DISCORSO
SULL’APPARENTE CONTRASTO FILOSOFICO
TRA I REALISTI
E I SOSTENITORI DELLA SCUOLA DI COPENAGHEN1
Gaetano Bruno Ronsivalle
“Invano lanciamo lo sguardo verso il cielo e
scrutiamo nelle viscere della terra, invano studiamo gli scritti dei dotti e
indaghiamo le orme oscure dell’antichità! Basta soltanto che solleviamo il
velame delle parole perché possiamo contemplare l’albero della conoscenza più
elevata, che offre frutti eccellenti e a portata di mano.”
George Berkeley, 1710/34, 30
Abstract
A cynical reading
of Jauch’s short Dialogue, emphasises
some contradictions which characterise the debate concerning the nature of quanta. Tricky language pitfalls and
unavoidable contamination from nineteenth-century philosophical tradition,
sometimes seem to dissolve the conceptual waIl between Quantum Mechanics’
standard interpretation and Einstein’s realistical heterodoxy. Contraposition,
therefore, grows intertwined and confused, up to fade in a never ending
misunderstanding about the “would-be” eorrespondence between Science’s human
language and the “reality” of things.
[Translated by Concetta Simona Condorelli]
1. Introduzione
La storia della nascita e dell’evoluzione della
meccanica quantistica attraverso i decenni del nostro secolo costituisce un
ottimo esempio dell’inevitabile processo di continua trasformazione che
coinvolge il nostro modo di intendere il rapporto tra «noi» e il «mondo».
Certo, un processo non sempre all’insegna della continuità, bensì sovente
scandito da innumerevoli fratture e malintesi; ma indubbiamente connesso a un
recondito - illusorio? -desiderio di
chiarificazione intellettuale intorno ai meccanismi sotterranei che
regolamentano l’interazione tra le nostre «immagini» della Natura e l’universo
di eventi cui i nostri organi sensoriali assistono con indelebile e confortante
assiduità. La confortante assiduità di
un’indagine tesa all’individuazione di uniformità e regolarità, in ragione e in
forza delle quali si renda possibile l’assoggettamento del vortice impetuoso di
eventi sotto l’egida di una rigorosa struttura di simboli, leggi, codici
formali cui affidare l’ingrato compito di narrare
e prevedere le vicende di questo
dialogo.
Ma come ogni tentativo da parte del compositore di
trasporre il proprio teatro sonoro mediante un labirinto di neumi e linee
spezzate é destinato a complicare e tradire l’idea originale, così l’avventura
del fisico moderno - e in particolare del fisico dei quanta - si infrange contro un’equivoca rete linguistica i cui
elementi reclamano a gran voce un insidioso
e fetale impegno ontologico.
Insidioso, poiché frastagliato di oscure allusioni a tradizioni terminologiche
passate di indubbio splendore - il vocabolario della fisica classica -, in
aperta dissonanza con l’accecante complessità del mondo microscopico e del suo
enigmatico apparire come insieme di tracce su lastre fotografiche. La
trasmutazione dello spazio delle fasi in uno spazio di Hilbert, degli stati
puri di un sistema fisico classico in funzioni d’onda ψ (vettori di
lunghezza unitaria nello spazio di Hilbert), nonché l’indebolimento
dell’algebra booleana in funzione di una logica quantistica non distributiva e
l’abbandono del principio di additività di Kolmogorv, testimoniano infatti, da
una parte, la volontà di affrancarsi dai tentacoli della tradizione
ottocentesca, dall’altra, l’inevitabile vassallaggio nei confronti di un modus cogitandi et loquendi ormai
penetrato fino al midollo. Con tutti i paradossi che ne derivano...
Letale, in quanto impregnato di genuino
“fisicalismo”, poiché onnicomprensivo nel
proprio presunto collocarsi alle radici ultime della realtà, e nella propria
pretesa di cogliere, con essa, le dinamiche stesse di ciò che ne rende
possibile la comprensione. Ne sapeva qualcosa Lucrezio, la cui immagine
“meccanica” del mondo finì per sprofondarlo in una decadente e quanto mai
complicata concezione pessimistica della dimensione esistenziale dell’essere
umano. Tutto ciò nonostante l’eredità del clinamen
epicureo e la possibile via di fuga dallo scorrere pre-determinato dei
fatti... Egli era infatti vittima inconsapevole di un’eterna illusione: che il
linguaggio degli “atomi” rispecchiasse tout
court la “vera essenza” delle cose, e che ogni manifestazione macroscopica
della realtà potesse, in quanto apparizione
al cospetto dei nostri organi di senso, essere ridotta a un puro gioco di
urti e movimenti.
* * *
Sembrerà
strano al lettore, ma ritengo che sia proprio da un simile malinteso, da un lieve ma sostanziale slittamento filosofico verso un “realismo” inconsapevole - anche se
in apparente continuità con la remota ambizione di tradurre il sensibile in un
sistema continuo di atomi e vuoto - che abbia avuto origine quella cesura tra
la Scuola di Copenaghen e i cosiddetti “materialisti” (o “realisti” o
“deterministi”) in seno alla rivoluzione concettuale provocata dalle scoperte
di Planck. Una rivoluzione che, non a caso e con estremo candore, Bohr ebbe a
definire come la “generalizzazione
naturale della meccanica classica con la quale non teme il confronto sia per
bellezza che per interna coerenza”2.
Procediamo per piccoli passi.
