RAZIONALISMO E
PROGRESSO
ETICO-SCIENTIFICO
Fatti, valori
e teorie.
- Introduzione. Questioni.
Quanto mi propongo di
discutere in questo mio articolo è il seguente insieme di questioni:
1) La scienza si occupa solo di fatti?
2) L’etica si occupa solo di valori?
3) È possibile una scienza dell’etica?
4) Ci può essere progresso scientifico ed etico nello stesso tempo?
5) Quale
categoria ontologica sta a fondamento
della scienza?
1. Le soluzioni positivistiche,
postpositivistiche e non, delle
questioni:
In larga parte della
pubblicistica, o almeno in quella per ora dominante, sembra oramai assodato,
relativamente alle questioni suddette:
a) che la scienza si occupi e debba occuparsi
solo di fatti, o di ciò che è;
b) che le scelte etiche o di valori, ciò che deve essere, riguardino le
convinzioni personali, le quali non hanno nulla a che fare con la scienza, in
quanto da questa non possono essere
dedotte;
c) che non è possibile una scienza dell’etica, in quanto la scienza si occupa solo di proposizioni dichiarative o descrittive, vere
o false, mentre l’etica si occupa di proposizioni prescrittive, che non sono né vere né false, quindi non
deducibili da proposizioni dichiarative.
Leggiamo quanto a questo
proposito si scrive, da più parti, e come si argomenta, richiamandosi, a
nostro parere, in modo improprio, alla cosiddetta «fallacia naturalistica» di Hume, secondo cui, da parte di molti
scrittori moralisti, si pretenderebbe, in modo erroneo, di dedurre proposizioni
prescrittive, ciò che deve essere (ought)
che riguarda l’etica, da proposizioni descrittive, cio che è (is), che riguarda la scienza.
Il celebre brano di Hume è
il seguente:
«In ogni sistema di morale
in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l’autore va avanti per
un po’ ragionando nel modo più consueto, e afferma l’esistenza di un Dio, o fa
delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa
che al posto delle abituali copule è e non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha,
tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve, o non deve, esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è
necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una
ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova
relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente
differenti».(1)
Il fatto che non può
esistere una scienza dell’etica, secondo Popper, è il fondamento della società
aperta, tollerante e democratica, poiché vengono a mancare i vincoli della scienza («L’etica non è
scienza», infatti scrive(2);
l’etica non ha verità, è senza verità), restando ognuno libero di darsi i suoi
valori e le sue scelte morali.
L’etica, in quanto non è
scienza, è pertanto la base della libertà di coscienza. Qualche epistemologo
può così di rincalzo commentare:
«La non fondabilità
razionale dei nostri valori ultimi e la fallibilità della conoscenza umana - e
la dispersione di questa conoscenza tra milioni e milioni di uomini - sono le
due chiavi che, nel pensiero di Popper, aprono la società: la aprono a più valori, a più visioni del mondo filosofiche o
religiose, a più proposte politiche, e quindi a più partiti, alle critiche più
severe dei diversi punti di vista e delle differenti proposte. È questa la
società aperta»(3).
Così tanto per il
fallibilista Popper quanto per il cosiddetto, individualismo metodologico(4), molto diffuso nella cultura e
nell’epistemologia contemporanea, non si può dare scienza dell’etica, non solo,
perché la scienza si occupa solo di fatti, cioé di cose che sono e non di cose che devono essere, ma anche perché non si
può costruire una presunta scienza della «natura umana», in quanto esisterebbero
solo individui concreti, sensibili, ma non classi, non proprietà, poiché astratte,
o essenze, quale potrebbe essere la cosiddetta «natura unana», mero flatus vocis, assurda chimera,
portatrice solo di terribili utopie, tirannie ed intolleranze.
Scrive a tal proposito il
neopositivista o postneopositivista Popper:
« Non permettere che i sogni
di un mondo perfetto ti distolgano dalle rivendicazioni degli uomini che
soffrono qui ed ora. I nostri simili hanno diritto ad essere aiutati; nessuna
generazione deve essere sacrificata per il bene di quella futura, in vista di
un ideale di felicità che non può realizzarsi mai. L’atteggiamento della
felicità dovrebbe essere lasciato agli sforzi dei singoli»(5). Qui come si vede Popper cade nella fallacia
naturalistica di Hume, poiché passa dell’è al devi.
Gli altri sono sofferenti, tu non devi sacrificare la tua generazione per
la sofferenza degli altri, che si proietta nel futuro.
La coerenza logica vale
allora solo per gli altri!
Ecco poi quanto scrive il
positivista Ayer in proposito:
«Se per scienza etica si
intende l’elaborazione di un sistema morale vero,
non puo darsi nulla di simile a una scienza etica. Essendo i giudizi etici
mere espressioni di sentimento, non è possibile nessuna determinazione della
validità di un sistema etico, e, anzi, non ha senso chiedere se un sistema
simile sia vero o falso... L’etica, quale ramo del sapere, non è nulla più che
un settore della psicologia e della sociologia.»(6)
Sulla dicotomia fatti-valori
insiste il sociologo Max Weber e quanti altri. Per una panoramica comunque si
può consultare il libro Etica di E.
Lecaldamo, TEA 1995, pp.6O-6l.
La crisi della scienza
dell’etica ha portato ai nostri giorni da una parte all’esplosione di etiche
normative, puramente teoriche, tassonomiche, avulse di una solida conoscenza
filosofica e scientifica della realtà naturale e storica, dall’altra a quella
che è stata chiamata «l’irruzione dell’etica
applicata» (bioetica, ecoetica, etica dei diritti degli animali ecc.ecc.).(7)
È chiaro che entro questa
dicotomia scienza-etica non ci si pone il problema se progresso scientifico e tecnico
da una parte e progresso etico
dall’altra siano coniugabili e come sul piano teorico e filosofico ed
epistemologico, lasciando all’etica
della scienza, cioé a qualcosa di esterno alla scienza, la risposta al problema.
