Sul significato di verità,

la scienza e la metafisica

Giuseppe Boscarino

 

La verità è nel profondo

Democrito

 

 

 

Abstract

 

In this article the meaning of truth is discussed and, following Peano’s thought, a distinction is made between its formal meaning and its real meaning, thus going beyond Frege’s and Tarski’s misinterpretations. We also discuss Popper’s serious confusions about the true and false dialectic in the theoretical-deductive systems providing ample citations from Galileo, Torricelli, Vailati, Menger, and Notarrigo. The Pythagoreans’ rationalistic conception of truth is discussed and considered interesting and valid from a philosophical and epistemological viewpoint.

 

 

 

 

In più punti dei miei scritti ho denunciato la confusione nella filosofia aristotelica tra <proprietà formali> e <proprietà reali> dei vocaboli.

Il Peano, del significato delle due, ne fornisce una chiara descrizione:

“Le proprietà dei vocaboli sono reali, “de re”, se riguardano l’oggetto ovve­ro l’idea indicata dal vocabolo, esse sono formali, “de forma”, se riguardano la forma di un vocabolo che indica una qualche idea. Per esempio nelle seguenti proposizioni:

1. l’uomo è razionale,

2. uomo è bisillabo,

1. il cane ha quattro zampe,

2. cane ha quattro lettere,

1. la stella è luminosa,

2. stella è di genere femminile,

è evidente che le proposizioni 1 esprimono proprietà reali, e le proposizioni 2 esprimono proprietà formali di uomo, cane, stella. Ora noi siamo in grado di dire se la proposizione “uomo, cane, stella sono sostantivi” esprima proprietà reali o formali.

La distinzione tra proprietà reali o formali è ben nota ai matematici. Delle due proposizioni:

2/3 è una frazione minore di uno,

2/3 è una frazione irriducibile,

la prima esprime una proprietà reale e la seconda una proprietà formale: la prima resta vera se a 2/3 noi sostituiamo l’uguale frazione 4/6, sostituzione che, invece, falsifica la seconda proposizione.

Si può riconoscere se la proprietà di un nome è reale o formale, sostituendo il nome con un altro nome equivalente della stessa lingua o di altra lingua.

Le proposizioni 1 rimangono vere se sostituiamo a uomo, cane, stella le voci equivalenti man, dog, astro, mentre le proposizioni 2 non rimangono vere.

Homo in latino è sostantivo, infatti viene declinato: homo, hominis, homini, ecc.; ed è detto sostantivo anche nelle lingue moderne, che conservano l’antica nomenclatura, nonostante abbiano perso la declinazione.

Ma abbiamo detto che Mùller afferma che tale classificazione non si può ap­plicare al semitico o al cinese. M.Bréal, Essai de sémantique, Paris 1899, affer­ma: “Vi sono lingue che non distinguono le categorie”; e simili affermazioni vengono fatte da tutti i glottologi. Risulta che la proposizione “uomo è sostantivo e non verbo” non è vera in tutte le lingue, trattandosi qui di proprietà formali dei vocaboli e non rea1i”.(1)

Poiché tale confusione sta a fondamento delle grammatiche vecchie e nuove(2) denominavo la filosofia aristotelica una filosofia di tipo grammaticale.

In verità storicamente sono state le distinzioni grammaticali che si sono conformate alle dieci categorie aristoteliche.

Secondo Max Müller, infatti, The science of thought, London 1887, le cate­gorie grammaticali derivano da Aristotele, il quale separa i vocaboli greci in dieci classi. Le categorie di Aristotele, modificate, fuse e suddivise hanno originato le dieci categorie grammaticali.

Pertanto scrivevo:

“Aristotele, classificando i nomi o i vocaboli greci in dieci classi ha creduto, a partire dai nomi, di poter classificare dieci modi di pensare e di essere della real­tà, dieci categorie.

Aristotele così facendo ha confuso distinzioni formali o morfologiche o lin­guistiche con distinzioni logiche o reali. Non è della «cosa», per esempio di «uomo», l’essere sostanza prima o seconda, secondo la classificazione aristotelica, o se si vuole individuo o classe, secondo la classificazione logica odierna.

Nelle due proposizioni:

1.    “uomo è razionale”

2.    “uomo è classe”

in 1. «uomo» è classe, sta ad indicare una sostanza seconda, secondo la classificazione aristotelica, in 2. <uomo> è individuo, quindi, secondo ancora la classificazione aristotelica, sta ad indicare una sostanza prima. Ne seguirebbe stando alle definizioni aristoteliche che

sostanza seconda = sostanza prima o individuo = classe.

Assurdo! Seguendo la logica grammaticale di Aristotele si cade in assurdi, poi­ché si confonde il significato formale o linguistico del nome con il suosignificato logico.

           Non è della «cosa» essere individuo o classe, sostanza prima o seconda, ma della forma linguistica della «cosa».

Qualche altro esempio serve a chiarire quanto qui viene sostenuto. Nella pro­posizione: 1. “uomo è mortale”, <uomo>, stando alla definizione aristotelica, è sostanza seconda, ma nella proposizione: “Socrate è uomo”, <uomo> è qualità di Socrate, quindi si ha:

qualità = sostanza seconda.

La distinzione aristotelica allora non è logica, dell’idea, della cosa, ma forma­le o linguistica. Non è proprietà dell’<uomo>, dell’idea di <uomo> essere sostan­za seconda, ma della sua forma linguistica.

Nasce da qui la mia definizione della logica aristotelica come logica gramma­ticale, intendendo con essa, appunto quella logica o quel modo di pensare, in cui si confondono significati reali o logici delle parole con i loro significati formali o linguistici, come avviene nelle distinzioni grammaticali”.(3)

La classificazione della logica odierna in logica delle classi, dei predicati o delle proprietà, e delle relazioni nasce dalla stessa confusione.

La distinzione «classe - proprietà» è puramente grammaticale, linguisti­ca, formale, non logica, cioè non ha a che fare con la cosa, con l’idea.

Scrive Peano a tal proposito:

“Sia a una classe, l’<esser un a> suolsi chiamare una proprietà. Sicché la dif­ferenza tra proprietà e classe è puramente grammaticale”.(4)

Nella sua Recensione: A.N. Whitehead and B. Russel, Principia Mathematica, Opere Scelte II, p.389, Peano fa notare come tutto il simbolismo degli autori riguardante le relazioni sia riconducibile al suo, cioè ad una logica delle classi, con l’introduzione delle classi di diade e del prodotto cartesiano.

Notarrigo fa notare poi come il famoso paradosso di Russel “riposa sulla confusione tra proprietà formali e proprietà reali, cioé non riconoscendo che il termine “classe” esprime solo una proprietà formale e nessuna proprietà reale. E come affermare che “predicato è un predicato” o che “soggetto è un soggetto”.(5)

Poiché è mia convinzione che una serie di questioni, di equivoci e di fraintendimenti sul significato di verità o dell’«esser vero» nasce dalla stessa confusione tra significato formale di verità e significato reale di verità delle pro­posizioni, come da altre, di cui dirò, è bene precisarli meglio riferendoci ancora in ciò a Peano, dal quale non solo possiamo ricavare indicazioni in tal senso, ma da cui possiamo attingere la chiara distinzione precedentemente fatta sul signifi­cato di verità, non prima però di aver presentato una panoramica sul significato di verità in autori significativi della nostra storia del pensiero con gli equivoci, i fraintendimanti e le questioni ad esso connesse, di cui dicevo all’inizio.

Già agli albori del pensiero si fronteggiano due concezioni sul significato di verità, quella empiristica e quella razionalistica, l’una possiamo dire, per sempli­ficazione, rappresentata da Aristotele, l’altra dai Pitagorici, da Parmenide e da Democrito.

Per la prima il vero è il conformarsi o l’adeguarsi del pensiero o della proposi­zione alla cosa sensibile, per l’altra il vero è invece il conformarsi della cosa al pensiero, all’elemento razionale che si esprime nella proposizione.

