RAZIONALISMO E PROGRESSO

ETICO-SCIENTIFICO

Fatti, valori e teorie.

 

Giuseppe Boscarino

 

 

 

-  Introduzione. Questioni.

 

Quanto mi propongo di discutere in questo mio articolo è il seguente insieme di questioni:

1)  La scienza si occupa solo di fatti?

2)  L’etica si occupa solo di valori?

3)  È possibile una scienza dell’etica?

4)  Ci può essere progresso scientifico ed etico nello stesso tempo?

5)  Quale categoria ontologica sta a fondamento della scienza?

 

 

1. Le soluzioni positivistiche, postpositivistiche e non, delle questioni:

 

In larga parte della pubblicistica, o almeno in quella per ora dominante, sem­bra oramai assodato, relativamente alle questioni suddette:

 

a)  che la scienza si occupi e debba occuparsi solo di fatti, o di ciò che è;

b)  che le scelte etiche o di valori, ciò che deve essere, riguardino le convinzioni personali, le quali non hanno nulla a che fare con la scienza, in quanto da questa non possono essere dedotte;

c)  che non è possibile una scienza dell’etica, in quanto la scienza si occupa solo di proposizioni dichiarative o descrittive, vere o false, mentre l’etica si occupa di proposizioni prescrittive, che non sono né vere né false, quindi non deducibili da proposizioni dichiarative.

Leggiamo quanto a questo proposito si scrive, da più parti, e come si argomen­ta, richiamandosi, a nostro parere, in modo improprio, alla cosiddetta «fallacia naturalistica» di Hume, secondo cui, da parte di molti scrittori moralisti, si pretenderebbe, in modo erroneo, di dedurre proposizioni prescrittive, ciò che deve essere (ought) che riguarda l’etica, da proposizioni descrittive, cio che è (is), che riguarda la scienza.

Il celebre brano di Hume è il seguente:

«In ogni sistema di morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trova­to che l’autore va avanti per un po’ ragionando nel modo più consueto, e afferma l’esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è e non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infat­ti, dato che questi deve, o non deve, esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa comple­tamente differenti».(1)

Il fatto che non può esistere una scienza dell’etica, secondo Popper, è il fonda­mento della società aperta, tollerante e democratica, poiché vengono a mancare i vincoli della scienza («L’etica non è scienza», infatti scrive(2); l’etica non ha verità, è senza verità), restando ognuno libero di darsi i suoi valori e le sue scelte morali.

L’etica, in quanto non è scienza, è pertanto la base della libertà di coscienza. Qualche epistemologo può così di rincalzo commentare:

«La non fondabilità razionale dei nostri valori ultimi e la fallibilità della conoscenza umana - e la dispersione di questa conoscenza tra milioni e milioni di uomini - sono le due chiavi che, nel pensiero di Popper, aprono la società: la aprono a più valori, a più visioni del mondo filosofiche o religiose, a più propo­ste politiche, e quindi a più partiti, alle critiche più severe dei diversi punti di vista e delle differenti proposte. È questa la società aperta»(3).

Così tanto per il fallibilista Popper quanto per il cosiddetto, individualismo metodologico(4), molto diffuso nella cultura e nell’epistemologia contemporanea, non si può dare scienza dell’etica, non solo, perché la scienza si occupa solo di fatti, cioé di cose che sono e non di cose che devono essere, ma anche perché non si può costruire una presunta scienza della «natura umana», in quanto esiste­rebbero solo individui concreti, sensibili, ma non classi, non proprietà, poiché astratte, o essenze, quale potrebbe essere la cosiddetta «natura unana», mero flatus vocis, assurda chimera, portatrice solo di terribili utopie, tirannie ed intolleranze.

Scrive a tal proposito il neopositivista o postneopositivista Popper:

« Non permettere che i sogni di un mondo perfetto ti distolgano dalle rivendicazioni degli uomini che soffrono qui ed ora. I nostri simili hanno diritto ad essere aiutati; nessuna generazione deve essere sacrificata per il bene di quella futura, in vista di un ideale di felicità che non può realizzarsi mai. L’atteggiamen­to della felicità dovrebbe essere lasciato agli sforzi dei singoli»(5). Qui come si vede Popper cade nella fallacia naturalistica di Hume, poiché passa dell’è al devi.

Gli altri sono sofferenti, tu non devi sacrificare la tua generazione per la soffe­renza degli altri, che si proietta nel futuro.

La coerenza logica vale allora solo per gli altri!

Ecco poi quanto scrive il positivista Ayer in proposito:

«Se per scienza etica si intende l’elaborazione di un sistema morale vero, non puo darsi nulla di simile a una scienza etica. Essendo i giudizi etici mere espressioni di sentimento, non è possibile nessuna determinazione della validità di un sistema etico, e, anzi, non ha senso chiedere se un sistema simile sia vero o falso... L’etica, quale ramo del sapere, non è nulla più che un settore della psico­logia e della sociologia.»(6)

Sulla dicotomia fatti-valori insiste il sociologo Max Weber e quanti altri. Per una panoramica comunque si può consultare il libro Etica di E. Lecaldamo, TEA 1995, pp.6O-6l.

