Sul
formalismo della meccanica quantistica
Giuseppe Garozzo
Abstract
In this paper we will briefly illustrate the
historical development of Quantum Mechanism in connection to the philosophical
point view of Empirism versus Rationalism. Our goal is to demonstrate that the
usual Dirac formalism is the product of the Empirist approach to the
problem to describe some experimental results. But it is clear that different
approaches to same experiments produce different formalism.
Per comprendere il formalismo attuale della Meccanica
Quantistica occorre tenere presente:
• Le conoscenze fisico-matematiche dei
primi del ‘900
• La cultura ‘filosofica’ con cui tali
conoscenze venivano interpretate.
Il quadro fenomenologico può essere schematizzato nella
maniera seguente. Tutta una serie di fenomeni legati all’analisi degli spettri
dei gas aveva mostrato che, qualora i gas fossero sufficientemente rarefatti,
la luce emessa da questi gas (sottoposti ad una ‘scarica’) se analizzata da un
reticolo di diffrazione (analizzatore di spettro, esempio prisma) mostrava
delle righe luminose strette e ben distanziate. Ogni gas poi aveva una serie di
righe di un dato colore; questa serie di righe luminose ‘era la carta d’identità’
del gas. Il dato interessante era che, mentre nello spettro della luce naturale
il passaggio da un colore all’altro avviene con continuità, nei gas (rarefatti
e sottoposti ad una scarica!) si osservavano righe ben delineate e ben
equispaziate. Era la prima volta che i fisici avevano a che fare con valori di
grandezze fisiche (cioè risultati di misurazioni) che si disponevano in maniera
discreta? Certamente no, basti pensare alla fisica delle corde di violino (o
similmente della chitarra). Il principio fisico su cui poggia il funzionamento
della chitarra è il seguente. Una corda vibrante, qualora venga fissata ai due
estremi, emette una serie di frequenze ben precise (mi, sol e così via), ovvero
il suo spettro in frequenze risulta
quantizzato.
Per questo motivo i fisici
dell’epoca, quando si trovarono a trattare ‘quelle nuove grandezze il cui
valore misurato in condizioni sperimentali ben precise (gas rarefatti e
sottoposti ad una scarica) risultava quantizzato’, attinsero i modelli
matematici dalla fisica dei fenomeni ondulatori (equazione delle onde).
Non bisogna dimenticare poi la
profonda rottura che esisteva (ed esiste ) fra meccanica classica ed
elettromagnetismo. Infatti, mentre la meccanica classica era (ed è) una teoria fondata sull’interazione a distanza, l’elettromagnetismo
è una teoria di campo puro la quale,
come sosteneva Hertz, coincide con lo studio matematico delle equazioni (fenomenologiche) di Maxwell. E
appunto questa mancata coerenza delle due teorie che portava (e porta) ai paradossi
più noti (il problema del corpo nero, l’effetto fotoelettrico, l’effetto
Compton e la presunta instabilità dell’atomo di idrogeno). Infatti nessuno può
negare che tutte le contraddizioni nascevano (e nascono) quando si mescolavano
alcuni risultati della meccanica classica con altri dell’elettromagnetismo. In
effetti quando si parla di fisica
classica, intendendo con questo termine la meccanica di Newton e la teoria
di Maxwell, si compie un abuso
filosoficamente inaccettabile.
Si è soliti far iniziare la
nascita della meccanica quantistica il 14 Dicembre del’900 quando Planck espose
la sua teoria dello spettro del corpo
nero alla Società Tedesca di Fisica.
Egli, in sintesi, osservò che per trovare una curva che ben ‘fittasse’ (si
adattasse a) i dati sperimentali era sufficiente introdurre una costante di parametrizzazione h (il cui valore
veniva determinato fenomenologicamente come valore che minimizza la differenza
fra la curva sperimentale e quella teorica), e ciò era equivalente ad asserire
che l’energia di un oscillatore armonico isolato (si pensi ad un corpo
legato ad una molla) è proporzionale alla frequenza (proposizione a: E = h v) e può assumere solo
valori del tipo En = nhv dove v è la frequenza fondamentale ed n è
un intero positivo (proposizione b).