Scrive infatti Aristotele:

“Affermare quello che è e negare quello che non è è il vero.”(6)

Per Democrito il vero è la cosa, l’elemento razionale, stando alla testimonian­za di Sesto Empirico, che riporta le seguenti espressioni del filosofo:

“Nome è il dolce, nome è l’amore, nome il caldo, nome il freddo, nome il calore, mentre veri sono gli atomi e il vuoto.”(7)

Esprime bene la seconda concezione, l’idealista Hegel, pur nella sua discuti­bile e criticabile posizione filosofica, nel seguente brano:

“L’idea è la verità, perché la verità è il rispondere dell’oggettività al concetto - non già che cose esterne rispondano a mie rappresentazioni, queste sono soltanto rappresentazioni esatte che io ho come questo individuo. Nell’idea non si tratta né di questo, né di rappresentazioni, né di cose esterne”.(8)

Se la questione è se il vero è il conformarsi della cosa al pensiero o del pensie­ro alla cosa empirica, l’equivoco è invece se la proprietà di «esser vero» sia una proprietà della proposizione, in quanto mero fatto linguistico o concettuale, o della cosa empirica, significata dalla proposizione.

Aristotele oscilla nelle sue opere sulle due posizioni, per cui una volta scrive:

“Il vero e il falso non esistono nella cosa, ma esistono nel pensiero”(9);  un’altra volta invece scrive:

“Il discorso vero non è in nessun modo causa dell’esistere della cosa, mentre la cosa, chiaramente, è in qualche modo causa dell’essere vero il discorso. Che per il fatto che la cosa è o non il discorso è detto vero o falso”.(10)

Hobbes è invece chiaramente schierato per la prima posizione, ritenendo che il vero sia una proprietà della proposizione in quanto tale. Scrive infatti:

“Le voci vero, verità, proposizione vera si equivalgono. La verità, infatti, con­siste in ciò che si dice, non nella cosa: sebbene vero si opponga ad apparente o finto, deve tuttavia riferirsi alla verità della proposizione: infatti, l’immagine di un uomo nello specchio, cioé l’immagine riflessa, si dice che non è un vero uomo, per il fatto che la proposizione l’immagine riflessa è uomo non è vera, giacché non si può negare che un’immagine riflessa è una vera immagine riflessa. Né dunque la verità è affezione della cosa, bensì della proposizione”.(11)

Insomma Hobbes sembra così schierato con la concezione del significato empirico di verità, poiché se il vero è della proposizione, non della cosa, poiché essa è quella che essa è, non lasciandosi modificare dal nostro dire la verità della proposizione, resta pur sempre la cosa, che la proposizione deve comunque ris­pecchiare, senza cui non può dirsi tale, ovvero vera, il paradigma della verità.

In verità in queste due posizioni si nasconde una serie di equivoci ed ambigui­tà sul significato di proposizione e di cosa, che vanno tentati di chiarire.

I tentativi di chiarimento di Frege e di Tarski nascondono invece la confusione da noi denunciata.

Scrive Frege:

“Eccoci dunque indotti a veder il significato di una proposizione nel suo valo­re di verità. Per valore di verità di una proposizione, io intendo la circostanza che essa sia vera o falsa. Altri valori di verità, oltre questi due, non ve ne sono; per semplicità essi verranno chiamati senz’altro il Vero e il Falso.

Ogni proposizione assertoria (in cui, come si è visto, ciò che interessa è il significato delle sue parole) va dunque riguardata come un nome proprio; e il suo significato - posto che ve ne sia uno - dovrà essere o il Vero o il Falso. Chiunque pronunci giudizi, chiunque ritenga qualcosa come vera, anche lo stesso scettico, deve - sia pure solo tacitamente - riconoscere questi due oggetti.

L’attribuire il nome di oggetti ai due valori di verità può forse sembrare un’idea arbitraria, un puro gioco di parole da cui è impossibile dedurre alcuna conseguen­za profonda. Per giustificarmi, dovrei discutere con precisione che cosa io inten­da per oggetto, analizzandone i rapporti col concetto e con la relazione; questo mi porterebbe però troppo fuori dal tema in esame. Mi basterà dunque aver stabilito qui chiaramente che in ogni giudizio, sia pur semplicissimo, vi è già un trapasso dal grado del puro e semplice pensiero al grado del significato (cioè dell’oggetti­vo).

Forse ci si potrebbe sentir tentati di credere che il pensiero ed il vero non stiano fra loro nel rapporto di senso e significato, ma nel rapporto di soggetto e predicato. Anzi, per meglio accentuare la cosa, qualcuno vorrà forse dire: “Il pensiero che 5 sia un numero primo è vero” invece di affermare semplicemente “5 è un numero primo”. Ma chi analizzi un po’ da vicino la cosa, vede senza difficoltà che la prima di queste due proposizioni non afferma nulla più della seconda.

L’asserzione della verità risiede, in entrambi i casi, nella forma della propo­sizione assertoria; e pertanto, dove questa proposizione non possegga la sua forza abituale - per esempio sulla bocca di un attore sulla scena - lo stesso primo asserto (“Il pensiero che 5 sia un numero primo è vero”) enuncerà nulla più che un pen­siero, e precisamente l’identico pensiero contenuto nella seconda proposizione (“5 è un numero primo”). Da ciò si deve concludere che il rapporto fra il pensiero e il vero non può venir paragonato al rapporto fra soggetto e predicato”.(12)

Frege chiarisce che «l’esser vero» non è una proprietà o un predicato che si aggiunge alla proposizione come soggetto, poiché le due proposizioni < il pen­siero che 5 sia un numero primo è vero> e <5 è un numero primo> significano la stessa cosa, nulla aggiungendo la proprietà di «esser vero» a quanto asserito dalla semplice proposizione, come può vedersi d’altra parte dalla loro espressio­ne formale, utilizzando il simbolismo delle classi,

1)      “«5 Î Np» è vero”    =def.   “5 Î Np”

ma confonde il significato formale di verità con il suo significato reale, poiché non si sta asserendo la verità reale o logica di “5 Î Np”, ma solo la sua identità linguistica formale con l’altra espressione linguistica “«5 Î Np» è vero”.

Non si sta avanzando con 1) di un solo millimetro dal senso al significato, dal logico all’oggettivo, dal piano linguistico a quello extralinguistico, sia esso empirico o concettuale.

Frege non chiarisce il significato di proposizione o di verità, in senso formale o reale, né tanto meno quello in cui lo usano le scienze cosiddette formali quali la logica e la matematica, o fattuali, quale la fisica.

Si limita ad esaminare il suo uso nel linguaggio comune o ordinario, come se fosse questo il senso in cui lo usano le scienze empiriche alla ricerca dell’ogget­tivo, del reale, del vero.

Frege confonde il significato formale di verità con il suo significato reale, Tarski confonde invece il suo significato reale con il suo significato formale, poiché nel momento in cui esprime la definizione di verità sotto la forma di equi­valenza del tipo

2)      X è vero se e solo se p  (13)

e poi porta come esempio di equivalenza di 2)

 2)’ L’enunciato «la neve è bianca» è vero se e solo se la neve è bianca.

In realtà con la 2)’ non ha dato che un esempio di significato reale di verità, anche se il linguaggio comune usa fare in tal modo, ma nel linguaggio formale, della precisione, delle scienze esatte, si cerca di sfuggire a questo equivoco, poiché la relazione di “eguaglianza per definizione” è tra variabili linguistiche, siano va­riabili individuali o di classi, o di proprietà o di relazioni, per cui si definisce un eguaglianza non di natura logica o ideale, ma solo di oggetti linguistici.

La doppia implicazione che Tarski usa è del linguaggio, non del metalinguaggio, dove vale “l’uguale per definizione”; Tarski capisce che la verità in senso forma­le è un’affermazione del metalinguaggio, ma poi usa un linguaggio interpretato con costanti logiche, la doppia implicazione, ed empiriche, «neve», «bian­ca», ambedue con significato reale.

Peano definisce l’uso del concetto di verità in senso formale:

 3)   «la proposizione A è vera» vale «A».(14)ma nel suo caso la proposizione è una relazione tra variabili linguistiche, o come dice lo stesso Peano, una condizione del tipo x Î P, dove x è un individuo e P è una classe, ma non interpretata, cioé senza significato ideale o empirico, e il «vale» ha il significato nel linguaggio di Peano di «uguale per definizio­ne», che è del metalinguaggio.

