Le trasformazioni di Lorentz

e la relatività ristretta

Pietro Di Mauro

 

 

Abstract

Since his work in 1905, Einstein – and than other scientists – began to believe that, by considering only the two basic postulates, it was possible to arrive at Lorentz’ transformations. This belief is false: there are countless transformations which obey the two postulates, and they are not Lorentz’ transformations. You always need to do further and unjustified implicit hypotheses. In this article I analyse some of the several demonstrations given in order to dig out the most hidden hypothesis. I tried to find the general transformations by using only the two postulates, considering the fact of dealing with physical quantities rather than simple numbers.

[Traduzione di Concetta Simona Condorelli]

 

 

Dalla lettura dì libri e riviste intorno alla fisica contemporanea si ri­cava generalmente l’impressione che in questa disciplina si siano rag­giunti risultati strabilianti e riguardo alle idee e riguardo alle precise verifiche sperimentali che puntualmente vengono fornite, per tacere delle ap­plicazioni sempre più tecnologicamente avanzate. E tutto questo sembra essere stato possibile grazie alle due teorie fondamentali, capisaldi della fisica contemporanea: la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica.

Sembra che solo grazie a queste teorie si sia riusciti a “superare” la meccanica newtoniana e ad arrivare là dove Newton non poteva arrivare. Così, infatti, si esprime anche Einstcin:

“E ora basta.  Newton, perdonami: tu hai trovato la sola via che, ai tuoi tempi, fosse possibile per un uomo di altissimo intelletto e potere creativo. I concetti che tu hai creato guidano ancora oggi il nostro pen­siero nel campo della fisica, anche se ora sappiamo che dovranno essere sostituiti con altri assai più  discosti dalla sfera dell’esperienza immedia­ta, se si vorrà raggiungere una conoscenza più profonda dei rapporti tra le cose”. (1)

E inoltre:

“La teoria della relatività sorse dagli sforzi di migliorare, con riguar­do all’economia logica, i fondamenti della fisica quali si presentavano alla fine del secolo”.(2)

Cercheremo di capire se davvero con la Relatività si sia avuto un tale miglioramento e si sia raggiunta una “conoscenza più profonda dei rap­porti tra le cose” o se non sia avvenuto piuttosto il contrario.

Altre volte ci si è occupati della Relatività (3) e a questi lavori rimandia­mo per ciò che riguarda, in particolar modo, il ruolo assegnato alle osser­vazioni e agli strumenti di misura dalla teoria della relatività.

Qui mi voglio occupare del significato fisico delle trasformazioni di Lorentz.(4)

Uno dei problemi che è stato affrontato dai fisici alla fine del secolo scorso (tra i quali Voigt e Lorentz) è stato quello di scrivere in forma matematica le relazioni che descrivono in che modo un osservatore, in un dato sistema di riferimento, osservi un “fenomeno, quale la propagazio­ne di un’onda luminosa, che si produce in un altro sistema in moto traslatorio uniforme rispetto al primo con data velocità v.

Voglio tracciare la via seguita da Einstcin, il quale partendo sostanzial­mente da questo problema, è arrivato alla Relatività Ristretta e, in partico­lare, alle trasformazioni di Lorentz (dalle quali discendono tutti gli altri risultati) seguendo la memoria del 1905(5) ritenuta memorabile e spesso messa, per importanza, sullo stesso piano dei Principia di Newton del 1687, esaminando il modo usuale della loro derivazione a partire dai due princìpi ritenuti fondamentali.

Scrive Infeld:

“Recentemente rileggendo il lavoro di Einstein, sono rimasto ancora una volta colpito dalla sua forma finita. Neppure oggi la sua presentazio­ne e il suo stile hanno perduto niente della loro freschezza. Esso rimane ancora la migliore sorgente per apprendere la teoria della relatività”.(6)

Abbiamo voluto accogliere l’invito di Infeld di “apprendere la teoria della relatività” dal lavoro di Einstein, ma siamo arrivati a conclusioni completamente diverse.

Einstein comincia col fare l’ipotesi che nei due sistemi in moto relati­vo tra loro “valgano le equazioni meccaniche newtoniane” (nelle riedizioni della Memoria originale aggiunge: “È inteso in prima approssimazione”, e con questa aggiunta si deve cancellare l’idea che le trasformazioni cer­cate possano avere validità generale, dal momento che tale ipotesi è es­senziale per il metodo da lui usato per la sua derivazione, ammesso che sia una derivazione!).

