Sul
significato di verità,
la
scienza e la metafisica
Giuseppe
Boscarino
La verità è nel
profondo
Democrito
Abstract
In this article the meaning of truth is discussed and, following Peano’s
thought, a distinction is made between its formal meaning and its real meaning,
thus going beyond Frege’s and Tarski’s misinterpretations. We also discuss
Popper’s serious confusions about the true and false dialectic in the
theoretical-deductive systems providing ample citations from Galileo,
Torricelli, Vailati, Menger, and Notarrigo. The Pythagoreans’ rationalistic
conception of truth is discussed and considered interesting and valid from a
philosophical and epistemological viewpoint.
In più punti dei miei scritti
ho denunciato la confusione nella filosofia aristotelica tra <proprietà
formali> e <proprietà reali> dei vocaboli.
Il Peano, del significato delle
due, ne fornisce una chiara descrizione:
“Le proprietà dei vocaboli sono
reali, “de re”, se riguardano
l’oggetto ovvero l’idea indicata dal vocabolo, esse sono formali, “de forma”, se riguardano la forma di un vocabolo che
indica una qualche idea. Per esempio nelle seguenti proposizioni:
1. l’uomo è razionale,
2. uomo è bisillabo,
1. il cane ha quattro zampe,
2. cane ha quattro lettere,
1. la stella è luminosa,
2. stella è di genere
femminile,
è evidente che le proposizioni
1 esprimono proprietà reali, e le proposizioni 2 esprimono proprietà formali di
uomo, cane, stella. Ora noi siamo in
grado di dire se la proposizione “uomo,
cane, stella sono sostantivi” esprima proprietà reali o formali.
La
distinzione tra proprietà reali o formali è ben nota ai matematici. Delle due
proposizioni:
2/3 è
una frazione minore di uno,
2/3 è
una frazione irriducibile,
la prima esprime una proprietà
reale e la seconda una proprietà formale: la prima resta vera se a 2/3 noi
sostituiamo l’uguale frazione 4/6, sostituzione che, invece, falsifica la
seconda proposizione.
Si può riconoscere se la
proprietà di un nome è reale o formale, sostituendo il nome con un altro nome
equivalente della stessa lingua o di altra lingua.
Le proposizioni 1 rimangono
vere se sostituiamo a uomo, cane, stella le
voci equivalenti man, dog, astro, mentre
le proposizioni 2 non rimangono vere.
Homo in
latino è sostantivo, infatti viene declinato: homo, hominis, homini, ecc.; ed è detto sostantivo anche nelle
lingue moderne, che conservano l’antica nomenclatura, nonostante abbiano perso
la declinazione.
Ma abbiamo detto che Mùller
afferma che tale classificazione non si può applicare al semitico o al cinese.
M.Bréal, Essai de sémantique, Paris
1899, afferma: “Vi sono lingue che non distinguono le categorie”; e simili
affermazioni vengono fatte da tutti i glottologi. Risulta che la proposizione
“uomo è sostantivo e non verbo” non è vera in tutte le lingue, trattandosi qui
di proprietà formali dei vocaboli e non rea1i”.(1)
Poiché tale confusione sta a
fondamento delle grammatiche vecchie e nuove(2) denominavo la filosofia aristotelica una filosofia
di tipo grammaticale.
In verità storicamente sono
state le distinzioni grammaticali che si sono conformate alle dieci categorie
aristoteliche.
Secondo Max Müller,
infatti, The science of thought, London
1887, le categorie grammaticali derivano da Aristotele, il quale separa i
vocaboli greci in dieci classi. Le categorie di Aristotele, modificate, fuse e
suddivise hanno originato le dieci categorie grammaticali.
Pertanto scrivevo:
“Aristotele, classificando i
nomi o i vocaboli greci in dieci classi ha creduto, a partire dai nomi, di
poter classificare dieci modi di pensare e di essere della realtà, dieci
categorie.
Aristotele così facendo ha
confuso distinzioni formali o morfologiche o linguistiche con distinzioni
logiche o reali. Non è della «cosa», per esempio di «uomo», l’essere sostanza
prima o seconda, secondo la classificazione aristotelica, o se si vuole
individuo o classe, secondo la classificazione logica odierna.
Nelle due proposizioni:
1. “uomo è razionale”
2. “uomo è classe”
in 1. «uomo» è classe, sta ad
indicare una sostanza seconda, secondo la classificazione aristotelica, in 2.
<uomo> è individuo, quindi, secondo ancora la classificazione
aristotelica, sta ad indicare una sostanza prima. Ne seguirebbe stando alle
definizioni aristoteliche che
sostanza
seconda = sostanza prima o individuo = classe.
Assurdo! Seguendo la logica
grammaticale di Aristotele si cade in assurdi, poiché si confonde il
significato formale o linguistico del nome con il suosignificato logico.
Non è della «cosa» essere individuo o
classe, sostanza prima o seconda, ma della forma linguistica della «cosa».
Qualche altro esempio serve a chiarire quanto qui
viene sostenuto. Nella proposizione: 1. “uomo è mortale”, <uomo>, stando
alla definizione aristotelica, è sostanza seconda, ma nella proposizione:
“Socrate è uomo”, <uomo> è qualità di Socrate, quindi si ha:
qualità = sostanza seconda.
La distinzione aristotelica allora non è logica,
dell’idea, della cosa, ma formale o linguistica. Non è proprietà
dell’<uomo>, dell’idea di <uomo> essere sostanza seconda, ma della
sua forma linguistica.
Nasce da qui la mia definizione della logica
aristotelica come logica grammaticale, intendendo con essa, appunto quella
logica o quel modo di pensare, in cui si confondono significati reali o logici
delle parole con i loro significati formali o linguistici, come avviene nelle
distinzioni grammaticali”.(3)
La classificazione della logica odierna in logica
delle classi, dei predicati o delle proprietà, e delle relazioni nasce dalla
stessa confusione.
La distinzione «classe - proprietà» è puramente
grammaticale, linguistica, formale, non logica, cioè non ha a che fare con la
cosa, con l’idea.
Scrive Peano a tal proposito:
“Sia a
una classe, l’<esser un a> suolsi chiamare una proprietà. Sicché la differenza
tra proprietà e classe è puramente grammaticale”.(4)
Nella sua Recensione: A.N. Whitehead and B. Russel, Principia Mathematica, Opere
Scelte II, p.389, Peano fa notare come tutto il simbolismo degli autori
riguardante le relazioni sia
riconducibile al suo, cioè ad una logica delle classi, con l’introduzione delle
classi di diade e del prodotto
cartesiano.
Notarrigo fa notare poi come il famoso paradosso
di Russel “riposa sulla confusione tra proprietà formali e proprietà reali,
cioé non riconoscendo che il termine “classe” esprime solo una proprietà
formale e nessuna proprietà reale. E come affermare che “predicato è un
predicato” o che “soggetto è un soggetto”.(5)
Poiché è mia convinzione che
una serie di questioni, di equivoci e di fraintendimenti sul significato di verità
o dell’«esser vero» nasce dalla stessa confusione tra significato formale di verità e significato
reale di verità delle proposizioni, come da altre, di cui dirò, è bene
precisarli meglio riferendoci ancora in ciò a Peano, dal quale non solo possiamo
ricavare indicazioni in tal senso, ma da cui possiamo attingere la chiara
distinzione precedentemente fatta sul significato di verità, non prima però di
aver presentato una panoramica sul significato di verità in autori
significativi della nostra storia del pensiero con gli equivoci, i
fraintendimanti e le questioni ad esso connesse, di cui dicevo all’inizio.
Già agli albori del pensiero si
fronteggiano due concezioni sul significato di verità, quella empiristica e quella razionalistica, l’una possiamo dire, per
semplificazione, rappresentata da Aristotele, l’altra dai Pitagorici, da
Parmenide e da Democrito.
Per la prima il vero è il
conformarsi o l’adeguarsi del pensiero o della proposizione alla cosa
sensibile, per l’altra il vero è invece il conformarsi della cosa al pensiero, all’elemento razionale che si esprime
nella proposizione.