Peano critica Frege, nella recensione all’opera di questi, affermando:

<Essendo a una proposizione, il nostro Autore (pag.9) introduce una notazio­ne ├— a per dire «la a è vera»; ed un’altra notazione — a per indicare «la verità di a». Non vengo l’utilità di queste convenzioni, che non hanno le corri­spondenti nel Formulano. Invero la varia posizione che può avere in una formula una proposizione indica completamente ciò che di essa si afferma. Così delle nostre scritture

                   a,             a É b,                  a É b. É c

la prima dice «è vera la a», la seconda invece «da a si deduce b», la terza «se da a si deduce la b, allora è vera la c». Quest’ultima non indica la verità di a, b, c nè di a É b, ma solo la verità della relazione indicata fra queste proposizio­ni>.(15)

Peano con la sua distinzione tra “proprietà formali” e “proprietà reali” ha chia­ra la distinzione tra linguaggio - oggetto e metalinguaggio, come ha chiara la distinzione tra il vero logico e il vero inteso in senso formale del tipo 3).

Vero in senso logico è l’asserzione alternativa di una proposizione P e della sua negazione, non P, cioé

4)      P o non P  . = .  Vero

Falso in senso logico è l’asserzione simultanea di una proposizione e della sua negazione cioé

5)      P e non P  . = .  Falso

Una teoria formale, con significato ideale o fattuale, non può avere tra i suoi assiomi o teoremi, asserzioni del tipo 5), poiché compito di una teoria è dedurre cose vere a partire da cose vere, e non di dedurre cose vere a partire da cose false, o di avere cose false a partire da cose vere.

La nozione di proposizione vera, in senso reale, sta al di fuori del campo della logica.

Giustamente il De Morgan scriveva:

«Non è compito della logica il determinare quali conclusioni sono vere o false (noi aggiungiamo quali premesse sono vere o false), ma il riconoscere se quelle che sono dette conclusioni sono veramente tali.»(16)

Dal punto di vista della logica allora non è possibile dire che «zero è un numero», in simboli « 0ÎN », sia una proposizione vera, mentre è sempre vera la proposizione «zero è un numero o zero non è un numero».

Peano nella sua teoria assiomatica dei numeri(17) assume la proposizione 0 Î N0 come formalmente vera secondo 3), ma nel momento in cui concepisce i numeri, negli altri scritti, come rapporti tra grandezze, e ne concepisce una esistenza ide­ale, allora interpreta la proposizione 0 Î N0 come realmente vera.

E nel momento dell’interpretazione, ideale o fattuale, della teoria deduttiva, che si esce fuori dal linguaggio, dalla scienza, e si va alle metafisiche o alle filo­sofie, che ne stanno alla base, ma di ciò più avanti.

Benché Peano abbia chiare queste distinzioni ed abbia in modo assolutamente rigoroso definito o chiarito il significato formale di verità, eppure non viene mai ricordato o citato su queste problematiche, specie sul concetto di verità, facendo­si esclusivo riferimento o a Frege o a Tarski, cioé a qualcosa di confuso o di poco chiaro, come abbiamo visto.

Ironia della sorte!

La confusione sul significato di verità aumenta con gli epigoni di questi pensatori.(18)

Popper capisce che le scienze empiriche o fattuali usano secondo un loro cri­terio il concetto di verità, ma nel momento in cui cerca di interpretare l’equiva­lenza tarskiana 3) X è vero se e solo se p, nel modo seguente:

6) L’asserto < la neve è bianca> corrisponde ai fatti se, e soltanto se, la neve è effettivamente bianca;

adducendo le seguenti motivazioni:

“Il maggiore risultato di Tarski, e il reale significato della sua teoria per la filosofia e per le scienze empiriche, sta nel fatto che egli riabilitò la teoria della verità assoluta o oggettiva, intesa come corrispon­denza, che era diventata sospetta”...

“Il carattere altamente intuitivo delle idee di Tarski emerge con maggiore evi­denza (come ho riscontrato nell’insegnamento) se prima stabiliamo esplicitamente di considerare <verità> come sinonimo di corrispondenza ai fatti”(19),

non capisce che la definizione tarskiana è tesa a cogliere il significato formale di verità (quindi né logico né empirico) così come usato dalle scienze formali, non interpretate, o seminterpretate, cioé con significato reale unicamente raziona­le.(20)

Questo significato formale non ha niente a che fare con il significato logico o reale di verità nel modo in cui lo usano le scienze reali, che fanno riferimento o a oggetti ideali o a oggetti fattuali, quali la logica, la matematica, la fisica, ecc...

È questa confusione che lo porta poi a conclusioni errate sul significato di confutazione di una teoria considerata vera o sul ruolo della logica nella scoper­ta del significato del concetto di verità, come emerge dai seguenti brani:

“Ciò che cerchiamo, scrive Poppcr, di mostrare quando critichiamo una teoria è, naturalmente, che la sua pretesa di verità non è giustificata - che essa è falsa...

Chiamiamo <vera> un’asserzione se essa coincide con i fatti o corrisponde ai fatti o se le cose sono tali quali l’asserzione le presenta. E il concetto cosiddetto assoluto o oggettivo della verità, che ognuno di noi continuamente usa. Uno dei più importanti risultati della logica moderna consiste nell’aver riabilitato con pie­no successo questo concetto assoluto di verità...

Vorrei indicare nella riabilitazione del concetto di verità da parte del logico e matematico Alfred Tarski il risultato filosoficamente più importante della logica matematica moderna”.(21)

Ho avuto modo già di dire come il vero logico non ha assolutamente niente a che fare con la verità della proposizione, né il vero formale con il vero reale, cioè con le proposizioni che vogliano parlare con <verità> delle cose ideali o empiriche, dei fatti.

Una teoria formale è per definizione inconfutabile, poiché le sue proposizioni primitive, per la definizione del tipo 3), sono assunte come vere; le regole d’infe­renza della logica trasmettono la verità formale alle conclusioni o ai teoremi del­la teoria, ma niente possono dire sulla verità o falsità reale delle proposizioni primitive o degli assiomi.

Un modello che interpreta gli assiomi della teoria, tranne uno, non dimostra la falsità della teoria, ma solo l’indipendenza dell’assioma dagli altri assiomi, poi­ché esso può essere vero, in senso reale, in un altro modello.(22)

Lo stesso dicasi della sua inconfutabilità per una teoria formale idealmente interpretata, cioé che faccia riferimento non solo ad enti linguistici, ma anche ad enti idealizzati, costruiti razionalmente a partire da proprietà fisiche, astratte da­gli oggetti sensibili o fenomenici.

Hanno scritto parole mirabili a tal proposito i padri della scienza moderna Galilei e Torricelli, ma anche altri grandi scienziati e acuti epistemologi e metodologi della scienza, quali Menger e Notarrigo, pur distanti nelle loro posi­zioni scientifiche e filosofiche, sulla dialettica del vero e del falso nei sistemi deduttivi seminterpretati.

Con queste si fa piazza pulita di molti equivoci e superficialità dell’epistemologia popperiana sul significato di falsificazione delle teorie scien­tifiche.(23)

Galilei: «Io argomento ex suppositione, figurandomi un moto, verso un punto, il quale partendosi dalla quiete vadia accelerandosi, crescendo la sua velocità con la medesima proporzione con la quale cresce il tempo, e di questo tal moto io dimostro concludentemente molti accidenti; soggiungo poi, che se l’esperienza mostrasse che tali accidenti si ritrovassero verificarsi nel moto dei gravi natural­mente discendenti, potremmo senza errore affermare questo essere il moto mede­simo che da me fu definito e supposto; quando che no, le mie dimostrazioni, fabbricate sopra la mia supposizione, niente perdevano della sua forza o concludenza; sì che come niente pregiudica alle conclusioni dimostrate da Archimede circa la spirale il non ritrovarsi in natura mobile che in quella maniera spiralmente si muova».(24)

Torricelli: «che i principi della dottrina de motu siano veri o falsi a me im­porta pochissimo. Poiché se non sono veri, fingasi che siano veri conferme abbia­mo supposto, e poi prendansi tutte le altre specolazioni derivate da essi principi, non come così miste, ma pure Geometriche. Io fingo o suppongo che qualche corpo o punto si muova all’ingiù e all’insù con la nota proporzione ed orizzontal­mente con moto equabile. Quando questo sia, io dico che seguirà tutto quello che ha detto il Galilei, ed io ancora. Se poi le palle di piombo, di ferro, di pietra, non osservano quella supposta proporzione, suo danno, noi diremo che non parliamo di esse».(25)

Menger: «Niente è più sicuro del fatto che i risultati della ricerca esatta, misurati col metro del realismo, appaiono insufficienti e antiempirici in tutti gli àmbiti del mondo fenomenico, compreso quello economico. Ma ciò è ovvio, se i risultati della ricerca esatta in tutti i campi del mondo fenomenico risultano veri soltanto in base a determinati presupposti che non sempre s’incontrano nel mon­do reale. Verificare le teorie economiche esatte nella piena empirìa è un contro-senso metodologico, un disconoscimento dei fondamenti e presupposti della ri­cerca esatta, e dei particolari scopi delle scienze esatte.