Inoltre suppone la validità della geometria euclidea in entrambi i siste­mi e continua il suo discorso come se intendesse misurare distanze e tempi impiegando esclusivamente segnali luminosi in entrambi i sistemi, assu­mendo che la luce (come verrà esplicitamente affermato dopo) si propaghi con velocità costante, c, indipendente dal moto della sorgente (notiamo che questa ipotesi necessariamente implica l’esistenza dell’etere, cioè di un mezzo di propagazione o, in ogni caso, un sistema di riferimento in quiete assoluta, se no rispetto a che cosa la luce avrebbe tale velocità?!).

Usando questa proprietà dei segnali luminosi definisce il suo concetto di contemporaneità mediante il tempo che si ottiene dalla semisomma dei tempi impiegati dalla luce per andare e tornare tra due orologi da sincro­nizzare.

Assume, inoltre, la linearità delle trasformazioni che cerca.

Enuncia i due principi fondamentali “sui quali basare tutte le successi­ve rjlessioni”:

1.   “Le leggi, secondo le quali si modificano gli stati dei sistemi fisici, sono indipendenti dal fatto che questi cambiamenti di stato vengono riferiti all’uno o all’altro di due sistemi di coordinate che si trovano in rela­tiva reciproca traslazione uniforme” (questo viene usualmente chiamato il “Principio di Relatività”).

2.   “Ogni raggio di luce si muove nel sistema di coordinate “in quiete” con la determinata  velocità c, indipendentemente dal fatto che quel rag­gio di luce sia emesso da un corpo in quiete, o da un corpo in movimento” (questo viene usualmente chiamato il “Principio della costanza della velo­cità della luce”).(7)

Nelle deduzioni che vi seguono parla delle trasformazioni tra coordi­nate come misurate da un osservatore in quiete che osserva un fenomeno che si svolge in un sistema in moto, ma le interpreta come se si trattasse di trasformazioni tra coordinate come misurate nel sistema in moto, pensan­do, chiaramente, che non c’è differenza tra i due concetti, cosa che è vera solo quando non intervengano le velocità, o comunque grandezze che non dipendano dalle condizioni iniziali.

Considerando un punto sull’asse x trova la relazione tra tempi e coor­dinate, tra i due sistemi, per un raggio di luce emesso, ad un certo istante di tempo, da una sorgente posta in uno dei due sistemi.

Poi aggiunge che con lo stesso procedimento si possono trovare le tra­sformazioni relative alle coordinate di punti che si trovino sugli assi coor­dinati ortogonali all’asse del moto relativo tra i due sistemi; con ciò dobbiamo abbandonare l’idea, che ingenuamente ci eravamo formati, che Einstein volesse impiegare solo segnali luminosi, infatti, in questo caso, non si possono considerare separatamente le tre coordinate di un punto.

Per di più ipotizza che, nelle direzioni normali a quella dell’asse del moto, la luce “si propaga con la velocità , quindi dobbiamo abbandonare anche l’idea che la luce si propaghi con la stessa velocità in tutte le direzioni. Tale idea, come si è detto prima, potrebbe essere mante­nuta solo relativamente a un mezzo di propagazione in quiete o, in ogni caso, in riferimento a un sistema in quiete assoluta, ma tutti ripetono che Einstein ha fatto scomparire l’etere e il sistema in quiete assoluta!

Tuttavia le ipotesi fin qui fatte non bastano ad Einstein per ottenere le trasformazione cercate, cioè le trasformazioni di Lorentz, già trovate nel 1887 da Voigt con considerazioni puramente matematiche sull’equazione dell’onda, e da Lorentz, appunto, nel 1899.

Egli è costretto a ricorrere ad una fantomatica ipotesi di simmetria ab­bandonando, in pratica, l’idea che si tratti di trasformazioni che si riferi­scono a misure fatte da uno dei due osservatori per eventi nel sistema dell’altro, e ancora tacitamente assumendo che le trasformazioni siano le stesse per due sistemi che reciprocamente si avvicinino o si allontanino. Questo è un fatto assoluto che non dipende dalla scelta dei segni nel siste­ma di coordinate e non si capisce perché non debba avere alcuna influen­za sui fenomeni fisici (si pensi, ad esempio, all’effetto Doppler in cui si distinguono i due casi!). Ci si chiede, allora, che cosa mai può avere a che fare la “propagazione” della luce con le trasformazioni di Lorentz; al mas­simo la costante c, che vi compare, può solo essere la costante di Maxwell  , che è una proprietà dello spazio vuoto indipendentemente da qual­siasi propagazione, tant’è che si misura staticamente (tale fondamentale obiezione è stata ripetutamente avanzata da molti!).

