Alcune riflessioni sui fondamenti

psicologici delle scienze storico-sociali

Pareto e il “principio di complementarità”1

Gaetano Bruno Ronsivalle

 

a Titti

 

 

“Mi servo sempre della parola immaginare perché credo che tutto si immagini e che tutte le parti dell’anima possono essere a buon diritto ridotte alla sola immaginazione, che le costituisce tutte, per cui il giudizio, il ragionamento, la memo­ria non sono affatto parti assolute dell’anima, ma vere e pro­prie modificazioni di quella specie di tessuto midollare sul quale gli oggetti dipinti nell’occhio sono proiettati come da una lanterna magica.”2

Julien Offroy de La Mettrie (1747, 195)

 

 

 

 

Abstract

The short analysis of some aspects of Pareto’s thought - with particular reference to his way of interpreting the relationship between social science and psychology - allowed me to notice the philosophical complications linked to the project for a foundation of human science on nomological-deductive bases. More specifically, I realised that any attempt to explain a social actor’s behaviour in terms of “conscious reasoning”, “inten­tions”, “references to extemal objects” and “strategies” almost always implies a concep­tion of the human mind which is completely inconsistent with causal and mechanistic descriptions. Any attempt to reconcile these two perspectives within the same model in order to refer it to concrete situations of social life cannot but reflect such inner contrast, producing highly indeterminate conceptual images.

I have also thought it right to borrow from modern theoretical physics the expression complementarity” - which was already used by Heisenberg and Bohr in Quantum Mechanics - in order to define such indetermination, and in particular the relation of mutual exclusion which seems to characterise the two theoretical viewpoints.

After that, I tried to bypass this problem by elaborating a “non-intentional” model of mind, by making use of a conceptual experiment aiming at planning a particular “think­ing machine” which would be able to “crunch” with its inner workings whatever stimulations coming from the external world and transform them into useful information for its own “existence”. This also allowed me to both reassert the centrality of a “natural­ ised” theory of human mind in the construction of explicative models of social phenom­ena (according to a definition - inherited by Pareto himself- of social science as “science of interferences”); and affirm the rnethodological legitimacy of a foundation of socio­historical science on psychological principles.

[Traduzione di Concetta Siniona Condorelli]

 

 

 

 

1.1. Il rapporto tra le scienze storico-sociali  storia, sociologia, antro­pologia, scienze politiche  e i modelli esplicativi della psicologia cognitivista rappresenta indubbiamente uno dei punti più controversi in seno al dibattito degli ultimi decenni sullo statuto epistemologico delle scienze umane.3 Infat­ti, la possibilità di spiegare il comportamento umano a partire da un’analisi approfondita sulle motivazioni interne e i criteri individuali di scelta, oltre che, tradizionalmente, alle classiche variabili di tipo “sociologico”, non ha mancato di produrre una revisione generale tanto nella modellistica delle discipline in questione, quanto nella definizione stessa del centralissimo con­cetto di “attore sociale”. Ne è derivata una serie di ricerche innovative sui temi della “razionalità” e del “comportamento strategico”, cui si sono molto spesso accompagnati sia l’introduzione di nuove categorie concettuali, sia un approfondimento delle questioni epistemologiche implicite.4

Una “piccola” rivoluzione metodologica che, d’altra parte, grazie al­l’attività delle Annales5, non ha risparmiato neanche la più eccentrica delle scienze sociali  la storia nella quale si è assistito a un vero e proprio tenta­tivo di ricostruzione delle coordinate mentali  la concezione spazio-tempo­rale, i sistemi di credenze, le immagini del mondo, ecc.  mediante metodi di indagine psicologica molto sofisticati e rigorosi, pressoché sconosciuti agli studiosi della tradizione passata. Basta ricordare infatti i coraggiosi lavori sperimentali in campo storico di Emmanuel Le Roy Ladurie, George Duby e Paul Veyne,6 nonché gli ottimi risultati da essi conseguiti, per rendersi conto di quanto utile e proficuo possa essere stato l’innesto dell’analisi psicologica in seno alle scienze sociali.

Un innesto però che, date le innumerevoli implicazioni di ordine con­cettuale, non ha mancato recentemente di impensierire, o addirittura provo­care imbarazzo, nei metodologi; soprattutto per ciò che concerne il nuovo significato operativo dei concetti di “spiegazione”, “comprensione”, “inter­pretazione” di un fenomeno sociale contemporaneo, di un evento storico dell’Età medievale, di un sistema culturale asiatico7. Con la conseguenza che la stessa definizione di “scienza sociale”, profondamente intaccata nella pro­pria accezione originaria di scienza dei “fatti sociali” come “cose” contrap­poste alle “idee”, ha finito per vacillare sotto il peso della miriade di riserve filosofiche nei confronti di un collasso metodologico verso l’introspezione, la psicoanalisi - che é disciplina ben diversa dalla psicologia cognitiva -, o, addirittura, in direzione di modelli esplicativi di tipo neuropsicologico, e quindi vagamente deterministici. Ciò ha inevitabilmente riproposto alcune questio­ni inerenti la demarcazione tra gli statuti epistemologici e ontologici delle scienze sociali e delle naturali, provocando, talora, bruschi arresti di marcia, sensibili virate di stampo conservatore; o, specialmente in campo storiografico, una frantumazione della disciplina in un arcipelago di microanalisi molto settoriali e difficilmente intercomunicanti.8

 

1.2. Per comprendere sino in fondo le motivazioni di tali sviluppi, è certamente utile rilevare come, già ottantacinque anni fa, Max Weber aveva in qualche modo diffidato gli scienziati sociali dal farsi affascinare dalle lu­singhe della psicologia, richiamandosi al problema dell’irriducibilità del “si­gnificato culturale” dei fenomeni sociali a semplici concatenazioni di ordine nomologico-deduttivo:

 

“Posto il caso che si pervenga un giorno, sia per mezzo della psicologia sia per altre vie, ad analizzare in base ad alcuni semplici “fattori” ultimi tutte le connessioni causali di processi finora osservate, ed inoltre anche quelle pensabili in qualsiasi tempo futuro, e che si possa quindi abbrac­ciarle in maniera esaustiva in un’immensa casistica di concetti e di regole formulate su base rigo­rosamente causale - quale rilievo avrebbe il risultato di tutto questo per la conoscenza del mondo culturale storicamente dato, o anche solo di qualche suo particolare fenomeno, come ad esempio del capitalismo nel suo divenire e nel suo significato culturale?”9

 

Weber, accomunando la metodologia psicologica con quella delle scien­ze naturali, sottolineava l’insufficienza di una spiegazione causale nell’ana­lisi delle dinamiche sociali, la cui rilevanza é invece storicamente determina­ta e non può identificarsi con alcun apparato di “leggi universali”. Queste ultime, semmai, una volta individuate, possono rappresentare un utile stru­mento - soltanto un “mezzo conoscitivo” - propedeutico alla vera e propria analisi sociologica.

Non va d’altra parte trascurato il fatto che la psicologia di cui parla Weber é probabilmente quella di stampo fisiologico elaborata da Wilhelm Wundt e dai suoi allievi (in linea con il programma del fisiologo von Helmholtz), o comunque una disciplina molto affine agli studi medico-speri­mentali imperniati su questioni di psicofisica e fisiologia degli organi di sen­so.10 In ogni caso, permane immutato tutto il senso del perentorio monito weberiano contro ogni indebita confusione tra i due ambiti disciplinari. Un monito che si colloca certamente all’interno di un dibattito che vede fronteg­giarsi due diverse interpretazioni dello statuto epistemologico delle scienze sociali: l’una orientata verso una scienza sociale unificata di tipo nomologico­-deduttivo, caratterizzata da modelli analitici quantitativi; l’altra più incline a una demarcazione metodologica nei confronti delle scienze naturali, con un’enfasi sul carattere qualitativo di ogni ricerca sul comportamento dell’at­tore sociale. Una vera e propria contrapposizione che coinvolge il modo stes­so di individuare e “ritagliare” il proprio oggetto di ricerca, il proprio metodo di indagine e di osservazione, il proprio vocabolario terminologico.