Voler mettere alla prova la pura teoria economica tramite l’esperienza nella sua piena realtà è un procedimento analogo a quello di un matematico che voles­se legittimare i principi della geometria per mezzo della misurazione di oggetti reali, senza riflettere sul fatto che questi ultimi non sono identici alle grandezze supposte dalla geometria pura, e che ogni misurazione contiene in sé necessaria­mente elementi di imprecisione. Il realismo nella ricerca teorica non è qualcosa di superiore rispetto all’indirizzo esatto, ma solo qualcosa di diverso.

I risultati dell’indirizzo realistico hanno con l’empiria un rapporto sostanzial­mente diverso da quello dei risultati della ricerca esatta. Essi si basano sull’osser­vazione dei fenomeni nella loro “empirica realtà” e complessità, e la pietra di paragone per la loro verità è perciò sempre l’empirìa. A una legge empirica man­ca fin da principio, cioè già in base ai suoi presupposti metodologici, la garanzia di una validità senza eccezioni: essa constata certe regolarità nella successione e coesistenza dei fenomeni senza alcuna pretesa di necessarietà. Ciò detto, essa deve però accordarsi con la piena realtà empirica dalla cui considerazione è sorta, altrimenti diviene falsa e senza valore. Ma voler trasferire questo principio ai risultati della ricerca esatta è un controsenso, un disconoscimento dell’importante differenza fra ricerca esatta e ricerca realistica. Combattere tale posizione è stato il compito principale dell’indagine precedente.

Pur constatando questo fatto, siamo tuttavia ben lontani dal negare che sareb­be quanto di più desiderabile poter raggiungere conoscenze esatte che concor­dassero nello stesso tempo con la piena realtà empirica nel senso qui datole; op­pure, ciò ch’è essenzialmente lo stesso, che le conoscenze empiriche mostrassero anche i meriti di quelle esatte. La conoscenza umana, la previsione e il dominio dei fenomeni ne sarebbero grandemente favoriti e semplificati. Ciò che qui cer­chiamo di chiarire è l’irraggiungibilità di questa situazione ideale sulla base delle condizioni di fatto che il mondo dei fenomeni reali di regola offre.

Qui si tratta di un errore profondamente radicato fra gli economisti tedeschi, e nello stesso tempo di una materia sulla quale c’è ben poca chiarezza anche fra i migliori Autori stranieri. Perciò, cercheremo di chiarire il rapporto fra i risultati dei due indirizzi nel campo della nostra scienza per mezzo di un esempio, che spiegherà contemporaneamente anche le cause della confusione che regna su quest’argomento.

La ricerca esatta nel campo dei prezzi ci insegna che in un dato settore del mercato un certo incremento della richiesta di una merce (sia a causa di un incre­mento della popolazione, sia della comparsa di una maggiore intensità della ri­chiesta di quella merce nei singoli soggetti economici) conduce, sulla base di certi presupposti, a un incremento esattamente misurabile dei prezzi. Tali presup­posti, evidenti in ogni esposizione ordinata di economia teorica, sono i seguenti:

1) tutti i soggetti economici si sforzano di percepire il proprio interesse economi­co in maniera completa; 2) essi lottano per la determinazione del prezzo, ben conoscendo il fine da perseguire e i mezzi più adeguati al suo raggiungimento; 3) essi conoscono la situazione economica, almeno per quanto essa influisce sulla formazione del prezzo; 4) essi non subiscono alcuna costrizione esterna in grado di pregiudicare la loro libertà economica (ossia il perseguimento dei loro interes­si economici).

È ovvio che nell’economia reale questi presupposti si ritrovano tutti insieme solo in rari casi, e che perciò i prezzi reali si discostano in misura variabile dai prezzi economici (corrispondenti alla situazione economica). Gli uomini si sfor­zano soltanto raramente, nella prassi economica, di percepire in modo completo il proprio interesse economico: considerazioni di vario genere, prima di tutto l’indifferenza verso interessi economici di poca importanza, la benevolenza ver­so altri, e così via, li inducono nell’azione a non badare affatto, o a badare in maniera incompleta, al proprio interesse economico. Inoltre, spesso sbagliano o non hanno chiari i mezzi per raggiungere il fine economico, e conoscono poco o nulla della situazione economica sulla base della quale sviluppano la propria azio­ne. Infine, la loro libertà economica è spesso pregiudicata da circostanze d’ogni genere. Una data situazione economica favorisce soltanto in un numero irrisorio di casi i prezzi economici dei beni: il più delle volte i prezzi reali sono diversi da quelli economici.

È però vero, e anche chiaro, che nel precedene caso tipico il reale accresciuto bisogno di una merce non necessariamente causerà un incremento reale dei prez­zi perfettamente corrispondente alla mutata situazione economica, anzi a volte non darà luogo proprio a nessun incremento. La legge secondo cui l’accresciuto bisogno di una merce comporta un aumento dei prezzi, vale a dire secondo cui all’incremento del bisogno corrisponde un incremento dei prezzi della stessa mi­sura, è pertanto falsa (ossia irreale) se paragonata alla realtà nella sua piena com­plessità. Ma ciò cos’altro prova, se non che i risultati della ricerca esatta non trovano la loro pietra di paragone nell’esperienza? Infatti, nonostante ciò, quella legge è vera, innegabilmente vera, e di grandissimo valore per la comprensione teorica del fenomeno dei prezzi, non appena la si consideri soltanto secondo presupposti conformi alla ricerca esatta. Se la si considera invece dal punto di vista della ricerca realistica, si giungerà a una contraddizione:  ma l’errore non sta nella legge, bensì nell’errato modo di considerarla (il corsivo è nostro).

Ora, se cercassimo di raggiungere un’analoga legge a partire dal punto di vista realistico, è chiaro a ogni economista esperto ch’essa sarebbe palesemente simile all’altra. E noto che l’aumento della domanda di una merce comporta di regola (se non sempre) un incremento del suo prezzo. Questa legge “empirica” mostra però, nonostante la sua somiglianza, una fondamentale differenza rispetto all’al­tra, una differenza ben più istruttiva di quanto lasci suppone l’esteriore somi­glianza fra le due leggi. La legge esatta significa che, dati certi presupposti, a un determinato incremento del bisogno deve seguire un altrettanto determinato au­mento dei prezzi. La legge empirica significa invece che a un aumento del biso­gno, segue di regola un aumento dei prezzi reali, ovvero un aumento che di regola sta in un certo rapporto con l’aumento del bisogno, anche se non esattamente determinabile. La prima legge vale in ogni tempo e luogo in cui si presenti un traffico di beni; la seconda ammette eccezioni già in un luogo determinato, e può essere scoperta solo tramite l’osservazione, essendo diversa in ogni mercato la misura dell’influenza della domanda sui prezzi.

Non a caso abbiamo scelto un esempio nel quale legge esatta e legge empirica mostrano una somiglianza esteriore, per far meglio risaltare l’invece profonda differenza fra i due modelli di conoscenza teorica. Sarebbe facile dimostrare che in numerosi altri casi i due tipi di legge presentano differenze già nella forma esteriore, ed è perciò evidente che esse non sono assolutamente interscambiabili, e ancor meno che possono essere verificate ricorrendo a identici presupposti.

Quelli che giudicano i risultati dell’indirizzo esatto in economia col metro del realismo empirico e dei suoi risultati teorici, dimenticano il fatto decisivo che l’economia esatta ha per sua natura il compito di farci conoscere le leggi econo­miche.

Viceversa la dottrina economica empirico-realistica deve renderci consapevo­li delle regolarità nella successione e nella coesistenza dei fenomeni reali del­l’economia umana (che nella loro “piena realtà empirica” contengono numerosi elementi non economici).