Infine aggiunge un’ultima ipotesi precedentemente non enunciata, e cioè la proprietà di gruppo, che è una richiesta molto più forte del princi­pio di relatività, e che non vale nel caso che distanze e tempi siano tutti misurati con orologi, localmente posti, e con la luce, come si pretendeva all’inizio. Infatti, assumendo la luce come segnale di campionamento dei due sistemi, le trasformazioni devono essere interpretate come l’invio di segnali, per esempio da un evento O all’evento O’, da O’ a O” e da O” a O, quindi il percorso da O” a O è un lato del triangolo OO’O”, che è minore della somma degli altri due lati, nonostante la diversa contemporaneità dei riferimenti. La proprietà di gruppo varrà solo se i tre punti sono allineati.

A questo punto verrebbe da dire, parafrasando le sue stesse parole: “E ora basta. Einstein, perdonaci. Non è possibile sostituire con queste «ipotesi», contraddittorie e confuse, il «limpido sistema di Newton»”. In questo modo non si riesce sicuramente a raggiungere “una conoscenza più profonda dei rapporti tra le cose”.

In un’annotazione aggiunta nelle successive pubblicazioni, Einstein nota che le trasformazioni di Lorentz (essendo x, y, z, t e x’, y’, z’, t’ le coordi­nate di un generico evento come visto rispettivamente nei due sistemi):

 

 (1)                  con             

 

sono più facilmente deducibili dall’ipotesi che in entrambi i sistemi val­gano:

 

(2)  

 

Questa è poi l’ipotesi che veniva inconsciamente presupposta nella derivazione contenuta nella memoria originale, dal momento che dei due principi esplicitamente enunciati non è stato fatto alcun uso!

Alla nuova ipotesi fa ricorso esplicitamente successivamente(8). In se­guito Minkowski dimostra rigorosamente che condizione necessaria e suf­ficiente per la validità delle trasformazioni di Lorentz è l’invarianza del quadrintervallo (ds2 = dx2+dy2+dz2-c2t2). Riferisce Pais che, secondo un’in­formazione ricevuta da Bargmann, Einstein dapprincipio riteneva che la formulazione di Minkowski fosse solo uno sfoggio di “erudizione super­flua”(9).

Quindi dal punto di vista della matematica le cose si possono mettere a posto, ma per quanto riguarda la fisica da dove deriviamo che il quadrintervallo deve essere invariante?!

          Gli autori più antichi(10) non si discostano dall’ultima derivazione di Einstein (cfr. nota 8) cioè asseriscono che i due principi fondamentali implicano che ds2=0 implica ds2=0 (senza dimostrarlo!) e poi ricorrono al solito argomento della simmetria (?!).

Autori più recenti(11) verificano che le trasformazioni di Lorentz im­plicano l’invarianza di ds2=0, ma si dimenticano di dimostrare che esse siano le uniche!

Essi affermano, senza dimostrarlo (e d’altronde sarebbe indimo­strabile), che dai due principi fondamentali come enunciati da Einstein, si desume che la “forma” del fronte d’onda (dell’impulso di luce emesso da una sorgente posta all’istante dell’emissione nella comune origine di uno dei due sistemi in moto relativo uniforme) deve essere la stessa (cioè sfe­rica) per i due osservatori(12), quindi le (2), che scritte in coordinate cartesiane diventano:

 

(3) 

 

Poi si asserisce che le trasformazioni di Lorentz sono le uniche che verificano le (3); la dimostrazione avviene verificando, banalmente, che le trasformazioni di Lorcntz, eq. (1), di fatto verificano le (3); ma poi ci si dimentica di provare che esse siano davvero le uniche! Al contrario si può verificare, altrettanto banalmente, che vi sono infinite altre trasformazio­ni, diverse da quelle di Lorentz, che soddisfano le (3), p. es.:

 

 

Queste sono trasformazioni non lineari, ma ve ne sono anche di line­ari, p. es.:

 

 

con a, b e μ funzioni arbitrarie della velocità v. E d’altra parte la trasfor­mazione di Lorentz non è l’unica che lascia invariate in forma le equazio­ni di Maxwcll, come è stato da noi dimostrato(13).