Ben altre si sostiene che
siano allora le fonti dell’etica per lo scienziato; le sue scelte etiche non
possono discendere dalla sua pratica scientifica, né soprattutto dalla potenza del suo metodo deduttivo, come
mezzo di ricerca e di invenzione.
L’ontologia che deve guidare
lo scienziato è quella che attiene al fenomenico, a ciò che si manifesta, a ciò che è, il fatto, anche
se si dice oggi da parte dell’epistemologia più avveduta che il fatto è
costruito dalla teoria o è impregnato di teoria («theory - laden»).
2. È proprio vero che la
scienza si occupa solo di descrizioni e non di prescrizioni ? Il dover
essere della scienza e l’essere della
conoscenza.
Domandiamoci adesso: È
proprio vero che la scienza si occupa di proposizioni dichiarative o
descrittive, lasciando all’etica il campo delle prescrizioni ?
In verità quando si
trasforma la questione 1. in tesi si commette un grave errore di valutazione e
di prospettiva perché una cosa è l’essere
della conoscenza, un’altra cosa il dover
essere della scienza.
Nel corpo delle teorie
scientifiche che sono i teoremi, cioé quanto questi affermano o dichiarano che
è o può essere, la tesi o
l’enunciato, si dice poi come metaffermazione che deve essere dimostrato.
Per esempio, l’enunciato del
seguente teorema euclideo è il seguente: la somma degli angoli interni di un
triangolo è un angolo piatto, mentre la dimostrazione si conclude “come
dovevasi dimostrare” (òper idei
deίscai, ciò che era necessario dimostrare, nel testo greco).
E ancora: «Sopra una retta
data terminata è possibile costruire un triangolo equilatero» (altro teorema o
problema euclideo, il quale si conclude: come dovevasi o era necessario fare).
Quanto doveva essere
dimostrato o costruito è la relazione logica di deduzione tra l’enunciato o tesi e le sue ipotesi, cioé il teorema.
L’essere o il poter essere dell’enunciato è l’essere della conoscenza, il
dover essere della dimostrazione è il
dover essere della scienza.
Keplero enuncia la sua legge
che i pianeti si muovono su orbite ellittiche attorno al sole, su uno dei suoi
fuochi, (l’essere della conoscenza), ma nulla esclude che potrebbero muoversi
su altra orbita geometrica; Newton dimostra, grazie alla sua teoria, che se
sono vere certe ipotesi e condizioni, i pianeti non possono muoversi se non su
orbite ellittiche(8), dimostra
cioé una necessità o altrimenti una impossibilità (i pianeti non possono
muoversi su altre orbite, ma solo su orbite ellittiche). È questo il dover essere della scienza. Newton
trasforma una descrizione in una prescrizione (deve essere così) o in un
divieto (non può essere altrimenti) o in una necessità (non può non essere
così).
Il circolo progressivo della
conoscenza è allora di andare da descrizioni a prescrizioni e da prescrizioni
a descrizioni, alla scoperta di cose
nuove.
Se sono vere certe ipotesi o
leggi, e condizioni, allora sono vere certe conoscenze o descrizioni. Da qui
il famoso caso della scoperta del pianeta Nettuno, grazie alla teoria di
Newton, nel campo dell’astronomia.
Da ciò la potenza di
scoperta conoscitiva della teoria o del metodo deduttivo, come messo in
evidenza in modo eccellente da Vailati, discepolo di Peano.
«La storia delle scienze -
scrive Vailati - ci mostra chiaramente che, tra le cause che hanno condotto
gradualmente alla sostituzione dei moderni metodi sperimentali al posto degli
antichi metodi di semplice osservazione
passiva va annoverata, come una delle più importanti, l’applicazione della
deduzione anche a quei casi nei quali le proposizioni prese come punto di
partenza erano considerate come più bisognevoli di prova che non quelle a cui
si arrivava, e nei quali quindi erano queste ultime che dovevano comunicare,
alle congetture fatte, la certezza che attingevano direttamente dal confronto
coi fatti e dalle verifiche sperimentali. L’impossibilità di trovare, nei fatti
spontaneamente presentatisi all’osservatore, il materiale adeguato per la
verifica delle conclusioni a cui spingevano deduzioni che, per quanto corrette
e rigorose, non erano basate su premesse riconosciute per sé stesse meritevoli
di fiducia incondizionata, come quelle dei matematici, fece nascere il
desiderio e il bisogno di allargare con artifici la sfera dei fatti da
utilizzare per controllo delle teorie, e contribuì, più di qualunque altra
circostanza, a portare all’impiego sistematico di quell’osservazione di fatti
artificialmente provati allo scopo di osservarli, che costituisce l’esperimento
propriamente detto. In altre parole, i fisici antichi non si sentivano spinti
a sperimentare soprattutto perché, essendo più intenti a garantirsi della
certezza delle proposizioni da cui prendevano le mosse che non della verità di
quelle che da esse deducevano, non potevano aver ragione di domandarsi che cosa
avvenisse in casi diversi da quelli che, presentandosi spontaneamente alla loro
osservazione, suggerivano ad essi immediatamente le generalizzazioni su cui
basavano i loro ragionamenti. Onde è lecito affermare, che fu in certo senso
l’applicazione sempre più vasta e sistematica della deduzione allo studio dei
fenomeni della natura, che fornì il primo impulso allo sviluppo dei metodi
sperimentali moderni, e che non è da attribuire al caso se i più eminenti
iniziatori di questi furono anche nello stesso tempo i più grandi instauratori
e fautori dell’applicazione alle scienze fisiche di quel potente strumento di
deduzione che è la matemauica.»(9)
Chi fa progredire allora è la scienza, chi progredisce è
la conoscenza.
La scienza è essenzialmente un metodo, che trasforma proposizioni descrittive in
proposizioni prescrittive, ciò che è o
può essere in ciò che deve essere, il
fatto in valore conoscitivo, in ciò che si ritiene degno di essere
conosciuto e apprezzato.