Oggigiorno è stato mostrato che
la proposizione a risulta vera in meccanica classica per oscillatori
armonici ‘perturbati’ (vedere teoria degli invarianti adiabatici1), e che esistono molti modelli classici che
spiegano bene lo spettro del corpo nero e che quindi riottengono la
proposizione b2.
E per gli altri fenomeni sono
state trovate spiegazioni alternative?
La risposta è: per alcuni si,
per altri no; c’è pure chi sostiene che ancora non è stato trovato un fenomeno
puramente quantistico (alcuni sostengono che la superconduttività è un fenomeno puramente quantistico, anche se è
stato scoperto molto prima della meccanica quantistica ed attualmente esiste
anche un modello classico di superconduttività3).
Tuttavia, è fuor di dubbio che
l’aspetto ondulatorio dei fenomeni di diffrazione dei fasci di elettroni è
quello che colpisce più di tutti; furono appunto le proprietà ondulatorie della materia (nel senso specificato
prima) a spingere i fisici dell’epoca a cercare una nuova teoria. Fu De Broglie
a capire (capire, intuire o che altro?) che le particelle presentavano pure un
aspetto ondulatorio. L’ipotesi di De Broglie di associare una lunghezza d’onda ed una frequenza alle particelle può sembrare
una trovata originalissima. Per trattare esaurientemente tale idea, come
storicamente si è formata, occorrerebbe far ricorso alla teoria della
relatività (con la sua annessa teoria dei fotoni). Tuttavia ci limitiamo a dire
che, poichè la fenomenologia che si presentava all’epoca era molto simile a
quella delle corde vibranti (nel senso che le grandezze misurate erano per lo
più discrete) non c’è da stupirsi se sul piano fisico si è voluta spingere
tale analogia fino ai costituenti elementari della materia. Peraltro l’ipotesi
di De Broglie era la prima ipotesi sufficientemente generale che poteva
giustificare alcune regole di calcolo stabilite ad hoc per spiegare gli spettri
atomici (le famose regole di quantizzazione di Bohr-Sommerfield; ad esempio: la
quantizzazione del momento angolare per le orbite elettroniche).
Pertanto possiamo riassumere
quanto abbiamo detto nei seguenti punti:
- Comparsa di grandezze fisiche il cui valore
misurato è discreto;
- Solo la fisica delle onde (es. corda di
chitarra) offre una fenomenologia simile;
- Regole di calcolo ad hoc per giustificare
alcuni risultati sperimentali (Planck, Bohr-Sommerfield);
- Ipotesi di Be Broglie sui costituenti elementari
della materia che permette di giustificare quelle regole di calcolo.
Interviene poi un ulteriore
elemento. Le grandezze fisiche ‘lunghezza d’onda’ e ‘frequenza’ sono delle
grandezze fisiche particolari. Per esempio, se io dico che la stecca da biliardo
misura 2 m, significa che essa è due
volte il mio campione di lunghezza che posso riportare sulla stecca e
verificare che ci sta due volte. Le cose sono un po’ più complicate per la
lunghezza d’onda (e similmente per la frequenza).
Tali grandezze fisiche vengono
definite a partire dalle soluzioni di una data equazione (equazione delle
onde). Infatti una semplice soluzione di una equazione d’onda, come quella di
D’Alembert (chiaramente esistono più equazioni d’onda), è del tipo:
Questa soluzione si riscontra
ad esempio nel caso di una perturbazione data in un punto di una corda vibrante
che si propaga lungo la curva stessa. Se fissiamo il tempo (per semplicità
poniamo t = 0) il grafico della soluzione sarà:
Da questo disegno risulta abbastanza chiaro che la
lunghezza d’onda è la distanza spaziale (ideale)
fra due creste. Ci si potrebbe chiedere, quante creste passano in un secondo in un dato
punto dello spazio; in pratica, il numero di creste che passano in un secondo
in un dato punto della corda è la frequenza dell’onda, ovvero la distanza temporale fra due creste.