            Largamente diffusa nella didattica della fisica è la derivazione che si legge nel testo di Landau e Lifsits(14).

      Qui per giustificare la necessità delle trasformazioni di Lorentz si ricorre alla solita confusione tra interazione e propagazione di un segnale, poi si scrive (con simboli leggermente diversi da quelli che qui abbiamo usato) la (3) relativamente a variazioni finite o infinitesime.

Si asserisce quindi che se la variazione infinitesima del quadrintervallo è nulla per i due osservatori (ds2 = ds2 = 0 e ciò si deduce, ma non si sa come, dai due postulati fondamentali prima enunciati) allora si può, secondo gli autori, dimostrare che deve essere ds2 = ds2 in ogni caso (cioè anche per ds2 e ds2 diversi da zero) con una argomentazione molto speciosa e, ovviamente, falsa, visto che ci sono molte trasformazio­ni che verificano le ipotesi ma non le conclusioni.

Qualcuno tenta di essere più rigoroso dal punto di vista della mate­matica, trascurando però l’aspetto semantico. Tra gli altri il Terletskii(15) che tenta di pervenire alle trasformazioni senza usare il principio della costanza della velocità della luce, ma è costretto a fare via via ulteriori e non giustificate ipotesi fino a ricavare la velocità costante dei segnali lu­minosi dalla variazione della massa di un corpo in moto che egli crede empirica (!?).

La teoria della relatività ristretta viene oggi largamente usata in tutte le teorie fisiche moderne, dalle teorie della fisica degli stati aggregati, alla fisica nucleare, dalla fisica della rivelazione della radiazione elettroma­gnetica, alla fisica delle particelle elementari.

“La sua validità (della teoria della relatività) non è limitata a un ramo della fisica soltanto; essa costituisce un’armatura strutturale che abbraccia tutti i fenomeni della natura (16).

Sopra abbiamo dato un assaggio della stabilità e fondatezza ditale ar­matura!

Naturalmente si tratta sempre e soltanto di confrontare certe formu­le, ricavate da modelli idealizzati su situazioni fisiche estremamente com­plicate, con i risultati sperimentali. Notevoli sono state le discussioni che si sono avute sul famoso esperimento di Michelson e Morley, come ab­biamo più volte riportato(17); ma discorsi analoghi si potrebbero fare su qualsiasi altro esperimento, anche se oggi tali discorsi non vengono più fatti.

Quindi il fatto che le formule ricavate si accordino con gli esperi­menti non costituisce una prova della validità fisica della teoria matema­tica, ma solo prova che essa riesce a dar conto di certi risultati sperimen­tali.

La validità di una teoria fisica può asserirsi solo in contrapposizione alle previsioni di un’altra teoria alternativa.

Questo fatto banale, spesso messo in evidenza da qualche epistemo­logo, viene sistematicamente dimenticato, per cui in ogni libro che parli della teoria della relatività ristretta si può leggere che se anche si possono avere dubbi sulla relatività generale, quella ristretta è stata largamente confermata sperimentalmente.

Ma quando si fa un minimo di sforzo per convalidare tale asserzio­ne, andando solo un pochino oltre la semplice enunciazione categorica dell’asserto, si scopre che le cose non stanno, come al solito, per niente così.

Esaminiamo alcuni recenti articoli sulla questione(18).

Il Mac Arthur comincia col ricordare che sono state avanzate diver­se alternative alle trasformazioni di Lorentz, tra le quali quelle di H. P. Robertson (1949) e di R. Mansouri e R. U. Sexl (1977) (ed egli dimostra che usando il metodo di sincronizzazione di Einstein queste sono equiva­lenti), ma tutte danno, con opportune restrizioni aggiuntive, le trasforma­zioni di Lorentz.

Tali trasformazioni più generali sono del tipo:

 

(4)  

 

 con g0, g1 e g2 funzioni arbitrarie della velocità.

A suo giudizio si tratterebbe di valutare la sensibilità di tutti gli espe­rimenti fatti, che oggi vengono considerati come i più decisivi per la con­ferma delle trasformazioni di Lorentz, e procede in tale valutazione per ogni singolo esperimento.