Scrive infatti Aristotele:
“Affermare quello che è e
negare quello che non è è il vero.”(6)
Per Democrito il vero è la
cosa, l’elemento razionale, stando alla testimonianza di Sesto Empirico, che
riporta le seguenti espressioni del filosofo:
“Nome è il dolce, nome è
l’amore, nome il caldo, nome il freddo, nome il calore, mentre veri sono gli
atomi e il vuoto.”(7)
Esprime bene la seconda
concezione, l’idealista Hegel, pur nella sua discutibile e criticabile
posizione filosofica, nel seguente brano:
“L’idea è la verità, perché la
verità è il rispondere dell’oggettività al concetto - non già che cose esterne
rispondano a mie rappresentazioni, queste sono soltanto rappresentazioni esatte
che io ho come questo individuo. Nell’idea non si tratta né di questo, né di
rappresentazioni, né di cose esterne”.(8)
Se la questione è se il vero è
il conformarsi della cosa al pensiero o del pensiero alla cosa empirica,
l’equivoco è invece se la proprietà di «esser vero» sia una proprietà della
proposizione, in quanto mero fatto linguistico o concettuale, o della cosa
empirica, significata dalla proposizione.
Aristotele oscilla nelle sue
opere sulle due posizioni, per cui una volta scrive:
“Il vero e il falso non
esistono nella cosa, ma esistono nel pensiero”(9); un’altra
volta invece scrive:
“Il discorso vero non è in
nessun modo causa dell’esistere della cosa, mentre la cosa, chiaramente, è in
qualche modo causa dell’essere vero il discorso. Che per il fatto che la cosa è
o non il discorso è detto vero o falso”.(10)
Hobbes
è invece chiaramente schierato per la prima posizione, ritenendo che il vero
sia una proprietà della proposizione in quanto tale. Scrive infatti:
“Le
voci vero, verità, proposizione vera si
equivalgono. La verità, infatti, consiste in ciò che si dice, non nella cosa:
sebbene vero si opponga ad apparente o finto, deve tuttavia riferirsi alla verità della proposizione:
infatti, l’immagine di un uomo nello specchio, cioé l’immagine riflessa, si
dice che non è un vero uomo, per il fatto che la proposizione l’immagine riflessa è uomo non è vera, giacché non si può
negare che un’immagine riflessa è una vera immagine riflessa. Né dunque la
verità è affezione della cosa, bensì della proposizione”.(11)
Insomma
Hobbes sembra così schierato con la concezione del significato empirico di
verità, poiché se il vero è della proposizione, non della cosa, poiché essa è
quella che essa è, non lasciandosi modificare dal nostro dire la verità della proposizione, resta pur sempre la cosa, che la
proposizione deve comunque rispecchiare,
senza cui non può dirsi tale, ovvero vera, il paradigma della verità.
In
verità in queste due posizioni si nasconde una serie di equivoci ed ambiguità
sul significato di proposizione e di cosa, che vanno tentati di chiarire.
I tentativi
di chiarimento di Frege e di Tarski nascondono invece la confusione da noi
denunciata.
Scrive
Frege:
“Eccoci
dunque indotti a veder il significato di
una proposizione nel suo valore di verità. Per valore di verità di una
proposizione, io intendo la circostanza che essa sia vera o falsa. Altri valori
di verità, oltre questi due, non ve ne sono; per semplicità essi verranno
chiamati senz’altro il Vero e il Falso.
Ogni
proposizione assertoria (in cui, come si è visto, ciò che interessa è il
significato delle sue parole) va dunque riguardata come un nome proprio; e il
suo significato - posto che ve ne sia uno - dovrà essere o il Vero o il Falso.
Chiunque pronunci giudizi, chiunque ritenga qualcosa come vera, anche lo stesso
scettico, deve - sia pure solo tacitamente - riconoscere questi due oggetti.
L’attribuire
il nome di oggetti ai due valori di verità può forse sembrare un’idea
arbitraria, un puro gioco di parole da cui è impossibile dedurre alcuna
conseguenza profonda. Per giustificarmi, dovrei discutere con precisione che
cosa io intenda per oggetto, analizzandone i rapporti col concetto e con la
relazione; questo mi porterebbe però troppo fuori dal tema in esame. Mi basterà
dunque aver stabilito qui chiaramente che in ogni giudizio, sia pur semplicissimo,
vi è già un trapasso dal grado del puro e semplice pensiero al grado del
significato (cioè dell’oggettivo).
Forse ci si potrebbe sentir
tentati di credere che il pensiero ed il vero non stiano fra loro nel rapporto
di senso e significato, ma nel rapporto di soggetto
e predicato. Anzi, per meglio
accentuare la cosa, qualcuno vorrà forse dire: “Il pensiero che 5
sia un numero primo è vero” invece di affermare semplicemente “5 è un
numero primo”. Ma chi analizzi un po’ da vicino la cosa, vede senza difficoltà
che la prima di queste due proposizioni non afferma nulla più della seconda.
L’asserzione della verità risiede, in entrambi i casi,
nella forma della proposizione assertoria; e pertanto, dove questa
proposizione non possegga la sua forza abituale - per esempio sulla bocca di un
attore sulla scena - lo stesso primo asserto (“Il pensiero che 5
sia un numero primo è vero”) enuncerà nulla
più che un pensiero, e precisamente l’identico pensiero contenuto nella
seconda proposizione (“5 è un numero primo”). Da ciò si deve
concludere che il rapporto fra il pensiero e il vero non può venir paragonato
al rapporto fra soggetto e predicato”.(12)
Frege chiarisce che «l’esser
vero» non è una proprietà o un predicato che si aggiunge alla proposizione come
soggetto, poiché le due proposizioni < il pensiero che 5
sia un numero primo è vero> e <5 è un numero primo> significano la
stessa cosa, nulla aggiungendo la proprietà di «esser vero» a quanto asserito
dalla semplice proposizione, come può vedersi d’altra parte dalla loro
espressione formale, utilizzando il simbolismo delle classi,
1) “«5 Î Np» è
vero” =def. “5 Î Np”
ma confonde il significato formale
di verità con il suo significato reale, poiché non si sta asserendo la verità
reale o logica di “5 Î Np”,
ma solo la sua identità linguistica formale con l’altra espressione linguistica
“«5 Î Np» è
vero”.
Non si sta avanzando con 1) di
un solo millimetro dal senso al significato, dal logico all’oggettivo, dal
piano linguistico a quello extralinguistico, sia esso empirico o concettuale.
Frege non chiarisce il
significato di proposizione o di verità, in senso formale o reale, né tanto
meno quello in cui lo usano le scienze cosiddette formali quali la logica e la
matematica, o fattuali, quale la fisica.
Si limita ad esaminare il suo
uso nel linguaggio comune o ordinario, come se fosse questo il senso in cui lo
usano le scienze empiriche alla ricerca dell’oggettivo, del reale, del vero.
Frege confonde il significato
formale di verità con il suo significato reale, Tarski confonde invece il suo
significato reale con il suo significato formale, poiché nel momento in cui
esprime la definizione di verità sotto la forma di equivalenza del tipo
2) X è
vero se e solo se p (13)
e poi
porta come esempio di equivalenza di 2)
2)’ L’enunciato
«la neve è bianca» è vero se e solo se la neve è bianca.
In realtà con la 2)’ non ha
dato che un esempio di significato reale di verità, anche se il linguaggio
comune usa fare in tal modo, ma nel linguaggio formale, della precisione, delle
scienze esatte, si cerca di sfuggire a questo equivoco, poiché la relazione di
“eguaglianza per definizione” è tra variabili linguistiche, siano variabili
individuali o di classi, o di proprietà o di relazioni, per cui si definisce un
eguaglianza non di natura logica o ideale, ma solo di oggetti linguistici.
La doppia implicazione che Tarski usa è del
linguaggio, non del metalinguaggio, dove vale “l’uguale per definizione”;
Tarski capisce che la verità in senso formale è un’affermazione del
metalinguaggio, ma poi usa un linguaggio interpretato con costanti logiche, la
doppia implicazione, ed empiriche, «neve», «bianca», ambedue con significato
reale.
Peano
definisce l’uso del concetto di verità in senso formale:
3)
«la proposizione A è vera» vale «A».(14)ma nel suo caso la proposizione è una relazione
tra variabili linguistiche, o come dice lo stesso Peano, una condizione del tipo x Î P,
dove x è un individuo e P è una classe, ma non interpretata, cioé senza
significato ideale o empirico, e il «vale» ha il significato nel linguaggio di
Peano di «uguale per definizione», che è del metalinguaggio.