2. Jauch e i due massimi sistemi
Al fine
di delineare in maniera efficace e suggestiva i punti essenziali su cui si
incentra la controversia tra le due opposte fazioni, J.M. Jauch ha pensato bene
di riesumare una nobile forma letteraria di indubbia forza espressiva,
ispirandosi al celeberrimo Dialogo sopra
i due massimi sistemi del mondo di Galileo. Egli ripropone dunque la
contesa cordiale tra Salviati, il
paladino della nuova fisica e dell’interpretazione ortodossa della meccanica
quantistica, e il materialista Simplicio,
ex-aristotelico convertitosi alla meccanica classica e alla relatività, con
la mediazione equilibrata del garbato e sempre più arguto Giovan Francesco Sagredo. Durante le quattro giornate in cui si
articola il dialogo, vengono affrontati alcuni temi centrali della polemica,
quali l’interpretazione del principio di complementarità di Bohr, la connessa
questione della realtà delle proprietà fisiche a prescindere dall’osservazione,
il problema della spiegazione deterministica, le contraddizioni legate ai
tentativi di completamento della teoria mediante l’introduzione di variabili
nascoste.
Dal confronto - naturalmente
- sembra emergere in maniera netta una supremazia logica e sperimentale
dell’opzione standard, la cui schiacciante vis
dimostrativa finisce addirittura col produrre nel povero Simplicio un vero
e proprio rivolgimento psicoanalitico notturno!3 Tanto
che, una volta messa in scacco la visione classica laplaciana di un mondo-macchina “realmente” esistente (oltre ogni
procedura sperimentale) e dominato da leggi “che sono assolute e immutabili”4, Salviati (Jauch) si spinge ad auspicare
l’applicazione dei modelli quantistici anche allo studio della società e delle
relazioni interpersonali:
“SALVIATI: [...] Proprio come le correlazioni tra sistemi quantistici interagenti
introducono nel comportamento dei singoli sistemi molti tipi diversi di
mutazioni, che in mancanza di un termine migliore chiamiamo salti quantici,
così la persona integrata in un gruppo presenta intuizioni spontanee che
nell’isolamento le sarebbero state accessibili.”5
Al di
là di simili sconfinamenti, della cui opportunità o meno giudichi il lettore,
le argomentazioni di Jauch a favore della Scuola di Copenaghen - e in
particolare del principio di complementarità - ruotano attorno a quattro
questioni centrali:
• il dualismo onda-corpuscolo
(continuo-discreto) messo in evidenza mediante l’esperimento del polaroide,
dove si rende palese il diverso schema formale utilizzato per descrivere il
comportamento di un campo elettromagnetico (la teoria ondulatoria della luce
esposta da Simplicio) e quello di un singolo fotone;6
• il carattere stocastico -
assolutamente non-deterministico - del comportamento di singoli fotoni emessi
da una fonte luminosa in direzione delle due lastre di polaroide e registrato
da un tubo fotomoltiplicatore posto dietro il secondo polarizzatore;7
• la sostanziale differenza epistemologica tra il modello aleatorio
implicato da un moto browniano (cui si riferisce Semplicio per neutralizzare
l’apparente disordine) e quella connessa all’esperimento dei fotoni e del
polaroide; nel primo caso, infatti, il comportamento irregolare può essere
spiegato a partire dalla “natura atomica” della materia, mentre nel secondo
sarebbe solamente l’esclusione di tale requisito a rendere possibile un’analisi
deterministica del fenomeno (mediante un’interpretazione ondulatoria);8
• l’impossibilità dell’individuazione e
definizione delle proprietà fisiche di un sistema a prescindere dalla
situazione sperimentale in cui esse vengono misurate, anche come conseguenza
necessaria delle complicazioni derivanti dall’esperimento della “doppia
fenditura”.9
Forte
di questi supporti sperimentali, Jauch porta avanti la propria critica nei
confronti dei “realisti” procedendo lungo tre sentieri distinti. Il primo
consiste nell’includere - non senza qualche vistosa forzatura - all’interno
del dominio semantico del termine “meccanica classica” una serie di posizioni
teoriche per nulla conciliabili fra loro, con il risultato di trasformare la
figura di Simplicio in un semplice fantoccio costruito ad hoc per neutralizzare facilmente le ipotesi legate alle teorie
con variabili nascoste. Un’operazione intellettuale di scarso valore analitico
ma gravida di conseguenze, su cui - momentaneamente - non conviene
soffermarsi.
Il
secondo fronte della polemica, certamente più interessante, è rappresentato
dalla constatazione del duplice carattere contestuale del significato - e
quindi, dei valori di verità - degli enunciati chiamati a rappresentare i
fenomeni quantistici. In tal senso, Jauch intende evidenziare sia l’immancabile
influenza di alcuni concetti primitivi non-scientifici nei confronti di
qualsiasi struttura teorica - derivante dall’inevitabile incompletezza dei sistemi
assiomatici -10; sia
il carattere vincolante della scelta semantica di sfondo - la “cornice di
costruzioni teoriche” - nell’individuazione e nel controllo delle
corrispondenze tra “osservabili” e loro rappresentanti matematici. Una sorta
di moderato olismo semantico ed epistemologico da cui il fisico prende le mosse
per avanzare una serie di critiche nei confronti dell’idea classica di
“Realtà” fisica; quest’ultima, imperiosamente espressa per bocca
dell’avversario Simplicio:
“SIMPLICIO: [....] Sostengo, con alcuni dei più
grandi scienziati di oggi e di ogni tempo, che la scienza si occupa delle
proprietà degli oggetti reali. Il fatto che la nostra scienza non sia in grado
di fornire su questi oggetti enunciati assolutamente certi non vi autorizza a
concludere che questi oggetti non abbiano proprietà ben definite. Significa
solo che i nostri metodi non sono abbastanza precisi da rivelare queste
proprietà. Questa confusione tra ciò che le cose sono in sé e ciò che noi
possiamo sapere di esse è molto elementare.”11
Siamo dunque al terzo sentiero della riflessione critica
di Jauch, forse il più importante: ogni considerazione intorno ai criteri
mediante i quali è possibile stabilire la reale
esistenza o meno di un’entità, di una proprietà o di una relazione fra
entità, implica una riflessione sui limiti della conoscenza umana e sulla
facoltà di approdare a una comprensione oggettiva del mondo. La presunta
confusione tra la cosa in sé e ciò che è conoscibile, tra gli oggetti
reali e la loro interpretazione matematica, lungi dal derivare da una
inadeguatezza delle tecniche osservative, è strettamente connessa a un’idea
innovativa di misurazione e descrizione dei fenomeni della microfisica, che
tiene conto sia del carattere macroscopico degli strumenti sperimentali, sia
del carattere discontinuo degli eventi quantistici. I concetti tradizionali di
“univocità” di un risultato di misura e “oggettività” di una proprietà fisica
devono essere reinterpretati in termini non intuitivi alla luce della relazione
di complementarità - o reciprocità - tra una spiegazione
spazio-temporale e una descrizione in termini di leggi di conservazione della
quantità di moto e di energia. Il che comporta ovviamente un abbandono
definitivo dei modelli deterministici della fisica classica, a favore di
descrizioni il cui carattere stocastico è manifestazione di quella muraglia tra
i due aspetti complementari del fenomeno.