Queste due grandezze fisiche
poi possono essere determinate sperimentalmente solo mediante misurazioni
indirette che richiedono tutta una teoria
dell’esperimento. Cioè non è possibile metterci con un metro a cavallo
dell’onda e determinare la distanza fra le creste!
Nell’ambito dei fenomeni luminosi si possono usare i
fenomeni dell’interferenza e della diffrazione (fenomeni che richiedono per la
loro comparsa l’utilizzo di ben determinati accorgimenti sperimentali, ad
esempio reticoli di diffrazione di passo opportuno. Un reticolo di diffrazione
lo si può pensare come una griglia fitta, in cui lo spazio fra una finestra e
la successiva è detto passo) per
potere risalire alla lunghezza d’onda ed alla frequenza dell’onda.
Quindi, riassumendo:
Le
grandezze fisiche lunghezza d’onda e frequenza sono definite a partire
dalle soluzioni di determinate equazioni note come equazioni delle onde; la
loro determinazione sperimentale può effettuarsi solo mediante degli esperimenti
costruiti appositamente e fondati sulla teoria matematica dell’equazione delle
onde.
Ci manca un altro importante tassello. Infatti la teoria
(matematica) delle equazioni delle onde ci dice che la soluzione più generale
di una tale equazione è data dalla sovrapposizione
di infinite soluzioni particolari semplici dette onde armoniche che poi sono delle semplici funzioni sinusoidali che
hanno dunque una lunghezza d’onda ed una frequenza ben definita; cioè per
l’equazione delle onde vale il principio
di sovrapposizione delle onde. Per essere precisi esso non è un principio
bensì un teorema di matematica. Questo teorema è importante perché fu la chiave
di volta per comprendere il fenomeno della dispersione della luce bianca (cioè
quella solare) attraverso un prisma. Infatti quello che accade è che in entrata
(rispetto al prisma) la luce è incolore, in uscita invece si osservano tutti i
colori dell’arcobaleno in successione (e con continuità).
Come si spiega questo fenomeno?
Ebbene si dice che la luce è
descritta da una funzione, soluzione di una equazione d’onda, e come tale
questa funzione è la sovrapposizione di tante onde semplici (sinusoidali ,
cioè che hanno una ben determinata frequenza e lunghezza d’onda); poi, quando
questo miscuglio di onde attraversa il prisma, si separano e dunque è
possibile distinguerle in uscita.
Nessuno tuttavia può affermare
che il miscuglio di onde semplici esiste prima
dell’interazione col prisma; è possibile infatti sostenere che le onde in
uscita vengono create dall’interazione
col prisma. Questo è un punto cruciale: il prisma è un filtro o un preparatore
di stato? Cioè è uno strumento che evidenzia la struttura intrinseca
della luce (filtro), oppure è uno
strumento che partecipa alla creazione di quella data struttura del fascio in
uscita (preparatore di stato)?
La risposta a questa domanda
non può trovarsi sul piano sperimentale!
La teoria matematica delle
equazioni delle onde ci permette di parlare di sovrapposizione di onde
sinusoidali prima che l’onda incida sul prisma, ma affidarsi ad una tale
interpretazione rimane sempre una questione di mero gusto.