Peano critica Frege,
nella recensione all’opera di questi, affermando:
<Essendo a una
proposizione, il nostro Autore (pag.9) introduce una notazione ├— a
per dire «la a è vera»; ed un’altra notazione — a per indicare
«la verità di a». Non vengo l’utilità di queste convenzioni, che non
hanno le corrispondenti nel Formulano. Invero la varia posizione che può avere
in una formula una proposizione indica completamente ciò che di essa si
afferma. Così delle nostre scritture
a, a É b, a É b. É c
la
prima dice «è vera la a», la seconda invece «da a si deduce b», la terza «se da a si deduce la b, allora è vera la c». Quest’ultima non indica la verità
di a, b, c nè di a É b,
ma solo la verità della relazione indicata fra queste proposizioni>.(15)
Peano
con la sua distinzione tra “proprietà formali” e “proprietà reali” ha chiara
la distinzione tra linguaggio - oggetto e metalinguaggio, come ha chiara la
distinzione tra il vero logico e il vero inteso in senso formale del tipo
3).
Vero in
senso logico è l’asserzione
alternativa di una proposizione P e della sua negazione, non P, cioé
4) P o non P
. = . Vero
Falso in senso logico è l’asserzione simultanea di una
proposizione e della sua negazione cioé
5) P e non P . = .
Falso
Una
teoria formale, con significato ideale o fattuale, non può avere tra i suoi
assiomi o teoremi, asserzioni del tipo 5), poiché compito di una teoria è dedurre cose vere a partire da cose vere, e
non di dedurre cose vere a partire da cose false, o di avere cose false a
partire da cose vere.
La
nozione di proposizione vera, in senso reale, sta al di fuori del campo della
logica.
Giustamente
il De Morgan scriveva:
«Non è
compito della logica il determinare quali conclusioni sono vere o false (noi aggiungiamo quali premesse sono vere o
false), ma il riconoscere se quelle che sono dette conclusioni sono
veramente tali.»(16)
Dal
punto di vista della logica allora non è possibile dire che «zero è un numero»,
in simboli « 0ÎN »,
sia una proposizione vera, mentre è sempre vera la proposizione «zero è un
numero o zero non è un numero».
Peano nella sua teoria
assiomatica dei numeri(17) assume
la proposizione 0 Î N0 come formalmente vera
secondo 3), ma nel momento in cui concepisce i numeri, negli altri scritti,
come rapporti tra grandezze, e ne concepisce una esistenza ideale, allora
interpreta la proposizione 0 Î N0 come realmente
vera.
E nel
momento dell’interpretazione, ideale o fattuale, della teoria deduttiva, che si
esce fuori dal linguaggio, dalla scienza, e si va alle metafisiche o alle filosofie,
che ne stanno alla base, ma di ciò più avanti.
Benché
Peano abbia chiare queste distinzioni ed abbia in modo assolutamente rigoroso
definito o chiarito il significato formale di verità, eppure non viene mai
ricordato o citato su queste problematiche, specie sul concetto di verità,
facendosi esclusivo riferimento o a Frege o a Tarski, cioé a qualcosa di
confuso o di poco chiaro, come abbiamo visto.
Ironia
della sorte!
La
confusione sul significato di verità aumenta con gli epigoni di questi
pensatori.(18)
Popper
capisce che le scienze empiriche o fattuali usano secondo un loro criterio il concetto di verità, ma nel
momento in cui cerca di interpretare l’equivalenza tarskiana 3) X è vero se e
solo se p, nel modo seguente:
6)
L’asserto < la neve è bianca> corrisponde ai fatti se, e soltanto se, la
neve è effettivamente bianca;
adducendo le seguenti motivazioni:
“Il maggiore risultato di
Tarski, e il reale significato della sua teoria per la filosofia e per le
scienze empiriche, sta nel fatto che egli riabilitò la teoria della verità
assoluta o oggettiva, intesa come corrispondenza, che era diventata sospetta”...
“Il carattere altamente
intuitivo delle idee di Tarski emerge con maggiore evidenza (come ho
riscontrato nell’insegnamento) se prima stabiliamo esplicitamente di
considerare <verità> come sinonimo di corrispondenza ai fatti”(19),
non capisce che la
definizione tarskiana è tesa a cogliere il significato formale di verità
(quindi né logico né empirico) così come usato dalle scienze formali, non interpretate, o seminterpretate, cioé con significato
reale unicamente razionale.(20)
Questo significato formale
non ha niente a che fare con il significato
logico o reale di verità nel modo in cui lo usano le scienze reali, che fanno
riferimento o a oggetti ideali o a oggetti fattuali, quali la logica, la
matematica, la fisica, ecc...
È
questa confusione che lo porta poi a conclusioni errate sul significato di confutazione di una teoria
considerata vera o sul ruolo della logica nella scoperta del significato
del concetto di verità, come emerge dai seguenti brani:
“Ciò
che cerchiamo, scrive Poppcr, di mostrare quando critichiamo una teoria è,
naturalmente, che la sua pretesa di verità non è giustificata - che essa è
falsa...
Chiamiamo
<vera> un’asserzione se essa coincide con i fatti o corrisponde ai fatti
o se le cose sono tali quali l’asserzione le presenta. E il concetto cosiddetto
assoluto o oggettivo della verità, che ognuno di noi continuamente usa. Uno dei
più importanti risultati della logica moderna consiste nell’aver riabilitato
con pieno successo questo concetto assoluto di verità...
Vorrei
indicare nella riabilitazione del concetto di verità da parte del logico e
matematico Alfred Tarski il risultato filosoficamente più importante della
logica matematica moderna”.(21)
Ho
avuto modo già di dire come il vero
logico non ha assolutamente niente a che fare con la verità della
proposizione, né il vero formale con
il vero reale, cioè con le proposizioni
che vogliano parlare con <verità> delle cose ideali o empiriche, dei
fatti.
Una
teoria formale è per definizione inconfutabile, poiché le sue proposizioni primitive, per la
definizione del tipo 3), sono assunte come vere; le regole d’inferenza della logica
trasmettono la verità formale alle
conclusioni o ai teoremi della teoria, ma niente possono dire sulla verità o
falsità reale delle proposizioni primitive o degli assiomi.
Un
modello che interpreta gli assiomi
della teoria, tranne uno, non dimostra la falsità della teoria, ma solo
l’indipendenza dell’assioma dagli altri assiomi, poiché esso può essere vero,
in senso reale, in un altro modello.(22)
Lo
stesso dicasi della sua inconfutabilità per una teoria formale idealmente interpretata, cioé che faccia riferimento
non solo ad enti linguistici, ma anche ad enti idealizzati, costruiti
razionalmente a partire da proprietà fisiche, astratte dagli oggetti sensibili
o fenomenici.
Hanno
scritto parole mirabili a tal proposito i padri della scienza moderna Galilei e
Torricelli, ma anche altri grandi scienziati e acuti epistemologi e metodologi
della scienza, quali Menger e Notarrigo, pur distanti nelle loro posizioni
scientifiche e filosofiche, sulla dialettica del vero e del falso nei sistemi
deduttivi seminterpretati.
Con
queste si fa piazza pulita di molti equivoci e superficialità
dell’epistemologia popperiana sul significato di falsificazione delle teorie
scientifiche.(23)
Galilei: «Io argomento ex
suppositione, figurandomi un moto, verso un punto, il quale partendosi
dalla quiete vadia accelerandosi, crescendo la sua velocità con la medesima
proporzione con la quale cresce il tempo, e di questo tal moto io dimostro
concludentemente molti accidenti; soggiungo poi, che se l’esperienza mostrasse
che tali accidenti si ritrovassero verificarsi nel moto dei gravi naturalmente
discendenti, potremmo senza errore affermare questo essere il moto medesimo
che da me fu definito e supposto; quando che no, le mie dimostrazioni,
fabbricate sopra la mia supposizione, niente perdevano della sua forza o
concludenza; sì che come niente pregiudica alle conclusioni dimostrate da
Archimede circa la spirale il non ritrovarsi in natura mobile che in quella
maniera spiralmente si muova».(24)
Torricelli: «che i principi della dottrina de motu siano veri o falsi a me importa
pochissimo. Poiché se non sono veri, fingasi che siano veri conferme abbiamo
supposto, e poi prendansi tutte le altre specolazioni derivate da essi
principi, non come così miste, ma pure Geometriche. Io fingo o suppongo che
qualche corpo o punto si muova all’ingiù e all’insù con la nota proporzione ed
orizzontalmente con moto equabile. Quando questo sia, io dico che seguirà
tutto quello che ha detto il Galilei, ed io ancora. Se poi le palle di piombo,
di ferro, di pietra, non osservano quella supposta proporzione, suo danno, noi
diremo che non parliamo di esse».(25)
Menger: «Niente è più sicuro del fatto che i risultati della
ricerca esatta, misurati col metro del realismo, appaiono insufficienti e
antiempirici in tutti gli àmbiti del mondo fenomenico, compreso quello
economico. Ma ciò è ovvio, se i risultati della ricerca esatta in tutti i campi
del mondo fenomenico risultano veri soltanto in base a determinati presupposti
che non sempre s’incontrano nel mondo reale. Verificare le teorie economiche
esatte nella piena empirìa è un contro-senso metodologico, un disconoscimento
dei fondamenti e presupposti della ricerca esatta, e dei particolari scopi
delle scienze esatte.