 

2.1. Nel II Capitolo del Manuel d’économie politique, Vilfredo Pareto -forse proprio in risposta all’affermazione di Weber - scrive:

 

“Fondamento dell’economia politica ed in generale di ogni scienza sociale è evidentemen­te la psicologia. Verrà forse un giorno in cui potremo dedurre dai principi della psicologia le leggi della scienza sociale, come forse verrà un giorno in cui i principi della costituzione della materia ci daranno, per via di deduzione, tutte le leggi della fisica e della chimica; [...] . In avvenire, la psicologia, allungando ognora più la catena delle sue deduzioni, la sociologia, risalendo a principii ognora più generali, potranno congiungersi e costituire una scienza deduttiva.”11

 

La fiducia di Pareto nella possibilità di una scienza sociale unificata è certamente connessa alla sua distinzione epistemologica tra osservatore (scien­ziato) e fenomenologia sociale, fondata sul particolare status epistemico dei “fatti sociali”, i quali possono esser considerati come strutture di entità aven­ti una propria dignità ontologica del tutto autonoma rispetto alle strutture concettuali adoperate per misurarle, etichettarle e descriverle. Autonomia che deriva dal ricorso a un linguaggio artificiale e rigoroso, ben distante dalle quotidiane “categorie basate sul senso comune” di cui normalmente fanno uso gli attori sociali per rappresentare se stessi e le relazioni inter-personali.

“…noi dobbiamo dunque adoperarci ad eliminare, per quanto è possibile, l’elemento subbiettivo dalle nostre ricerche e studiare la società umana, come se non ne facessimo parte.”12In tal senso, secondo l’autore, l’atteggiamento di uno scienziato sociale nei confronti del proprio oggetto di studio deve assomigliare a quello di un extra-terrestre - il Micromégas di Voltaire -, il cui obiettivo sia quello di “ren­dersi conto di ciò che sono gli uomini che vede formicolare sulla terra e le società ch’essi formano tra loro”13; a tal scopo egli - esso, o qualsiasi altra diavoleria possa essere - non dovrà far altro che catturare un individuo e analizzarne la struttura psico-fisica, in modo tale da individuare i principi che fondano e regolano la composizione di un gran numero di esseri umani, e dunque il loro frenetico “formicolio” sulla superficie del pianeta Terra.

L’esempio fantastico dell’ osservatore radicalmente “esterno” testimo­nia dunque la convinzione di Pareto della possibilità di una scienza sociale scevra di perturbazioni epistemiche soggetto-oggetto, atta a far convergere lo studio della complessa fenomenologia sociale verso un’analisi approfon­dita della dimensione “naturale” del singolo essere umano. Quest’ultimo in­fatti, in quanto organismo biologico superiore, assurge a vero e proprio og­getto privilegiato della ricerca sociologica, secondo una prospettiva teorica tesa a considerare la società come il frutto dell’interazione combinata di una molteplicità di esseri viventi; ognuno dei quali - é questa la cosa più impor­tante -, portatore di esigenze e motivazioni innate che non sempre dipendono dalla convivenza coi propri simili. Non può dunque avere alcun senso, per Pareto, un’indagine orientata a descrivere e spiegare il comportamento uma­no come se esso fosse esclusivamente l’effetto di condizionamenti esogeni (sociali). Similmente a ciò che succede in altre discipline scientifiche, lo stu­dio dei fenomeni che riguardano l’azione reciproca di un gran numero di entità deve tenere in considerazione sia la struttura delle interazioni, sia i fattori legati al singolo atomo logico che interagisce con gli altri.

La scienza sociale assume dunque le vesti di una “scienza delle interfe­renze” tra condizionamenti esterni e fattori psichici individuali; una “scienza delle interferenze” i cui meccanismi possono e devono essere analizzati sia nel loro effettivo manifestarsi nel teatro delle vicende umane come eventi interamente determinati, sia nelle varie possibilità di svolgimento in sistemi di riferimento ideali.14 Prendendo spunto dalla meccanica razionale15, infatti, Pareto insiste spesso sulla distinzione nelle scienze sociali tra lo studio degli effettivi “movimenti reali” e l’analisi ipotetica e astratta dei “movimenti vir­tuali”. Mentre i primi vengono associati all’insieme delle azioni individuali e collettive che derivano dalla composizione da una vasta gamma di variabili “caratteristiche” di un organismo sociale, i secondi consistono invece in quei comportamenti ideali e astratti, condizionati solamente da un certo numero di fattori scelti arbitrariamente dall’osservatore.16 Al fine di esplicitare me­glio tale demarcazione, l’autore ricorre al seguente esempio mutuato dalle scienze fisiche: se si desidera descrivere con “esattezza” la traiettoria di una particella dotata di massa su di un piano, bisogna tener conto di tutte quelle variabili fondamentali (come il peso, l’attrito della superficie, la gravità ter­restre, ecc.) che ne condizionano il “movimento reale”; qualora però, si vo­lessero calcolare le infinite possibilità di traiettoria in contesti diversi da quello dato, niente impedirebbe di fare astrazione dalla variabile gravitazionale al fine di prevedere una gamma finita di “movimenti virtuali” del corpo così idealizzato.17 Allo stesso modo, può risultare utile per il progresso delle ricer­che in ambito sociale adottare una metodologia complessa che, pur concen­trandosi adeguatamente sulle “reali” dinamiche che interessano la genesi e lo sviluppo storico delle civiltà umane, non trascuri il calcolo delle possibili direttrici di evoluzione mediante l’applicazione di schemi ideali apparente­mente “non-realistici”. Principio che ben si armonizza con le esigenze della ricerca scientifica, sempre tesa a comparare e coniugare livelli diversi di generalizzazione dei fenomeni, a partire da classificazioni e tipologie ricche di implicazioni euristiche, seppur non immediatamente “osservabili” in am­bito sperimentale.18

 

2.2. L’ipotesi generale di Pareto consiste dunque nel ritenere, in analo­gia con le scienze naturali, che le scienze sociali possano essere fondate su un sistema di concetti generali dove il riferimento ai principi della costitu­zione della materia conferisce al termine “principi” un ruolo simile a quello degli assiomi di una struttura formale logico-deduttiva a partire dai quali siano individuabili le leggi che regolano il comportamento dei singoli indivi­dui e delle società umane.

Secondo questa prospettiva i modelli descrittivi ed esplicativi della sociologia assumerebbero il ruolo di interpretazioni particolari di una ben più vasta e astratta teoria psicologica di sfondo, dalla quale essi deriverebbe­ro le proprie categorie analitiche, il loro significato ben preciso e la forma logica delle relazioni che ne connettono i termini principali. Vale a dire che ogni descrizione di un fenomeno riguardante la sfera sociale dovrebbe conte­nere una serie di espressioni ed essere organizzato secondo regole che, pur mantenendo un certo grado di “emergenza” - in altri termini, pur conservan­do un proprio linguaggio specifico sarebbe possibile in qualche modo ri­condurre al vocabolario linguistico dei processi psichici sottostanti la sensa­zione, la percezione, il ragionamento, le emozioni e gli stessi sentimenti.