Tutto ciò si evince anche dalla particolare
interpretazione da parte di Jauch dell’equazione
di Schrödinger. Secondo Simplicio, questa costituirebbe “una specie di
strumento di calcolo”, e non certamente una descrizione “reale” di un evento
fisico, poiché, pur essendo deterministica e simmetrica rispetto al tempo,
deve dar conto solamente di eventi probabili.
La risposta dell’autore si fonda innanzitutto su una
distinzione importante, ossia quella tra sistemi fisici chiusi, i quali non
sono sottoposti a perturbazioni esterne, e sistemi fisici aperti, soggetti
invece a interazione con il mondo esterno. Premesso questo, egli accetta sì le
argomentazioni dell’interlocutore, ma solamente qualora si stia trattando di un
sistema fisico chiuso; nel caso di uno scambio di quantità di moto ed energia
con l’esterno, ossia nel caso in cui l’evoluzione riguardi un sistema aperto,
la descrizione diventa irreversibile e assume una tipologia di tipo aleatorio:
“SALVIATI: […] Il fatto stesso di osservare il verificarsi di eventi presuppone appunto
che il sistema osservato interagisca con un altro. In queste condizioni,
dunque, l’evoluzione è quella di un sistema aperto e per questo sistema essa
non è deterministica e non è reversibile.”12
Ogni
misurazione dei fenomeni quantistici comporta dunque, a dispetto delle
perplessità di Simplicio, un’alterazione del tradizionale rapporto tra apparato
di misura e oggetto fisico, dove con il termine “misurazione” non si dovrebbe
più intendere la semplice e “asettica” registrazione di un fatto, quanto invece
il prodotto della reciproca perturbazione tra i due sistemi fisici, nonché il
fattore stesso che rende possibile la riduzione della ψ (ossia il
passaggio del vettore ψ da uno
stato di sovrapposizione a uno ben determinato). Si pone allora il problema di
come descrivere rigorosamente - giustificare - l’intero processo di
transizione, tenuto conto del fatto che esso deve in qualche modo soddisfare il
requisito dell’“oggettività” (ripetibilità) del risultato finale
dell’osservazione. Come ben evidenziato da G. Tarozzi13, la
posizione di Jauch nei confronti della misurazione quantistica è assimilabile a
quella classe di teorie secondo cui la riduzione del pacchetto d’onda si verifica nel passaggio dal livello
microscopico a quello macroscopico14. E’
infatti lo stesso Salviati a imporre l’esigenza che gli apparati di misura
siano sufficientemente “grandi” da potersi considerare come sistemi classici,
in modo da rendere irrilevanti le proprietà quantistiche degli stessi in sede
sperimentale, e produrre un’adeguata amplificazione dei fenomeni misurati in
rapporto alle “facoltà sensoriali” dell’osservatore - e cioè trasformare e
stabilizzare le sottostanti interazioni microfisiche in “dati” obiettivi e
comunicabili al resto della comunità scientifica.15
3. La
Scuola di Copenaghen e la ricerca di “nuove armonie”
Una
lettura più attenta dell’operetta di Jauch ci rivela l’esistenza di una sorta
di basso continuo lamentoso sulle cui
sequenze armoniche si staglia il vivace e variegato contrappunto fra i
protagonisti del confronto: è il tema del disorientamento
intellettuale - espresso da Sagredo già nella Giornata Seconda16 -
derivante dalla sfiducia dello scienziato di formazione “classica” nella
facoltà di riuscire a inquadrare l’universo della microfisica per mezzo degli
strumenti intuitivi che gli hanno consentito sino ad allora di concepire
un’immagine “realistica” del mondo. Uno stato di “disagio” magistralmente
ipostatizzato nella mediocre figura di Simplicio, il cui ottuso arroccarsi
dietro la visione comune delle “cose” - “il
buon senso” e “l’esperienza
quotidiana dei nostri sensi”17 -, manifesta
un sospetto segreto e inquietante: che l’affresco della Realtà tratteggiato
mediante i concetti di “spazio”, “tempo”, “reversibilità” e “causalità” non
esaurisca il dominio della conoscenza fisica. Uno stato di imbarazzo dinanzi al
crollo della definizione stessa di “fenomeno” in connessione a una critica sia
dell’assolutezza delle forme a priori dell’intuizione, sia della validità delle
categorie intellettuali che hanno reso possibile la fisica come “scienza”.
D’altra
parte anche Bohr, nel trattare gli aspetti filosofici legati ai fondamenti
della meccanica quantistica si concentra essenzialmente sul nesso fra (a) il
“fallimento” delle nostre forme
d’intuizione adattate alle percezioni sensoriali ordinarie18, (b) la questione
dell’interazione tra oggetto fisico e apparato di misura, e (c) la relazione
di complementarità (o reciprocità). Come nel caso di Salviati (Jauch), il
fisico danese individua quindi nell’inadeguatezza delle forme intuitive
mediante le quali l’uomo ordina i dati sensoriali per dar vita ai “fenomeni”
l’argomento centrale contro la prospettiva epistemologica su cui si è basata la
meccanica classica.