Voler mettere alla prova la
pura teoria economica tramite l’esperienza nella sua piena realtà è un
procedimento analogo a quello di un matematico che volesse legittimare i
principi della geometria per mezzo della misurazione di oggetti reali, senza
riflettere sul fatto che questi ultimi non sono identici alle grandezze
supposte dalla geometria pura, e che ogni misurazione contiene in sé necessariamente
elementi di imprecisione. Il realismo nella ricerca teorica non è qualcosa di
superiore rispetto all’indirizzo esatto, ma solo qualcosa di diverso.
I risultati dell’indirizzo
realistico hanno con l’empiria un rapporto sostanzialmente diverso da quello
dei risultati della ricerca esatta. Essi si basano sull’osservazione dei
fenomeni nella loro “empirica realtà” e complessità, e la pietra di paragone
per la loro verità è perciò sempre l’empirìa. A una legge empirica manca fin
da principio, cioè già in base ai suoi presupposti metodologici, la garanzia di
una validità senza eccezioni: essa constata certe regolarità nella successione
e coesistenza dei fenomeni senza alcuna pretesa di necessarietà. Ciò detto,
essa deve però accordarsi con la piena realtà empirica dalla cui considerazione
è sorta, altrimenti diviene falsa e senza valore. Ma voler trasferire questo
principio ai risultati della ricerca esatta è un controsenso, un
disconoscimento dell’importante differenza fra ricerca esatta e ricerca
realistica. Combattere tale posizione è stato il compito principale
dell’indagine precedente.
Pur constatando questo fatto,
siamo tuttavia ben lontani dal negare che sarebbe quanto di più desiderabile
poter raggiungere conoscenze esatte che
concordassero nello stesso tempo con la piena realtà empirica nel senso qui
datole; oppure, ciò ch’è essenzialmente lo stesso, che le conoscenze empiriche
mostrassero anche i meriti di quelle esatte. La conoscenza umana, la previsione
e il dominio dei fenomeni ne sarebbero grandemente favoriti e semplificati. Ciò
che qui cerchiamo di chiarire è l’irraggiungibilità di questa situazione
ideale sulla base delle condizioni di fatto che il mondo dei fenomeni reali di
regola offre.
Qui si tratta di un
errore profondamente radicato fra gli economisti tedeschi, e nello stesso tempo
di una materia sulla quale c’è ben poca chiarezza anche fra i migliori Autori
stranieri. Perciò, cercheremo di chiarire il rapporto fra i risultati dei due
indirizzi nel campo della nostra scienza per mezzo di un esempio, che spiegherà
contemporaneamente anche le cause della confusione che regna su
quest’argomento.
La ricerca esatta nel campo dei
prezzi ci insegna che in un dato settore del mercato un certo incremento della
richiesta di una merce (sia a causa di un incremento della popolazione, sia
della comparsa di una maggiore intensità della richiesta di quella merce nei
singoli soggetti economici) conduce, sulla base di certi presupposti, a un incremento esattamente misurabile dei
prezzi. Tali presupposti, evidenti in ogni esposizione ordinata di
economia teorica, sono i seguenti:
1) tutti i soggetti economici
si sforzano di percepire il proprio interesse economico in maniera completa;
2) essi lottano per la determinazione del prezzo, ben conoscendo il fine da perseguire
e i mezzi più adeguati al suo raggiungimento; 3) essi conoscono la situazione
economica, almeno per quanto essa influisce sulla formazione del prezzo; 4)
essi non subiscono alcuna costrizione esterna in grado di pregiudicare la loro
libertà economica (ossia il perseguimento dei loro interessi economici).
È ovvio che nell’economia reale
questi presupposti si ritrovano tutti insieme solo in rari casi, e che perciò i
prezzi reali si discostano in misura variabile dai prezzi economici (corrispondenti alla situazione economica). Gli uomini si
sforzano soltanto raramente, nella prassi economica, di percepire in modo completo il proprio interesse
economico: considerazioni di vario genere, prima di tutto l’indifferenza verso
interessi economici di poca importanza, la benevolenza verso altri, e così
via, li inducono nell’azione a non badare affatto, o a badare in maniera
incompleta, al proprio interesse economico. Inoltre, spesso sbagliano o non
hanno chiari i mezzi per raggiungere il fine economico, e conoscono poco o
nulla della situazione economica sulla base della quale sviluppano la propria
azione. Infine, la loro libertà economica è spesso pregiudicata da circostanze
d’ogni genere. Una data situazione economica favorisce soltanto in un numero
irrisorio di casi i prezzi economici dei
beni: il più delle volte i prezzi reali sono
diversi da quelli economici.
È però vero, e anche
chiaro, che nel precedene caso tipico il reale accresciuto bisogno di una merce
non necessariamente causerà un incremento reale dei prezzi perfettamente
corrispondente alla mutata situazione economica, anzi a volte non darà luogo
proprio a nessun incremento. La legge secondo cui l’accresciuto bisogno di una
merce comporta un aumento dei prezzi, vale a dire secondo cui all’incremento
del bisogno corrisponde un incremento dei prezzi della stessa misura, è
pertanto falsa (ossia irreale) se paragonata alla realtà nella sua piena complessità.
Ma ciò cos’altro prova, se non che i risultati della ricerca esatta non trovano
la loro pietra di paragone nell’esperienza? Infatti,
nonostante ciò, quella legge è vera, innegabilmente vera, e di grandissimo
valore per la comprensione teorica del fenomeno dei prezzi, non appena la si
consideri soltanto secondo presupposti conformi alla ricerca esatta. Se la si
considera invece dal punto di vista della ricerca realistica, si giungerà a una
contraddizione: ma l’errore non sta
nella legge, bensì nell’errato modo di considerarla (il corsivo è nostro).
Ora, se cercassimo di
raggiungere un’analoga legge a partire dal punto di vista realistico, è chiaro
a ogni economista esperto ch’essa sarebbe palesemente simile all’altra. E noto
che l’aumento della domanda di una merce comporta di regola (se non sempre) un
incremento del suo prezzo. Questa legge “empirica” mostra però, nonostante la
sua somiglianza, una fondamentale differenza rispetto all’altra, una
differenza ben più istruttiva di quanto lasci suppone l’esteriore somiglianza
fra le due leggi. La legge esatta significa che, dati certi presupposti, a un determinato incremento del bisogno
deve seguire un altrettanto determinato aumento dei prezzi. La legge empirica
significa invece che a un aumento del bisogno, segue di regola un aumento dei
prezzi reali, ovvero un aumento che di regola sta in un certo rapporto con
l’aumento del bisogno, anche se non esattamente determinabile. La prima legge
vale in ogni tempo e luogo in cui si presenti un traffico di beni; la seconda
ammette eccezioni già in un luogo determinato, e può essere scoperta solo
tramite l’osservazione, essendo diversa in ogni mercato la misura dell’influenza della domanda sui prezzi.
Non a caso abbiamo scelto un
esempio nel quale legge esatta e legge empirica mostrano una somiglianza
esteriore, per far meglio risaltare l’invece profonda differenza fra i due
modelli di conoscenza teorica. Sarebbe facile dimostrare che in numerosi altri
casi i due tipi di legge presentano differenze già nella forma esteriore, ed è
perciò evidente che esse non sono assolutamente interscambiabili, e ancor meno
che possono essere verificate ricorrendo a identici presupposti.
Quelli che giudicano i
risultati dell’indirizzo esatto in economia col metro del realismo empirico e
dei suoi risultati teorici, dimenticano il fatto decisivo che l’economia esatta
ha per sua natura il compito di farci conoscere le leggi economiche.
Viceversa la dottrina economica
empirico-realistica deve renderci consapevoli delle regolarità nella
successione e nella coesistenza dei fenomeni reali dell’economia umana (che
nella loro “piena realtà empirica” contengono numerosi elementi non economici).
