Aspetti mitologici nella teoria della relatività

Angelo Pagano

 

 

 

In precedenti interventi (1) in questa rivista ho espresso le mie opinioni sulla teoria della relatività della quale poco e male si parla nelle nostre scuole di insegnamento elementare benché si affermi che essa rappresenti uno dei cardini scientifico-epistemologici della scienza moderna. Ho maturato il convincimento che il non parlarne in modo sufficiente nasconda in realtà un baco. Ovvero che, tale teoria risulta incomprensibile alla maggior parte degli insegnanti i quali, loro malgrado, la illustrano, quando non ne possono fare a meno, al solo scopo di completare i programmi ministeriali. Tale insegnamento si riduce nello scrivere qualche formula relativistica come la famosa formula che esprime la relazione massa-energia E=mc2. In questo scritto mi sembra opportuno ribadire alcune osservazioni da me già esposte e rendere in modo più conciso quelli che reputo essere gli aspetti mitologici della teoria che vengono scambiati per aspetti fisici.

In generale, nell’insegnamento della relatività, e ciò vale anche negli insegnamenti a livello universitaro, si danno ai discendi delle formule matematiche che vengono presentate come leggi fisiche senza chiarire in modo adeguato la distinzione che esiste tra teoria e modello, tra idee generali e loro traduzione in formule. Queste ultime, dovendo essere solo una rappresentazione (necessariamente transitoria e dunque imperfetta) di quelle idee generali, sono sempre suscettibili di modifiche o successivi affinamenti. E’ illuminante il pensiero di L.Boltzmann, padre della teoria dei gas, a questo proposito: “nella teoria dei gas, come in tutte le teorie, bisogna distinguere le idee fondamentali dalle loro traduzioni in linguaggio matematico; le prime, direttamente astratte dall’osservazione dei fatti più comuni, suggeriscono una serie di conseguenze, generali ma senza precisione numerica; le seconde, derivano con rigore e precisione - fin che possibile - tutta una serie di conseguenze particolari utilizzando una traduzione matematica, ordinariamente imperfetta, di quelle stesse idee generali. (di conseguenza) Ciò che bisogna in primo luogo considerare, per decidere se una teoria meriti attenzione, è il carattere delle idee che essa mette in campo, e non la maniera con la quale la teoria si esprime (matematicamente).”(2) Ecco, questo è un modello concreto di fare scienza: il modello galileiano, che Boltzmann vedeva minacciato agli inizi del 1900 dall’avanzata dell’empirismo o positivismo come dir si voglia. Il problema è: quali idee generali mette in campo la relatività di Einstein? ; purtroppo non ci è possibile saperlo perché né Einstein né i relativisti ne parlano, se si astrae dalle nebulose indicazioni di principio che a nulla servono se non a confondere le idee di chi le legge. Si afferma che le formule relativistiche sono confermate da alcuni esperimenti cruciali (3) ma non si fa nessuno sforzo per descrivere quegli esperimenti criticamente. E così i discenti non possono fare altro che memorizzare frasi incomprensibili. Quei discenti, una volta divenuti insegnanti, ripetono dogmaticamente ciò che essi credono di aver capito e si perpetua così l’ipse dixit di aristotelica memoria. Emblematiche, a tal proposito sono le parole del Bridgman “La relatività ristretta di Einstein ha dato un grande contributo nel raggruppare e coordinare i fenomeni in modo che essi possano venire abbracciati tutti da una formula matematica semplice, ma non sembra averli presentati sotto una luce tale che sia semplice o facile coglierli fisicamente. L’aspetto esplicativo manca del tutto nel lavoro di Einstein....” (4) Mi permetto di aggiungere alle osservazioni del Bridgmann che nel lavoro di Einstein e nei successivi lavori dei suoi scolari manca del tutto non solo l’aspetto esplicativo, ma, soprattutto, manca il riferimento alle idee generali a cui si deve far riferimento per la comprensione anche solo euristica della teoria. Le formule relativistiche non rappresentano affatto delle deduzioni matematiche (perfette o imperfette) di traduzioni matematiche (modelli) di idee generali. Con queste premesse una didattica della relatività è impossibile. Invece è possibile una divulgazione della relatività attraverso esempi di esperimenti surreali (vedi paradosso dei gemelli) che nessuno ha mai vissuto né mai potrà vivere perché sono semplicemente delle fantasie paragonabili alle cose che accadono in Alice nel paese delle meraviglie. Ben si comprende l’ostinazione del prof. Eligio Perucca, illustre fisico sperimentale torinese degli anni cinquanta, nel non parlare di relatività nel suo famoso testo universitario oramai purtroppo fuori commercio. Dice il Perucca: “Dei suggerimenti, dei benevoli appunti di colleghi e Lettori ho fatto tesoro. Ma non ho potuto, ad esempio, accogliere l’amichevole consiglio, rivoltomi da un mio caro e chiaro Collega, che avrebbe voluto un posto per la Meccanica relativistica nel mio trattato. Evidentemente il mio amico e Collega volle attribuire al mio libro una portata che l’autore,  pur nella sua immodestia, non osò assegnargli. Perciò il mio libro si rinnova senza Relatività.” (5) Il cortese rifiuto di Perucca nasconde una cruda realtà. Infatti, la teoria della relatività non può trovare posto nel libro del Perucca per il semplice motivo che un capitolo dedicato ad essa avrebbe cancellato tutta la teoria delle grandezze fisiche esposta così meticolosamente in quel libro. E, ciò che non può essere spiegato non può essere compreso e ciò che non può essere compreso è o mitologia o fiaba.