Questo risolverebbe il problema della vaghezza descrittiva delle analisi sociologiche tradizionali in direzione di un superamento dell’approccio qualitativo, e quindi di un vero e proprio “completamento deterministico” della scienza sociale, favorito dall’adozione di una metodologia d’indagine rigorosa e di un formalismo in grado di eliminare l’ignoranza e l’aura di indeterminazione da cui sembra essere avvolta ogni ricerca intorno al pensie­ro e al comportamento umani.

“La scienza sociale non esisterebbe, se i fatti sociali non presentassero delle uniformità. La constatazione dell’esistenza di queste uniformità costituisce la dottrina del determinismo scientifi­co. [...] Il determinismo non afferma la necessità assoluta delle uniformità; afferma, il che è molto diverso, che se ne sono constatate, e che, quando i fatti non mostrano di presentarne, ciò sembra dipendere unicamente dalla nostra ignoranza, perché finora non abbiamo potuto scoprire che altre cause entrino in gioco”19

 

Tenuto conto anche della raffinatezza con cui l’autore tenta di esorciz­zare il conflitto fra i vari campi disciplinari, auspicando per ciascuno di essi una certa autonomia linguistica e procedurale, tale posizione si configura come una delle proposte più sofisticate e interessanti di tutta la letteratura epistemologica del nostro secolo.

 

2.3. Se appare legittima l’esigenza di Pareto di istituire una scienza sociale basata su una teoria psicologica, risulta tuttavia meno convincente la sua idea di “psicologia” e il modo in cui egli tenta di fondare il proprio edificio teorico. Mi riferisco in particolare alla celebre distinzione tra “azioni logiche” e “azioni non-logiche”20 la quale finisce col riproporre, mutatis mutandis, la contrapposizione tra una ipotetica dimensione razionale del­l’essere umano - la sua capacità di ragionare e decidere con consapevolezza il proprio comportamento -, e una componente inconscia, quasi irrazionale, che sfugge completamente al suo controllo e ne condiziona alcuni aspetti della vita sociale. Ne deriva una dicotomia tra l’individuo in grado di calco­lare il proprio benessere e orientare la propria esistenza in relazione a moti­vazioni e obiettivi ben precisi (quello che lo stesso Pareto definisce homo oeconomicus) -, e una figura di attore sociale in balia di perturbazioni non assoggettabili al dominio della pianificazione strategica e dell’agire secondo parametri logici.

Contrasto, questo, ulteriormente accentuato dalla sua quadripartizione delle azioni secondo l’ambiguo criterio del “movente”: (1) azioni volte al conseguimento del possesso di un bene materiale21 o di energia - esse posso­no essere analizzate in termini di forze attrattive, in relazione ai loro stati di equilibrio e ai movimenti ad esse connessi, e costituiscono l’oggetto di stu­dio dell’economia politica; (2) azioni il cui fine consiste nel piacere derivan­te dal loro stesso compiersi22; (3) azioni cagionate dall’emulazione di model­li comportamentali altrui (l’“imitazione” come movente); (4) azioni, talora periodiche, che derivano dalla tendenza da parte dell’individuo a compiere meccanicamente atti abitudinari (le cosiddette azioni “inerziali”).

Il riferimento ai quattro diversi tipi di “movente” comporta una serie di difficoltà nello schematizzare coerentemente i nessi causali che precedono l’azione; tra cui, la più importante, quella di omogeneizzare e concatenare variabili di tipo “intenzionale” (in qualche modo collegate ai tipi di azione (1) e (2)) con variabili di sapore più meccanicistico legate a caratteristiche di specie o a stati psichici non coscienti. Ne risulta un modello ibrido scarsa­mente efficace dal punto di vista analitico. E’ infatti proprio l’introduzione di categorie connesse ai concetti di “intenzionalità” e “coscienza” che rievoca una dimensione teorica dove appare assolutamente impossibile ogni applica­zione di schemi nomologici per lo studio dei processi cognitivi. Tutto ciò in ragione di una presunta disarmonia della visione “deterministica” con il ca­rattere “emergente” della mente umana, la cui attività si colloca in una di­mensione totalmente contrapposta a quella dei fenomeni “materiali”. Nel chiamare in causa l’“intenzionalità” - nel duplice senso di (i) facoltà di rife­rirsi a stati di cose23, e (ii) attitudine a strutturare e coordinare l’azione socia­le in termini di comportamento strategico finalizzato al perseguimento di scopi prefissati - Pareto si avventura per un sentiero tortuoso molto simile a quello intrapreso dallo scienziato che, pur essendo stato abituato a ragionare in termini di concatenazioni causali e spazio-temporali - e volendo continua­re a farlo -, si trovi a dover schematizzare nella propria mente alcune situa­zioni sperimentali, facendo però uso di categorie che mal si prestano a essere connesse deterministicamente. Come nel caso della Meccanica Quantistica, al fine di descrivere il rapporto tra le due visioni psicologiche della natura umana - meccanicistica e intenzionale -, si può in qualche modo parlare di una relazione di complementarità o di reciprocità. Nel senso che, se da una parte la scelta di spiegare il comportamento umano in termini di processi meccanici esclude a priori ogni considerazione volontaristica (e viceversa), dall’altra non si riesce in alcun modo a fare a meno di spiegazioni che tenga­no conto, in maniera alquanto farraginosa, di entrambe le interpretazioni.24 Con tutte le conseguenze implicite nella tacita rassegnazione alla relazione di complementarità tra i livelli esplicativi: prima fra tutte, la spinosa questio­ne delle descrizioni di tipo statistico, le uniche apparentemente in grado di conciliare magicamente l’“inconciliabile”... nonché di sancire inesorabilmen­te il tramonto del progetto di “completamento deterministico” di Pareto.

 

Cosa escogitare al fine di superare le contraddizioni in cui incorre il tentativo di unificazione messo in atto da Pareto? In che modo aggirare il vortice filosofico del principio di “complementarità” tra spiegazioni “inten­zionali” e modelli meccanicistici?

In alcuni miei scritti precedenti25 - nei quali aderivo implicitamente a una posizione filosofica per molti versi assimilabile a quella di Pareto - ho apertamente manifestato la convinzione che un tal genere di complicazioni può esser superato solo nell’ambito di una concezione “naturalizzata”26 della mente umana, ossia totalmente “non-intenzionale” (nelle due accezioni cui si è fatto cenno). Questa appare possibile solo come effetto di una revisione radicale del patrimonio terminologico connesso all’analisi dei processi cognitivi, con tutte le implicazioni di ordine “biologico” ad essa connesse. Ciò significa che, accogliendo l’intuizione di Pareto, si tenterà di elaborare uno schema teorico atto a supportare la definizione di scienza sociale come “scienza delle interferenze”, individuando con quest’ultimo termine l’effetto dell’interazione tra la mente dell’attore sociale (e tutta quella serie di para­metri che ne dirigono l’attività) e l’ambiente circostante. Anticipo subito che si tenterà di identificare tali “interferenze” con le quelle che il fisico Boltzmann chiamava “immagini mentali”27, secondo un procedimento analitico teso a privare sì di consistenza ontologica concetti classici come “sistema sociale”, “status”, “istituzione”, ecc., ma nel contempo di conservarne tutta la rilevanza per il soggetto in sede decisionale, mediante la loro trasformazione in varia­bili integrate nei meccanismi di pensiero. Ritengo infatti che non si possa assolutamente pretendere di fondare le scienze sociali su basi psicologiche senza l’accortezza di costruire una psicologia che sia contemporaneamente in grado di evitare le complicazioni derivanti dal principio di complementa­rità, e fornire una base stabile a una modellistica sociologica di vasta applica­zione: a che servirebbe in definitiva?