Voler
verificare (o falsificare, aggiungiamo noi) la
validità delle leggi economiche esatte con la loro congruenza alle leggi
empiriche, significa pertanto rinnegare i più elementari fondamenti della
metodologia scientifica. Tale procedimento sarebbe paragonabile a quello di
uno scienziato naturale che volesse verificare e legittimare le leggi della
fisica, della chimica e della meccanica, tramite le leggi empiriche dei
fenomeni naturali, o che, peggio ancora, volesse far lo stesso con i risultati
della ricerca esatta di un Newton, di un Lavoisier o di un Helmholtz,
ricorrendo agli altrimenti utilissimi criteri rintracciabili negli scritti
destinati ai contadini, col pretesto che si basano su un’esperienza
millenaria!”(26)
Notarrigo: “Se guardiamo ai grandi
scienziati antichi di lingua greca, con l’ausilio della “logica matematica” del
Peano, possiamo accettare una proposta del Lakatos: “la verità si propaga solo
verso l’alto, la falsità si propaga solo verso il basso”.
In
altre parole, se asseriamo un certo numero di proposizioni di base, logicamente
indipendenti, e, a partire da esse, formiamo tutte le possibili proposizioni
col solo uso della “disgiunzione inclusiva” e della “negazione”, formeremo un
reticolo di inclusioni (secondo la definizione matematica di reticolo). Se in
basso poniamo la proposizione “assurda”, al primo livello le <proposizioni
base> (gli <atomi> del reticolo), e ai livelli superiori tutte le
proposizioni derivate, fino ad arrivare alla proposizione <banale> che è
implicata da ogni proposizione del reticolo, è chiaro che l’asserzione delle
proposizioni di base assicura la verità di tutte le proposizioni di livello
superiore, ma la verità di una proposizione di livello superiore niente ci può
dire sulla verità delle proposizioni di livello inferiore. Per la falsità il
cammino è proprio l’inverso: la falsità di una proposizione di livello
superiore ci assicura la falsità di almeno una delle proposizioni di base.
Ma, in
ogni caso, niente possiamo dire sulla verità o falsità delle proposizioni di
base, con nessuna verifica empirica.
Da questo discende che le
proposizioni di base devono essere vere indipendentemente da qualunque
criterio deduttivo. E, poiché non è possibile dimostrare la coerenza interna
di un sistema deduttivo, bisogna che le proposizioni di base devono avere un
modello concreto direttamente verificabile con semplicissime operazioni
fisiche <elementari>, gli stessi assiomi della logica devono obbedire a
tale criterio”.(27)Il
problema del vero, inteso in senso fattuale o empirico, come corrispondenza di
idee o proposizioni a fatti, sorge quando si vuole parlare del mondo, assunto
come esterno al soggetto conoscente, con «verità».
Un fatto o sarebbe meglio dire una proposizione che descrive un fatto, non
deducibile dalla teoria o in contrasto con una proposizione deducibile dalla
teoria, secondo Popper, costringe questa a correggersi o a negarsi a favore di un’altra teoria più
verosimile.
Per Popper il falso si
trasmette dalle conclusioni alle premesse, non invece la verità dalle premesse
alle conclusioni. Un fatto in contrapposizione con una proposizione dedotta
dalla teoria rende falsa la proposizione, la quale trasmette la sua falsità
alla teoria, che pertanto va abbandonata.
Popper fa una grande confusione, oltre quella denunciata, ma pone un problema
vero, e cioé come si trasmette il vero e il falso nelle teorie
ipotetico-deduttive a carattere fattuale, dalle premesse alle conclusioni e
viceversa.
Intanto Popper non chiarisce
cosa sono i «fatti», poiché la teoria
non si confronta con i fatti, ma con “proposizioni che descrivono fatti”, le
quali non descrivono i fatti empirici, sensibili,
che sono confusi, complessi e caotici, ma
aspetti determinati scelti e selezionati da essi, che sono appunto i «fatti» di
una determinata scienza.
Insomma i «fatti scientifici» sono schemi, semplificazioni del fatto complesso,
idealizzazioni, che solo in rari casi
corrispondono ai «fatti empirici», poiché in quelle si considerano certe
variabili, mentre altre ne vengono scartate o trascurate.
E grazie ad un modello della teoria, interpretata in
base a precise regole di corrispondenza che
proposizioni teoriche ne
seguono, ma anche le proposizioni
fattuali sono proposizioni interpretate in base ad un modello, con
regole di corrispondenza.
Affinché la proposizione fattuale
(p.f.) confuti la proposizione teorica (p.t.), l’una p.f. deve avere carattere
singolare, l’altra, la p.t., deve avere carattere universale.
La proposizione teorica, a
carattere universale, ogni A è B, dedotta
formalmente in base alle regole della logica e alle regole di corrispondenza,
non può che essere necessariamente vera, come
deve essere necessariamente vera qualunque proposizione singolare da essa
deducibile, poiché non può esistere un x tale che sia A e non sia B, se è vera
«ogni A è B».
Se vale per qualunque corpo che
cade, la legge di Galilei, s = 1/2 g t2, essa vale anche per questa
pietra, che cade, che è un corpo. Eppure se vado a provare, constato che la
legge non vale empiricamente. Questo succede perché il fatto empirico non è il fatto
formalmente deducibile. Per questo la scienza fisica non abbandona la
verità della legge di Galilei, ma prende atto che il fatto empirico non
corrisponde al fatto formale, per cui escogita l’esperimento, una situazione
artificiale la più possibile simile al modello teorico. Qui la legge viene
verificata, entro i limiti dell’errore sperimentale.
Che dire a questo punto?
Dalla caduta della singola
pietra non si apprende alcuna verità, alcuna legge, resta certa la verità formale della legge, come la sua verità reale, verificata attraverso
l’esperimento, anche se di una verità reale, non visibile direttamente, mentre
non acquista verità empirica la
proposizione universale, divenendo falsa, ma essa è stata falsificata in base
ad un altro modello fisico, possibilmente
più ricco e più complesso.
Allora nessuna teoria scientifica o teoria
ipotetico-deduttiva è confutabile né da modelli né tanto meno da esperimenti, a
livello formale.
Gli esperimenti o le osservazioni possono solo
confutare, a livello reale, fattuale o empirico, i modelli, mai le teorie.
Nel caso di un accordo tra la
proposizione teorica universale formalmente dedotta e la proposizione fattuale
singolare per cui l’una è formalmente
vera, mentre l’altra è fattualmente
vera, la teoria deduttiva aggiunge
verità formale alla proposizione singolare, ricevendo da questa la sua parte di verità reale, mentre la
teoria deduttiva le trasmette tutta la
sua verità reale.
Ha descritto bene la dialettica
del vero e del falso nelle teorie deduttive, Vailati, discepolo di Peano, come
già Notarrigo nel passo già citato.
Scrive Vailati:
“L’estendersi del campo
d’azione del ragionamento deduttivo è da considerarsi come desiderabile e
corrispondente a un effettivo progresso delle scienze in cui ha luogo.
Tra
questi vantaggi ve n’è uno sul quale ho avuto già abbastanza occasione di
insistere, quando accennai alle opinioni di Aristotele sulla funzione della
deduzione come strumento di prova, e sul quale quindi non mi fermerò che
quanto è necessario per distinguerlo dai rimanenti. Tale vantaggio consiste nel
reciproco controllo che le proposizioni legate per mezzo della deduzione sono
poste in grado di esercitare le une sulle altre, e nel vicendevole appoggio che
esse vengono così a prestarsi, mettendo in certo modo in comune la forza
complessiva di tutti i fatti e di tutte le verifiche di cui ciascuna di esse
dispone in particolare. Allo stesso modo come in uno stato bene ordinato, un
torto o un’ ingiustizia, patita dall’ultimo dei cittadini, è risentita con non
minore intensità e rimediata con non minore energia, che se di essa fosse stata
vittima la persona più influente o facoltosa, così in una scienza ordinata
deduttivamente, non c’è proposizione, per quanto complicata e laboriosamente
ottenuta, che sia meno protetta contro il dubbio e le contestazioni di quanto
lo siano le proposizioni più evidenti e primitive che figurano nella
trattazione, purché, s’intende, si faccia astrazione dagli eventuali errori
materiali di calcolo di cui la probabilità può essere facilmente resa inferiore
a qualunque grado praticamente assegnabile. In tali scienze nessun fatto o
notizia può essere ritenuto sufficiente a infirmare la verità d’una
proposizione dimostrata, se quel fatto o quella notizia non hanno tal peso, non
solo da poter scuotere la fiducia che si ripone nella proposizione a cui essi
sembrano contraddire direttamente, ma anche da costringerci a modificare o
abbandonare come insostenibile una almeno delle proposizioni fondamentali di
cui ci possiamo servire per dimostrarla”.(28)
La proposizione singolare
fattuale, che falsifica la proposizione universale, riceve la sua verità
dall’esperienza, ma da una porzione di
esperienza, la teoria invece ha trasmesso tutta la sua verità formale delle sue proposizioni alla proposizione
universale, mentre ha corroborato la
proposizione singolare formale, che da essa segue, di tutta la sua verità reale.