A questo punto siamo in
grado di introdurre l’ultimo tassello. Infatti se una particella (si badi che
la teoria con la quale parliamo [e si parla] per costruire la quantistica è la
meccanica classica!) è descritta in termini di lunghezza d’onda e frequenza è
chiaro che il suo moto deve essere descritto da una equazione d’onda. Ebbene,
il primo a proporre (non a dedurre, ripeto, proporre) una equazione d’onda per descrivere il moto delle
particelle fu Schrödinger. La sua famosa equazione, detta appunto equazione di
Schrödinger, descrive l’evoluzione temporale dell’onda associata alla
particella nota come funzione Ψ(r)
(con r punto dello spazio fisico). Ebbene, risolvendo questa equazione
nel caso di un sistema elettrone-protone (atomo di idrogeno), Schrödinger fu in
grado di predire lo spettro dell’atomo di idrogeno (fenomenologicamente già
conosciuto!): fu un vero trionfo! Come tutte le equazioni d’onda l’equazione di
Schrödinger presenta un parametro (che nel caso appunto dell’equazione di Schrödinger
è l’energia) il quale condiziona la possibilità di avere delle soluzioni.
Infatti, matematicamente si dimostra che solo per certi valori del parametro
energia, E,(valori che nel caso dell’atomo di idrogeno sono discreti) esistono
delle soluzioni per la Ψ.
Ebbene, ordinati con E1 , E2 , E3 ,.... EN , ... i valori
del parametro, le soluzioni corrispondenti saranno Ψ 1 ,
Ψ 2 , Ψ 3 ,....
Ψ N , ... Si usa chiamare il parametro E autovalore e la funzione
corrispondente autofunzione.
L’insieme dei valori che può
assumere l’autovalore, cioè E1 , E2 , E3 ,.... EN , ..., è detto
spettro.
Chiaramente se lo spettro è discreto l’insieme delle autofunzioni, cioe
Ψ 1 , Ψ 2 , Ψ 3 ,....
Ψ N , ...,
detto anche autospazio, risulta pure discreto. In generale però la
corrispondenza fra autovalori e autofunzioni non è sempre di uno ad uno, ma
questo è un problema che qui non affronteremo.
Quindi possiamo dire che lo
spettro dell’energia dell’atomo di idrogeno è discreto così come
possiamo dire che lo spettro delle frequenze della corda di una
chitarra è discreto.
L’equazione delle onde di
Schrödinger è il modello matematico con cui è possibile studiare
la fisica atomica. Però chiaramente si pone il problema di interpretare tale
equazione. Ovvero, la funzione d’onda cosa descrive? Due sono le principali
risposte date:
• La funzione Ψ(r) descrive un’onda ontologicamente esistente che accompagna la
particella durante il suo moto; la particella, poi, ha probabilità massima di
occupare il punto dello spazio in cui il modulo quadro dell’onda (ovvero il
quadrato dell’ampiezza dell’onda) è maggiore.
• La funzione Ψ(r) è una funzione il cui modulo al quadrato (cioè il quadrato
della sua ampiezza) dà la probabilità di trovare la particella.
Quale delle due interpretazioni
è quella più verosimile? Anche in questo caso è solo una mera questione di
gusto (anche se la prima è più impegnativa sul piano ontologico...).
Le cose si complicano
ulteriormente quando si tenta di interpretare il principio di sovrapposizione
(cioè quel teorema che abbiamo precedentemente introdotto). Infatti (nel caso
dell’atomo di idrogeno precedentemente citato) la soluzione generale della
equazione di Schrödinger è data dalla somma di tutte quelle particolari, cioè
Ψ(r) = c1 Ψ1 (r)+ c2 Ψ2 (r)+ c3 Ψ3 (r)+ ……+cN ΨN (r) ……,
ma in genere quando si fa una
misura di solito si ottiene solo un ben determinato valore (le cose sono un
po’ più complicate, in effetti non è sempre vero, ma facciamo finta di
sorvolare...), e allora?