Il progresso della conoscenza è di
trasformare proposizioni prescrittive in proposizioni descrittive, il progresso della scienza è
di trasformare proposizioni descrittive in proposizioni prescrittive.
Le verità della conoscenza sono
contingenti (potrebbe essere altrimenti), le verità della scienza sono necessarie
(non può essere altrimenti), almeno tali vogliono essere in linea di
principio. Qua non si fa la distinzione metafisica, «verità di fatto - verità di
ragione», ma una distinzione epistemologica, poiché le verità della scienza
sono verità di fatto trasformate in verità di ragione, portate dal piano
dell’essere al piano del dover essere, dal contingente al necessario,
attraverso le leggi della logica e della teoria.
Può ben scrivere a questo
proposito il Vailati:
«È questa riduzione d’un fatto,
o d’una legge, ad altre leggi o fatti più generali che costituisce ciò che si
chiama spiegazione scientifica, ed è
importante notare come i vantaggi inerenti a questo processo non dipendono
affatto dalla circostanza che i fatti e le leggi, sulle quali una data
spiegazione è fondata, si presentino alla nostra mente come più famigliari o
più evidenti per sé stessi che non quelli che spieghiamo per loro messo. La
deduzione applicata in tal modo, come mezzo di spiegazione, ci permette di
abbracciare, con un solo sguardo e con un solo atto della mente, una varietà e
molteplicità di fatti, la cui considerazione altrimenti esigerebbe una assai
maggior copia di operazioni e di sforzi intellettuali distinti. Col suo aiuto
noi riusciamo a collocarci a un punto di vista dal quale le analogie, i
rapporti, le connessioni, tra i fenomeni che investighiamo, si esplicano al
nostro intelletto come le particolarità topografiche d’una regione si offrono
allo sguardo di chi le contempli da un’altura. La deduzione moltiplica così le
nostre attitudini a percepire l’ordine, le uniformità, le leggi costanti in
mezzo al succedersi tumultuoso dei fatti e degli eventi, o, per esprimere la
stessa cosa con una frase di Platone (libro 70 della Repubblica),
essa ci pone in grado di discernere l’uno
in mezzo al molteplice e di scorgere cogli occhi della mente i poli
immutabili attorno ai quali turbina il caos e la perpetua vicenda dei fenomeni
e delle sensazioni.»(10)
Che ci sia poi un corpo di
scienze che abbia a che fare con prescrizioni, il dover essere, è messo ben in evidenza da Menger, scienziato e
metodologo della scienza, per non parlare dei cosiddetti, oggi, problemi di ottimizzazione, attinenti la
ricerca scientifica di tipo operativo nell’azione pratica.
«Le scienze (le cosiddette scienze pratiche o arti), scrive infatti
il Menger, non ci mostrano i fenomeni nè dal punto di vista storico né da
quello teorico: esse non ci insegnano, in generale, ciò che è. Il loro
compito è piuttosto di stabilire i principi fondamentali in base ai quali
perseguire nella maniera più conforme allo scopo aspirazioni di un certo tipo,
secondo il mutare delle circostanze. Queste scienze ci insegnano ciò che, a
seconda delle circostanze, dovrebbe
essere affinché gli uomini possano raggiungere determinati scopi. Simili
arti sono, nell’ambito dell’economia politica, la politica economica e la scienza
delle finanze».(11)
L’uomo oggi vuole sempre più
dominare il suo futuro; questo lo costringe a studiare con i metodi della
scienza tendenze e potenzialità nei processi naturalistici e storici, e quanto
tra queste è degno di essere perseguito nell’azione, il dover essere-valore.
Che non esistono fatti non
impregnati di valori è ben messo in evidenza in questo magistrale passo di E.
Fromm, che vale la pena di riportare e leggere per intero:
« Il fatto da cui partiamo
non ha alcun significato se non lo valutiamo in relazione all’intero sistema, e
ciò comporta l’analisi di un processo in cui noi, in quanto osservatori, siamo
coinvolti. Infine, bisogna rilevare che l’avere deciso di scegliere certi
eventi come fatti esercita un effetto su di noi, perché con questa decisione ci
siamo impegnati a muoverci in una certa dimensione, e questo impegno
condiziona l’ulteriore selezione dei fatti.
Ma non solo i fatti sono
scelti e ordinati in base ai valori; anche la programmazione del calcolatore è
basata su valori precostituiti e spesso inconsci. Il principio “più si produce
meglio è” comporta un giudizio di valore. Se invece noi ritenessimo che il
nostro sistema può portare al miglior dispiegamento delle attività e alla
migliore esaltazione della vitalità dell’uomo, programmeremo diversamente e
altri fatti diventerebbero importanti. L’illusione della certezza delle
decisioni del calcolatore, condivisa da un vasto settore dell’opinione pubblica
e da molti fra coloro che detengono il potere decisionale, si basa sull’erronea
assunzione
a. che
i fatti sono “dati” oggettivi;
b. che
la programmazione non è vincolata da leggi precise.
Ogni programmazione,
elaborata o no con l’uso di calcolatori, dipende da leggi e da valori che la
condizionano. La pianificazione in se stessa è uno dei progressi più rilevanti
compiuti dall’uomo, ma può essere un fatto negativo se è “cieca”, ossia se
l’uomo rinuncia a decidere, a emettere giudizi di valore e alla propria
responsabilità. Diventa un fatto positivo se è vitale, sensibile, “aperta”, se
i fini umani sono sempre presenti e guidano il processo di pianificazione(12).
Ma già gli antichi
riconoscevano ai principi conoscitivi la
loro natura di valore, quando li chiamavano assiomi, da axios, che
nella lingua greca vuoi dire «degno», cioé
degni di essere conosciuti, valori.
I fatti di una scienza sono
i fatti che quella scienza ritiene degni di
essere conosciuti, mentre altri li scarta, li trascura, li occulta, li
manipola, li altera, ecc.ecc. In verità ciò che si vuol negare è che la scienza, in quanto teoria, cioé struttura
organizzata di conoscenze, secondo principi, definizioni e teoremi, possa produrre
norme per le azioni degli uomini, in vista del loro benessere fisico, materiale
ed intellettuale, vuoi individuale vuoi collettivo.