Ecco perché il razionalista è più propenso a
forzare i fatti empirici per conformarli ai fatti formali, alla teoria, che
non la teoria ai fatti, a conformare la cosa al concetto, che il concetto alla
cosa.
L’empirista Aristotele così
criticava il razionalismo dei Pitagorici, ai quali dobbiamo tante scoperte nei
vari campi delle scienze (matematica, astronomia, acustica, ecc.), mentre
nessuna ad Aristotele.
“Essi (i Pitagorici) ricercano
la ragione e la causa non riportandosi a ciò che èoggetto di osservazione, ma
piuttosto riconducendo a forza i fenomeni a certe loro ragioni ed opinioni, e
tentando in questo modo di armonizzarli e condurli ad un tutto ordinato.(29)
Popper, in fondo, è un
empirista, un aristotelico(30),
poiché sottovaluta il momento della elaborazione e dello sviluppo del sistema
deduttivo, e l’aspetto razionale, idealizzazionale
nella costruzione degli <elementi>
del sistema deduttivo e quindi della <spiegazione
scientifica>.
Scrive infatti sui sistemi
deduttivi:
“Non è il meraviglioso
concatenamento deduttivo del sistema che rende razionale o empirica una
teoria, bensì il fatto che possiamo esaminarla criticamente, cioé sottoporla a
tentativi di confutazione che includono i controlli osservativi; e inoltre il
fatto che, in certi casi, una teoria può rivelarsi capace di sostenere queste
critiche e questi controlli, fra cui alcuni ai quali non ressero le teorie
precedenti, e, talvolta controlli ulteriori e più severi. La razionalità della
scienza risiede nella scelta razionale della nuova teoria, piuttosto che nello
sviluppo deduttivo delle stesse”.(31)
E sul significato di <spiegazione scientifica> scrive
inoltre:
“Dare
una spiegazione causale di un evento
significa dedurre un’asserzione che la descrive usando come premesse della
deduzione una o più leggi universali, insieme
con alcune asserzioni singolari dette condizioni
iniziali”. (32)
In
contrapposizione si possono leggere questi acutissimi passi del Vailati, che di
storia della scienza certamente se ne intendeva, sulla funzione critica, antidogmatica e creativa dei
sistemi deduttivi, razionalmente costruiti, nella crescita della conoscenza scientifica.
“La
storia delle scienze ci mostra chiaramente che, tra le cause che hanno condotto
gradualmente alla sostituzione dei moderni metodi sperimentali al posto degli
antichi metodi di semplice osservazione
passiva, va annoverata, come una delle più importanti, l’applicazione della
deduzione anche a quei casi nei quali le proposizioni prese come punto di
partenza erano considerate come più bisognevoli di prova che non quelle a cui
si arrivava, e nei quali quindi erano queste ultime che dovevano comunicare,
alle congetture fatte, la certezza che
attingevano direttamente dal confronto coi fatti e dalle verifiche
sperimentali. L’impossibilità di trovare, nei fatti spontaneamente
presentantisi all’osservazione, il materiale adeguato per la verifica delle
conclusioni a cui spingevano deduzioni che, per quanto corrette e rigorose,
non erano basate su premesse riconosciute per sè stesse meritevoli di fiducia
incondizionata, come quelle dei matematici, fece nascere il desiderio e il
bisogno di allargare con artifici la sfera dei fatti da utilizzare per
controllo delle teorie, e contribuì, più di qualunque altra circostanza, a portare
all’impiego sistematico di quell’osservazione di fatti artificialmente
provocati allo scopo di osservarli, che costituisce l’esperimento propriamente
detto. In altre parole, i fisici antichi non si sentivano spinti a sperimentare
soprattutto perché, essendo più intenti a garantirsi della certezza delle proposizioni
da cui prendevano le mosse che non della verità di quelle che da esse
deducevano, non potevano aver ragione di domandarsi che cosa avvenisse in casi
diversi da quelli che, presentandosi spontaneamente alla loro osservazione, suggerivano
ad essi immediatamente le generalizzazioni su cui basavano i loro ragionamenti.
Onde è lecito affermare, che fu in certo senso l’applicazione sempre più vasta
e sistematica della deduzione allo studio dei fenomeni della natura, che fornì
il primo impulso allo sviluppo dei metodi sperimentali moderni, e che non è da
attribuire al caso se i più eminenti iniziatori di questi furono anche nello
stesso tempo i più grandi instauratori e fautori dell’applicazione alle scienze
fisiche di quel potente strumento di deduzione che è la matematica.
Quella
qualità mentale che a ragione fu designata come la più preziosa e necessaria
per bene osservare, l’attitudine cioè a meravigliarsi a proposito, esige, come
condizione indispensabile al suo sviluppo, la disposizione a confrontare coi
fatti tutte le conseguenze, anche remote e artificiose, dei nostri preconcetti.
Senza questa disposizione noi non riusciamo a distinguere, nell’immenso caos di
fatti accessibili alle nostre esplorazioni, quali sono quelle il cui esame o la
cui constatazione può determinare delle modificazioni importanti alle nostre
credenze (gli experimenta crucis di
Bacone), od allargare realmente la sfera delle nostre cognizioni.
Non è forse stato abbastanza
notato, da quelli che si occuparono di storia della Meccanica, che le prime e più decisive esperienze che determinarono
l’avanzamento di questa scienza al di là del punto in cui essa era stata
portata dai Greci furono considerate, da quelli che prima le intrapresero, non
tanto come delle interrogazioni rivolte
alla natura quanto piuttosto delle provocazioni, dei cimenti, per usare la parola divenuta poi classica, a cui essi
l’assoggettavano per sfidarla a rispondere diversamente da quella che essa avrebbe
dovuto. In una gran parte anzi dei casi importanti, le esperienze non si
presentarono che come delle semplici verifiche di conclusioni alle quali gli
esperimentatori erano già arrivati indipendentemente da esse. Grande sarebbe
stato il loro stupore se le risposte della
natura non fossero state conformi alle loro anticipazioni,
e tale assenza di conformità, allorquando si verificò effettivamente, li
indusse piuttosto a domandarsi perché gli esperimenti non erano riusciti, che
non a dubitare immediatamente della legittimità delle loro presunzioni. Essi
sembrano perfino, talvolta essersi indotti all’esperimento più per convincere
gli altri che per convincere sé stessi, e perché l’appello ai fatti era per
loro, in certo modo, la linea di minor
resistenza per penetrare nella dura cervice dei loro avversari, ai cui
preconcetti essi non potevano contrapporre senz’altro i propri, seuza
appoggiare questi a qualche base meno soggettiva di quanto non fosse la loro
propria convinzione individuale.
Non sarà superfluo citare qui
qualche fatto concreto in appoggio a queste considerazioni. Tra i molti che a
tale scopo mi offrirebbe la storia della Meccanica, scelgo il seguente che ha
per di più il vantaggio di presentare in chiara luce il contrasto tra
l’induzione e la deduzione, com’era concepito ed espresso da Galileo. Nelle
postille al libro intitolato Esercitazioni
filosofiche di Antonio Rocco, filosofo peripatetico, Galilei combattendo
l’opinione degli Aristotelici, che la velocità di due gravi cadenti stiano nella
stessa proporzione dei loro pesi, alla quale oppone la sua, che cioè tali
velocità non dipendano affatto dai pesi, scrive come segue:
<Resta che io produca le ragioni che, oltre alla esperienza, confermano la mia
proposizione, sebbene per assicurar l’intelletto, dove arriva l’esperienza non è necessaria la ragione, la quale io produrrà per vostro
beneficio, si ancora perché prima fui
persuaso dalla ragione che assicurato dal senso. Io mi formai un assioma da
non esser revocato in dubbio da nessuno, e supposi,
qualsivoglia corpo grave discendente aver nel suo moto grado di velocità
dalla natura limitato ed in maniera prefisso, che il volerglielo alterare col
crescere la velocità o diminuirgliela, non si potesse fare senza usargli
violenza per ritardargli o concitargli il detto suo limitato corso naturale.