L’idea è quella di interpretare
le costanti ci come pesi. Ovvero se ad esempio c1è
maggiore di c2 diciamo che abbiamo una probabilità maggiore di
trovare sperimentalmente il valore E1
dell’energia (cioè l’autovalore E1)
relativo all’autofunzione Ψ1
che l’autovalore E2 relativo all’autofunzione Ψ2 . Più precisamente si
asserisce che il modulo al quadrato delle ci fornisce la
probabilità
che il sistema fisico oggetto della nostra misura sia nello stato descritto
dall’autofunzione Ψi e che dunque il risultato della misura sia Ei. Si usa anche chiamare Ψi autostato (sinonimo di
autofunzione). Questa interpretazione probabilistica delle costanti ci giustifica
l’interpretazione probabilistica della funzione d’onda data precedentemente
(anche se non ci permette di scegliere fra le due interpretazione,
ovviamente).
L’interpretazione
probabilistica delle ci, al di là delle pretese ontologiche, permette
di dare una interpretazione coerente dei risultati che si possono ottenere
risolvendo l’equazione di Schrödinger, che ricordiamo non è stata dedotta
ma solo proposta perché funziona!
Che cosa vogliamo dire quando
diciamo che l’equazione di Schrödinger è un modello?
Il discorso è che fino a questo
punto manca una teoria organica dalla quale ricavare, o almeno entro cui
inserire coerentemente, l’equazione di Schrödinger. Certo abbiamo fatto molti
passi in avanti, dalle regole ad hoc per spiegare gli spettri atomici, siamo
passati all’ipotesi di De Broglie consistente nell’associare un’onda ad una particella;
ed ora abbiamo un assunto più forte e cioè che ad ogni particella è associata un’onda ψ e che tale onda obbedisce
all’equazione di Schrödinger. Ma
manca sempre una teoria di sfondo più coerente.
Allora interviene di nuovo la
filosofia. Come facciamo a giudicare se una teoria è più coerente o meno? Qui
ci imbattiamo in un mare in tempesta. Quello che possiamo dire è che agli inizi
del ‘900 la maggior parte dei fisici, influenzati dalle critiche di Mach,
vedevano nella meccanica di Newton un esempio di teoria fortemente infettata
dalla metafisica. Perché? Bé, basta ricordare la definizione di quantità di
materia data da Newton la quale risulta lecita solo in una teoria puramente
atomistica. Oppure si pensi all’interazione a distanza, questo orrido fantasma
(orrido per Mach, ma non tutti la pensano come lui)! Il punto fondamentale è
che la meccanica classica, anzi più precisamente, la Meccanica Razionale è una
teoria integralmente ‘razionalistica’ in cui per la sua costruzione non si fa
appello a nessun principio di natura sperimentale. Ma se da un lato, una
presenza di fondamento empirico nella Meccanica Razionale era quello che
faceva dire a D’Alembert: ‘rovinerebbe ogni certezza nella Meccanica
riducendola a niente di più che ad una scienza sperimentale’, dall’altro lato,
questa assenza era proprio quello che fisici come Heisenberg contestavano alla
meccanica di Newton. Cioè, veniva contestato il fatto che la meccanica di
Newton non era una scienza sperimentale! Anzi veniva osannato Mach per averla
in parte aggiustata! Quindi se la Meccanica deve essere una scienza
sperimentale è chiaro che queste nuove osservazioni nate dallo studio
sperimentale condotto sugli spettri atomici devono entrare nella costruzione di
una nuova Meccanica che possa inquadrare come nuova equazione del moto
l’equazione di Schrödinger.
Sotto questa luce empiristica,
tenteremo di costruirla nell’Appendice, dato che la lettura di quanto segue non
lede la comprensione dell’articolo e risulta particolarmente ostica.
Dedichiamo questa appendice a chi volesse apprendere le basi del linguaggio
tecnico della meccanica quantistica o a chi conoscendo già tale semiotica ne volesse comprendere la semantica.