D’altronde è pur vero che, se tale operazione non riesce in alcun modo ad aprire alcuna strada verso una prospettiva di tipo deterministico, non esi­ste alcun motivo per rinunciare alle categorie di analisi tradizionali e al con­solidato vocabolario dell’“intenzionalità della coscienza”... Ecco perché il nostro tentativo non può che muoversi in direzione di una teoria della mente che intende quest’ultima come un sistema automatico in grado di elaborare “rappresentazioni” del mondo - vedremo tra poco di quale “mondo” si tratta-, ed utilizzarle per dirigere le proprie azioni... Con l’avvertenza però che, in questo caso, tale revisione linguistica si avvale di quel minimo di spregiudi­catezza propria di ogni convenzionalista epistemologico, e non ambisce dun­que al disvelamento di nuove verità inoppugnabili o di chissà quali reconditi misteri. Poiché non credo infatti che gli enunciati della scienza abbiano una qualche magica facoltà di rispecchiare la “realtà in sé” delle cose, ma servo­no esclusivamente a risolvere problemi contingenti (oltre che a saziare la nostra indomabile sete di conoscenze illusorie!) il modello di mente che verrà tra breve esposto costituisce una delle infinite proposte finalizzate a consentire e favorire quella cooperazione tra psicologi e sociologi tanto auspicata da Pareto, e non certamente la presentazione di un sistema definiti­vo.

 

Chiedo ora al lettore di essere paziente e di seguirmi in questa sorta di strano esperimento ideale: al fine di facilitare la comunicazione di ciò che io penso intorno alla mente dell’uomo, e nel contempo renderne più agevole la comprensione proverò a rappresentare i vari meccanismi che presiedono al ragionamento umano sotto forma di ingranaggi di una strana specie di mac­china “sonora” mobile, la quale è in grado di ricevere stimolazioni dall’ester­no e trasformarle in informazioni utili per il moto e la sua stessa “sopravvi­venza”.

 

3.1.1. La macchina in questione possiede una serie di congegni - i trasduttori - in grado di convertire gli impulsi fisici esterni in modificazioni provvisorie del proprio stato interno - “impressioni”. Tutto ciò avviene se­condo una relazione che a ogni stimolazione connette una trasformazione della struttura interna dell’organo centrale. Ogni trasformazione interna si manifesta poi sotto forma di un impulso elettrico di ben determinata intensità e durata, in rapporto al tipo di impulso decodificato dallo specifico trasduttore.

Il sistema presenta inoltre la facoltà di generare, sotto forma di accordi musicali - le “immagini mentali”-, delle strutture di simboli che fungono sia da descrizioni elementari per ogni classe di impulsi contigui nello spazio­tempo, sia da rappresentazioni delle trasformazioni interne della macchina derivanti dall’interazione fisica con il mondo esterno. Tale processo è reso possibile da un piccolo sintetizzatore di suoni, il quale genera e sovrappone delle sequenze di suoni in ragione delle scariche elettriche inviategli dai trasduttori. In tal modo, ogni accordo di suoni corrisponde a una rappresenta­zione della classe di stimolazioni sensoriali ricevute in un dato micro-inter­vallo temporale.

 

3.1.2.   Si può già fare una prima osservazione: abbiamo detto che ogni accordo musicale - immagine mentale - corrisponde a uno stato interno della macchina. Se riflettiamo a fondo sulla struttura stessa della macchina, questo non può non significare per essa che un’impossibilità di fatto nel distinguere tra stimolazioni esterne e interne: le rappresentazioni mentali si riferiscono infatti sempre a impressioni avvertite come trasformazioni interne, poiché, in definitiva, l’unico mondo effettivamente esperibile dall’automa è quello in cui avvengono le trasformazioni che danno origine alle immagini mentali. Pertanto, ciò che l’automa considera come fonte esterna di stimolazioni equi­vale al proprio set di trasduttori, e la propria immagine generale del mondo coincide con la descrizione completa dello stato in cui si trova la macchina stessa. Con il risultato sostanziale che non vi è alcuna differenza di principio tra “immagine del mondo” e “immagine di se stessa”.

Ciò equivale forse ad affermare che “nulla” esiste fuori dalla macchi­na? Assolutamente no: il problema consiste piuttosto nel fatto che non vi è alcun modo di decidere intorno al  mondo a prescindere dalle nostre trasfor­mazioni interne. Anche se poi il linguaggio comune continua a imporre un concetto di “identità” dell’individuo, da contrapporre a un’alterità generale “esterna”. (Avremo modo in seguito di sottolineare l’importanza di tale con­clusione.)

 

3.2. Aggiungiamo ora alla nostra creatura immaginaria un’altra caratte­ristica: la capacità di conservare in memoria il frutto della propria attività elaborativa interna. Daremo quindi al termine “memorizzare” due accezioni distinte e complementari: (1) la “conservazione in memoria” degli accordi generati dal sintetizzatore intesa come la “registrazione fisica” dei suoni su un nastro magnetico continuo, in maniera tale che essi siano accessibili al sistema ogni qualvolta ciò si dimostri necessario (memorizzare = ricordare); (2) la “memoria” intesa come la proprietà del sistema di trasformare i propri criteri di elaborazione delle informazioni in funzione del tempo, ossia come l’attitudine da parte del sintetizzatore sonoro di modificare i propri parametri interni di decodificazione delle stimolazioni in entrata dopo la riproduzione di ogni accordo (memorizzare = evolversi). In altri termini, questa seconda accezione dell’espressione “conservare in memoria” consiste nel ritenere che ogni operazione effettuata dal generatore di accordi comporti necessariamente una variazione cumulativa dello stato del sistema, in ragione di un’evoluzio­ne del modo stesso in cui esso processa i dati provenienti dai trasduttori.

 

3.3.1. Risolta la questione della “memoria”, ipotizziamo ora che all’in­terno della macchina siano presenti un alimentatore di energia elettrica che permette ai vari congegni di funzionare, e una serie di trasduttori comunican­ti con le parti interne della macchina. Questi ultimi sommano e convertono gli impulsi fisici provenienti dalle unità elaborative inferiori in ulteriori sca­riche elettriche, le quali, a loro volta, vengono inviate a un secondo sintetiz­zatore che le converte in accordi.

Esiste poi nel cuore della nostra macchina un automa supervisore -l’analogo delle funzioni superiori della mente umana -, il cui compito consi­ste nel sincronizzare ed eseguire contemporaneamente le successioni di ac­cordi provenienti dai due sintetizzatori, per poi convertirne il contenuto in­formativo in istruzioni dirette al sistema motorio della macchina stessa, in modo tale da consentirle di spostarsi lungo il piano alla ricerca di energia per alimentare l’intero sistema. Tali istruzioni motorie dipenderanno sia da come la macchina rappresenta le proprie trasformazioni interne derivanti dalla sua interazione con il mondo - ossia da come la mente elabora al più alto livello le rappresentazioni dell’ambiente -, sia dalla sua struttura interna e dal suo livello di sviluppo - ossia da come è fatta la mente in quel dato momento.

Si può pensare a questo automa supervisore come a una sorta di picco­lo computer, programmato per analizzare le successioni di accordi, previamente sincronizzate e miscelate, in modo da verificarne la struttura formale complessiva in relazione a ben precise leggi dell’armonia musicale. Dal giudizio di “consonanza” o “dissonanza” delle informazioni analizzate deriva l’emissione o meno di istruzioni motorie, e dunque la possibilità che la macchina si diriga verso fonti di energia, in maniera tale che la funzionali­tà delle sue rappresentazioni (accordi di suoni) in termini di sopravvivenza sarà una conseguenza della loro struttura armonica.