Voler verificare (o falsificare, aggiungiamo noi) la validità delle leggi econo­miche esatte con la loro congruenza alle leggi empiriche, significa pertanto rin­negare i più elementari fondamenti della metodologia scientifica. Tale procedi­mento sarebbe paragonabile a quello di uno scienziato naturale che volesse veri­ficare e legittimare le leggi della fisica, della chimica e della meccanica, tramite le leggi empiriche dei fenomeni naturali, o che, peggio ancora, volesse far lo stesso con i risultati della ricerca esatta di un Newton, di un Lavoisier o di un Helmholtz, ricorrendo agli altrimenti utilissimi criteri rintracciabili negli scritti destinati ai contadini, col pretesto che si basano su un’esperienza millenaria!”(26)

Notarrigo: “Se guardiamo ai grandi scienziati antichi di lingua greca, con l’ausilio della “logica matematica” del Peano, possiamo accettare una proposta del Lakatos: “la verità si propaga solo verso l’alto, la falsità si propaga solo verso il basso”.

In altre parole, se asseriamo un certo numero di proposizioni di base, logica­mente indipendenti, e, a partire da esse, formiamo tutte le possibili proposizioni col solo uso della “disgiunzione inclusiva” e della “negazione”, formeremo un reticolo di inclusioni (secondo la definizione matematica di reticolo). Se in basso poniamo la proposizione “assurda”, al primo livello le <proposizioni base> (gli <atomi> del reticolo), e ai livelli superiori tutte le proposizioni derivate, fino ad arrivare alla proposizione <banale> che è implicata da ogni proposizione del re­ticolo, è chiaro che l’asserzione delle proposizioni di base assicura la verità di tutte le proposizioni di livello superiore, ma la verità di una proposizione di livel­lo superiore niente ci può dire sulla verità delle proposizioni di livello inferiore. Per la falsità il cammino è proprio l’inverso: la falsità di una proposizione di livello superiore ci assicura la falsità di almeno una delle proposizioni di base.

Ma, in ogni caso, niente possiamo dire sulla verità o falsità delle proposizioni di base, con nessuna verifica empirica.

Da questo discende che le proposizioni di base devono essere vere indi­pendentemente da qualunque criterio deduttivo. E, poiché non è possibile dimo­strare la coerenza interna di un sistema deduttivo, bisogna che le proposizioni di base devono avere un modello concreto direttamente verificabile con semplicis­sime operazioni fisiche <elementari>, gli stessi assiomi della logica devono ob­bedire a tale criterio”.(27)Il problema del vero, inteso in senso fattuale o empirico, come corrispondenza di idee o proposizioni a fatti, sorge quando si vuole parlare del mondo, assunto come esterno al soggetto conoscente, con «verità».

Un fatto o sarebbe meglio dire una proposizione che descrive un fatto, non deducibile dalla teoria o in contrasto con una proposizione deducibile dalla teo­ria, secondo Popper, costringe questa a correggersi o a negarsi a favore di un’altra teoria più verosimile.

Per Popper il falso si trasmette dalle conclusioni alle premesse, non invece la verità dalle premesse alle conclusioni. Un fatto in contrapposizione con una pro­posizione dedotta dalla teoria rende falsa la proposizione, la quale trasmette la sua falsità alla teoria, che pertanto va abbandonata.

Popper fa una grande confusione, oltre quella denunciata, ma pone un proble­ma vero, e cioé come si trasmette il vero e il falso nelle teorie ipotetico-deduttive a carattere fattuale, dalle premesse alle conclusioni e viceversa.

Intanto Popper non chiarisce cosa sono i «fatti», poiché la teoria non si confronta con i fatti, ma con “proposizioni che descrivono fatti”, le quali non descrivono i fatti empirici, sensibili, che sono confusi, complessi e caotici, ma aspetti determinati scelti e selezionati da essi, che sono appunto i «fatti» di una determinata scienza.

Insomma i «fatti scientifici» sono schemi, semplificazioni del fatto com­plesso, idealizzazioni, che solo in rari casi corrispondono ai «fatti empirici», poiché in quelle si considerano certe variabili, mentre altre ne vengono scartate o trascurate.

E grazie ad un modello della teoria, interpretata in base a precise regole di corrispondenza che proposizioni teoriche ne seguono, ma anche le proposizioni fattuali sono proposizioni interpretate in base ad un modello, con regole di corri­spondenza.

Affinché la proposizione fattuale (p.f.) confuti la proposizione teorica (p.t.), l’una p.f. deve avere carattere singolare, l’altra, la p.t., deve avere carattere uni­versale.

La proposizione teorica, a carattere universale, ogni A è B, dedotta formal­mente in base alle regole della logica e alle regole di corrispondenza, non può che essere necessariamente vera, come deve essere necessariamente vera qualunque proposizione singolare da essa deducibile, poiché non può esistere un x tale che sia A e non sia B, se è vera «ogni A è B».

Se vale per qualunque corpo che cade, la legge di Galilei, s = 1/2 g t2, essa vale anche per questa pietra, che cade, che è un corpo. Eppure se vado a provare, constato che la legge non vale empiricamente. Questo succede perché il fatto empirico non è il fatto formalmente deducibile. Per questo la scienza fisica non abbandona la verità della legge di Galilei, ma prende atto che il fatto empirico non corrisponde al fatto formale, per cui escogita l’esperimento, una situazione artificiale la più possibile simile al modello teorico. Qui la legge viene verificata, entro i limiti dell’errore sperimentale.

Che dire a questo punto?

Dalla caduta della singola pietra non si apprende alcuna verità, alcuna legge, resta certa la verità formale della legge, come la sua verità reale, verificata attra­verso l’esperimento, anche se di una verità reale, non visibile direttamente, men­tre non acquista verità empirica la proposizione universale, divenendo falsa, ma essa è stata falsificata in base ad un altro modello fisico, possibilmente più ricco e più complesso.

Allora nessuna teoria scientifica o teoria ipotetico-deduttiva è confutabile né da modelli né tanto meno da esperimenti, a livello formale.

Gli esperimenti o le osservazioni possono solo confutare, a livello reale, fattuale o empirico, i modelli, mai le teorie.

Nel caso di un accordo tra la proposizione teorica universale formalmente dedotta e la proposizione fattuale singolare per cui l’una è formalmente vera, mentre l’altra è fattualmente vera, la teoria deduttiva aggiunge verità formale alla proposizione singolare, ricevendo da questa la sua parte di verità reale, men­tre la teoria deduttiva le trasmette tutta la sua verità reale.

Ha descritto bene la dialettica del vero e del falso nelle teorie deduttive, Vailati, discepolo di Peano, come già Notarrigo nel passo già citato.

Scrive Vailati:

“L’estendersi del campo d’azione del ragionamento deduttivo è da considerar­si come desiderabile e corrispondente a un effettivo progresso delle scienze in cui ha luogo.

Tra questi vantaggi ve n’è uno sul quale ho avuto già abbastanza occasione di insistere, quando accennai alle opinioni di Aristotele sulla funzione della dedu­zione come strumento di prova, e sul quale quindi non mi fermerò che quanto è necessario per distinguerlo dai rimanenti. Tale vantaggio consiste nel reciproco controllo che le proposizioni legate per mezzo della deduzione sono poste in grado di esercitare le une sulle altre, e nel vicendevole appoggio che esse vengo­no così a prestarsi, mettendo in certo modo in comune la forza complessiva di tutti i fatti e di tutte le verifiche di cui ciascuna di esse dispone in particolare. Allo stesso modo come in uno stato bene ordinato, un torto o un’ ingiustizia, patita dall’ultimo dei cittadini, è risentita con non minore intensità e rimediata con non minore energia, che se di essa fosse stata vittima la persona più influente o facoltosa, così in una scienza ordinata deduttivamente, non c’è proposizione, per quanto complicata e laboriosamente ottenuta, che sia meno protetta contro il dub­bio e le contestazioni di quanto lo siano le proposizioni più evidenti e primitive che figurano nella trattazione, purché, s’intende, si faccia astrazione dagli even­tuali errori materiali di calcolo di cui la probabilità può essere facilmente resa inferiore a qualunque grado praticamente assegnabile. In tali scienze nessun fatto o notizia può essere ritenuto sufficiente a infirmare la verità d’una proposizione dimostrata, se quel fatto o quella notizia non hanno tal peso, non solo da poter scuotere la fiducia che si ripone nella proposizione a cui essi sembrano contrad­dire direttamente, ma anche da costringerci a modificare o abbandonare come insostenibile una almeno delle proposizioni fondamentali di cui ci possiamo ser­vire per dimostrarla”.(28)

La proposizione singolare fattuale, che falsifica la proposizione universale, riceve la sua verità dall’esperienza, ma da una porzione di esperienza, la teoria invece ha trasmesso tutta la sua verità formale delle sue proposizioni alla propo­sizione universale, mentre ha corroborato la proposizione singolare formale, che da essa segue, di tutta la sua verità reale.