Tale
posizione viene più volte ribadita nei suoi scritti filosofici, per mezzo di un
continuo richiamo alla presunta armonia non-intuitiva
della teoria quantistica19, dove
il principio di complementarità si introduce come elemento di rottura
all’interno della visione consonante della meccanica classica, corrodendo quel
mirabile equilibrio tra la difesa kantiana della causalità contro lo
scetticismo di Hume e una teoria della conoscenza scientifica ancorata al
principio di uniformità e invarianza nel tempo delle leggi di natura. Queste
ultime potrebbero addirittura smarrire la loro cristallina oggettività in
ragione dell’ipotesi insidiosamente avanzata da Jauch, secondo cui anche i
valori delle costanti fondamentali della fisica potrebbero mutare in funzione
diretta del tempo - rivelandosi, in tal senso, tutt’altro che “costanti”!.20
Molto spesso, inoltre, l’analisi critica di Bohr - quasi
in virtù di una ricerca di legittimazioni sempre più profonde - si avvale di
interessanti considerazioni di ordine psicologico intorno al problema
dell’oggettività della conoscenza fenomenica. Come nel caso dell’ipotesi
dell’indipendenza fondamentale a livello cognitivo dei concetti di
spazio-tempo e quelli di energia e di quantità di moto, secondo cui anche
nell’uomo comune le impressioni sensoriali volte a cogliere un dato evento
mediante il ricorso a forze e urti sono relativamente autonome rispetto a
quelle volte a collocare le cose in termini di successioni ordinate nello
spazio. Sempre in accordo con questa tesi, la percezione interna di un modello
integrato dei fatti fisici deriverebbe invece dall’attività sintetica della
coscienza umana, la cui funzione viene assimilata da Bohr a quella svolta dal
principio di complementarità fisica in ambito scientifico.21 Il
significato di quest’ultimo, potrebbe inoltre essere assimilato sia a quello
analogo della relazione di reciprocità tra spiegazioni del ragionamento umano
in termini di eventi mentali e modelli neurofisiologici (i due aspetti,
infatti, pur escludendosi a vicenda, si rivelano entrambi necessari per dar
vita a descrizioni “complete” dei processi cognitivi dell’uomo); sia al
rapporto conflittuale in seno alla biologia tra spiegazioni meccanicistiche e
descrizioni finalistiche.22
Dal
livello della conoscenza intuitiva la polemica si sposta dunque alle sfere
intellettuali, mediante sottili disquisizioni sul carattere arbitrario del
principio deterministico di causa ed effetto - massima “categoria” kantiana,
nonché emblema della razionalità scientifica del XVIII e XIX secolo - cui sia
Bohr che Jauch propongono infine di sostituire una visione più “realistica” (!)
del mondo fisico:
“Per la natura stessa
delle cose noi possiamo soltanto impiegare considerazioni probabilistiche per
predire il verificarsi dei singoli processi.”23
L’attacco
nei confronti della meccanica classica da parte degli “ortodossi” della m.q.
non si limita dunque a una polemica sul carattere obsoleto del suo formalismo;
esso si spinge oltre, fino al cuore stesso della concezione gnoseologica che ne
ha sostenuto sino ad allora le colonne portanti. Ma è proprio tra le fronde di
questa critica radicale che si annida il malinteso... Infatti, sembrerà strano,
ma il non isolato richiamo di Bohr alla natura
stessa delle cose è un argomento intorno al quale si polarizza la
sensibilità di molti studiosi appartenenti alla medesima corrente. E’ il caso
di Heisenberg, secondo cui “la vera e
propria forza della fisica moderna è [...]
insita nelle nuove possibilità di
pensiero che la natura ci offre”24. Egli esclude infatti in maniera
assoluta che dietro le leggi statistiche della m.q si nasconda una rete di
leggi deterministiche di cui ancora si ignora l’esistenza25,
poiché, a dispetto della persistenza di alcuni concetti “classici” in seno
alla nuova fisica, sono la “natura” e le nuove tecniche di osservazione a
imporre nuove forme di pensiero scientifico e un nuovo vocabolario teorico
atto a superare le innumerevoli complicazioni derivanti dall’impianto
epistemologico tradizionale.26 In tal
senso, il bersaglio filosofico privilegiato della critica di Heisenberg non
può che essere rappresentato dalla teoria kantiana della conoscenza, colpevole,
a suo dire, di aver favorito un vero e proprio “irrigidimento dell’immagine scientifica del mondo”27, in
relazione al carattere assoluto di spazio e tempo (anche se il nostro fisico,
correttamente, riconosce il fatto che Kant abbia sempre negato in maniera
decisa tale assolutezza).28 Un
irrigidimento tale da impedire al fisico ogni via di accesso a nuove forme di
descrizione della Natura più profonde e adeguate all’ampliamento del dominio
osservativo nell’ambito della microfisica:
“.... il
sospetto che anche i concetti della fisica moderna debbano essere riveduti non
deve essere interpretato come scetticismo; al contrario, esso non è che
un’altra espressione del convincimento che l’ampliamento del nostro campo di
esperienza metterà in luce sempre nuove armonie.”29
Ritorna
dunque il duplice tema suggestivo del “sospetto” e delle “nuove armonie”, in
accordo con una concezione “realistica” della scienza secondo cui gli
enunciati della fisica altro non sarebbero che “pitture verbali”30 in grado di rendere intelligibile e comunicabile l’oscuro retrofondo di questo mondo, che noi
portiamo alla luce coi nostri esperimenti.31
Considerazioni
analoghe sono riscontrabili anche nelle pagine iniziali dei Principles of Quantum Mechanics di
Dirac, dove l’autore espone le ragioni scientifiche e filosofiche di un
abbandono dei concetti “classici” al fine di descrivere gli eventi della
meccanica quantistica. Fra le varie motivazioni di una tale rinuncia egli
indica infatti la necessità di un “aggiornamento” delle vecchie categorie in
relazione ai recenti risultati sperimentali, individuando nell’esistenza di
proprietà ondulatorie delle particelle materiali un monito nei confronti della
presunta “incapacità” della concezione classica di fornire una descrizione degli eventi atomici.32 Anche
in questo caso entrano in gioco considerazioni di ordine realistico, la voce
della Natura e i cosiddetti “risultati dell’esperienza”, per orientare la
scelta della nuova cornice teorica.