In particolare gli esperimenti che misurano tempi, quali l’effetto Doppler, quelli per la vita media di pioni e muoni e per la variazione di massa con la velocità, sono sensibili al parametro g0, mentre gli esperi­menti che misurano distanze, quali quelli del tipo Michelson - Morley, sono sensibili ai parametri g1 e g2.

Ma, stranamente, qui si ferma, senza dire se i risultati degli esperi­menti siano discriminanti in base alle sensibilità da lui calcolate, limitan­dosi ad avvertire il lettore che un confronto è già stato fatto da Maciel e Tiomno, senza dare un giudizio su tali confronti. Questa voluta “neutrali­tà” di giudizio della deontologia moderna è l’aspetto più negativo e deno­ta semplicemente la paura di compromettersi nei confronti del paradigma dominante.

Andando a leggere l’articolo a cui fa riferimento si scopre che nes­suno degli esperimenti, ritenuti i più significativi, è discriminante nei con­fronti delle formule più generali, tranne uno (l’esperimento di Marinov del 1974) che, però, è in disaccordo con le trasformazioni di Lorentz e, quindi, con la relatività ristretta!

Non entriamo nei dettagli degli esperimenti citati da Maciel e Tiomno anche perché non è per niente facile confrontare il modello matematico con la reale situazione fisica dell’esperimento, nota, solo in parte, agli stessi sperimentatori e quasi del tutto ignota ai lettori dell’articolo.

Bisogna tenere conto, comunque, che, poiché le condizioni di linearità e di indipendenza tra gli assi coordinati comportano l’omogeneità e l’isotropia dello spazio, un esperimento che voglia provare la validità del­le trasformazioni di Lorentz deve assicurarsi che l’esperimento sia effetti­vamente isolato da influenze esterne e che il sistema di riferimento (in teoria il sistema delle stelle fisse, ma in pratica il laboratorio terrestre, spesso non corretto per la sua rotazione, assunta a priori trascurabile) si possa considerare come fisso, tale da non introdurre forze inerziali del tipo della forza di Coriolis.

Un disaccordo trovato con le cosiddette trasformazioni di Galileo (x’=x-vt, y=y, z’=z, t’=t) non falsifica la teoria di Newton, ma dice sempli­cemente che il modello ideale matematico, con cui si confrontano i dati sperimentali, non è adeguato, come del resto è stato messo in chiara evi­denza dagli esperimenti del tipo Michelson - Morley effettuati da Miller, oggi totalmente dimenticati (cfr. bibl. nota 16).

In questo contesto c’è da osservare, come è stato notato recentemen­te(19), (novant’anni dopo la memoria di Einstein!) che non è affatto vera l’affermazione riportata in quasi tutti i libri di testo che le trasformazioni di Lorentz si riducono a quelle di Galileo per v << c. Per accorgersi di que­sto basta osservare che dalle trasformazioni di Lorentz per v ® 0  si ha ; e quest’ultima, per Δx sufficientemente grande, è diversa dalla condizione Δt=Δt pretesa dalle trasformazioni di Galileo; tale fatto, che fra l’altro implica che si possono avere sistemi einsteiniani con tempi galileiani e viceversa, è rilevante per qualsiasi con­fronto della teoria con gli esperimenti.

Accertatisi che l’esperimento escluda la fisica newtoniana, quindi, ci sarà ancora da confrontarsi con le ipotesi di Einstein della memoria del 1905, che hanno un preciso significato fisico operativo e una loro validità teorica ben precisa, indipendentemente da qualunque conferma sperimen­tale.

Sfortunatamente, come abbiamo visto e come da altri, in passato, èstato notato, tali ipotesi non implicano le trasformazioni di Lorentz.

Come è stato derivato da Notarrigo(20), usando il calcolo geometrico assoluto di Peano, le sole ipotesi enunciate nella memoria originale di Einstein, conducono alle seguenti trasformazioni (scritte in forma vettoriale):

 

(5)  

 

Queste trasformazioni sono più generali di quelle di Lorentz, come le (4), e vi è inclusa l’ipotesi della particolare sincronizzazione degli orolo­gi, secondo il metodo di Einstein, tuttavia non sono le trasformazioni di Lorentz.