Scrive M.Weber: «Siamo
convinti che non può mai essere compito di una scienza empirica quello di
formulare norme vincolanti e ideali, per derivarne direttive per la prassi...
Una scienza empirica non può mai insegnare ad alcuno ciò che egli deve, ma soltanto quello egli può e - in
determinate circostanze - ciò che egli vuole»(13).
Si tratta allora di
scandagliare innanzitutto meglio nella natura della scienza, nelle sue categorie
fondanti.
3. L’essere, il poter essere e il
dover essere della scienza.
Tra scienziati e filosofi
della scienza non c’è mai stato un accordo costante nel tempo ed omogeneo nello
spazio geografico su quale dovesse essere l’oggetto
della scienza, o se si vuole, la categoria logica che individuasse lo
statuto ontologico della scienza.
Quando questo accordo si è
raggiunto o c’è stato, tacito o espresso, magari solo a livello linguistico
sull’uso di un comune linguaggio, anche
se le interpretazioni ontologiche che di esso venivano date erano diverse tra
i singoli membri della comunità
scientifica (Si pensi al metodo degli indivisibili nella storia della
matematica, o in generale allo sviluppo del calcolo infinitesimale, nell’età moderna.-
Peano diceva che «l’analisi è un linguaggio ben costruito»(14)) la scienza ha potuto progredire (cioé ha
risolto problemi vecchi e nuovi, ha incrementato le sue conoscenze, ha fatto un
uso applicativo di queste, quando il suo statuto ontologico di ciò che era
scienza lo richiedeva, ecc. ecc. ...), quando è venuto meno, la scienza ha
avuto momenti di stasi, di regresso o di progresso a secondo di come si
interpreta la <cosa>, cioé l’essere e il divenire della scienza da parte
degli storici e/o filosofi della scienza.
Il campo pertanto è stato
conteso tra chi ha concepito la scienza come scienza di ciò che è, che
possono essere i fenomeni e/o le essenze, che stanno dietro ai fenomeni, chi ha
concepito la scienza come scienza di ciò
che può essere, che sono le potenzialità o le tendenze di cui la realtà si
ritiene composta, e chi ha concepito la scienza come scienza di ciò che deve essere, che è quanto tra le
potenzialità è degno di essere conosciuto ed attuato dall’agire umano.
Per Aristotele la scienza ha
come categoria fondante la necessità(15),
per Hegel compito della filosofia, che per lui è la vera scienza, è <di
intendere ciò che è, poiché ciò che è, è la ragione>(16), per Marx il compito della scienza non è più
quello di interpretare il mondo, ma di trasformarlo, di dire come deve essere, perché ciò che deve essere, il non-ancora, per parafrasare Bloch, è il vero essere”(17).
Per Bloch tanto la filosofia
che le scienze sono state prese nel passato da una specie di malia dell’esser-già(18),
dimenticando l’essere-ancora.
Di questa malia dell’essere
come passato o dell’essere come eterno presente non sono rimaste immuni né la
scienza né la religione teistica, nella quale Dio è presente come l’essere,
<colui che è>, ens realissimum et perfectissimum, è presente quindi in
modo concluso, chiuso, statico, non aperto, come già nelle filosofie che
storicamente si sono succedute nelle quali l’essere ora identificato con la
natura (Spinoza) ora con lo Spirito (Hegel) è concepito come l’essere-già-stato. In Aristotele
l’essenza dell’essere è poi concepita come <tò
tì en eina i>, come <ciò che
era l’essere>.
Le scienze sono state prese
come da un blocco di pensiero. La medicina, la psicologia, la fisica e in
particolare la logica non hanno saputo tradurre in concetti, in pensiero, né
tanto meno esprimerlo in direzione di nuovi possibilità di essere nel mondo e
con il mondo, «il non - ancora - divenuto, anche se riempie il senso di tutti gli uomini e
l’orizzonte di tutto l’essere».(19)
L’ontologia, a parere di
Bloch, del non-ancora è stato poco meditata e compresa.
La possibilità reale resta solo un concetto nuovo ancora vergine.
In molte filosofie «la
logica e l’ontologia dell’ampio regno del possibile sono state schiacciate
dalla follia statica secondo cui tutto il possibile è stato già configurato nel
reale».(20)
Ultimamente si è scoperta
non solo da parte di filosofi ma anche di scienziati come categoria fondante
della scienza la categoria della possibilità, anzi alcuni la vogliono mettere a
base della meccanica quantistica(21).
L’ultimo Popper ha elaborato
una teoria della propensità come base
ontologica della scienza.
«Tutto è propensità», scrive Popper, secondo la terminologia degli ionici
riportata da Aristotele. «Essere è essere sia l’attualizzazione di una
propensità anteriore a divenire, sia una propensità a divenire».(22)
Anche Prigogine, scienziato,
ha riscoperto la categoria della possibilità come categoria fondante della
scienza. «Il caos appare oramai come un elemento unificatore, non come uno ostacolo,
le “leggi della natura”, concepite come “leggi del caos”, non descrivono più
un mondo chiuso, sottomesso ad una intellegibilità deterministica, ma un mondo
aperto, ove la categoria di probabilità, come di possibilità, è fondamentale».(23)
Chi della possibilità e
della potenzialità ha fatto il principio stesso della realtà è stato il
filosofo marxista Bloch nella sua opera « Il principio speranza», dando
una nuova definizione di essere.
Qui l’essere è definito ora
come “docta spes ora come “utopia concreta” ora come <evento>; sono le
diverse accezioni usate da Bloch per indicare l’essere, ma il cui significato
resta però identico.
In verità la confusione e la
miopia speculativa in queste filosofie o ontologie o filosofie della scienza
sono grandi, anche se giuste esigenze e felici intuizioni invece sono presenti
nella poderosa opera citata di Bloch.