Tutto
ciò, a mio parere, in perfetto accordo con il più poetico Sagredo, il quale,
nelle ultime battute del Dialogo di Jauch, esprime in maniera entusiastica la
propria completa conversione alla versione ortodossa della m.q.:
“SAGREDO: La scienza rivela strutture che sono in
qualche senso importanti e significative e
quanto più esse sono significative tanto più sono reali. [...]. Non sono questi gli ingredienti necessari per far venire in luce la
bellezza e la perfezione del Creato, pur nascoste nella biblioteca di
Simplicio, ma a lui inaccessibili perché egli non ha prestato attenzione a ciò
che è essenziale nella ricerca della verità? Tra questi principi, quello di
complementarità è senza dubbio la somma e il fondamento della nostra esperienza
dei fenomeni microfisici. Questo principio, invece di esprimere le limitazioni
della nostra capacità di conoscere, esprime piuttosto l’intima essenza della
rappresentazione oggettiva dei fenomeni fisici nel linguaggio univoco proprio
dell’evidenza dei fatti.”33
Cos’altro aggiungere? Sembra proprio che una
contrapposizione sulla base dell’adesione o meno alla posizione teorica del
“realismo filosofico” tra Simplicio e i maestri di Copenaghen sia frutto di un semplicissimo malinteso...
4.
Considerazioni sopra i due minimi sistemi
Devo
confessare che molto spesso, assistendo in modesto e dignitoso silenzio
alle polemiche tra materialisti (realisti) e
sostenitori dell’interpretazione ortodossa della meccanica quantistica,
sono stato assalito dal sospetto che tra le due posizioni non ci fosse una sostanziale
divergenza filosofica di sfondo. L’arena ideale all’interno della quale le due
opposte fazioni continuavano, continuano e - purtroppo - continueranno, a
fronteggiarsi mi è sempre apparsa come una sorta di palcoscenico delle arguzie
logiche a effetto e dei geniali stratagemmi sperimentali, dietro cui nascondere
una contrapposizione nuda e cruda tra coloro i quali ritengono intimamente che
il mondo sia veramente una nuova macchina di Laplace (magari con qualche
concessione alle proprietà quantistiche) e coloro i quali lo sognano come una
sorta di grande organismo in preda a un caos gradevole e relativamente
disciplinato. E quando dico “ritengono intimamente” non intendo riferirmi a una
complicata successione di enunciati e deduzioni logiche da cui sia i primi che
i secondi avrebbero ricavato la propria immagine dell’universo; perché, se
così fosse, essi avrebbero una qualche ragione per confrontarsi sul comune
terreno della scienza. Mi riferisco piuttosto a quella oscura e latente
attività interiore della mente umana che, sulla base degli inconvenienti e
delle esperienze favorevoli della nostra breve esistenza, ci spinge
inesorabilmente verso un’idea più o meno statica di “come dovrebbero stare
veramente le cose”. Una sorta di densa struttura di credenze, una intricata
ragnatela di ricordi e nostalgiche evocazioni oniriche e fanciullesche che
solamente in preda a un profondo stato confusionario o di dormiveglia si potrà
mai definire come una “teoria filosofica”.
Ne è prova il fatto che i protagonisti della contesa si
contraddicono su quasi tutto tranne che sulle questioni fondamentali intorno
alle quali invece verte sostanzialmente ogni riflessione sulla teoria della
conoscenza umana che ambisce a conquistare un piccolo spazio nella storia delle
idee immortali. L’osservatore inesperto potrebbe essere tratto in errore
dall’apparente profondità che sembra celarsi dietro il principio di
complementarità, o in seno alla critica delle forme intuitive dello “spazio” e
del “tempo”, o alle frecciate contro il determinismo o il concetto di
reversibilità, poiché la discussione intorno a tali concetti si presenta come
immersa in un’aura di attenta considerazione nei confronti di certa
letteratura, e quindi fortemente impregnata di quel vocabolario la cui presenza
è sufficiente a stabilire che si sta assistendo a una disputa filosofica sui
fondamenti. E’ anche possibile che un tale intimo convincimento alberghi
altresì nello spirito di alcuni degli interlocutori.
Ciò che rende vigili è certamente quella inaudita
concordia sul fatto che “esistano” delle grandezze fisiche, che esse possano e
debbano essere oggetto di scienza in quanto “osservabili”, e che il loro poter
e dover essere oggetto di scienza si manifesti mediante la loro interpretazione
matematica. Ciò che sorprende, e per molti versi avvilisce, è inoltre il
riguardo ontologico nei confronti di tali “osservabili”, trattate unanimemente
come messaggeri indiretti ma fedeli delle “cose in sé”, fonti originarie della
conoscenza, dati di fatto la cui potenza rivelatrice delle più impervie
astrusità della Natura non è il caso di mettere in discussione.
Si potrebbe
controbattere: come giudicare allora coloro i quali sostengono l’interazione
tra l’osservatore stesso, l’apparato di misura e il sistema fisico? Non sono
forse essi i paladini di una concezione “idealistica” tesa a svalutare il
valore indipendente delle cose del mondo come cose in sé? Il problema di fondo consiste però nell’interrogarsi
insieme a loro sulla legittimità di una concezione che, nel tentare di
concentrare l’attenzione sulla forza creatrice della mente umana, è costretta a
mettere tra parentesi uno stato di sovrapposizione della funzione <, di cui
presuppone l’esistenza e la possibilità di una riduzione a uno stato finale
definito. E, in definitiva, nel ridurre in caratteri
minuscoli il mondo, essi non esaltano la realtà ontologica della mente come noumeno? Non è forse questa
una forma di ben più deteriore realismo?