Einstein afferma che la relatività speciale si differenzia dalla fisica di Galileo solo per il postulato di costanza della velocità della luce nello spazio vuoto. A parte la falsità di questa affermazione, vediamo di che si tratta. E’ un fatto sperimentale che il segnale luminoso impieghi un certo tempo per essere trasmesso da un punto all’altro dello spazio. Dividendo lo spazio percorso per il tempo impiegato a percorrerlo si perviene alla nozione di velocità della luce. Il postulato di Einstein afferma che la velocità della luce non viene alterata dallo stato di moto dell’emettitore o del ricevente ma essa sia una costante naturale -una volta fissato il sistema di unità di misura- (come la costante di gravitazione, la costante di Plank). In realtà, gli esperimenti di trasmissione e ricezione di luce sono ben più complessi degli esperimenti che riguardano il moto di oggetti dotati di materia. Per poter parlare di velocità della luce in senso reale, bisogna chiarire cosa si debba intende per luce. Einstein ed i relativisti trascurano questo delicatissimo aspetto. Vediamo il pensiero di Bridgmann su questo punto particolare “Praticamente tutto il nostro pensiero intorno ai fenomeni ottici si impernia su un ‘invenzione, mediante la quale questi fenomeni vengono assimilati a quelli dell’esperienza meccanica ordinaria e così resi più accessibili all’esperienza... Dal punto di vista operativo è privo di senso l’attribuire una realtà fisica alla luce nello spazio intermedio tra sorgente e rivelatore e bisogna riconoscere che la luce come cosa che viaggia è soltanto un ‘invezione... questa idea della luce è fondamentale in tutto lo svolgimento della relatività ristretta “. Ecco il mito che fa da pilastro alla relatività. Ecco cos’è l’ossatura della relatività:

una invenzione, una rappresentazione mentale assimilata alle esperienze meccaniche per renderla intelligibile; in una parola: un surrogato. Per Einstein, la luce non è una semplice e comoda convenzione ma è realmente qualcosa che viaggia nello spazio vuoto.(6) Il mito di Einstein è oggi assunto dalla metafisica (che suole essere chiamata fisica) relativistica e rappresenta il substrato della scienza fisica moderna. Ma, Bridgmann avverte: è privo di senso..., ma i fisici non rispondono! Se uno chiede: perché deve essere così? Si risponde: E’ un fatto sperimentale. Einstein crede che le leggi dell’elettromagnetismo, così come formulate da Maxwell, siano “Le Leggi” per antonomasia su cui fondare ogni nostra indagine sul mondo fisico. Ma Boltzman direbbe: Le leggi matematiche sono delle conseguenze di traduzioni (perfette o imperfette) di idee generali nate dall’esperienza. Quali sono le idee generali che sottostanno all’elettromagnetismo? Qual è il significato da attribuire alle equazioni di Maxwell del campo elettromagnetico? Quale realtà esse racchiudono? Una domanda così terribile fu posta ad Hertz, il padre dell’elettromagnetismo moderno.(7) Egli rispose semplicemente che il modello di Maxwell coincideva con le sue equazioni, punto e basta. Hertz dunque pensa che il substrato fisico (realtà) delle equazioni di Maxwell deveva essere cercato altrove. Ecco allora insorgere il mito empirista in tutto il suo splendore: è reale ciò che è misurabile. Ecco farsi strada il pregiudizio: le equazioni di Maxwell da splendida collezione di fatti empirici (idea di Hertz) diventano i capisaldi della nuova scienza relativistica. La questione può essere posta in modo seguente. L’idea prevalente tra gli studiosi più competenti è che la necessità di una teoria relativistica non nasca (e non sia nata) da esigenze sperimentali (benché si dica che la relatività riesca a spiegare un gran numero di fatti sperimentali altrimenti non spiegabili), ma, piuttosto dall’esigenza di conciliare le nozioni di spazio e tempo, come formulate nell’ambito della meccanica di Galileo, con quelle che sembrano derivare dall’esame dei fenomeni elettromagnetici (Equazioni di Maxwell). Cosa ci dicono le equazioni di Maxwell? Esse ci illuminano su di un punto ben preciso. La propagazione del segnale elettromagnetico avviene come se un’onda (appunto elettromagnetica) si spostasse da un punto ad un altro dello spazio con la velocità costante c. Cioè la luce si comporta come le onde meccaniche che si propagano in un mezzo. Ed infatti, a causa di questa analogia si postulò l’etere cosmico, ente cosmico misteriosissimo, sul quale, prima dell’avvento della relatività, si scrivevano volumi e si sprecavano fiumi di parole senza che nessuno sapesse dir nulla su di esso. Per l’appunto, si dicevano e si scrivevano solo delle belle e vuote parole. Einstein abolì l’etere. Rese così un servizio innegabile alla ragione. Ma, sposando completamente la tesi empirista, che aveva raggiunto in Poincarè, Mach e compagni i suoi massimi sacerdoti, decise per la realtà indipendente della luce come cosa che viaggia. Decise per la prevalenza di una teoria di campo rispetto ad una teoria di particelle. Decise che la teoria di Galileo-Newton fosse un’approssimazione, valida per corpi in moto con velocità piccola rispetto alla velocità della luce nel vuoto, di un’altra teoria più vera e più profonda. Teoria che doveva eliminare ogni riferimento allo spazio assoluto e al tempo assoluto: la teoria della relatività. Vediamo brevemente come egli pervenne a questo tanto celebrato risultato. Consideriamo un osservatore O , munito di un orologio per la misura del tempo. O lanci segnali luminosi verso un altro osservatore O’ che si muova (rispetto ad O) di velocità uniforme V e che si trovi molto distante da O. Quest’ultimo rifletta, con uno specchietto, i segnali luminosi ricevuti da O nuovamente verso O. Si otterrà un moto di andata e ritorno del segnale luminoso. O invia i segnali ad intervalli regolari τ (esempio ogni secondo). Se consideriamo il moto della luce come quello di un proietto di velocità c, dopo facili calcoli ricava che l’osservatore O’ riceverà i segnali luminosi ad intervalli di tempo τ’ un poco più grandi rispetto a O (a causa del fatto che la luce insegue O’). Ovvero, operando con semplici calcoli si trova  [1]. La luce, riflessa da O’, ritorni in O e venga registrata ad intervalli τ”. Se l’osservatore O assume, con Einstein, che la velocità della luce nel suo moto di ritorno si propaghi con velocità sempre c ottiene, dopo facili calcoli, l’intervallo di tempo di ricezione dei segnali riflessi da O’,  [2]. Ora, poichè, l’asserzione: osservatore O’ che si allontana da O (come visto da O) ha lo stesso valore fisico dell’asserzione: osservatore O che si allontana da O’ (come visto da O’), ovvero i moti relativi sono indistinguibili; i relativisti arguiscono che le operazioni fisiche di ricezione dei segnali da O (inviati da O’) e ricezione dei segnali da O’ (inviati da O) devono condurre a rapporti nei tempi di ricezione e trasmissione uguali, ovvero, si dovrebbe avere . Ma le formule [1] e [2] non dicono questo. I relativisti concludono che lo scorrere del tempo nei due sistemi non può essere pensato come assoluto cioè indipendente dallo stato di moto dell’osservatore quando questo confronti le proprie misure con quelle di altri osservatori, altrimenti si viola il principio di relatività fondato su solide basi sperimentali. Pertanto lo scorrere del tempo in O’ deve essere contratto di un fattore γ dipendente dalla velocità. Si perviene alla famosa formulazione di un tempo proprio. In altre parole, si dimostra così, che eventi giudicati contemporanei per un osservatore non lo sono affatto per un altro osservatore in moto (rispetto a questo). In conclusione, per arrivare a questo risultato, oltre a molte ipotesi non dichiarate, che hanno a che fare con il concetto di grandezza fisica, si è creduto di usare esplicitamente i due postulati:

