenti non sono l’essere. Per Democrito infatti
non sono “ente e non-ente” le cose sensibili o apparenti, sono invece “ente e
non-ente” il pieno e il vuoto, che sono physis, essere. Sono essi la physis,
l’essere, ciò che può essere pensato e detto, stando alle indicazioni di
Parmenide.
Essi, il pieno e il vuoto, hanno
le proprietà dell’essere parrnenideo: sono “uno”,
tanto il pieno, come tutto, quanto il vuoto, suo complementare, sono “indivisibili”, poiché non si può
dividere il vuoto (la dizione di “atomo=
indivisibile” riferita al “pieno” è solo della nomenclatura piatta e
volgare degli aristotelici e dei dossografi), come non si può dividere il
pieno, in quanto elemento, assieme al
vuoto, dell’idea di essere o di physis, sono quindi “continui”, “limitati”
l’uno dall’altro, “immutevoli” (non può passare l’uno nell’altro), e quindi
“eterni”.
L’essere, come unione di “ente e non-ente”, di ciò che in quanto “tutto” (l’“omne” di Lucrezio) non è contraddittorio,
è razionale.
Se si vuole restare alle indicazioni di Democrito per cui l’essere è il Mondo del razionalmente compatibile, si può dire pertanto che
con la tradizione aristotelica si è smarrita la via dell’essere per seguire la
via dell’ente, ma, per restare al linguaggio heideggeriano, dell’ente
sensibile, apparente!
Per
Aristotele l’essere si dice in tanti modi: come categoria, come sostanza, come
potenza e atto, come vero o falso, come accidente.
Ma
questo è piatto empirismo, poiché questi sono proprietà degli enti sensibili,
anzi modi di dire del linguaguio comune. Di questi Parmenide scriverebbe:
“Ma tu da questa via di ricerca
allontana il pensiero né l’abitudine nata dalle molteplici esperienze ti
costringa lungo questa via a usar l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba
di suoni illusori e la lingua, ma giudica col raziocinio la pugnace disamina
che io ti espongo……
È la stessa cosa pensare e pensare che è perché
senza l’essere, in ciò che è detto, non troverai il pensare
……
Perciò saranno tutte soltanto parole,
Quanto i mortali hanno stabilito, convinti che
fosse vero il nascere e il perire, essere o non essere, cambiamento di luogo e
mutazione di brillante colore (14)
L’essere
aristotelico, in quanto rispecchia modi del parlare, conformi alla mera
conoscenza sensibile, non può essere la realtà, la quale può essere solo
razionalmente costruita. Heidegger pensa di andare oltre Platone e Aristotele,
per ritornare a Parmenide . In realtà resta aristotelico, appunto perché vuol
capire l’essere a partire dal linguaggio, mentre l’essere è comprensibile a
partire dall’idea, dall’elemento
razionale, a cui va però associato un linguaggio adeguato.
Almeno questa è l’indicazione di Democrito, espressione di una tradizione
di pensiero che Heidegger trascura, tace in tutta la sua produzione, facendo
solo i conti con la tradizione platonica-aristotelica, volendosene allontanare,
ma rimanendovi in realtà impigliato.
NOTE
1)
Cfr. a questo proposito G.Boscarino, Tradizioni di pensiero. La tradizione filosofìca
italica della scienza e della realtà, La scuola italica,
Sortino, 1999. TORNA
2)
Cfr. M. Heidegger, Introduzione
alla metafisica, Mursia, 1990, p.207
TORNA
3)
Cfr. M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, pp- 242-243 TORNA
4)
Vedi Mondotre,
n.8, 1l nome della cosa, in Appendice, dove si dà tradotto da
Interlingua un articolo di Peano di algebra
della grammatica, De derivatione, da cui è tratta la
citazione. TORNA
5)
Si tenta invece una sottile e rigorosa distinzione
logica di “ente”, “esistente” e di “essere” nel libro citato, Giuseppe
Boscarino, Tradizioni di pensiero. ... nella Parte prima, Cap.2.6, in Elementi di logica formale e di
ontologia. TORNA
6)
Cfr. M. Heidegger. Introduzione alla metafisica, Mursia, p. 41. TORNA
7)
Cfr. G. Peano, Formulario
matematico, Cremonese, Firenze, 1960. TORNA
8)
Cfr. T. Hobbes, Elementi difilosofia, Utet, Torino, 1972, pp. 94-95 TORNA
9)
ibidem. p.97 TORNA
10)
ib.p. 119 TORNA
11)
Vedi G. Boole, Indagini
sulle leggi del pensiero, Einaudi, Torino.
TORNA
12)
Vedi Aristotelis, Metaphysica, A, 985b 1-10, Oxford classical tests, 1985. TORNA
13)
Vedi a questo
proposito sempre nell’opera citata di Giuseppe Boscarino in Parte
prima, Cap. 4.5, Lucrezio La dimostrazione dell’esistenza del vuoto. TORNA
14)
Cfr. I
presocratici, Parmenide, Laterza, Bari.
TORNA