Ecco perché il razionalista è più propenso a forzare i fatti empirici per con­formarli ai fatti formali, alla teoria, che non la teoria ai fatti, a conformare la cosa al concetto, che il concetto alla cosa.

L’empirista Aristotele così criticava il razionalismo dei Pitagorici, ai quali dobbiamo tante scoperte nei vari campi delle scienze (matematica, astronomia, acustica, ecc.), mentre nessuna ad Aristotele.

“Essi (i Pitagorici) ricercano la ragione e la causa non riportandosi a ciò che èoggetto di osservazione, ma piuttosto riconducendo a forza i fenomeni a certe loro ragioni ed opinioni, e tentando in questo modo di armonizzarli e condurli ad un tutto ordinato.(29)

Popper, in fondo, è un empirista, un aristotelico(30), poiché sottovaluta il mo­mento della elaborazione e dello sviluppo del sistema deduttivo, e l’aspetto ra­zionale, idealizzazionale nella costruzione degli <elementi> del sistema deduttivo e quindi della <spiegazione scientifica>.

Scrive infatti sui sistemi deduttivi:

“Non è il meraviglioso concatenamento deduttivo del sistema che rende razio­nale o empirica una teoria, bensì il fatto che possiamo esaminarla criticamente, cioé sottoporla a tentativi di confutazione che includono i controlli osservativi; e inoltre il fatto che, in certi casi, una teoria può rivelarsi capace di sostenere queste critiche e questi controlli, fra cui alcuni ai quali non ressero le teorie precedenti, e, talvolta controlli ulteriori e più severi. La razionalità della scienza risiede nella scelta razionale della nuova teoria, piuttosto che nello sviluppo deduttivo delle stesse”.(31)

E sul significato di <spiegazione scientifica> scrive inoltre:

“Dare una spiegazione causale di un evento significa dedurre un’asserzione che la descrive usando come premesse della deduzione una o più leggi universa­li, insieme con alcune asserzioni singolari dette condizioni iniziali”. (32)

In contrapposizione si possono leggere questi acutissimi passi del Vailati, che di storia della scienza certamente se ne intendeva, sulla funzione critica, antidogmatica e creativa dei sistemi deduttivi, razionalmente costruiti, nella cre­scita della conoscenza scientifica.

“La storia delle scienze ci mostra chiaramente che, tra le cause che hanno condotto gradualmente alla sostituzione dei moderni metodi sperimentali al po­sto degli antichi metodi di semplice osservazione passiva, va annoverata, come una delle più importanti, l’applicazione della deduzione anche a quei casi nei quali le proposizioni prese come punto di partenza erano considerate come più bisognevoli di prova che non quelle a cui si arrivava, e nei quali quindi erano queste ultime che dovevano comunicare, alle congetture fatte, la certezza che attingevano direttamente dal confronto coi fatti e dalle verifiche sperimentali. L’impossibilità di trovare, nei fatti spontaneamente presentantisi all’osservazio­ne, il materiale adeguato per la verifica delle conclusioni a cui spingevano dedu­zioni che, per quanto corrette e rigorose, non erano basate su premesse ricono­sciute per sè stesse meritevoli di fiducia incondizionata, come quelle dei mate­matici, fece nascere il desiderio e il bisogno di allargare con artifici la sfera dei fatti da utilizzare per controllo delle teorie, e contribuì, più di qualunque altra circostanza, a portare all’impiego sistematico di quell’osservazione di fatti artifi­cialmente provocati allo scopo di osservarli, che costituisce l’esperimento pro­priamente detto. In altre parole, i fisici antichi non si sentivano spinti a sperimen­tare soprattutto perché, essendo più intenti a garantirsi della certezza delle propo­sizioni da cui prendevano le mosse che non della verità di quelle che da esse deducevano, non potevano aver ragione di domandarsi che cosa avvenisse in casi diversi da quelli che, presentandosi spontaneamente alla loro osservazione, sug­gerivano ad essi immediatamente le generalizzazioni su cui basavano i loro ra­gionamenti. Onde è lecito affermare, che fu in certo senso l’applicazione sempre più vasta e sistematica della deduzione allo studio dei fenomeni della natura, che fornì il primo impulso allo sviluppo dei metodi sperimentali moderni, e che non è da attribuire al caso se i più eminenti iniziatori di questi furono anche nello stesso tempo i più grandi instauratori e fautori dell’applicazione alle scienze fisi­che di quel potente strumento di deduzione che è la matematica.

Quella qualità mentale che a ragione fu designata come la più preziosa e ne­cessaria per bene osservare, l’attitudine cioè a meravigliarsi a proposito, esige, come condizione indispensabile al suo sviluppo, la disposizione a confrontare coi fatti tutte le conseguenze, anche remote e artificiose, dei nostri preconcetti. Senza questa disposizione noi non riusciamo a distinguere, nell’immenso caos di fatti accessibili alle nostre esplorazioni, quali sono quelle il cui esame o la cui constatazione può determinare delle modificazioni importanti alle nostre credenze (gli experimenta crucis di Bacone), od allargare realmente la sfera delle nostre cognizioni.

Non è forse stato abbastanza notato, da quelli che si occuparono di storia della Meccanica, che le prime e più decisive esperienze che determinarono l’avanza­mento di questa scienza al di là del punto in cui essa era stata portata dai Greci furono considerate, da quelli che prima le intrapresero, non tanto come delle in­terrogazioni rivolte alla natura quanto piuttosto delle provocazioni, dei cimenti, per usare la parola divenuta poi classica, a cui essi l’assoggettavano per sfidarla a rispondere diversamente da quella che essa avrebbe dovuto. In una gran parte anzi dei casi importanti, le esperienze non si presentarono che come delle sempli­ci verifiche di conclusioni alle quali gli esperimentatori erano già arrivati indi­pendentemente da esse. Grande sarebbe stato il loro stupore se le risposte della natura non fossero state conformi alle loro anticipazioni, e tale assenza di confor­mità, allorquando si verificò effettivamente, li indusse piuttosto a domandarsi perché gli esperimenti non erano riusciti, che non a dubitare immediatamente della legittimità delle loro presunzioni. Essi sembrano perfino, talvolta essersi indotti all’esperimento più per convincere gli altri che per convincere sé stessi, e perché l’appello ai fatti era per loro, in certo modo, la linea di minor resistenza per penetrare nella dura cervice dei loro avversari, ai cui preconcetti essi non potevano contrapporre senz’altro i propri, seuza appoggiare questi a qualche base meno soggettiva di quanto non fosse la loro propria convinzione individuale.

Non sarà superfluo citare qui qualche fatto concreto in appoggio a queste con­siderazioni. Tra i molti che a tale scopo mi offrirebbe la storia della Meccanica, scelgo il seguente che ha per di più il vantaggio di presentare in chiara luce il contrasto tra l’induzione e la deduzione, com’era concepito ed espresso da Galileo. Nelle postille al libro intitolato Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco, filoso­fo peripatetico, Galilei combattendo l’opinione degli Aristotelici, che la velocità di due gravi cadenti stiano nella stessa proporzione dei loro pesi, alla quale oppo­ne la sua, che cioè tali velocità non dipendano affatto dai pesi, scrive come segue:

<Resta che io produca le ragioni che, oltre alla esperienza, confermano la mia proposizione, sebbene per assicurar l’intelletto, dove arriva l’esperienza non è necessaria la ragione, la quale io produrrà per vostro beneficio, si ancora perché prima fui persuaso dalla ragione che assicurato dal senso. Io mi formai un assioma da non esser revocato in dubbio da nessuno, e supposi, qualsivoglia corpo grave discendente aver nel suo moto grado di velocità dalla natura limitato ed in manie­ra prefisso, che il volerglielo alterare col crescere la velocità o diminuirgliela, non si potesse fare senza usargli violenza per ritardargli o concitargli il detto suo limitato corso naturale. Fermato questo discorso, mi figurai colla mente due cor­pi eguali in mole e in peso, quali fossero due mattoni, li quali da una medesima altezza in un medesimo istante si partissero; questi non si può dubitare che scen­deranno con pari velocità, cioè coll’assegnata loro dalla natura, la quale se da qualche altro mobile dee loro essere accresciuta, è necessario che questo con velocità maggiore si muova. Ma, se si figureranno i mattoni nello scendere unirsi ed attaccarsi insieme, quale sarà di loro quello che, aggiungendo impeto all’altro, gli raddoppi la velocità, stantechè ella non può essere accresciuta da un sopravveniente mobile, se con maggiore velocità non si muove? Conviene quindi concedere che il composto di due mattoni non alteri la loro prima velocità.> Dal che Galilei trae la conclusione, puramente deduttiva, che se due corpi di egual materia e di diverso peso cadono con diversa velocità, ciò non può dipendere dalle loro differenze di peso, ma tutt’al più dalla loro differenza di forma la quale fa sì che il mezzo nel quale discendono opponga diversa resistenza alla loro ca­duta.