4. Teoria, etica e stratificazioni ontologiche della scienza.
Per avere chiaro il punto in
cui scienza ed etica si possono coniugare, anzi si debbono coniugare assieme,
bisogna aver chiare le diverse stratificazioni ontologiche entro cui si muove
la scienza o la conoscenza scientifica e le scelte gnoseologiche ed
assiologiche di fondo che in quelle comunque si fanno.
Lo statuto ontologico di
tipo fenomenistico o essenzialistico porta a concepire la teoria scientifica,
in senso tassonomico, come
registrazione o classificazione di osservazioni e/o di scoperte di essenze, di
cui i fenomeni sono la manifestazione.
Lo statuto ontologico di
tipo potenziale conduce a concepire la teoria scientifica in senso previsionale, come scienza non solo di
ciò che è, ma anche di quello che può
essere, o può accadere nel tempo.
Queste scelte aumentano il
bisogno di conoscenza delle essenze, di quanto dietro i fenomeni si cela, per
poter conoscere meglio quanto può e/o deve accadere, come pure l’aspetto
razionale della teoria, cioè il bisogno della costruzione di enti ideali e leggi ideali, non direttamente osservabili, da cui muovere
nell’elaborazione della teoria, abbandonando il campo del meramente
osservabile o misurabile.
Lo statuto ontologico di
tipo assiologico, cioé di quanto tra la potenzialità deve essere conosciuto e
attuato, conduce ad accentuare, invece, l’aspetto etico-politico della teoria; questa deve scegliere tra le
potenzialità quale di esse sia degna di essere meglio conosciuta e perseguita
nell’agire etico-politico.
Tutti e tre, a secondo dei
punti di vista giustificati diversamente, ciò
che è, cio che può essere, ciò che deve essere, sono ritenuti, tacitamente
o espressamente, volutamente o non, valori.
C’è quindi a base di
qualunque concezione della scienza dientro la scelta ontologica, una scelta di
valori o un’assiologia che sostiene a sua volta la scelta epistemologica.
Ontologia, assiologia, ed epistemologia non sono quindi separabili in
qualunque filosofia o metafisica della scienza, come nella pratica dello
stesso scienziato.
Il privileggiare l’uno o l’altro aspetto fa perdere la complessità
ontologica del fatto scientifico e della teoria scientifica e il suo punto di
coniugazione con il valore etico.
La potenzialità intanto non
è una categoria ontologica della realtà, che invece è quella che è (è questo il piano dell’essere apparente, mutevole
nel tempo), ma una categoria
epistemologica, cioé della teoria scientifica, nella quale il fenomeno, l’essere apparente, viene
scisso tra quanto viene da esso ricostruito, il fatto scientifico, quanto ad esso viene sotteso, l’essenza, cioé gli elementi della teoria e le sue leggi, (è
questo il piano dell’essere vero, immutabile
ed eterno o il campo della logica della
scoperta scientifica), quanto in esso (fenomeno) può essere, il possibile (è questo il
campo tecnico-scientifico) e quanto in esso tra i possibili (è questo il piano
etico politico) deve essere, il
valore, ovvero quanto è degno di essere conosciuto e perseguito dall’agire
umano, vuoi dall’uomo in quanto singolo (il piano etico) vuoi dall’uomo in
quanto membro di una società (il piano politico) - è questo il campo della logica dell’invenzione.
Si dice che la tecnocrazia è
la supremazia della tecnica sull’etica; <Se puoi, devi>; «can implies
ought» è stato scritto.
Qui il passaggio è dal poter essere al dover essere.
Così, in barba ai nostri
teorici, ed epistemologi, per i quali non è possibile dedurre etica dalla
scienza e dalla tecnica, qui si passa dall’è, al puoi, al devi.
Può ben scrivere a questo
proposito E. Fromm:
«Se è possibile costruire
armi nucleari bisogna costruirle, anche se possono distruggerci tutti, se è
possibile andare sulla Luna o sugli altri pianeti, bisogna farlo, anche se ciò
comporta la mancata soddisfazione di molti bisogni qui sulla Terra.
Questo principio rappresenta
la negazione di tutti i valori elaborati dalla tradizione umanistica, per la
quale una cosa andava fatta in quanto necessaria all’uomo, al suo sviluppo,
alla sua felicità e alla ragione, perché bella, buona e vera. Se si accetta il
principio che qualcosa va fatto perché tecnicamente possibile, tutti gli altri
vengono messi da parte e lo sviluppo tecnologico diventa il fondamento
dell’etica».(24)
Cosa media il poter essere
al dover essere ? Cosa fa passare lo scienziato, e con lui tutto il complesso
socio-economico-politico che lo circonda, visto che la scienza e la tecnica
sono divenute parti integranti del processo economico e delle decisioni
politiche, dall’è e puoi della
scienza-tecnica al devi, che guida il
suo agire, vuoi come singolo vuoi come membro di una comunità
socio-politico-economica?
Se non sono le sue
conoscenze scientifiche, magari di altro campo o di altra natura e la potenza
del suo metodo deduttivo (per es. per un fisico le sue conoscenze scientifiche
in campo economico e in quello etico e politico e viceversa per un economista o
per un politico le sue conoscenze sulla natura dell’energia nucleare come sulle
sue potenzialità, e così via), cosa lo guida?
Se non è la ragione, e la scienza è la ragione come
ben diceva C. Bernard in un suo aureo libretto («Io credo che la fede cieca nel fatto che vuole
mettere a tacere la ragione sia altrettanto dannosa per le scienze sperimentali
quanto la credenza cieca
nell’intuizione che vuole egualmente far tacere la ragione. Infatti, sia nel
metodo sperimentale come in tutte le altre cose, l’unico criterio positivo è
la ragione»(25), la quale allarga il campo delle
conoscenze dello scienziato dal campo della tecnica e delle scienze positive e particolari
al campo politico ed economico e nel nostro caso al campo etico, chi guida lo
scienziato a scegliere e a valutare, al dover essere?