Fermato questo discorso, mi figurai colla mente due corpi eguali in mole e in
peso, quali fossero due mattoni, li quali da una medesima altezza in un
medesimo istante si partissero; questi non si può dubitare che scenderanno con
pari velocità, cioè coll’assegnata loro dalla natura, la quale se da qualche
altro mobile dee loro essere accresciuta, è necessario che questo con velocità
maggiore si muova. Ma, se si figureranno i mattoni nello scendere unirsi ed
attaccarsi insieme, quale sarà di loro quello che, aggiungendo impeto
all’altro, gli raddoppi la velocità, stantechè ella non può essere accresciuta
da un sopravveniente mobile, se con maggiore velocità non si muove? Conviene
quindi concedere che il composto di due mattoni non alteri la loro prima
velocità.> Dal che Galilei trae la conclusione, puramente deduttiva, che se
due corpi di egual materia e di diverso peso cadono con diversa velocità, ciò
non può dipendere dalle loro differenze di peso, ma tutt’al più dalla loro
differenza di forma la quale fa sì che il mezzo nel quale discendono opponga
diversa resistenza alla loro caduta.
La scoperta della legge
d’inerzia ci dà un altro esempio, non meno istruttivo, d’una conquista della
scienza ottenuta col predominante intervento della deduzione. L’impossibilità
di giungere ad essa per mezzo di semplici induzioni basate sull’osservazione
diretta è riconosciuta chiaramente dallo stesso Galilei, il quale si esprime in
proposito colle seguenti parole:
<Io dico che nessuna cosa si
muove di moto retto. Cominciamo a ricercar discorrendo. I moti di tutti i corpi
celesti sono circolari; le navi, i carri, i cavalli, gli uccelli tutti si
muovono di moto circolare intorno ai globo terrestre. I moti delle parti degli animali
sono tutti circolari, e insomma noi ci riduciamo a non trovar altro che gravia deorsum et gravia sursum che
sembrino muoversi rettamente. Ma nè di questi siamo sicuri se prima non si
dimostri che il globo terrestre sia immobile.> (Dialogo dei massimi sistemi, Giornata seconda).
È noto come a render plausibile la sua ipotesi della costanza della
componente orizzontale della velocità in un grave lanciato orizzontalmente,
Galileo ricorra spesso alla considerazione del piano orrizzontale come caso
limite di due serie di piani inclinati in senso opposto, e sui quali quindi una
palla lanciata in una data direzione tenderebbe evidentemente a muoversi con
velocità rispettivamente crescenti o decrescenti a seconda del verso
dell’inclinazione dei piani stessi. Dal che egli conclude che la detta palla,
qualora fosse lanciata sul piano orizzontale, si muoverebbe con velocità nè
crescente, nè decrescente. Ma egli è lungi dal farsi illusione sul valore
probatorio di questa esperienza ideale in quanto essa si adducesse per provare
quella che ora si chiama la legge
d’inerzia. Egli ammette anzi senz’altro che, poichè il detto piano
orizzontale non si può fisicamente distinguere da una porzione di superficie
terrestre, la quale pure gli Aristotelici ammettevano che fosse sferica, il
moto uniforme della palla su di esso è, nei limiti delle possibili
osservazioni, perfettamente conforme tanto alla ipotesi formulata poi da Newton
come la prima legge del moto, quanto al principio aristotelico della
persistenza del moto circolare e uniforme, e della dipendenza delle velocità
dei gravi dal loro allontanamento od avvicinamento al punto al quale essi
tendono. La legge d’inerzia, non meno di quella dell’attrazione universale,
sarebbe probabilmente ancora ignota agli uomini, almeno in tutta la sua
generalità, se, per analizzare e spiegare i fenomeni nei quali essa si
manifesta, essi non avessero avuto a disposizione altro metodo che quello
dell’osservazione e della misura diretta o delle semplici constatazioni
sperimentali, per quanto molteplici ed accurate. La conquista di verità così
importanti non poteva essere effettuata senza l’esercizio di attività mentali
assai più elevate e complicate di quanto non siano i processi di paragone
diretto e di generalizzazione basata sul riconoscimento di analogie, al cui
rintracciamento il sussidio della deduzione non è necessario.”(33)
Il
fatto è che nella storia del pensiero si sono contrapposte due concezioni o due
metafisiche della scienza, del significato
di verità e di spiegazione scientifica,
quella razionalistica dei
Pitagorici, di Parmenide, di Democrito, di Galilei e di Peano, e quella empiristica, che va da Aristotele a Popper,
alla scienza contemporanea (relatività e meccanica quantistica).(34)
Delinea
abbastanza bene e lucidamente le due concezioni Vailati nei seguenti brani:
“A me
preme di più, per il presente proposito, richiamare l’attenzione sulle
differenze che si presentano tra il concetto che Aristotele si faceva dei
servigi che l’applicazione della deduzione è atta a rendere per la costituzione
e l’avanzamento delle scienze, e le opinioni professate e adottate su questo
soggetto dagli scienziati moderni da Galileo in poi.
Le convinzioni di Aristotele su
questo argomento sembrano esser state soprattutto determinate
dall’osservazione del modo di funzionare della deduzione nei due soli campi nei
quali gli scienziati suoi predecessori e contemporanei erano riesciti a
servirsene con vantaggio, cioè da una parte la Geometria, e dall’altra la Retorica,
intendendo questa nel senso antico, cioè come l’arte di modificare le
opinioni altrui per mezzo della parola. Sono questi due generi di applicazione
che egli, nelle sue considerazioni sull’ufficio e sull’utilità della deduzione,
ha continuamente in vista, anche quando sembra fare da esse affatto
astrazione; ed è in conseguenza di ciò che egli è portato a considerare come
scopo, non solo principale ma pressoché esclusivo, dell’argomentazione
deduttiva l’accrescimento della certezza, la riduzione di ciò che è
discutibile a ciò che è indiscutibile, di ciò che è dubbio a ciò che è
evidente. La deduzione è per lui, anzitutto uno strumento che serve a garantire
la verità di proposizioni solo probabili e plausibili, ricollegandole ad altre
più sicure e meno contestabili e rendendole in certo modo partecipi della loro
saldezza ed evidenza, come si fa appunto nelle dimostrazioni geometriche o
nelle discussioni forensi, nelle quali ognuno cerca di corroborare le proprie
asserzioni appoggiandole a degli assiomi o a delle disposizioni di legge sulle
quali non si discute”
“È
precisamente nella pochissima importanza data alla deduzione come mezzo di
spiegazione e di anticipazione sull’esperienza, in confronto alla grande
fiducia posta in essa come mezzo di prova e di accertamento, che giace la differenza
caratteristica tra le idee di Aristotele e quelle dei fondatori della scienza
moderna sulla funzione della deduzione nella ricerca scientifica (il
corsivo è nostro). I suoi ragionamenti sui fenomeni naturali, anche in quei
casi nei quali essi, invece di esser diretti a dimostrare le conclusioni a cui
portano, sono adoperati per mettere alla prova le premesse su cui si fondano,
mirano a raggiungere questo scopo più col mettere in mostra le contraddizioni e
le incoerenze tra le varie affermazioni, o far vedere che esse non possono
essere ammesse simultaneamente, che non con lo spingere a conclusioni non prima
sospettate, e la cui verifica sia atta a provocare nuove osservazioni, che
contribuiscano a un maggiore schiarimento, della questione di cui si tratta.”
“Ciò
che gli scienziati greci (Platone ed Aristotele! Non certamente Democrito,
Euclide ed Archimede, per i quali appunto la spiegazione scientifica muove da
<elementi razionali>. Ma per migliori approfondimenti si veda il mio
libro “Tradizioni di pensiero...” 1999)
intendevano per spiegazione di un dato
fenomeno non era tanto la sua analisi e scomposizione nelle sue parti
elementari, o la determinazione delle leggi della sua produzione (il
corsivo è nostro), quanto piuttosto il suo ravvicinamento o identificazione
con altri fenomeni più comuni e famigliari, i quali, appunto per tale ragione,
non eccitavano in loro quel genere speciale di stupore o di meraviglia che li
conduceva a domandarsi perché avvenissero”.
“L’unico tipo di spiegazione
applicabile a fenomeni appartenenti a un tale campo sarebbe allora quello che
abbiamo riconosciuto come caratteristico degli stadi inferiori di sviluppo
scientifico, quello cioè che consiste nel paragonare immediatamente il fatto in
questione a quelli tra i fatti conosciuti col quali sembra presentare maggiore
somiglianza e affinità, facendolo rientrare, se è possibile, sotto il dominio
di qualche generalizzazione già effettuata o, se ciò non è possibile,
registrandolo a parte, in attesa di altri fatti che gli somiglino e che
permettano, in seguito, di arrivare per mezzo di un’induzione alla scoperta di
qualche legge non ancora conosciuta. L’ insieme di verità indipendenti e sconnesse,
alle quali si può arrivare in tal modo, sono quelle che si designano col nome di leggi empiriche. Una scienza che
fosse costituita interamente di esse presenterebbe l’aspetto di un catalogo di
proposizioni generali, ognuna provata da distinti gruppi di osservazioni e di
esperimenti, e nessuna delle quali sarebbe atta a servire per controllo delle
altre, o per comunicare alle rimanenti la maggior certezza o attendibilità di
cui eventualmente godesse.”(35)
Lo
scontro tra le due concezioni della scienza, della verità, e della spiegazione
scientifica non era e non è neutro, tale da lasciare indifferenti,
nel senso che l’una scelta vale l’altra, poichè poi ogni concezione ha la sua
legittima ragione, per cui ognuno può scegliere e deve scegliere liberamente.