La scoperta della legge d’inerzia ci dà un altro esempio, non meno istruttivo, d’una conquista della scienza ottenuta col predominante intervento della dedu­zione. L’impossibilità di giungere ad essa per mezzo di semplici induzioni basate sull’osservazione diretta è riconosciuta chiaramente dallo stesso Galilei, il quale si esprime in proposito colle seguenti parole:

<Io dico che nessuna cosa si muove di moto retto. Cominciamo a ricercar discorrendo. I moti di tutti i corpi celesti sono circolari; le navi, i carri, i cavalli, gli uccelli tutti si muovono di moto circolare intorno ai globo terrestre. I moti delle parti degli animali sono tutti circolari, e insomma noi ci riduciamo a non trovar altro che gravia deorsum et gravia sursum che sembrino muoversi retta­mente. Ma nè di questi siamo sicuri se prima non si dimostri che il globo terrestre sia immobile.> (Dialogo dei massimi sistemi, Giornata seconda).

È noto come a render plausibile la sua ipotesi della costanza della componente orizzontale della velocità in un grave lanciato orizzontalmente, Galileo ricorra spesso alla considerazione del piano orrizzontale come caso limite di due serie di piani inclinati in senso opposto, e sui quali quindi una palla lanciata in una data direzione tenderebbe evidentemente a muoversi con velocità rispettivamente cre­scenti o decrescenti a seconda del verso dell’inclinazione dei piani stessi. Dal che egli conclude che la detta palla, qualora fosse lanciata sul piano orizzontale, si muoverebbe con velocità nè crescente, nè decrescente. Ma egli è lungi dal farsi illusione sul valore probatorio di questa esperienza ideale in quanto essa si addu­cesse per provare quella che ora si chiama la legge d’inerzia. Egli ammette anzi senz’altro che, poichè il detto piano orizzontale non si può fisicamente distingue­re da una porzione di superficie terrestre, la quale pure gli Aristotelici ammette­vano che fosse sferica, il moto uniforme della palla su di esso è, nei limiti delle possibili osservazioni, perfettamente conforme tanto alla ipotesi formulata poi da Newton come la prima legge del moto, quanto al principio aristotelico della persistenza del moto circolare e uniforme, e della dipendenza delle velocità dei gravi dal loro allontanamento od avvicinamento al punto al quale essi tendono. La legge d’inerzia, non meno di quella dell’attrazione universale, sarebbe proba­bilmente ancora ignota agli uomini, almeno in tutta la sua generalità, se, per ana­lizzare e spiegare i fenomeni nei quali essa si manifesta, essi non avessero avuto a disposizione altro metodo che quello dell’osservazione e della misura diretta o delle semplici constatazioni sperimentali, per quanto molteplici ed accurate. La conquista di verità così importanti non poteva essere effettuata senza l’esercizio di attività mentali assai più elevate e complicate di quanto non siano i processi di paragone diretto e di generalizzazione basata sul riconoscimento di analogie, al cui rintracciamento il sussidio della deduzione non è necessario.”(33)

Il fatto è che nella storia del pensiero si sono contrapposte due concezioni o due metafisiche della scienza, del significato di verità e di spiegazione scientifi­ca, quella razionalistica dei Pitagorici, di Parmenide, di Democrito, di Galilei e di Peano, e quella empiristica, che va da Aristotele a Popper, alla scienza contem­poranea (relatività e meccanica quantistica).(34)

Delinea abbastanza bene e lucidamente le due concezioni Vailati nei seguenti brani:

“A me preme di più, per il presente proposito, richiamare l’attenzione sulle differenze che si presentano tra il concetto che Aristotele si faceva dei servigi che l’applicazione della deduzione è atta a rendere per la costituzione e l’avanzamen­to delle scienze, e le opinioni professate e adottate su questo soggetto dagli scien­ziati moderni da Galileo in poi.

Le convinzioni di Aristotele su questo argomento sembrano esser state soprat­tutto determinate dall’osservazione del modo di funzionare della deduzione nei due soli campi nei quali gli scienziati suoi predecessori e contemporanei erano riesciti a servirsene con vantaggio, cioè da una parte la Geometria, e dall’altra la Retorica, intendendo questa nel senso antico, cioè come l’arte di modificare le opinioni altrui per mezzo della parola. Sono questi due generi di applicazione che egli, nelle sue considerazioni sull’ufficio e sull’utilità della deduzione, ha conti­nuamente in vista, anche quando sembra fare da esse affatto astrazione; ed è in conseguenza di ciò che egli è portato a considerare come scopo, non solo princi­pale ma pressoché esclusivo, dell’argomentazione deduttiva l’accrescimento del­la certezza, la riduzione di ciò che è discutibile a ciò che è indiscutibile, di ciò che è dubbio a ciò che è evidente. La deduzione è per lui, anzitutto uno strumento che serve a garantire la verità di proposizioni solo probabili e plausibili, ricollegandole ad altre più sicure e meno contestabili e rendendole in certo modo partecipi della loro saldezza ed evidenza, come si fa appunto nelle dimostrazioni geometriche o nelle discussioni forensi, nelle quali ognuno cerca di corroborare le proprie asserzioni appoggiandole a degli assiomi o a delle disposizioni di legge sulle quali non si discute”

“È precisamente nella pochissima importanza data alla deduzione come mez­zo di spiegazione e di anticipazione sull’esperienza, in confronto alla grande fiducia posta in essa come mezzo di prova e di accertamento, che giace la dif­ferenza caratteristica tra le idee di Aristotele e quelle dei fondatori della scienza moderna sulla funzione della deduzione nella ricerca scientifica (il corsivo è nostro). I suoi ragionamenti sui fenomeni naturali, anche in quei casi nei quali essi, invece di esser diretti a dimostrare le conclusioni a cui portano, sono adope­rati per mettere alla prova le premesse su cui si fondano, mirano a raggiungere questo scopo più col mettere in mostra le contraddizioni e le incoerenze tra le varie affermazioni, o far vedere che esse non possono essere ammesse simultane­amente, che non con lo spingere a conclusioni non prima sospettate, e la cui veri­fica sia atta a provocare nuove osservazioni, che contribuiscano a un maggiore schiarimento, della questione di cui si tratta.”

“Ciò che gli scienziati greci (Platone ed Aristotele! Non certamente Democrito, Euclide ed Archimede, per i quali appunto la spiegazione scientifica muove da <elementi razionali>. Ma per migliori approfondimenti si veda il mio libro “Tra­dizioni di pensiero...” 1999) intendevano per spiegazione di un dato fenomeno non era tanto la sua analisi e scomposizione nelle sue parti elementari, o la determinazione delle leggi della sua produzione (il corsivo è nostro), quanto piut­tosto il suo ravvicinamento o identificazione con altri fenomeni più comuni e famigliari, i quali, appunto per tale ragione, non eccitavano in loro quel genere speciale di stupore o di meraviglia che li conduceva a domandarsi perché avve­nissero”.

“L’unico tipo di spiegazione applicabile a fenomeni appartenenti a un tale campo sarebbe allora quello che abbiamo riconosciuto come caratteristico degli stadi inferiori di sviluppo scientifico, quello cioè che consiste nel paragonare immediatamente il fatto in questione a quelli tra i fatti conosciuti col quali sem­bra presentare maggiore somiglianza e affinità, facendolo rientrare, se è possibi­le, sotto il dominio di qualche generalizzazione già effettuata o, se ciò non è possibile, registrandolo a parte, in attesa di altri fatti che gli somiglino e che permettano, in seguito, di arrivare per mezzo di un’induzione alla scoperta di qualche legge non ancora conosciuta. L’ insieme di verità indipendenti e scon­nesse, alle quali si può arrivare in tal modo, sono quelle che si designano col nome di leggi empiriche. Una scienza che fosse costituita interamente di esse presenterebbe l’aspetto di un catalogo di proposizioni generali, ognuna provata da distinti gruppi di osservazioni e di esperimenti, e nessuna delle quali sarebbe atta a servire per controllo delle altre, o per comunicare alle rimanenti la maggior certezza o attendibilità di cui eventualmente godesse.”(35)

Lo scontro tra le due concezioni della scienza, della verità, e della spiegazio­ne scientifica non era e non è neutro, tale da lasciare indifferenti, nel senso che l’una scelta vale l’altra, poichè poi ogni concezione ha la sua legittima ragione, per cui ognuno può scegliere e deve scegliere liberamente.