Cosa altro può essere?
Saranno il sentimento,
l’intuizione cieca, il conformismo, la tradizione, la sua convizione religiosa,
i suoi pregiudizi di qualche natura, l’autorità e il potere di chi dirige il suo lavoro di scienziato e di
tecnico, cioè quanto di irrazionale ed eteronomo è in lui?
Qui non si solleva un problema di sociologia della scienza ma
di teoria della scienza, di sue
categorie fondanti
Lo scienziato resta un uomo,
con una sua identità psichica e sociale, anche
quando costruisce la sua scienza.
Ogni teoria nasce mescolata
ad attese, a speranze, a progetti, a pensieri, a bisogni, a interessi di
carriera, di guadagno, di prestigio, di dominio e di potere, ecc. ecc.
Scriveva giustamente Marx a
proposito della difficoltà che incontrava l’economia politica a svilupparsi in
quanto scienza:
«Nel campo dell’economia
politica la ricerca scientifica non
incontra soltanto gli stessi nemici che incontra in tutti gli altri campi. La
natura peculiare del materiale che tratta chiama a battaglia contro di essa le
passioni più ardenti, più meschine e più odiose del cuore umano, le Furie dell’interesse privato».(26)
L’uomo è una sintesi di
elementi positivi e negativi, di natura e cultura, cioé una sintesi di quanto
in lui è pulsione, naturalità, animalità, bisogno naturale, e di quanto della
sua natura si è nobilitato o sublimato, ovvero di quanto alla sua natura
animale si è aggiunto, attraverso la storia, che sono i valori della tradizione
culturale umanistica, intesa nel suo significato altamente etico, non retorico
o meramente linguistico.
Una scarsa conoscenza della
natura umana e della sua storia, di quanto in essa di positivo è presente e si
è sedimentato nel tempo, vuoi nel costume, vuoi nelle istituzioni, rende lo
scienziato, benché forte dei suoi fatti e delle sue teorie, prigioniero solo
di pregiudizi e di cattivi maestri, quali possono essere, dicevo già, il
conformismo o l’autorità di chi comanda, guidato da soli fini di profitto e di
interesse personale.
Lo scienziato che recide
coscientemente, nel nome di una presunta autonomia della scienza e della
tecnica, i legami della sua scienza con le fonti dell’etica è uno scienziato
alienato, reificato, ridotto a cosa, a mero strumento di un ingranaggio che
non controlla e non sa discutere, nei suoi principi direttivi come nelle sue
finalità; egli, in tal modo, si preclude la possibilità di una crescita
armonica di scienza ed etica, del dover
essere di natura scientifica e del dover
essere di natura etica.
Lo status alienato dell’esperienza scientifica è quello di concepire e
di vivere il rapporto con la natura, intesa quale mero oggetto, al solo fine di
carpirle i segreti, che sono le sue leggi, con intento di sfruttamento, di
consumo e di dominio, mentre lo status, non alienato, è quello in cui lo
scienziato è restituito, e con lui e attraverso lui, l’uomo, ad un rapporto
positivo e di progresso reciproco, con la natura, intesa quale oggetto e
soggetto ad un tempo, con sue possibilità, necessità e limiti, che sono gli
stessi dell’uomo.
Ma si dice, ispirandosi in
ciò al cosiddetto individualismo
metodologico, da noi già richiamato all’inizio, che l’uomo, cioé qualcosa
di comune a tutti gli uomini, non esiste, poiché esistono solo individui!
Ma questo è brutale empirismo, frutto di miopia e di
mistificazione, poiché anche quando si dice che esistono solo individui, si fa
una affermazione universale, si
afferma una proprietà, poiché si dice che ci sono solo individui e questi sono per esempio Giovanni, Giuseppe, Mario
ecc.ecc. <Giovanni è un individuo>, <Giuseppe è un individuo> ecc.
“Individuo” è una proprietà universale. Eppure si afferma che esistono solo
individui, non classi, come se “individuo” non fosse una proprietà universale,
cioé una classe.
Ma si immagini che nel
momento del tentativo di costruzione della scienza
del movimento si fosse detto che esistono solo corpi singoli in movimento o
movimenti singoli, e non il moto in quanto proprietà o insieme di proprietà
comuni a più corpi o a più movimenti! Come si sarebbe potuto costruire una
scienza del moto così come egregiamente è stata iniziata da Galileo e poi
sistemata da Newton?
5. Razionalismo, logica dell’ invenzione, etica e progresso.
Il fatto è che nella storia
si sono scontrati due grandi tradizioni di pensiero sul concetto di realtà, con
quanto questo vuol dire sul piano etico, quella empiristica e quella razionalistica.
L’una ha concepito la realtà
come quella data dai sensi, i quali si limitano a fare semplice opera di
registrazione e di classificazione dei dati fenomenici, per cui la scienza è
mera tassonomia, l’altra ha concepito la realtà non come quella data dai sensi,
che è mera apparenza, ma come quella che ci costruiamo con il pensiero
attraverso un’opera di scavo e di penetrazione oltre le apparenze, oltre la
semplice empiria.
Il razionalista si serve di
indizzi, segni e frammenti di realtà per ricostruire l’invisibile, la catena
deduttiva, il dover essere, l’intero della scienza e della teoria.
Guidato dalla logica dell’invenzione, grazie ai
processi idealizzazionali che mette in essere, il razionalista costruisce o
immagina, a partire dalla realtà empirica, astraendo e combinando proprietà, modelli di realtà, che sottopone a
verifica o a falsifica, e che arricchisce sempre più di nuove proprietà, vuoi
per meglio comprendere la realtà empirica in sé complessa, vuoi per sottoporla
a esperimenti di cambiamento.