Tale sincronizzazione, o altra alternativa, è una necessità quando non si conosca niente sull’eventuale moto assoluto della terra (ma non esclude tale moto assoluto) e non è generale, in quanto entra in gioco solo quando siamo costretti a misurare distanze tra punti usando la luce (perchè impos­sibilitati a fare misure per confronto diretto), e non può essere assunta l’equivalenza operativa tra i due generi di misure aprioristicamente, intro­ducendola fin da principio nel modello matematico, quando è proprio quello che si vuole verificare sperimentalmente.

Ciò è contrario a qualunque deontologia scientifica!

Einstein, a un certo punto della sua Autobiografia Scientifica (op. cit. nota 1, pag. 37) è costretto ad ammettere: “...è chiaro fin dagli inizi che i postulati della teoria non sono abbastanza forti da permettere di dedurne equazioni sufficientemente complete per eventifisici sufficientemente scevri di arbitrarietà,…”.

Solo quando si saranno verificate una ad una le varie ipotesi, solo se esse non riescono a spiegare il risultato sperimentale e si verifica, invece, che il risultato è spiegato dalle trasformazioni di Lorentz, prese insieme alla filosofia ad esse associata, si potrà dire che la teoria della relatività ristretta, come oggi la conosciamo, è stata confermata o, per meglio dire, non é stata falsificata da quegli esperimenti che invece falsificano le teo­rie alternative.

Se si volesse stare alle conclusioni di Maciel e Tiomno sembrerebbe proprio il contrario, ma la questione meriterebbe di essere indagata ulte­riormente.

Purtroppo oggi nessuno sembra avvertire tale necessità; lo scopo dei ricercatori non sembra più quello di trovare la spiegazione delle leggi empiriche e la formulazione di teorie semanticamente corrette, ma solo quello di avere delle formule con le quali giocare in un’assurda competi­zione a chi sa giocare meglio.

 

 

NOTE

 

1)       A. Einstein, Autobiografia Scientifica, Boringhieri, 1979, pag. 24  TORNA

2)       A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, Boringhieri, 1965, pag. 120.  TORNA

3)       In particolare nel numero 7 (1991) e nel numero 9 (1993) di Mondotre/Quaderni, Ed. Laborato­rio, Siracusa.   TORNA

4)       Le riflessioni contenute in questo articolo sono state, per buona parte, oggetto di una comunica­zione,

a nome mio e di S. Notarrigo, al LXXXI Congresso Nazionale della S.I.F., tenutosi a Perugia dal 2 al 7 ottobre 1995.   TORNA

5)       A. Einstein, Zur Elektrodynamik bewegter Korper, Annalen der Physik, 17, 1905, pag. 891;

vedi la traduzione in italiano di P. Straneo riportata in: Cinquant’anni di relatività (a cura di Pantaleo),

Universitaria Editrice, Firenze, 1955.    TORNA

6)       L. Infeld, Albert Einstein, Piccola Biblioteca Einaudi, 1952, pag. 32.   TORNA

7)       Ci chiediamo: cos’è la velocità della luce? E’ forse la velocità di fase di un’onda piana sinusoidale,

la velocità di gruppo del raggio di luce? Oppure è la velocità di segnale? O quella di energia?

(concetti questi introdotti dagli autori classici che si sono occupati, con grande competenza e

rigore, della propagazione ondosa nei mezzi elastici) o è semplicemente il numero  che

compare nelle equazioni di Maxwell? (Tutti questi concetti si possono chiamare, e difatti vengono

chiamati “velocità della luce” e sono tutti concetti diversi tra loro, anche numericamente). Non lo

sapremo mai, quindi è inutile indagare ulteriormente; assumeremo, perciò, secondo l’andazzo

generale, che ognuno è libero di scegliersi il concetto che più gli piace. E’ chiaro, però, che non

potremo fare uso, in questo caso, di nessun sistema deduttivo come definito dal Peano! E si

capi­sce perché quest’ultimo si rifiutava di capire la relatività!     TORNA

8)A. Einstein, Il signjìcato della relatività, Einaudi, 1955.    TORNA

9)A. Pais, Suble is the Lord, the Science and the Life of Albert Einstein, Oxford Univ. Press, 1982.   TORNA

10)    W. Pauli, Teoria della relatività, Boringhieri, 1958; A. Sommerfeld, Mechanics, Accad. Press, 1964.    TORNA

11)    Cfr. R.B. Leighton, Principles of modern physics, McGraw - Hill, 1959; R.P. Feynmann, The