Appendice
Postuliamo che le grandezze fisiche di questa nuova
teoria debbano essere definite per mezzo delle operazioni fisiche atte a
determinarle. L’esempio più paradigmatico è la definizione di spin tramite
l’esperimento di Stern e Gerlach (in breve S.G.). Tale esperimento consiste
nell’inviare un fascio di atomi che hanno un solo elettrone nell’orbita più
esterna attraverso un campo magnetico non omogeneo generato lunga una ben
precisa orientazione (asse z, per semplicità). In teoria, se il momento
angolare dell’elettrone fosse distribuito randomicamente, in uscita osserveremo
una dispersione omogenea del fascio, indice del fatto che i vari atomi vengono
‘piegati’ verso tutte le direzioni.
Invece quello che accade
è che il fascio in uscita dall’apparato S-G si divide in due soli fasci ben
distinti! Uno verso l’alto e l’altro verso il basso.
Indichiamo con il
simbolo
|+ñ á+|
l’apparato S.G.
(opportunamente modificato) che fa emergere solo il fascio che si dispone in
alto (d’ora in poi tale apparato di S.G., che fa emergere solo un unico fascio,
lo denomineremo preparatore di stato; esso
si ottiene dall’apparato precedente mascherando con una opportuna lamina il
fascio che esce verso il basso), con il simbolo
|-ñ á-|
quello che fa emergere
solo il fascio che si dispone verso il basso. Se nell’insieme dei preparatori di stato definiamo una
somma (+) ed un prodofto (*) convenendo di attribuire alla somma il
significato di ‘messa in parallelo’ dei due preparatori ed al prodotto quello
di ‘messa
in serie’ banalmente si avrà:
|+ñ á+| + |-ñ á-| = I
|+ñ á+| * |-ñ á-| = |+ñ á+| |-ñ á-| =
0 (1) (cassando il simbolo di prodotto)
|+ñ á+| * |+ñ á+| = |+ñ á+ |
+ñ á+| = |+ñ á+|2
= |+ñ á+| (2) (cassando anche una sbarretta)
|-ñ á-| * |-ñ á-| = |-ñ á- | -ñ á-| = |-ñ á-|2
= |-ñ á-| (3)
avendo indicato con I il
preparatore che dà in uscita tutto quello che entra e con 0 quello che sopprime
tutto il fascio di ingresso.
Dato che pretendiamo che
le grandezze fisiche coincidano con i valori della misura, risulta comodo
rappresentarle sotto la seguente forma (converremo di indicare le grandezze
fisiche così costruite con il simbolo ^ sopra una lettera maiuscola):
Ŝ = S1 | +ñ á+ | + S2 | -ñ á- |
dove con S1
ed S2 abbiamo indicato il risultato
della misura, che in questo caso è una misura di momento angolare. I
possibili valori sono solo due perché il fascio in uscita si divide solo in due
componenti. Più esattamente si misura: ed
. In definitiva si ha
.
Da quanto detto S1 e
S2 altro non sono che i valori dello spettro della grandezza S
ovvero gli autovalori. Ma le autofunzioni o autostati quali sono?
Conveniamo di indicare col simbolo
| +ñ l’autostato che descrive il fascio
che viene piegato verso l’alto;
| -ñ l’autostato che descrive il fascio che viene piegato
verso il basso.
Quindi da quanto detto prima
segue che lo stato generico del fascio prima del suo incontro con l’apparato
S-G è
|Ψñ = c1 | +ñ + c2
| -ñ (principio di sovrapposizione).
Stiamo convenendo dunque che i
due simboli | +ñ e |
-ñ si
sommano (come gli Ψi dell’equazione di Schrödinger) e si
moltiplicano per numeri cioè per le ci .