Può ben scrivere in modo
magistrale, a questo proposito, il Vailati in una sua nota di un suo saggio:
«Questa efficacia della
deduzione, come mezzo di generalizzazione, sussiste sempre, anche quando
nessun caso reale abbia luogo, o si conosce, pel quale si presentino le
condizioni richieste pel verificarsi dell’una o dell’altra delle premesse,
senza che, nello stesso tempo, si verifichino tutte quelle che sono ulteriormente
richieste per il verificarsi di ambedue, e quindi anche della conclusione da
esse dedotte. Per spiegarmi con un esempio, se anche le leggi di Keplero
avessero corrisposto ai movimenti effettivi degli astri non meno esattamente di
quanto vi corrispondano i risultati che si ottengono per deduzione dalle leggi
di Newton, la sostituzione di queste ultime alle prime non avrebbe perciò
mancato di rappresentare un passo verso una maggior generalizzazione, in
quanto che mentre le leggi di Keplero non si riferiscono che ai moti che i
pianeti hanno effettivamente, quelle
di Newton (anche facendo astrazione dal fatto che esse abbracciano anche il
caso dei moti dei gravi alla superficie terra) ci dicono qualche cosa anche sui
noti che esse avrebbero, o
avrebbero avuto se la
distribuzione iniziale della masse e delle velocità fosse stata diversa.
Nelle scienze che hanno
rapporto colla pratica, che si riferisce cioé a fatti in parte soggetti al
controllo della volontà umana, le congetture relative a ciò che avverrebbe, se si verificassero
condizioni che mai si verificarono in passato, hanno tanta e, spesse volte,
maggiore importanza che non le cognizioni relative a ciò che avviene, o è
sempre avvenuto, in assenza di tali nuove condizioni.
È perciò che alla deduzione
va attribuita una funzione assai più importante come mezzo di invenzione che non come mezzo di scoperta».(27)
È chiaro che l’empirista,
per il quale il reale è appunto l’empirico, quale esso si manifesta, è portato
a identificare i valori con i fatti (valore=fatto), la morale, in quanto
scienza o arte del dover essere, con l’etica o il costume, le norme descrittive
, con le norme prescrittive, né pone il momento della scissione o della
lacerazione, tra il dover essere morale mescolato alla teoria scientifica e
l’essere e il dover essere della scienza stessa nella dinamica dell’individuo e
della comunità umana, poichè la morale si esprime a suo parere nell’etica
ovvero nelle norme sociali o nei gusti personali di soddisfacimento o nel
normativismo biologico della legge del più forte e dell’adattamento
all’ambiente.
Sul piano etico e politico
tutto questo si traduce in conformismo, nell’appiattimento dei valori ai
fatti, nella perdita della propria identità ed individualità, che dovrebbe
essere produttrice di valori e di tensioni ideali, ma di fatto è priva delle
grandi virtù etiche dell’uomo creativo, quali la fede, la speranza, la fortezza
d’animo e il coraggio del cambiamento.
Il motto dell’umanesimo
illuministico era, secondo Kant, «Abbi il
coraggio di sapere».
L’atto del conoscere, del
fare scienza, è innanzitutto un atto di coraggio; lo scienziato razionalista osa guardare dove altri non riescono per
mancanza di coraggio o non sanno guardare, per mancanza di strumenti
intellettuali adeguati, ma soprattutto perché attaccati all’empirico, all’immediato, non sapendo mediare tra l’essere e il dover essere della scienza e il
dover essere morale.
L’atto del conoscere, del
fare scienza, è carico di attesa, di speranze in un qualche futuro cambiamento,
anche quando tale non sembra.
Così scrive ad esempio il
grande Newton inventore del calcolo infinitesimale e scopritore delle leggi
della gravitazione universale:
«Sembra infatti che tutta la
difficoltà della filosofia consiste nell’investigare le forze della natura a
partire dai fenomeni del moto e dopo nel dimostrare i restanti fenomeni a
partire da queste forze. A questo mirano le proposizione generali delle quali
abbiamo trattato nel libro primo e secondo. Nel terzo libro, invero, ho esposto
un esempio di ciò al fine di spiegare il sistema del mondo. Ivi, infatti, dai
fenomeni celesti, mediante le proposizioni dimostrate matematicamente nei
libri precedenti, vengono derivate le forze della gravità, per effetto delle
quali i corpi tendono verso il sole e i singoli pianeti. In seguito da queste
forze, sempre mediante proposizioni matematiche, vengono dedotti i moti dei
pianeti, delle comete, della luna e del mare. Volesse il cielo che fosse lecito
dedurre i restanti fenomeni della natura dai principi della meccanica col
medesimo genere di argomentazione. Infatti, molte cose mi spingono a sospettare
che essi tutti possano dipendere da certe forze per effetto delle quali le
particelle dei corpi, per cause non ancora conosciute o si urtano fra di loro e
si connettono secondo figure regolari o si respingono e recedono l’una
dall’altra: per le quali forze ignote, i folosofi fin qui invano indagarono la
natura. Spero in verità che, o a
questo modo di filosofare, o ad un altro più vero, i principi qui posti possano
apportare qualche luce».(28)
Per Fromm empirismo e razionalismo sono due modalità esistenziali, il primo dell’avere, il secondo dell’essere.
L’empirista vuole avere,
possedere conoscenze per classificarle, ordinarle, il razionalista vuole che le
potenzialità che sono all’opera nella realtà, ma che la teoria solo coglie,
perché sono nascoste occultate, manipolate, alterate, specie quelle positive in
quanto non rispondono a interessi ben determinati, in particolare di potere e
di dominio, e, aggiungiamo di profitto nella
moderna società capitalistica, si manifestino e vengano all’essere.
Non ha senso per il
razionalista la possibile accusa si «fallacia naturalistica» di cui si diceva
all’inizio, perché per lui non vale la presunta dicotomia «fatto-valore»,
«essere-dover essere», «reale-potenziale».
Il
potenziale, l’ideale, il valore non è qualcosa che «non è» e che poi «è», poiché «deve» accadere,
«deve essere», ma qualche cosa che è, e,
che se non appare, è perché aspetta di manifestarsi, di esprimersi, in quanto,
o è mascherato, o è represso, o è nascosto ed occultato, ma che solo la
teoria coglie nel suo poter e dover essere.