3.3.2.      L’introduzione di un sistema supervisore nasce dall’esigenza di regolamentare la vita interna della macchina. Questa, in caso contrario, si troverebbe infatti continuamente in balia di una molteplicità di moduli auto­nomi intenti a elaborare rappresentazioni - accordi o impulsi elettrici - in maniera relativamente indipendente gli uni dagli altri. Il che comporterebbe, in un certo qual modo, una pluralità di rappresentazioni ai vari livelli, una molteplicità di immagini, che solamente l’attività elaborativa del modulo supervisore è in grado di sintetizzare e ridurre a unità, al fine di ricavarne una qualche utilità funzionale per l’intero sistema.

Tale supremazia del sistema supervisore in seno alla macchina potreb­be esercitarsi principalmente attraverso la priorità dei propri output rispetto alle altre unità, provocando la parziale neutralizzazione dei vari congegni durante il normale funzionamento della macchina. Da ciò la macchina po­trebbe ricavare la sensazione che esista un unico polo da cui si generano le proprie rappresentazioni di qualcosa di esterno a essa.

D’altra parte, la questione dell’identità, potrebbe essere affrontata an­che dal punto di vista del rapporto tra sviluppo dell’organismo meccanico e permanenza di un certo insieme di caratteri specifici. L’automa registra in­fatti che, al di là del continuo divenire e della trasformazione verso forme sempre più articolate e organizzate di immagini interne, qualcosa di lui si conserva nel tempo tanto da consentirgli di riaffermare sempre il proprio esistere in contrapposizione all’altro. Se definito come la facoltà di generare rappresentazioni sempre più complesse, lo sviluppo della macchina si può allora far coincidere con la composizione di tutte le direttrici di sviluppo autonomo dei propri moduli, ed è proporzionale all’attitudine di ciascuno di essi a contribuire alla sopravvivenza della macchina stessa.

 

3.4.  Abbiamo dunque provveduto a implementare sul congegno una specie di pensiero totalmente diverso da quello comunemente inteso; un pen­siero sonoro, non-linguistico (secondo l’accezione “comune” di linguaggio) e privo di riferimenti a oggetti definiti del nostro quotidiano immaginare il mondo; e, in definitiva, immune da ogni riferimento a qualunque entità ester­na al dominio stesso in cui esso si genera ed evolve. Tutto ciò che noi defi­niamo “pensiero” sarà infatti rappresentato nella nostra creatura da una suc­cessione ordinata di grappoli sonori, le cui relazioni derivano sia dalla forma degli impulsi ricevuti, sia da una particolare sintassi imposta arbitrariamente dai sintetizzatori. Tale sintassi stabilirà le modalità di connessione fra gli aggregati accordali proprio come le leggi dell’armonia musicale prescrivono determinate relazioni fra le combinazioni di suoni, ed essa svolgerà una fun­zione analoga a quella di un qualsiasi linguaggio formale in relazione alla formulazione di enunciati descrittivi sul mondo.

 

3.5.1.   Infine, allo scopo di conferire all’intero sistema il dono della parola, non ci rimane che aggiungere al suo interno un trasduttore-vocabola­rio il cui compito consiste nel convertire i dati provenienti dall’automa supervisore in termini del linguaggio scritto e parlato, e dar vita a vere e proprie emissioni vocali.

Purtroppo però, virtualmente impossibilitati a reperire ingegneri del suono e/o docenti di armonia musicale, siamo costretti ad affidare la proget­tazione di quest’ultimo componente a una persona tutt’altro che esperta in campo musicale, tale che per costruire il congegno di traduzione degli accor­di in termini linguistici non potrà che fare affidamento sull’istinto del pro­prio animo estetico... Ne deriva che tutto ciò che la macchina potrà e vorrà “dire” sul mondo e sulla mente, altro non é che il risultato di una trasduzione di complicatissime strutture di dati circolanti al suo interno mediante un vo­cabolario terminologico inadeguato - molto simile a quello di ogni essere umano durante i primi anni di vita sotto le direttive di persone sicuramente poco esperte dei meccanismi mentali. Un vocabolario inadeguato, mediante il quale, analogamente al caso della macchina, noi stessi abbiamo imparato a tradurre ed etichettare una serie di impulsi interni con espressioni linguisti­che specifiche, che, solo in un atto di pura disperazione, potremo mai ritene­re in grado di riflettere fedelmente ciò che ci circonda o la nostra stessa vita cognitiva. Esse ci permettono sì di comunicare, ma non certamente di rico­struire logicamente le varie tappe di un ragionamento da cui si é originata una determinata azione, in maniera tale che, qualora si fossero poste le mede­sime premesse, il suo verificarsi sarebbe stato adeguatamente prevedibile.

 

3.5.2.   Nessuno intende negare che, per quanto consapevole dei limiti del proprio vocabolario, un nostro caro amico non esiterebbe a confidarci il proprio stato di “depressione”, descrivendo le varie vicissitudini interiori che lo tormentano in modo da suscitare sensazioni affini nella nostra mente. Niente di strano che l’esposizione linguistica del proprio dramma esistenziale riesca addirittura a proiettarci in una dimensione psicologica densa di ricordi ed emozioni molto intense, tale da consentirci una condivisione profonda del disagio da lui provato in quel momento. La questione che pongo consiste però nel capire se una tale “corrispondenza armoniosa” mediante il linguag­gio comune abbia una qualche utilità operativa nel prevedere la decisione del nostro amico di suicidarsi appena un’ora dopo il nostro incontro!

Il fatto che una proposizione del linguaggio comune sia dotata di senso e atta a veicolare “efficacemente” uno stato cognitivo nella mente di un altro individuo, non significa necessariamente che essa sia un enunciato scientifi­co, o che addirittura venga imposta come l’unica descrizione possibile di quello stato - l’unica in grado di rendere il “significato” profondo da essa assunto nei confronti del soggetto che lo esperisce. Nel caso sopra citato, la scelta di analizzare le parole del nostro amico e ricostruirne le dinamiche cognitive sottostanti mediante un codice linguistico più rigoroso, ci avrebbe forse insospettiti maggiormente circa la sua stabilità psichica, suscitando una serie di accorgimenti tesi a modificare energicamente - o almeno a destabi­lizzare - l’itinerario cognitivo che, da lì a poco, lo avrebbe condotto alla pro­pria soppressione. Anche se gli schemi concettuali adoperati per descrivere il malessere dell’amico non avessero per quest’ultimo alcun “significato” ben preciso... D’altra parte, non ritengo assolutamente che un chirurgo, nell’atto di costruire il quadro clinico prima di estirpare una parte infetta dell’organi­smo, debba essere vincolato dal patrimonio linguistico e dal lessico del pa­ziente, o di tutte quelle espressioni che, in generale, abbiano un qualche sen­so compiuto per quest’ultimo!