 

a)   principio di relatività galileiana

b)   principio di indipendenza della velocità della luce dal moto dell’osservatore

 

È facile vedere che se si nega il postulato b) e si assume che la velocità della luce risenta del moto dell’emettitore (ipotesi balistica), allora al posto di c, nella [2], si deve porre c-v, e si riottene τ’ = τ” L’ipotesi balistica della luce fu sostenuta in passato dal fisico M. La Rosa che la discusse anche in relazione alle osservazioni sperimentali di stelle doppie(8). In assenza di una ben pensata riflessione sul significato da attribuire al concetto di propagazione della luce, che Einstein assolutamente non dà, l’ipotesi di La Rosa ha altrettanto legittimità quanto quella formulata nel postulato b), come ben messo in evidenza dal Bridgmann. Ma la cosa più rilevante da mettere in evidenza è l’uso spregiudicato del postulato a) che ne fa Einstein e dopo di lui acriticamente, ne fanno tutti i relativisti senza eccezione alcuna. Il postulato di relatività di Galileo da utile strumento di verifica dei risultati sotto ben opportune condizioni diventa invece dogma. Da strumento di conoscenza diventa strumento di costrizione. Vediamolo all’opera come dogma e riprendiamo i nostri due osservatori O ed O’. Ognuno dei due può benissimo, e con lo stesso diritto, assumere se stesso in quiete e osservare l’altro che si allontana. Ciò che nessuno può fare è di considerarsi allo stesso tempo in quiete ed in moto, come invece pretendono i relativisti! Infatti, vediamo quali sono le operazioni fisiche e logiche che hanno condotto alle formule [1] e [2]:

 

i)         l’osservatore O, da fermo, invia ogni τ secondi segnali di luce che raggiungono O’

ii)        l’osservatore O’, che si allontana, invia (riflette) ogni τ’ secondi segnali di luce verso O

iii)       l’osservatore O, da fermo, riceve ogni τ” secondi segnali di luce

 

 

Vediamo dunque che le operazioni fisiche condotte da O consistono nell’inviare segnali verso un osservatore in moto O’ e nel riceverli indietro. Le sue osservazioni (da fermo) sono coerenti con l’assumere che il segnale si propaghi nel suo sistema di coordinate con velocità c sia in andata che in ritorno. Tutto scorre secondo logica ed esperienza. Perché mai l’osservatore dovrebbe pretendere l’uguaglianza:  ? La pretesa nasce da una assurda interpretazione del principio di relatività e da un uso scorretto del metodo operativo. La pretesa è la seguente:

 

A) osservatore O fermo riceva segnali inviati da osservatore O’ in moto (rispetto ad O)

equivalente a

B) osservatore O in moto (rispetto ad O’) riceva segnali inviati da O’ fermo

o in altre parole, le operazioni fisiche implicite nell’affermazione A) conducono

a risultati identici delle operazioni fisiche implicite nell’affermazione B).

Ovvero, l’osservatore che riceve ( O) possa essere considerato indifferentemente in moto o in quiete e lo stesso dicasi per O’.

Questa equivalenza, che io chiamo mitologica, è alla base della teoria della relatività per quanto questo possa sembrare assurdo.

 

La teoria della relatività ancora oggi suscita vari dissensi anche se la critica si disperde in una miriade di doppi sensi e analisi incomplete. Non di rado, a complicare le cose ci si mettono pure i pazzi! Ma, il nocciolo duro del paradigma relativistico, rappresentato dall’enorme successo della teoria nello spiegare i cosidetti fatti sperimentali o esperimenti (con incluso il famoso esperimento della bomba atomica!) come dir si voglia, rimane intatto in tutto il suo splendore e ciò ricorda, di brutto, il successo che riscosse il modello tolemaico per centinaia e centinaia di anni. La storia però, per uno di quei strani casi della vita, che i cultori del mito non possono capire, si è presa una rivincita. Einstein non ebbe mai la soddisfazione di vincere il Premio Nobel per la sua teoria della relatività e questo, in barba alla comune affermazione che questa teoria sia tra le conquiste più feconde, audaci e imperiture dell’umano pensiero (9).