Feynmann Lectures on Physics, Addison Wesley, 1966.     TORNA

12)    La “forma” di un fronte d’onda è una legge fisica? Per altro il fronte d’onda dipende dalla

velocità v del moto relativo e se consideriamo una sorgente capace di emettere particelle in tutte le

direzioni con velocità arbitraria, ma costante in modulo, diciamo c, ammettendo che la sorgente si

trovi nel sistema in cui vengono effettuate le misure, il fronte d’onda della nuvola di particelle

classicamente apparirà sferico, ma se si trova nell’altro sistema apparirà ellittico. Introducendo le

trasformazioni di Lorentz si ottiene che entrambi gli osservatori potranno scrivere l’equazione

della superficie sferica. Ma, naturalmente, tale superficie non è quella che gli osservatori vedreb­bero

effettuando le opportune misure; la trasformazione è solo un artificio formale (come trovato e

interpretato da Voigt) per cambiare la forma dell’equazione e non la forma del fronte d’onda!

Se i proiettili avessero una velocità diversa da c il vantaggio formale verrebbe automaticamente perso,

se si volessero mantenere le trasformazioni ricavate con lo stesso valore della precedente velocità!

Ma, in ogni caso, la formulazione di Einstein del primo principio è ambigua perchè non chiarisce che cos’è

una “legge fisica”.    TORNA

13)  P. Di Mauro, 5. Notarrigo, Sull’invarianza delle equazioni di Maxweli, in Atti del XVI Con­gresso

Nazionale di Storia della Fisica e dell’Astronomia, Como 1996 (a cura di P. Tucci), Gruppo di lavoro per le

Celebrazioni Voltiane, CNR, maggio 1997, pag. 355.     TORNA

14) L.D. Landau, E.M. Lifsits, The classical theory of fields, Addison Wesley, 1951.    TORNA

15) Y.P. Terletskii, Paradoxes in the theory of relativity, Plenum Press., 1968.    TORNA

16) A. Einstein, L. Infeld, L’evoluzione della fisica, Boringhieri, 1965, pag. 208.    TORNA

17)    cfr. A. Pagano, Riflessioni sulla didattica della fisica, Modotre/Quaderni, Edizioni Cooperativa Laboratorio,

 Siracusa, 1991, pag. 92; P. Di Mauro, 5. Notarrigo, A. Pagano, Il potere dei paradigmi: l’etere cosmico

 e la critica di Augusto Righi all’esperimento di Michelson - Morley, Mondotre/Quaderni, Edizione

 Cooperativa Laboratorio, Siracusa, 1993, pag. 27; P. Di Mauro, Modello di Righi per l’interpretazione degli

 esperimenti del tipo Michelson - Morley, Atti del XIII Congresso Nazionale di Storia della Fisica, Como

1993, (a cura di A.Rossi), Conte (Lecce), 1995, pag. 371; P. Di Mauro, 5. Notarrigo, A. Pagano,

“Riesame della teoria diA ugusto Righi sull ‘appa­rato dell’esperimento di Michelson e Morley”, Atti

del XIV e XV Congresso Nazionale di Storia della Fisica, Lecce 1994, (a cura di A. Rossi), Conte (Lecce),

1995, pag. 289 e in Quaderni di Storia della Fisica (Giornale di Fisica) - 2 - 1997, pp. 101 -107, Editrice

Compositori Bologna, 1997.    TORNA

18)  vedi D. W. Mac Arthur, Special reiativity: Understanding experimental tests andformulation, Phys. Rev.

 A, 33 (1986), 1 e A. K. A. Maciel, J. Tiomno, Experiments to detectpossible weak violation ofspeciai relativity

 Phys. Rev. Letters, 55 (1985), 143.   TORNA

19)    S.K. Ghosal, K.K. Nandi, P. Chakraborty, Passagefrom einsteinian to galileian relativity and

 clocksyncrony, Z. Naturfosch, 46a (1991), 256; P. Di Mauro, La formula di diffusione Compton con

 la meccanica classica, in Atti del XIX Congresso Nazionale di Storia della Fisica e del­l’Astronomia,

 Como 1999 (a cura di P. Tucci), in stampa.  TORNA

20)                 S. Notarrigo, La Scienza e la Fede, Mondotre/Quaderni, Numero 7, 1991, Edizioni Coopera­tiva Laboratorio, pag. 23. TORNA