4.1.      Immaginiamo ora di avventurarci all’interno di una “comunità” composta da una moltitudine di macchine simili a quella finora descritta. Si ipotizzi inoltre che, pur essendo accomunate dalla medesima struttura per l’elaborazione dei dati, tali macchine presentano delle sostanziali differenze per ciò che concerne i parametri con cui decodificano ai vari livelli le infor­mazioni. Ciò significa che, pur essendo tutte dotate di trasduttori, di genera­tori di suoni e di un proprio automa supervisore, esse interpretano diversa­mente le stimolazioni “esterne”, secondo una gamma di criteri arbitraria­mente imposta loro dai singoli ingegneri che le hanno costruite. Alcune di esse, ad esempio, tradurranno la visione di “una macchina in movimento” con una successione di accordi di settima minore, cui seguirà l’invio da parte della “mente” di un’istruzione che impone loro al uno spostamento di 30° a est. Altre invece interpreteranno la “medesima” visione con una sequenza di triadi eccedenti, e con un inversione di marcia. Altre ancora, infine, etichet­tando come “dissonante” la composizione degli accordi derivanti dall’elabo­razione degli impulsi, bloccheranno il proprio dispositivo per l’invio di istru­zioni, con il conseguente arresto del sistema.

 

4.2. Sempre in vena di fantasticherie, proviamo a pensare all’esistenza di un ipotetico “osservatore esterno” desideroso di compiere degli studi sul comportamento di tali macchine. In che modo egli può avere accesso alle sequenze di accordi musicali - ai meccanismi cognitivi - che risuonano all’in­terno di ciascuna di esse?

Sono possibili due risposte. Se il fantomatico “osservatore esterno” non ha in alcun modo partecipato alla progettazione e messa a punto di nessuna delle macchine, né tantomeno è consapevole del fatto che esse sono “mac­chine”, non potrà far altro che basarsi su ciò che ciascuna di esse dice di se stessa e intorno al mondo - non dimentichiamo infatti che è dotata di un sintetizzatore vocale -, nonché sul modo in cui essa si muove e agisce. Poi­ché però egli non è a conoscenza del fatto che il sistema che consente alla macchina di parlare è di pessima fattura, accetterà senza riserve - non potreb­befare altrimenti! - le etichette verbali da essa prodotte e le utilizzerà per analizzarne la tipologia di reazioni comportamentali dinanzi a determinate sollecitazioni esterne. Lo studio verrà dunque condotto mediante un con­fronto tra come egli vede il mondo e come lo esperisce la macchina ai suoi occhi, con il risultato di un resoconto più o meno generalizzato del rapporto tra cose, parole e azioni in relazione allo scorrere del tempo.

Qualora invece l’“osservatore esterno” fosse uno degli ingegneri, a co­noscenza sì della struttura di ogni automa, ma desideroso di comprendere il set di parametri implementati da un suo collega in una data macchina, ai precedenti canali di accesso al “pensiero sonoro” si dovrebbe aggiungere il modello ideale della fisiologia interna della macchina, ossia lo schema gene­rico di come essa funziona. Avvantaggiato dunque sia da una comprensione dettagliata dei meccanismi interni che regolano le successive trasformazioni delle informazioni, sia da una visione smaliziata intorno alle “parole” della macchina, lo studioso non dovrà far altro che analizzarne le modalità di com­portamento e paragonarle a quelle della propria creatura. Ciò gli consentirà di osservare quelle possibili divergenze di reazione a partire dalle quali gli sarà possibile avanzare delle ipotesi intorno al valore dei parametri interni in quel particolare momento. Ipotesi che potranno infine essere controllate me diante la formulazione di previsioni circa le possibili risposte della macchina a particolari sollecitazioni ambientali.28

Forte di una siffatta chiave interpretativa, il nostro ingegnere rivolgerà dunque la propria attenzione sul fatto che, pur essendo la scelta di tali para­metri totalmente arbitraria, essa ha però delle notevoli ripercussioni sull’esi­stenza della macchina. Estendendo la propria area di indagine anche alle al­tre macchine egli potrà appurare che esiste una forte correlazione tra la pro­babilità che esse riescano a sopravvivere - a muoversi in direzione di fonti energetiche-  e il modo in cui l’automa supervisore converte gli accordi so­nori in istruzioni motorie. Tale correlazione non dipende però dal fatto che l’automa è in qualche modo consapevole di cosa è giusto fare per il bene della macchina. Tutt’altro: esso traduce i dati in entrata in maniera del tutto autonoma, anche se, casualmente, la propria attività può risultare più o meno vantaggiosa per l’intero sistema. Come, d’altra parte, potrebbe anche darsi il caso che dopo qualche minuto di “vita” la povera macchina cessi di funzio­nare in conseguenza di istruzioni motorie che la conducono in luoghi poveri di energia. Con essa, morirebbe lo stesso automa supervisore, il quale è ali­mentato dalla stessa energia che muove tutti gli altri congegni interni.

 

4.3. Ammettiamo che, in seguito a una durissima selezione imposta dalla scarsità di risorse e da un alto numero di “creature”, solamente alcune di queste macchine siano sopravvissute e dimostrino di potersi destreggiare all’interno dell’ambiente in cui sono state inserite. Come giudicheranno i due tipi di “osservatori esterni” tale manifestazione di “adattamento”?

Il primo, totalmente all’oscuro di ciò che accade all’interno della macchina, cercherà di collegare l’abilità a mantenersi in vita con una sorta di oscura capacità da parte della “creatura” di comprendere come è fatto il mondo e saper agire di conseguenza; essa è consapevole di quello che vuole, ed è in grado sia di individuarne la collocazione, sia di ottenerlo. E’ questo un esem­pio di spiegazione del comportamento basata su entrambe le accezioni del termine “intenzione”: (a) la macchina si riferisce a qualcosa che appartiene al mondo - nella fattispecie, la fonte energetica rappresentata da un raggio di luce solare; (b) la macchina agisce volontariamente al fine di dirigersi in direzione di quella cosa e poterla utilizzare.

Di contro, il nostro ingegnere (il secondo “osservatore”) è perfettamen­te a conoscenza di tutto quanto si nasconde dietro le apparenti manifestazioni di “consapevolezza” e “volontà” della macchina: ciò che il primo studioso definisce con il termine coscienza altro non è infatti che la proprietà dei vari moduli dell’automa di descrivere a livello complesso, e in maniera più o meno autonoma, stati interni e trasformazioni di parti distinte della macchi­na. Gli atteggiamenti coscienti appaiono come epifenomeni del funziona­mento di un particolare modulo, semplici proprietà sistemiche nei confronti dei quali ogni attribuzione di “intenzionalità” suona né più né meno come una parodia. Analogamente, ogni sintomo di una autocoscienza verrà riferito dal secondo osservatore alla specifica proprietà del modulo supervisore - la mente - di rappresentare contemporaneamente gli stati dei moduli inferiori, sotto forma di giudizi sulla consonanza o meno della loro struttura armonica.

D’altra parte, poiché ne ha costruita una simile, l’ingegnere sa benissi­mo che non ha molto senso attribuire alla macchina chissà quali capacità nel cogliere la vera realtà delle cose: come si è già detto, gli accordi musicali prodotti dall’attività frenetica dei vari generatori di suoni più che rispecchiare il mondo, rappresentano piuttosto i vari momenti dell’evoluzione interna della macchina stessa. Ma nel contempo essi forniscono anche una descrizio­ne completa del processo di interazione tra la struttura dell’automa e le “in­terferenze” esterne; intendendo con quest’ultima espressione quell’insieme di impulsi elettrici che i generatori di suoni etichettano come “segnali del mondo esterno” - ma che in verità, sono a loro volta effetto della combina­zione dei parametri sensoriali e le stimolazioni fisiche in entrata: altro che comprensione immediata del “mondo esterno”!!!

Il lettore ha già compreso: il primo osservatore rappresenta lo scienzia­to sociale di formazione esclusivamente umanistica, sempre pronto a nascon­dere dietro grandi affreschi concettuali il proprio miserevole imbarazzo di­nanzi all’inevitabile indeterminatezza delle proprie spiegazioni...