 

 

 

Note

 

(1) A. Pagano, Fisica e Metafisica nel/a teoria di Einstein, Mondotre, n. 6/7, anno III, 1989; Su di un’opera dimenticata di fisica di Boggio e Burali-Forti , Quaderni di Mondotre, Suppl. n. 4/5, anno III, 1989; Riflessioni sulla didattica della Fisica, Mondotre, Suppl. n. 7, anno III, 1991,    TORNA

(2) Ludwig Boltzmann, Lecons sur la teorie des gaz, Ed. Jacques Gabay, 1987

Boltzman è uno dei massimi esponenti della scienza di tutti i tempi. Condusse una grande battaglia culturale contro gli empiristi che negavano valore alla teoria atomica della materia. I suoi lavori permisero di chiarire il concetto di entropia, tanto importante oggi nelle questioni di scienza dell’informazione e di scienza dell’ambiente. Le polemiche con gli empiristi ne minarono lo spirito. Divenuto cieco, decise di suicidarsi nel 1904.    TORNA

(3) In realtà, molti degli esperimenti “cruciali” sono stati analizzati criticamente nel passato arrivando al risultato che quegli esperimenti non sono affatto cruciali, costringendo i teorici della relatività ad ammettere che questa teoria non nasce da una esigenza di carattere sperimentale ma da una esigenza teorica.    TORNA

(4) Vedi: P.W. Bridgman, La logica della fisica moderna, Boringhieri, 1977, p. 163. Brigdman, premio Nobel per la fisica, è stato uno dei pochi scienziati che hanno pensato e riflettuto sui fondamenti della nostra scienza, E’ considerato il padre dell’operazionismo moderno.

Un’analisi storica del dibattito tra relativisti intorno agli anni 20-30 mostra, e non sorprendentemente, che i fisici sperimentali in tutta Europa, con pochissime eccezioni, furono o contrari alla relatività o scettici.    TORNA

(5)  E. Perucca, Fisica generale e Sperimentale, in due volumi, Sesta edizione, UTET - Torino 1949.    TORNA

(6) Vedi ad esempio, Einstein, Conie io vedo il mondo, Ed. Newton, tascabili, 4, pag. 71 Ibidem, pag. 152.    TORNA

(7) Vedi ad esempio, H. Hertz, Electric Waves, Dover Publication, New York, 1962

Le equazioni di Maxwell sono un compendio dei fatti sperimentali più noti dell’elettromagnetismo. In quanto equazioni alle derivate parziali sono molto diverse dalle equazioni del moto delle particelle. E’ stato lungamente osservato che le trasformazioni che conservano la forma delle equazioni nel passaggio da un sistema inerziale ad un altro inerziale (caso lineare) non sono le trasformazioni di Galileo ma, bensì le trasformazioni di Lorentz. Questo fatto era noto agli esperti molto tempo prima che la relatività fosse scoperta. Non si riteneva affatto che le diverse proprietà di trasformazione delle equazioni di Maxwell rispetto alle leggi di Newton fosse un fatto sosì sorprendente. In realtà è noto che nessun modello alle derivate parziali presenta equazioni che mantengono la stessa forma nel passaggio da un riferimento inerziale ad un altro inerziale per trasformazioni di Galileo. Che un modello fisico, rappresentazione di idee generali, debba essere scritto con relazioni invarianti in forma è un’affermazione tanto vuota quanto banale. Ma che tutti i modelli fisici debbano essere invarianti sotto lo stesso gruppo di trasformazione è assolutamente privo di senso, benchè ammesso con la recita del principio di relatività ecco una possibile formulazione: l’esperienza dimostra la validità del cosidetto principio di relatività. Secondo questo principio tutte le leggi della natura sono identiche in tutti i sistemi di riferimento inerziali. In altri termini, le equazioni che esprimono le leggi della natura sono invarianti rispetto alle trasformazioni delle coordinate e del tempo, corrispondenti ad un cambiamento di riferimento inerziale. (Lev. D. Landau Evgenij M. Lifsits, Teoria dei Campi, Editori Riuniti, Mir 1976 pag. 13); la velocità della luce vale circa c=3. 108 m/sec.    TORNA

(8) Si veda M. La Rosa, Le concept de temps dans la theorie d’Einstein, Scientia, voI. XXXIV. Le osservazioni del La Rosa sono state riconosciute pertinenti dal Brigdman, vedi op. cit.    TORNA

(9) Einstein ebbe il premio Nobel per la fisica dell’Effetto fotoelettrico. Lo scenziato ebbe a rammaricarsi più volte del fatto che il Nobel gli era stato dato per una spiegazione da apprendista stregone, pittosto che per la teoria della relatività che egli considerava, almeno da giovane, la vera teoria fisica.    TORNA