In verità, così come per Newton, la scienza è per
materialisti e sostenitori della Scuola di Copenaghen un insieme di strutture
simboliche in grado di riprodurre il “reale” intreccio delle entità mondane.
Con la differenza che se, per i primi, il sistema rimane e deve rimanere ancora essenzialmente correlato in base a catene
deterministiche, per i secondi, esso è realmente soggetto a fluttuazioni non
riducibili alla causalità kantiana, e necessita pertanto di un’ipotesi
interpretativa originale. In entrambi i casi poi, la credenza comune nella
forza gnoseologica delle “osservabili” si concretizza in un continuo monito
reciproco all’insegna degli innumerevoli risultati sperimentali destinati a
corroborare questa o quella tesi. Non è altro che una questione di
aggiornamento del linguaggio - la
sovrastruttura - nei confronti dei vari aspetti del mondo che via via vanno
affiorando - le vere strutture della
conoscenza.
Si
procede dunque mediante una revisione del formalismo in corrispondenza di
nuovi universi di entità, la cui scoperta è resa possibile dal fatto che essi
si manifestano - si rivelano? - all’interno dei vari laboratori dell’intero
globo terrestre. Anche se poi - poco
filosoficamente - si trascura il fatto che l’ingegnere o il fisico
sperimentale che ha costruito un apparecchio per misurare “qualcosa” deve pur avere
una qualche idea a priori di “cosa” intende misurare... E se possiede già
un’idea - se pur vaga - di cosa vuole misurare, è anche probabile che “scopra”
qualcosa di molto simile a quella “cosa”. Anche perché, se lo strumento di
misura non prevede - fosse soltanto come effetto perverso!! - la possibilità
dell’esistenza di quella entità, state pur certi che non potrà mai rilevarla e
misurarla. E’ inoltre possibile che egli possieda già in partenza una propria
concezione della fisica - non fosse altro per il fatto che è un fisico di
professione! - e che questa giochi un ruolo determinante sia nel suggerirgli
quella benedetta idea della cosa che
scoprirà casualmente o che intende misurare, sia nel dirigere la progettazione
dello strumento per attuare ciò.. Non è inverosimile poi che alla fine, dopo
aver “scoperto” o “misurato” quell’accidente di cui era alla ricerca, lo
scienziato tenti in qualche modo di inserirlo all’interno della precedente
concezione della fisica, e non riuscendovi decida di buttare in mare tutte le
categorie precedenti - ivi inclusa la logica che ne costituisce l’anima formale
-, dichiarandone l’inadeguatezza concettuale.
Non vedo sinceramente cosa possa esserci di filosofico in tutto ciò... Né tantomeno
appare più interessante lo sforzo teorico di coloro i quali, non riuscendo a
deglutire il defenestramento del
vecchio armamentario terminologico, si mettono alla ricerca di ulteriori entità
da accoppiare a quella del collega eretico, alfine di far “quadrare i conti”
alla vecchia maniera. Poiché costoro rimangono intimamente convinti - essi credono - che l’impasse in cui lo studioso è rimasto coinvolto dipende più da una
questione di fraintendimento dei dati sperimentali o di carenza delle
tecnologie di misurazione, che dalla scoperta di un sistema ontologico
realmente diverso da quello in cui - lo ripeto - essi credono.
Proliferano dunque le entità e le variabili nascoste,
mentre la fisica moderna assume sempre più le vesti di una imponente cattedrale
laica dove il pellegrino attende fiducioso da un momento all’altro una
manifestazione sensibile - “osservabile” - della dea Natura.34
5. Conclusioni
Una
domanda sulla possibilità di una fisica
come scienza suona per la maggior parte dei fisici come un genuino atto di
scherno.., un vero e proprio “sfogo filosofico” di nessun valore pratico.
Mi sia
consentito pensarla in maniera diversa. Ritengo anzi che proprio il prendere le
distanze da questioni del genere sia all’origine dell’apparente contrasto tra
realisti e difensori dell’ortodossia di Copenaghen.
Ben al di là infatti del valore retorico del quesito -
impregnato, forse, di un certo scetticismo alla moda -, esso proietta la
riflessione su una serie di questioni il cui distacco da parte di molti fisici
non ha mancato di produrre aberrazioni concettuali di non agevole risoluzione.
Mi riferisco, per esempio, alla questione cruciale dell’oggettività o meno
delle proprietà dei sistemi quantistici (da molti identificata come la Questione del Realismo). Ben lungi
dall’assumere le proporzioni immani che essa possiede dal punto di vista
“ontologico”, la si potrebbe affrontare con maggior sobrietà, tenendo conto
dell’interpretazione intensionale della logica portata avanti dall’ultimo
Carnap, il cui rifiuto dell’estensionalità - la manifestazione più sofisticata
del fisicalismo di stampo empirista - apre inoltre la strada a una serie di
percorsi alternativi a quelli della messa a punto di una logica quantistica35. Ma ciò richiederebbe una trasformazione radicale
del modo stesso in cui il problema viene formulato e affrontato. Richiederebbe
un certo distacco dalla “natura stessa delle cose”...