L’ingegnere, il progettista e costruttore di pupazzi “sonori”, è invece 1’em­blema di una visione nuova, anche se poco suggestiva e difficile da accettare, dello studio della società umana. Fatto tesoro delle geniali intuizioni di un suo predecessore - l’economista, nonché matematico, fisico e ingegnere fer­roviario, Vilfredo Pareto - egli individua nelle macchine “pensanti”, queste stranissime creature che si agitano goffamente alla ricerca di “cibo” con e contro altre macchine “pensanti”, le controfigure dei possibili candidati al teatro delle scienze storico-sociali. La loro misera esistenza è legata alla loro facoltà, fortuita (ma consolidata nei secoli), di smontare e ricostruire ciò in cui si imbattono giorno per giorno - altre macchine “pensanti”, fasci di luce, espressioni verbali, istituzioni - sotto forma di complicatissime strutture sim­boliche impenetrabili alla mente umana.29 Scintillanti immagini del mondo, della cui infinita ricchezza il velo del linguaggio non può che far penetrare gli aspetti meno remoti.30 Mosse da una intricata ragnatela di congegni legit­timati dalle prove del Tempo, esse frammentano il mondo in migliaia di pic­coli impulsi elettrici, di piccole “interferenze” che si scontrano con un siste­ma dinamico in continua evoluzione.

 

La “scienza delle interferenze” di cui parlava Pareto diventa dunque la scienza delle immagini mentali, dei modelli elaborati dal sistema supervisore alla fine di articolate operazioni di calcolo; e il suo vocabolario di riferimen­to non può che essere quello delle scienze cognitive. Secondo un’idea com­plessa di “uomo-attore sociale” che tiene conto del modo in cui l’individuo, piuttosto che subire i cosiddetti fattori “sociali”, ne elabora una rappresenta­zione interna che deve potersi integrare e “armonizzare” con tutto ciò che egli ha conservato in memoria. Secondo un modello naturalizzato della men­te che l’ingegnere — il nuovo scienziato della società - deve saper costruire in una continua opera di mediazione tra i suggerimenti del riduzionismo biolo­gico e un apparato concettuale in grado di rendere conto della vasta fenomenologia sociale.

Proprio come nel caso delle macchine “pensanti” decade dunque ogni separazione teorica tra “variabili esterne” e “variabili interne”: come annun­ciato, istituzioni, leggi, classi sociali, sistemi di produzione, perdono quel valore ontologico assoluto e assolutamente non valutabile in termini analiti­ci, per assumere invece le vesti di sistemi simbolici fortemente condizionanti—semplici accordi musicali ... - , fortemente rilevanti per la vita cognitiva del soggetto.

Ma ancor più rilevanti nella misura in cui essi hanno perso la qualifica di semplici evocazioni intellettuali, per entrare a far parte in maniera pregnante della dimensione materiale e biologica dell’essere umano; del suo essere una “macchina “fra “macchine”.

 

Gaetano Bruno Ronsivalle

(e-mail: gabrons@usa.net)

 

NOTE

 

1) Desidero ringraziare Titti Condorelli, cui è dedicato il presente scritto, per la disponibilità e la pazienza con cui si è sottoposta alla revisione analitica dell’elaborato; e Mariella Ronsivalle, per aver messo a mia completa disposizione il proprio personal computer e il relativo programma di video-scrittura. Sono inoltre grato alla prof.ssa Maria Lizzio e a Giuseppe Garozzo, per le annotazio­ni e i suggerimenti che mi hanno permesso di perfezionare in più punti il testo originale dell’arti­colo. Resta comunque sottinteso che rimango l’unica persona responsabile delle eventuali idiozie in esso contenute.   TORNA

2) L’homme machine, 1747 (Trad. italiana: L’uomo macchina, in “Opere filosofiche”, Roma-Bari, Laterza, 1974, 195).   TORNA

3) Per un’analisi critica intorno alla distinzione terminologica tra “scienze della natura” e “scienze sociali” vedi il volume di I. Bernard Cohen, The Natural Sciences and the Social Sciences: Some Historical and Critical Perspectives, Dordrecht, Kluwer Academic Publishers, 1993 (Trad. italia­na: Scienze della natura e scienze sociali, Roma-Bari, Laterza, 1993, 163-174).   TORNA

4) In tal senso vedi Jon Elster, Ulysses and the Sirens, Cambridge, Cambridge University Press, 1979 (Trad. italiana: Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e 1’irrazionalità, Bologna, Il Mulino, 1983) e John A. Hughes, The Philosophy of Social Research, Longman Inc., New York, 1980 (Trad. italiana: Filosofia della ricerca sociale, Bologna, Il Mulino, 1982).   TORNA

5) Per un resoconto più o meno dettagliato sull’attività delle Annales vedi Peter Burke, The French Historical Revolution, Cambridge, 1990 (Trad. italiana: Una rivoluzione storiografica. La scuola delle “Annales “, 1929-1989, Roma-Bari, Laterza, 1993) e il Il capitolo di Georg G. Iggers, New Directions in European Historiography, Wesleyan University Press, 1975 (Trad. italiana: Nuove tendenze della storiografia contemporanea, Catania, Edizioni del Prisma, 1981), intitolato appun­to “La tradizione delle Annales: gli storici francesi alla ricerca di una scienza della storia”, 55-105. (Anche se, in verità, non concordo nè con la periodizzazione formulata da Burke sulla storia della rivista, nè con la tesi di Iggers secondo cui il circolo delle Annales” risulterebbe rappresentativo di una “posizione intermedia” tra la concezione nomologica della storia e la posizione di Ranke e dello storicismo in genere (56); nè tantomeno mi convince il modo sbrigativo in cui Iggers liquida il problema dell’applicazione delle “leggi di copertura” alla storia.).    TORNA

6) Emmanuel Le Roy Ladurie, Montaillou, village occitan de 1294 à 1324, Paris, Editions Gallimard, 1975 (Trad. italiana: Storia di un paese: Montaillou. Un villaggio occitanico durante l’inquisizio­ne (1294-1324), Milano, Bur, 1979); Georges Duby, Les trois ordres ou l’imaginaire du féodalisme, Paris, Edition Gallimard, 1978 (Trad. italiana: Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti Guerrieri e Lavoratori, Roma-Bari, Laterza, 1989); Paul Veyne, Suicide,fisc, esclavage, capital et droit romain, in “Latomus”, XL, 1981, 217-268 (Trad. italiana: Suicidio, fisco, schiavitù, capitale e diritto ro­mano, in “La società romana”, Roma-Bari, Laterza, 1995, 7 1-124).    TORNA

7) Per una panoramica su alcune questioni fondamentali che alimentano il dibattito in antropologia, vedi Clifford Geertz, Local Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, New York, Basic Books, 1983 (Trad. italiana: Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino, 1988).    TORNA

8) Il caos metodologico in cui versa la storiografia contemporanea è ben messo in evidenza dal testo a cura di Burke, New Perspectives on Historical Writing, Cambridge, Polity Press, 1991 (Trad. italiana: La storiografia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1993).    TORNA

9) Max Weber, Die “Objektivitàt” sozialwissenschafilicher und sozialpolitischer Erkenntnis, in “Archiv ftìr Sozialwissenschaft und Sozialpolitik”, XIX, 1904, 22-87 (Trad. italiana: L”’oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, in “Il metodo delle scienze storico-socia­li”, Torino, Einaudi, 1958, 88).    TORNA