In verità si sceglie tra due concezioni di realtà, tra due metafisiche; se la realtà è come appare e paradigma del vero è la cosa sensibile, compito della ragione è di trasformare quello che è o appare in quello che deve essere, poichè quello che deve essere già è, ma se la realtà non è quella che appare, per cui essa va cercata oltre l’apparenza, la prova sensibile, negli elementi razionali e nelle condizioni razionali che si esprimono nelle leggi, allora immaginare di pensarli modificati significa aprirsi ad  una dimensione della realtà, come realtà dinami­ca, del possibile, del poter essere, del cambiamento.

Compito della ragione non è solo quello di <scoprire> e di <giustificare>, ma quello di <inventare> e di <progettare>.

Aprendo la dimensione del possibile, del progetto, dell’alternativa, la scienza si avvicina all’arte, all’etica, alla politica, come scienze e tecniche del possibile.

Sui rapporti «essere», «dover essere» e «poter essere», ovvero su «fatti», «valori» e «teorie» spero di soffermarmi più diffusamente in altri miei scritti successivi.

Mi piace concludere su ciò per adesso con questo splendido passo di Vailati, che si trova in una nota del suo scritto già citato:

“Questa efficacia della deduzione, come mezzo di generalizzazione, sussiste sempre, anche quando nessun caso reale abbia luogo, o si conosca, pel qual si presentino le condizioni richieste pel verificarsi dell’una o dell’altra delle pre­messe, senza che, nello stesso tempo, si verifichino anche tutte quelle che sono ulteriormente richieste per il verificarsi di ambedue, e quindi anche della conclu­sione da esse dedotta. Per spiegarmi con un esempio, se anche le leggi di Keplero avessero corrisposto ai movimenti effettivi degli astri non meno esattamente di quanto vi corrispondano i risultati che si ottengono per deduzione dalle leggi di Newton, la sostituzione di queste ultime alle prime non avrebbe perciò mancato di rappresentare un passo verso una maggior generalizzazione, in quanto che mentre le leggi di Keplero non si riferiscono che ai moti che i pianeti hanno effettivamente, quelle di Newton (anche facendo astrazione dal fatto che esse abbracciano anche il caso dei moti dei gravi alla superficie della terra) ci dicono qualche cosa anche sui moti che essi avrebbero, o avrebbero avuto se la distribu­zione iniziale delle masse e delle velocità fosse stata diversa.

Nelle scienze che hanno rapporto colla pratica, che si riferiscono cioè a fatti in parte soggetti al controllo della volontà umana, le congetture relative a ciò che avverrebbe, se si verificassero condizioni che mai si verificarono in passato, han­no tanta e, spesse volte, maggiore importanza che non le cognizioni relative a ciò che avviene, o è sempre avvenuto, in assenza di tali nuove condizioni.

È perciò che alla deduzione va attribuita una funzione assai più importante come mezzo di invenzione che non come mezzo di scoperta. La parte che le compete nelle invenzioni meccaniche è messa assai bene in luce dal Reulaux (Cinematica. Traduzione italiana del professore Colombo, pag. 22). Sono pure da consultare a questo proposito le opere del Kapp (Philosophie der Technik) e dell’Espinas (Technologie des Grecs). Analoghe considerazioni possono forse dar ragione del fatto spesse volte notato che, anche per quanto riguarda lo studio dei fenomeni sociali, i più arditi inventori e costruttore di schemi di riforme, e i critici più spietati delle teorie giustificatrici dell’istituzione e degli ordinamenti sociali effettivamente esistenti sono precisamente quelli tra gli investigatori che si distinguono per una maggiore tendenza verso l’uso, o anche l’abuso, della deduzione (per esempio Rousseau e Marx).”(36)

NOTE

1) G. Peano, Opere Scelte, Vol. II, Cremonese, Roma, 1958, pp 459-460. Il testo, tratto da De Derivatione, e tradotto, è scritto in Interlingua.    TORNA

2) Si veda a tal proposito G. Boscarino, Tradizioni di pensiero..., Mondotre - La Scuola Italica, Sortino, 1999, pp.186-l93.    TORNA

3) Ibidem  pp. l88-l90.    TORNA

4) G. Peano, op. cit., p.38l.    TORNA

5) Mondotre, n.8, 1992, p.52.   TORNA

6) Aristotele, Metafisica, IV, 7, 1011 b 26.   TORNA

7) 1 Presocratici, Laterza, Bari, B, 9.    TORNA

8) F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, vol. I, Laterza, 1971, p.l82.    TORNA

9) Aristotele, Metafisica, VI, 4, 1027b 25.   TORNA

10) Aristotele, Le categorie, 12, l4b, 17-24.    TORNA

11) T. Hobbes, Elementi di filosofia, UTET, 1972, p. 98.    TORNA

12) G. Frege, Logica e aritmetica, Boringhieri, 1965, pp.384-386.    TORNA

13) A. Tarski, La concezione semantica della verità e i fondamenti della semantica in Semantica e filosofia del linguaggio, Il Saggiatore, Milano, 1969.    TORNA

14) G. Peano, op. cit., p. 383.    TORNA

15) G. Peano, ib., p. 151.    TORNA

16) De Morgan, FormaI logic, ed. A.E. Taylor, 1926.    TORNA

17) G. Peano, Formulano Mathematico, Cremonese, Roma, 1960, p. 27.    TORNA

18) In questi, confusioni e fraintendimenti aumentano a dismisura, per non parlare della cosiddet­ta “concezione minimalistica della verità”, frutto di banalità e verbalismo filosofico. Vedi a tal proposito P. Horwich, Verità, Laterza.    TORNA

19) K. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, pp. 383-384.   TORNA

20) Nella terminologia epistemologica, qui, in parte, si fa riferimento al testo di M. Bunge, Scientific research, Springer..., 1967.   TORNA

21) K.Popper, La logica delle scienze sociali in Adorno, Popper ..., Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi, Torino, 1969, pp.l 17-118.    TORNA

22) Una banale confusione in tal senso si trova in Popper, in Congetturee confutazioni, op.cit., p.408.   TORNA

23) Purtroppo in Italia è poco conosciuta la critica decisiva e calzante di valenti filosofi ed epistemologi al falsificazionismo di Popper, come quella di A. Grünbaum, se si esclude una qual­che riflessione seria e critica di Boniolo nei confronti dello stesso.    TORNA

24) Galileo Galilei, Opere, UTET, Torino, 1964, p 944.   TORNA

25) Torricelli, Opere scelte, UTET, Torino, 1993, p. 30.   TORNA

26) C. Menger, Sul metodo delle scienze sociali, Liberilibri, Macerata, 1996, pp. 54-58. Purtrop­po questo autore da epistemologi italiani è poco capito, frainteso e distorto.   TORNA

27) Mondotre, n.9, 1993, pp.56-57.   TORNA

28) G. Vailati, Scritti, Vol.I, Firenze, 1911, p. 142.   TORNA

29) Aristotele, De caelo, II, 13.   TORNA

30) Sull’aristotelismo dell’ultimo Popper, si veda La meccanica quantistica: il reale e il possibi­le, nel mio libro, Tradizioni di pensiero..., op. cit.   TORNA

31) K. Popper, op. cit., Congetture e confutazioni, pp.379-38O.   TORNA

32) K. Popper, La logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 1990, p. 44.   TORNA

33) G. Vailati, op. cit., pp.l25-l28.  TORNA

34) Sul paradigma empiristico presente nella relatività e nella meccanica quantistica si veda G. Boscarino, Tradizioni di pensiero..., op. cit.  TORNA

35) G. Vailati, op. cit.,pp.122-123, p.l24, p.l29, p.l39.   TORNA

36) G. Vailati, op. cit., pp. 143-144.   TORNA