Se la realtà è un complesso intreccio sovrapposto di manifestazioni ed
occultamenti, armonie e scissioni, di segni e frammenti, e di conoscenze ed
illusioni, di ideologia, in senso marxiano, e di razionalizzazioni in senso
freudiano, allora il razionalista, in quanto vuole produrre scienza oltre le
apparenze, le scissioni, le sovrapposizioni, gli intersizi, non può produrre se
non valori, potenzialità, tensioni, scelte, libertà e responsabilità,
cioé etica o morale, come dire si vuole.
Si è liberi e responsabili
sol se si conosce, si ha scienza, non
solo del frammento o dell’aspetto di realtà che si studia, ma anche dei risultati delle nostre azioni di essere umani, in quanto singoli membri di una
comunità, vuoi su quel frammento di realtà vuoi sugli altri essere umani.
Nella moderna società la
natura sociale della produzione è imprigionata entro il rapporto privato di
tipo capitalistico ed è occultata dall’«ideologia», che poi si traveste da
«scienza».
Il “segno” evidente della
loro profonda contraddizione o incompatibilità si manifesta attraverso le crisi
cicliche di sovrapproduzione, o di recessione, come dir si voglia, vero punto
di catastrofe della moderna società capitalistica, per evitar il quale si
producono e si sono prodotte guerre, diffuso e disgustante consumismo,
omologazione, distruzione delle qualità umane più alte, quali la libertà, l’individualità
e la solidarietà..
Solo una teoria scientifica non reificata, umanistica,
cioé a forti principi etici, che pone a suo centro l’uomo con i suoi bisogni
veri, sociali, di crescita può portare ad una interpretazione autentica della
suddetta incompatibilità nel senso del suo superamento, al dover essere, di una
società solidale, dove non domina la legge del profitto e dell’appropriazione
indebita privata della produzione sociale.
Lo scienziato, forte della
teoria, grazie a cui scopre e può produrre energia nucleare o qualche altra
forma di energia, deve essere cosciente delle
potenzialità costruttive o distruttive che quella comporta come dall’impatto
della stessa sull’ambiente, e quindi sull’uomo, sul suo essere e sul suo
divenire.
Sull’essere della conoscenza e il dover
essere della scienza a quel punto si impone il dover essere della coscienza, la scelta, il valore umano o il
disvalore, comunque un devi, che meno
si nutre di conoscenze e di altre scienze meno e libero e responsabile.
Qui è in discussione la
separazione del sapere, il cosiddetto scienziato specialista, non quello
globale, che sa andare altre le sue conoscenze, integrarle entro una pluralità
di saperi, essi stessi scientifici, per cui poi sa scegliere, può scegliere,
deve scegliere.
È la scelta
della tradizione razionalistica della scienza, a nostro parere, con quanto abbiamo
detto, che porta a coniugare scienza ed etica, progresso scientifico e
tecnologico con progresso etico, le descrizioni della scienza con le prescrizioni
dell’etica, la scienza dell’etica con l’etica della scienza, i fatti della
scienza con i valori dell’etica, la deduzione della scienza con la deduzione
etica del tu devi. Se sai e puoi, tu devi
migliorare l’uomo secondo quanto ti insegna la tradizione etica umanistica e
razionalistica.
______________
1) D. Hume, Opere, Laterza, Bari, 1971, p.496. TORNA
2) K.R.Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando,
Roma, 1973, vol. 2, p.313. TORNA
3) D. Antiseri, Trattato di metodologia delle scienze
sociali, Utet, Torino, 1996, p.493.
TORNA
4) Cfr. a questo proposito D.
Antiseri, op. cit., pp.44O-446. TORNA
5) K.R.Popper, Utopia e violenza in Congetture e confutazioni, Il Mulino,
1972, p.611. TORNA
6) A.J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli,
Milano, 1961, p.l45. TORNA
7) E.Lecaldamo, Etica, Tea, Torino, 1995, p.100. TORNA
8) I.Newton, Principi matematici della filosofia naturale, Utet, Torino, libro
terzo. TORNA
9) G.Vailati, Scritti, 1911, p.125. TORNA
10) Ibidem pp.144-145. TORNA
11) C.Menger, Sul metodo delle scienze sociali, Liberilibri,
Macerata, 1997, p.21. TORNA
12) E. Fromm, La rivoluzione della speranza, Bompiani,
Milano, 1996, pp.66-67. TORNA
13) M.Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1974,
p.58, p.61. TORNA
14) G.Peano, Opere, volI, Cremonese, Roma, p.388. TORNA
15) Aristotele, Metafisica, VII, 6, 1031, 65 e
An.Post.,I, 33, 89a 38. TORNA
16) G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1974,
Laterza, p.19. TORNA
17) Per le diverse accezioni del
termine “essere” cfr. E. Bloch Il
principio speranza, 1994, Garzanti, p.9, p.1585, p.337 TORNA
18) Ibidem, p.11. TORNA
19) Ibidem, p.11. TORNA
20) Ibidem, p.289. TORNA
21)Vedi G. Boscarino, La meccanica quantistica: il reale e il
possibile in Tradizioni di pensiero, Ed.
La Scuola italica, 1999, Sortino. TORNA
22) K.R.Popper, Poscritto alla Logica della scoperta
scientifica, II, Il Saggiatore, Milano, 1984, p.208. TORNA
23) IIya Prigogine, Isabella
Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi
della scienza, Einaudi, Torino, 1995, p. XIII. TORNA
24) E. Fromm, op. cit. pp.41-42. TORNA
25) C.Bernard, Introduzione allo studio della medicina
sperimentale, Feltrinelli, Milano, p.63.
TORNA
26) K. Marx, Il Capitale, Ed. Riuniti, Roma, 1967, p.34. TORNA
27) G. Vailati, op. cit., pp.143-l44. TORNA
28) I Newton, op. cit., p.
57 TORNA