10) Sadi Marhaba, Lo strutturalismo e il funzionalismo, in Paolo Legrenzi (a cura di), Storia della psicologia, Bologna, Il Mulino, 1992, 71-79.   TORNA

11) Vilfredo Pareto, Manuel d’économiepolitique, Cap. Il, Paris, 1909 (ripreso nella raccolta a cura di G. Busino, Una teoria critica della scienza della società, Milano, Bur, 1996, 280).    TORNA

12)  Pareto, Il compito della sociologia fra le scienze sociali, in “Rivista italiana di sociologia”, luglio 1897, 45-54 (ripreso nella raccolta a cura di G. Busino, Una teoria critica della scienza della società, cit. , 96).   TORNA

13)  Ibidem.   TORNA

14) Idem, 100: “La scienza sociale è, dunque, per parlare propriamente, la scienza delle interferen­ze fra quelle varie azioni cui abbiamo accennato e dell’influenza che le circostanze dell’ambiente e della razza esercitano su quelle azioni stesse. La scienza sociale studia queste azioni nel loro complesso, tenendo conto delle loro reciproche influenze, delle istituzioni sociali, o, più in gene­rale, degli ordinamenti sociali che ne derivano; essa investiga in qual modo tali influenze si sono svolte nel tempo e nello spazio, e quali sono gli effetti che producono o che, date certe condizioni, potrebbero produrre.”.   TORNA

15)  L’uso di analogie con la meccanica razionale da parte di Pareto è testimoniato nel già citato Cohen (1993, 73-75).   TORNA

16) Idem, 100-101; Pareto, I problemi della sociologia, in “Rivista italiana di sociologia”, marzo 1899, 145-157 (ripreso nella raccolta a cura di G. Busino, Una teoria critica della scienza della società, cit., 106-108); Pareto, Les systémes socialistes, Cap. 11., Losanna, 1902 (trad. italiana: i Sistemi socialisti, Utet, Torino, 1987; ripreso nella raccolta a cura di G. Busino, Una teoria critica della scienza della società, cit., 214-2 15).    TORNA

17)  Pareto (1902, 214).    TORNA

18)  E’ questo il caso, ad esempio, del modello ideale di “homo oeconomicus”, la cui palese “irrealtà” è stata sovente criticata da coloro i quali ritengono inutile ogni speculazione sui “movimenti vir­tuali”: “Chi dice: l’homo oeconomicus non è essere reale, non fa obbiezione che valga contro le teorie economiche, poichè identica obbiezione potrebbesi muovere contro ogni teoria creata dalla mente umana. L’homo oeconomicus non è nè più nè meno reale delle linee e delle superfici del matematico, dei punti materiali che considera il meccanico e l’astronomo, dei corpi assolutamente puri del chimico, dei tipi del naturalista, ecc. L’obbiezione varrebbe solo contro chi volesse tra­sportare nella realtà, senza la necessaria sintesi, i risultamenti delle varie teorie...”, Pareto (1899, 108).  TORNA

19)  Pareto (1902, 212).    TORNA

20)  Pareto, Le azioni non logiche, in “Rivista italiana di sociologia”, maggio-agosto 1910, 305-364 (ripreso nella raccolta a cura di G. Busino, Una teoria critica della scienza della società, cit., 244).    TORNA

21)  Pareto (1897, 97).    TORNA

22)  Ibidem.   TORNA

23)  Nelle accezione di Franz Brentano e, in generale, di tutti i massimi esponenti della corrente fenomenologica.    TORNA

24)  Niels Bohr, Atomtheorie und Naturbeschreibung, cap.I (redatto nel 1929), New York, Wiley, 1931 (Trad. italiana del capi: Il quanto d’azione e la descrizione della natura, in “I quanti e la vita”, Torino, Boringhieri, 1965, 9): “Considerando il contrasto tra la sensazione di libera volontà, che domina la vita psichica, e l’apparentemente ininterrotta concatenazione causale dei processi fisiologici concomitanti, non è certo sfuggito ai filosofi il fatto che potremmo essere di fronte a un rapporto non intuitivo di complementarità.”.    TORNA

25)  Mi riferisco in particolare all ‘Automa di Montaigne. Passeggiata virtuale lungo i corridoi della “tana “, Catania, Edizioni di “Ipotesi”, 1998, e al Delirio della Storia. Memorie di un giovane fabbricante di tappeti, Paternò, Edizioni L.e.g., 1999.    TORNA

26)  L’uso ditale espressione mi è stato ispirato dalla lettura di Willard van Orman Quine, Science and Sensibilia, The Immanuel Kant Lectures, Stanford: February 4-14, 1980 (Trad. italiana: La scienza e i dati di senso, Roma, Armando Editore, 1987), e in particolare dal suo concetto di “epistemologia naturalizzata”.    TORNA

27) Ludwig Boltzmann, Clber die Frage nach der objektiven Existenz der Vorgdnge in der unbelebten Natur Dai Sitzungsberichte, Kaiserliche Akademie der Wissenschaften, Wien, voi. 106, parte 11, gennaio 1897 (Trad. italiana: Sulla questione dell’esistenza oggettiva dei processi nella natura inanimata, in L. Boltzmann, Modelli matematici, fisica e filosofia. Scritti divulgativi, Torino, Boringhieri, 79-101). In un intervento al III Congresso Mondiale di Fenomenologia della Vita e Scienze della Vita (Cracovia, III Sessione Plenaria, 16 settembre 1999) ho tentato di collegare la mia idea di “mente” con alcune intuizioni del fisico austriaco inerenti i processi di pensiero e la proposta di una loro interpretazione in termini “meccanicistici” (vedi Ronsivalle, Automata in the Looking-glass. Self-Consciousness, Epigenetic Development and mental Models Theory, in “Analecta Husserliana”, KluwerAcademic Publishers, 1999, in corso di stampa).   TORNA

28) E’ chiaro che i due osservatori si collocano a due livelli di indagine diversi poiché tentano di rispondere a domande differenti il cui grado di complessità dipende dall’idea generale che ciascu­no di essi ha sul funzionamento della “macchina”. Ed è altrettanto chiaro che una domanda intorno ai “parametri” presuppone un apparato teorico in cui è prevista una modellistica dei “parametri” del tutto inconciliabile con la vaghezza concettuale di chi ha veramente poco da dire intorno ai congegni interni (o addirittura esclude che essi possano essere rilevanti per comprendere il com­portamento dell’automa).   TORNA

29) Questo concetto è ben espresso in Concetta Simona Condorelli, Architetti inconsapevoli. La costruzione delle realtà oltre il pensiero di Erving Goffman, Paternò, Edizioni L.e.g., 1999, 191: “La Realtà si dissolve nelle innumerevoli, particolari, personalissime, “piccole realtà” di cui cia­scuno si circonda e in cui si immerge. E questa stessa assunzione di molteplicità di mondi possibili si declina a sua volta in maniera diversa secondo i differenti, precipui frameworks of frameworks di costoro. Secondo le personali strutture cognitive, che saranno più o meno implicite, sfumate, in base all’auto-consapevolezza che ciascuno avrà di esse.”    TORNA

30) Sulla questione del rapporto tra linguaggio e conoscenza scientifica, e in particolare sulla tesi dell’inadeguatezza del linguaggio comune per la previsione rigorosa dei fenomeni, rimando al­l’articolo di Giuseppe Garozzo e Angela Mancuso su Giuseppe Ruggero Boscovich (all’interno della presente rivista); in esso è ben evidenziato lo scetticismo del fisico dalmata nei confronti di ogni terminologia fondata esclusivamente sull’intuizione del soggetto e sul patrimonio “ontologico” derivante dai processi educativi primari.   TORNA