L’accostamento al testo di Carnàp, come a mille altri di
pari livello, presuppone infatti una rinuncia a considerare la filosofia della
fisica come una speculazione funzionale
alla divulgazione degli effetti di un esperimento che la comunità scientifica
giudica di un certo interesse. Una rinuncia a considerare cioè gli enunciati
della scienza fisica come descrizioni oggettive del mondo, su cui edificare
complicatissime costruzioni teoriche tese a giustificare il fatto che gli
enunciati della fisica di questo o quello scienziato rappresentano le “vere” descrizioni del mondo. Questo richiede
però, da parte del filosofo della fisica, come dello stesso fisico teorico che
si occupa di fondamenti, la consapevolezza di almeno tre principi orientativi:
(a) Il linguaggio
formale utilizzato per descrivere la realtà, più che influenzare genericamente
il nostro modo di concepire il mondo - come ritengono molti fisici (e lo
stesso Jauch) - ne condiziona la rappresentazione fin nei minimi dettagli;
tanto che, più esso è concepito in maniera rigorosa, meno spazio viene lasciato
alla possibilità di paradossi e contraddizioni. Dunque non serve a nulla
adeguare - aggiornare - il linguaggio
a un presunto sistema ontologico reale, poiché non esiste alcuna idea di
sistema ontologico al di fuori del linguaggio. Qualcuno potrebbe obiettare: un
povero passante va a sbattere su un palo della luce: come convincerlo del fatto che la realtà fisica è una sovrastruttura
del linguaggio? In nessun modo, risponderei. Ma solo nella misura in cui
egli decida di tenere per sé quell’esperienza traumatica a livello di pura
impressione sensoriale. Poiché se egli decide, come è probabile che accada,
di darsi una spiegazione razionale di ciò che è accaduto o di comunicano ad
altri, si può star certi che la descrizione dell’evento non potrà che seguire
le leggi del codice linguistico con il quale egli “concepisce” quotidianamente
il mondo. Si potrebbe insistere: come
negare che esista un nocciolo duro dell’esperienza che non dipende dal
linguaggio? Nessuno lo nega: ritengo solamente che esso non sia in alcun
modo accessibile dal punto di vista conoscitivo e pertanto non può costituire
oggetto di scienza36.
(b) Lo strumento di
misura è l’interpretazione materiale di
un modello fortemente condizionato dalla cornice teorica, ed è in grado di
rilevare nuove entità nella misura in cui esse siano già deducibili a partire
dal formalismo che ne ha presieduto la progettazione; è possibile che la loro
esistenza non fosse stata prevista prima del fatidico giorno in cui questa o
quella risonanza poté essere amplificata o registrata, ma ciò non significa che
non fosse virtualmente prevedibile.
Amplificare un evento quantistico per far sì che esso possa essere accessibile all’osservazione umana non è il frutto di
un miracolo o di un evento magico: è semplicemente una procedura di traduzione (direbbe Quine) di una serie
di impulsi fisici in un linguaggio comprensibile dall’essere umano.
Presumibilmente, mediante un vocabolario redatto dall’essere umano stesso e non
da chissà quale divinità dell’Olimpo! Risulta dunque risibile e priva di senso
ogni posizione filosofica volta a giustificare
una determinata teoria scientifica mediante un’osservazione effettuata per
mezzo di un apparato di misura costruito a partire dalla teoria stessa: esso è
semmai un espediente per verificare che lo strumento funzioni e che il suo
sistema di alimentazione di corrente sia perfettamente efficiente. E la fisica
moderna è senz’altro una disciplina in cui gli strumenti funzionano quasi
sempre in maniera sorprendente... (specialmente nel caso in cui l’erogazione di
un finanziamento di parecchi miliardi è subordinato alla scoperta di una nuova
particella!).
(c) In forza dei punti (a) e (b) non ha molto senso
parlare di teorie fisiche “più vere”, “meno vere”, “false”, “meno false”, ecc.,
in quanto esse si configurano come sistemi
di enunciati la cui interpretazione semantica - in termini di teoria logica
dei modelli - è resa possibile da precise regole di corrispondenza (imposte ad
hoc per far quadrare i conti) che mettono in relazione alcune proposizioni
teoriche con classi di enunciati osservativi. Questi ultimi, lungi dal
rappresentare la fonte della verità o la sorgente da cui sgorga il significato
di una teoria, non sono altro che le descrizioni - più o meno esplicite - delle
procedure di misura, con tutte le implicazioni messe in evidenza al punto (b).
Come tali, le teorie non possono essere giustificate se non in relazione alla
loro attitudine o meno a produrre modelli logicamente coerenti; o, perlomeno,
modelli che implicano il minimo numero di
paradossi possibile. Per le ragioni sopra addotte, e come ho già avuto modo
di sottolineare in alcuni miei scritti precedenti, ogni legittimazione di altra
natura - e in particolare di origine sperimentale - “vale meno della carta
straccia” (benché mi trovi fra i sostenitori dell’utilità di una “pratica
sperimentale”).
* * *
Molti teorici, sempre propensi alla classificazione, non
esiterebbero a qualificare i tre punti precedentemente esposti come una
versione speciale e ristretta di una posizione filosofica conosciuta sotto il
nome di “convenzionalismo epistemologico”. Per nulla entusiasta della
etichetta, non avrei comunque nulla da obiettare loro fino a quando però essi
non decidessero di attribuire tale impostazione, o qualcosa di simile, anche ai
sostenitori della Scuola di Copenaghen. Questo sarebbe clamorosamente falso,
almeno per ciò che concerne gli autori da me analizzati nei capitoli 2 e 3 del
presente scritto.
Mi permetto di
ribadirlo: come ho cercato brevemente di dimostrare, tanto il Salviati quanto il Simplicio di Jauch, mutatis
mutandis, ritengono che la scienza fisica sia una scienza di “fatti”, e che
tali “fatti” siano in qualche modo accessibili alla conoscenza umana. Non vi è
alcuna divergenza tra i due su questo aspetto. Il contrasto sorge nel momento
in cui si devono trasformare i “fatti”, le cose
in sé, in “fenomeni”, ossia in descrizioni formali di stati di cose: a
questo punto entra in gioco ciò che essi credono
intorno alla “vera” natura della Realtà fisica - intorno all’oscuro
“retrofondo” di questo mondo. Sinceramente, più che riconoscere una qualche
traccia di “convenzionalismo epistemologico”, mi sembra semmai di scorgere una
sovrabbondanza di “realismo”.