Essi si possono anche moltiplicare fra di loro qualora il prodotto sia
eseguito così:
a) | +ñ * |
-ñ = á+ |
-ñ = 0 (incompatibilità dei due stati)
b) | +ñ * |
-ñ = á+ |
+ñ = 1
c) | -ñ * |
-ñ = á- | -ñ = 1
L’assioma
a) stabilisce che i due stati sono mutuamente esclusivi. Poi
d) | +ñ * |
Ψ
ñ = á+ |
Ψ
ñ = c1 á+ |
+ñ + c2 á+ |
-ñ ® á+ | Ψ ñ = c1
e) | -ñ * |
Ψ
ñ = á- | Ψ ñ = c1 á- | +ñ + c2 á- | -ñ ® á- | Ψ ñ = c2
Riassumendo finora:
• ogni sistema fisico è definito dai suoi autostati
(o autofunzioni);
• lo stato generico del sistema è la
sovrapposizione dei vari autostati;
• fra gli stati è possibile definire un prodotto
che associa a due stati un numero;
• gli stati (gli autostati sono un particolare
tipo di stato) possono essere moltiplicati per numeri.
Per tali ragioni
l’insieme di tutti i possibili stati che si ottengono combinando gli autostati
è detto spazio degli stati; si dice pure che tale insieme è uno
spazio vettoriale; perché appunto gli stati si comportano come vettori
(cioè si sommano e si moltiplicano per dare un numero,
cioè hanno il prodotto scalare). Il numero degli autostati possibili dà la
dimensione dello spazio degli stati (sinonimo di spazio vettoriale). Nel nostro
esempio abbiamo due soli autostati | +ñ e | -ñ e
quindi si dice che il nostro spazio ha
dimensione due.
Ma come visto nel caso
dell’atomo di idrogeno il numero di autostati (autofunzioni) è numerabile ma
infinito. In tal caso lo spazio vettoriale è detto spazio di Hilbert (in
pratica lo spazio di Hilbert è uno spazio vettoriale di dimensione infinita).
Un generico stato di uno
spazio di Hilbert si scriverà cosi:
|Ψñ = c1
|Ψ1ñ + c2
|Ψ2ñ +……+cN
|ΨNñ + ……,
ovviamente sarà:
cN = á ΨN
| Ψ ñ á Ψi | Ψj
ñ =
0 per i diverso da j
e á Ψi
| Ψi ñ = 1
Noti gli autostati possiamo
scrivere la grandezza fisica; nel caso dell’energia dell’atomo di idrogeno si
ha:
Ma cos’è esattamente l’ente áΨN
| ΨNñ nel caso dell’energia
dell’atomo di idrogeno o l’ente |+ñ á+| che abbiamo già incontrato quando abbiamo
parlato dello spin?
Riprendiamo l’esempio dello
spin con l’apparato di Stern-Gerlach. Osserviamo che da quanto detto discende
che:
| +ñ á+ |
* | +ñ = |
+ñ á+ |
+ñ = | +ñ * 1 =
| +ñ
| +ñ á+ |
* | -ñ = |
+ñ á+ |
-ñ = | +ñ * 0 =
0
dove
stavolta zero indica che non c’è alcuno stato.
Cioè
matematicamente | +ñ á+ |
è un ente che applicato al
vettore | +ñ lo lascia invariato, mentre applicato al
vettore | -ñ lo annulla. Un tale ente è detto operatore, cioé opera su
di un vettore per dare un altro vettore. In particolare esso è un operatore
di proiezione poiché verifica la seguente proprietà:
| +ñ á+ |
Ψ
ñ = c1 | +ñ
cioè è
quell’operatore che applicato al generico stato | Ψñ fornisce, a meno di una
costante moltiplicativa un vettore di base (ovvero un autostato), cioè è come
se proiettasse il vettore | Ψñ lungo una ben determinata
proiezione (che è quella descritta da un autostato).
Quindi
| +ñ á+ | |
-ñ á- | |
Ψi
ñ á Ψi |
sono tutti operatori
di proiezione.
Invece Ŝ cos’è?