In
verità si sceglie tra due concezioni di realtà, tra due metafisiche; se la
realtà è come appare e paradigma del vero è la cosa sensibile, compito
della ragione è di trasformare quello che è o appare in quello che deve
essere, poichè quello che deve essere già è, ma se la realtà non è quella
che appare, per cui essa va cercata oltre l’apparenza, la prova
sensibile, negli elementi razionali e nelle condizioni razionali che si
esprimono nelle leggi, allora immaginare di pensarli modificati significa
aprirsi ad una dimensione della realtà,
come realtà dinamica, del possibile, del poter essere, del cambiamento.
Compito
della ragione non è solo quello di <scoprire> e di
<giustificare>, ma quello di <inventare> e di <progettare>.
Aprendo la dimensione del
possibile, del progetto, dell’alternativa, la scienza si avvicina all’arte,
all’etica, alla politica, come scienze e tecniche del possibile.
Sui rapporti «essere», «dover essere» e «poter essere», ovvero su «fatti», «valori» e «teorie» spero di soffermarmi più diffusamente in altri miei
scritti successivi.
Mi piace concludere su ciò per
adesso con questo splendido passo di Vailati, che si trova in una nota del suo
scritto già citato:
“Questa efficacia della
deduzione, come mezzo di generalizzazione, sussiste sempre, anche quando nessun
caso reale abbia luogo, o si conosca, pel qual si presentino le condizioni
richieste pel verificarsi dell’una o dell’altra delle premesse, senza che,
nello stesso tempo, si verifichino anche tutte quelle che sono ulteriormente
richieste per il verificarsi di ambedue, e quindi anche della conclusione da
esse dedotta. Per spiegarmi con un esempio, se anche le leggi di Keplero
avessero corrisposto ai movimenti effettivi degli astri non meno esattamente di
quanto vi corrispondano i risultati che si ottengono per deduzione dalle leggi
di Newton, la sostituzione di queste ultime alle prime non avrebbe perciò
mancato di rappresentare un passo verso una maggior generalizzazione, in quanto
che mentre le leggi di Keplero non si riferiscono che ai moti che i pianeti hanno effettivamente, quelle di Newton
(anche facendo astrazione dal fatto che esse abbracciano anche il caso dei moti
dei gravi alla superficie della terra) ci dicono qualche cosa anche sui moti
che essi avrebbero, o avrebbero avuto se
la distribuzione iniziale delle masse e delle velocità fosse stata diversa.
Nelle scienze che hanno
rapporto colla pratica, che si riferiscono cioè a fatti in parte soggetti al
controllo della volontà umana, le congetture relative a ciò che avverrebbe, se si verificassero
condizioni che mai si verificarono in passato, hanno tanta e, spesse volte,
maggiore importanza che non le cognizioni relative a ciò che avviene, o è
sempre avvenuto, in assenza di tali nuove condizioni.
È
perciò che alla deduzione va
attribuita una funzione assai più importante come mezzo di invenzione che non come mezzo di scoperta. La parte che le compete nelle invenzioni meccaniche è
messa assai bene in luce dal Reulaux (Cinematica.
Traduzione italiana del professore Colombo, pag. 22). Sono pure da
consultare a questo proposito le opere del Kapp (Philosophie der Technik) e dell’Espinas (Technologie des Grecs). Analoghe considerazioni possono forse dar
ragione del fatto spesse volte notato che, anche per quanto riguarda lo studio
dei fenomeni sociali, i più arditi inventori e costruttore di schemi di
riforme, e i critici più spietati delle teorie giustificatrici dell’istituzione
e degli ordinamenti sociali effettivamente esistenti sono precisamente quelli
tra gli investigatori che si distinguono per una maggiore tendenza verso l’uso,
o anche l’abuso, della deduzione (per esempio Rousseau e Marx).”(36)
NOTE
1) G. Peano, Opere Scelte, Vol. II, Cremonese, Roma,
1958, pp 459-460. Il testo, tratto da De
Derivatione, e tradotto, è scritto in Interlingua. TORNA
2) Si veda a tal proposito G.
Boscarino, Tradizioni di pensiero..., Mondotre
- La Scuola Italica, Sortino, 1999, pp.186-l93. TORNA
3) Ibidem pp. l88-l90. TORNA
4) G. Peano, op. cit., p.38l. TORNA
5) Mondotre, n.8, 1992,
p.52. TORNA
6) Aristotele, Metafisica, IV, 7, 1011 b 26. TORNA
7) 1 Presocratici, Laterza, Bari, B, 9. TORNA
8) F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, vol.
I, Laterza, 1971, p.l82. TORNA
9) Aristotele, Metafisica, VI, 4, 1027b 25. TORNA
10) Aristotele, Le categorie, 12, l4b, 17-24. TORNA
11) T. Hobbes, Elementi di filosofia, UTET, 1972, p.
98. TORNA
12) G. Frege, Logica e aritmetica, Boringhieri, 1965,
pp.384-386. TORNA
13) A. Tarski, La concezione
semantica della verità e i fondamenti della semantica in Semantica e filosofia
del linguaggio, Il Saggiatore, Milano, 1969. TORNA
14) G. Peano, op. cit., p. 383. TORNA
15) G. Peano, ib., p. 151. TORNA
16) De Morgan, FormaI logic, ed. A.E. Taylor, 1926. TORNA
17) G. Peano, Formulano Mathematico, Cremonese, Roma,
1960, p. 27. TORNA
18) In questi, confusioni e
fraintendimenti aumentano a dismisura, per non parlare della cosiddetta “concezione
minimalistica della verità”, frutto di banalità e verbalismo filosofico. Vedi a
tal proposito P. Horwich, Verità, Laterza. TORNA
19) K. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino,
Bologna, pp. 383-384. TORNA
20) Nella terminologia
epistemologica, qui, in parte, si fa riferimento al testo di M. Bunge, Scientific research, Springer...,
1967. TORNA
21) K.Popper, La logica delle scienze sociali in
Adorno, Popper ..., Dialettica e
positivismo in sociologia, Einaudi, Torino, 1969, pp.l 17-118. TORNA
22) Una banale confusione in
tal senso si trova in Popper, in Congetturee
confutazioni, op.cit., p.408. TORNA
23) Purtroppo in Italia è poco
conosciuta la critica decisiva e calzante di valenti filosofi ed epistemologi
al falsificazionismo di Popper, come quella di A. Grünbaum, se si esclude una
qualche riflessione seria e critica di Boniolo nei confronti dello
stesso. TORNA
24) Galileo Galilei, Opere, UTET, Torino, 1964, p 944. TORNA
25) Torricelli, Opere scelte, UTET, Torino, 1993, p.
30. TORNA
26) C. Menger, Sul metodo delle scienze sociali, Liberilibri,
Macerata, 1996, pp. 54-58. Purtroppo questo autore da epistemologi italiani è
poco capito, frainteso e distorto. TORNA
27) Mondotre, n.9, 1993,
pp.56-57. TORNA
28) G. Vailati, Scritti, Vol.I, Firenze, 1911, p.
142. TORNA
29) Aristotele, De caelo, II, 13. TORNA
30) Sull’aristotelismo
dell’ultimo Popper, si veda La meccanica
quantistica: il reale e il possibile, nel mio libro, Tradizioni di pensiero..., op. cit.
TORNA
31) K. Popper, op. cit., Congetture e confutazioni, pp.379-38O. TORNA
32) K. Popper, La logica della scoperta scientifica, Einaudi,
Torino, 1990, p. 44. TORNA
33) G. Vailati, op. cit., pp.l25-l28. TORNA
34) Sul paradigma empiristico
presente nella relatività e nella meccanica quantistica si veda G. Boscarino, Tradizioni di pensiero..., op. cit. TORNA
35) G. Vailati, op. cit.,pp.122-123, p.l24, p.l29,
p.l39. TORNA
36) G. Vailati, op. cit., pp. 143-144. TORNA