La critica di Simplicio nei confronti dell’ortodossia
quantistica è dunque alimentata dallo stesso “fuoco” intellettuale che supporta
la difesa di Salviati (Jauch): la tesi secondo cui gli enunciati della
scienza sono “pitture verbali” (Heisenberg) in grado di cogliere la “natura stessa delle cose” (Bohr)...
________________________
Note
1) Desidero ringraziare Titti Condorelli, cui è dedicato
il presente scritto, per aver tradotto in inglese l’Abstract del presente
lavoro, oltre che per aver stimolato e guidato fin nelle ultime fasi la stesura
dell’elaborato. Sono inoltre grato a G. Garozzo, E. Gasco, alla prof. M. Lizzo
e al Prof. G. Boscarino per avermi insegnato a riflettere con metodo sulle
strutture teoriche delle scienze naturali; nonchè ai professori della
S.S.S.EF.F. di Cesena (in particolare, al prof. G. Tarozzi), per aver avviato e
orientato in maniera rigorosa le mie prime affanose ricerche in un campo
disciplinare complesso e affascinante come quello dei fondamenti della
fisica. TORNA
2) Bohr (1931, 3). TORNA
3) Mi riferisco qui allo strano sogno da lui narrato all’inizio
della Giornata Terza. TORNA
4) Jauch (1973, 20). TORNA
5) Idem, 124. TORNA
6) Idem, 2 1-26. TORNA
7) Idem, 27. TORNA
8) Idem, 33-38. TORNA
9) Idem, 98-106. TORNA
10) Idem, 122. TORNA
11) Idem, 79-79. TORNA
12) Idem, 113. TORNA
13) Tarozzi, (1992; 123, 164-169). TORNA
14) Idem, 123. TORNA
15) Jauch (1973, 120). TORNA
16) Idem, 52-53. TORNA
17) Idem, 54. TORNA
18) Bohr (1931, 4). TORNA
19) Bohr (1963, 107). TORNA
20) Jauch (1973, 57). TORNA
21) Bohr (1931, 9). TORNA
22) Borh (1958, 90-99). TORNA
23) Borh (1931, 17). TORNA
24) Heisenberg (1934, 18). TORNA
25) Idem, 17. TORNA
26) Idem, 27: “... la scienza odierna, più che la
precedente è stata imposta dalla natura, e l’antico problema della possibilità
di afferrare le realtà mediante il pensiero deve aver posto di nuovo e risolto
in maniera alquanto differente”; Heisenberg
(1935, 51): “I concetti classici non si adattavano più alla situazione dataci
dalla natura.”; Heisenberg (1941, 76): “I
perfezionamenti della tecnica di osservazione hanno messo in luce nuovi aspetti
della natura che si sottraggono alla nostra intuizione, ed anche i concetti coi
quali la scienza lavora sono divenuti in ugual misura più astratti e meno
intuitivi. TORNA
27) Heisenberg (1934, 23). TORNA
28) Idem, 22: “Il problema posto da Kant, e in
seguito molto discusso, circa l’apriorità delle forme intuitive e delle
categorie, è stato messo in nuova luce dalla critica del tempo assoluto e dello
spazio euclideo nella teoria della relatività, della legge di casualità nella
teoria dei quanti.” TORNA
29) Heisenberg (1935,
58). TORNA
30) Idem, 52-53. TORNA
31) Heisenberg (1941, 78). TORNA
32) Dirac (1930/58,4). TORNA
33) Jauch (1973, 123). TORNA
34) Per un approfondimento di questi temi rimando ad alcuni miei
scritti precedenti, fra cui un saggio critico nei confronti dei presupposti filosofici
del pensiero dii. Prigogine (Ronsivalle, 1999 a), e un brevissimo “divertimento
filosofico” sulla questione del “realismo” nella fisica (Ronsivalle, 1999
b). TORNA
35) Carnap (1956). TORNA
36) Dato il suo carattere fondamentale, l’argomento meriterebbe una
trattazione ben più ampia. In tal senso mi sembra doveroso suggerire la lettura
di sei opere che, per motivi diversi, hanno fortemente condizionato la mia
riflessione intorno al rapporto tra il linguaggio e la conoscenza scientifica.
Mi riferisco innanzitutto all’insuperata Expositio
super octo libros physicorum (1317/20) di Guglielmo di Ockham, che
rappresenta uno dei gioielli della filosofia della scienza di tutti i tempi.
In secondo luogo, allo splendido Treatise
concerning the Principles of Human Knowledge (1710/34) di George Berkeley -
citatissimo, ma in verità quasi mai letto! In terzo luogo, penso all’eccentrica
operetta di Immanuel Kant sulle deliranti visioni di Swedenborg, Traume eines geistersehers durch die Traume
der Metaphysick (1766), molti illuminanti sugli effetti perversi del
realismo. In quarto luogo, a quello che ritengo sia il vero capolavoro di
Rudolf Camap, Meaning and Necessity
(1947/56), dove l’autore tenta di risolvere l’antinomia della relazione di
denominazione (vero e proprio diabolus in
logica!). In quinto luogo, all’affascinante saggio di Willard Van Orman Quine, Ontological Relativity (1968), nel quale
egli prende definitivamente le distanze da una concezione ingenua
dell’empirismo logico. E infine, al mastodontico volume Mental Models (1983) dello scienziato cognitivo Ph. Johnson -
Laird, in seno al quale la questione del linguaggio scientifico viene riferita
ad una sofisticata teoria funzionale della mente umana. Accanto a questi sei
colossi non rimane poi che un piccolo alito di respiro per rimandare il lettore
anche a due miei personalissimi contributi sulla questione ontologica e il
problema del rapporto tra forme intuitive comuni e linguaggio scientifico
(Ronsivalle 1998; 1999 c). TORNA
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