Sicuramente un operatore, ma è di proiezione? No. Tuttavia si ha:
Ŝ | +ñ = S1
| +ñ Ŝ |
-ñ = S2
| -ñ
cioè Ŝ è quell’operatore
che applicato ad un autostato ci dà l’autostato ed il suo autovalore!
Esso è detto operatore
autoaggiunto e nel nostro formalismo esso descrive le grandezze
fisiche.
Quindi in questo apparato la
grandezza fisica è descritta dalla somma di tutte le sue possibili
determinazioni sperimentali (cioè da tutte le possibili misurazioni che di essa
è possibile effettuare) moltiplicate per l’ente che rappresenta l’apparato
sperimentale atte a determinarle (cioè l’operatore di proiezione, ovvero il
preparatore di stato)!
Ricapitolando, lo spazio
degli stati è caratterizzato dalle seguenti proprietà:
• è un insieme infinito di elementi. Infinito
perché basta un certo numero di vettori e poi tutti gli altri vettori che si
ottengono da quelli combinandoli in maniera opportuna sono sempre vettori
dello stesso spazio;
• In esso è definito appunto il prodotto fra
vettori e numeri (il cui risultato è sempre un vettore; esso è detto prodotto
per scalare), fra vettori e vettori (prodotto il cui risultato è un numero,
esso è detto prodotto scalare) e la somma fra vettori e vettori che dà vettori
distinti (cioè con diversa lunghezza e direzione);
• Due stati il cui prodotto scalare è zero sono
due autostati;
• Individuati tutti i possibili autostati essi
sono la base dello spazio ed il loro numero dà la dimensione dello spazio;
• Il generico vettore di tale spazio si può
sempre scrivere come una somma di tali autostati moltiplicati per opportuni
coefficienti;
• In questo insieme possono agire degli
operatori cioè degli enti che applicati a vettori danno altri vettori;
• Se l’operatore che agisce su di un autostato
dà l’autostato ed il suo autovalore, esso è detto autoaggiunto;
• Se l’operatore che agisce sul generico stato
dà un autostato al più moltiplicato per un coefficiente, esso viene detto
operatore di proiezione;
• Se lo spazio degli
stati ha dimensione infinita (cioè ammette un numero infinito di autostati)
esso è detto uno spazio di Hilbert.
La
connessione con la fisica è la seguente:
• Ad ogni
autovalore corrisponde il risultato di una misura;
• Ad ogni
operatore di proiezione corrisponde un determinato preparatore di stato;
• Ad un operatore
autoaggiunto corrisponde un grandezza fisica, perché essa altro non è che la
somma di tutti gli autovalori (cioè di tutti i possibili risultati della
misura) che moltiplicano i loro rispettivi operatori di proiezione (cioè i loro
corrispondenti preparatori di stato);
• Lo stato
generico scritto come sovrapposizione di autostati obbedisce alla equazione di
Schrödinger (questa è un’ipotesi esterna!): dove Ĥ è
l’energia del sistema interessato;
• Le costanti ci sono delle costanti il cui
modulo al quadrato dà la probabilità che il sistema si trova nell’autostato
iesimo
Questo
è in sintesi il significato del formalismo della meccanica quantistica.
__________________
Note:
1) Per esempio basta consultare
il famosissimo Landau-Lifsits “Meccanica”
della Editori Riuniti. TORNA
2) Una derivazione “molto
fondamentale” si può trovare nel lavoro di Soldano “Gravitational binding mass
non-equivalence and foundations of physics” Int.
J. Fusion Energ. vol. 3 July 1985; oppure è sufficiente consultare il libro
del compianto prof. Salvatore Notarrigo, Alice
nel mondo della realtà, che si può liberamente consultare nella bilbioteca
del dipartimento di fisica dell’Università di Catania. TORNA
3) W.F. Edwards, Phys. Rev. Lett. Vol. 47 no 26 p. 1863, 1981 TORNA