La crisi della scienza dell’etica ha portato ai nostri giorni da una parte al­l’esplosione di etiche normative, puramente teoriche, tassonomiche, avulse di una solida conoscenza filosofica e scientifica della realtà naturale e storica, dal­l’altra a quella che è stata chiamata «l’irruzione dell’etica applicata» (bioetica, ecoetica, etica dei diritti degli animali ecc.ecc.).(7)

È chiaro che entro questa dicotomia scienza-etica non ci si pone il problema se progresso scientifico e tecnico da una parte e progresso etico dall’altra siano coniugabili e come sul piano teorico e filosofico ed epistemologico, lasciando all’etica della scienza, cioé a qualcosa di esterno alla scienza, la risposta al pro­blema.

Ben altre si sostiene che siano allora le fonti dell’etica per lo scienziato; le sue scelte etiche non possono discendere dalla sua pratica scientifica, né soprattutto dalla potenza del suo metodo deduttivo, come mezzo di ricerca e di invenzione.

L’ontologia che deve guidare lo scienziato è quella che attiene al fenomenico, a ciò che si manifesta, a ciò che è, il fatto, anche se si dice oggi da parte dell’epistemologia più avveduta che il fatto è costruito dalla teoria o è impregna­to di teoria («theory - laden»).

 

 

2.    È proprio vero che la scienza si occupa solo di descrizioni e non di prescrizioni ? Il dover essere della scienza e l’essere della conoscenza.

 

Domandiamoci adesso: È proprio vero che la scienza si occupa di proposizio­ni dichiarative o descrittive, lasciando all’etica il campo delle prescrizioni ?

In verità quando si trasforma la questione 1. in tesi si commette un grave erro­re di valutazione e di prospettiva perché una cosa è l’essere della conoscenza, un’altra cosa il dover essere della scienza.

Nel corpo delle teorie scientifiche che sono i teoremi, cioé quanto questi affer­mano o dichiarano che è o può essere, la tesi o l’enunciato, si dice poi come metaffermazione che deve essere dimostrato.

Per esempio, l’enunciato del seguente teorema euclideo è il seguente: la som­ma degli angoli interni di un triangolo è un angolo piatto, mentre la dimostrazio­ne si conclude “come dovevasi dimostrare” (òper idei deίscai, ciò che era neces­sario dimostrare, nel testo greco).

E ancora: «Sopra una retta data terminata è possibile costruire un triangolo equilatero» (altro teorema o problema euclideo, il quale si conclude: come dovevasi o era necessario fare).

Quanto doveva essere dimostrato o costruito è la relazione logica di deduzione tra l’enunciato o tesi e le sue ipotesi, cioé il teorema.

L’essere o il poter essere dell’enunciato è l’essere della conoscenza, il dover essere della dimostrazione è il dover essere della scienza.

Keplero enuncia la sua legge che i pianeti si muovono su orbite ellittiche attor­no al sole, su uno dei suoi fuochi, (l’essere della conoscenza), ma nulla esclude che potrebbero muoversi su altra orbita geometrica; Newton dimostra, grazie alla sua teoria, che se sono vere certe ipotesi e condizioni, i pianeti non possono muo­versi se non su orbite ellittiche(8), dimostra cioé una necessità o altrimenti una impossibilità (i pianeti non possono muoversi su altre orbite, ma solo su orbite ellittiche). È questo il dover essere della scienza. Newton trasforma una descri­zione in una prescrizione (deve essere così) o in un divieto (non può essere altri­menti) o in una necessità (non può non essere così).

Il circolo progressivo della conoscenza è allora di andare da descrizioni a pre­scrizioni e da prescrizioni a descrizioni, alla scoperta di cose nuove.

Se sono vere certe ipotesi o leggi, e condizioni, allora sono vere certe cono­scenze o descrizioni. Da qui il famoso caso della scoperta del pianeta Nettuno, grazie alla teoria di Newton, nel campo dell’astronomia.

Da ciò la potenza di scoperta conoscitiva della teoria o del metodo deduttivo, come messo in evidenza in modo eccellente da Vailati, discepolo di Peano.

«La storia delle scienze - scrive Vailati - ci mostra chiaramente che, tra le cause che hanno condotto gradualmente alla sostituzione dei moderni metodi sperimentali al posto degli antichi metodi di semplice osservazione passiva va annoverata, come una delle più importanti, l’applicazione della deduzione anche a quei casi nei quali le proposizioni prese come punto di partenza erano conside­rate come più bisognevoli di prova che non quelle a cui si arrivava, e nei quali quindi erano queste ultime che dovevano comunicare, alle congetture fatte, la certezza che attingevano direttamente dal confronto coi fatti e dalle verifiche sperimentali. L’impossibilità di trovare, nei fatti spontaneamente presentatisi al­l’osservatore, il materiale adeguato per la verifica delle conclusioni a cui spinge­vano deduzioni che, per quanto corrette e rigorose, non erano basate su premesse riconosciute per sé stesse meritevoli di fiducia incondizionata, come quelle dei matematici, fece nascere il desiderio e il bisogno di allargare con artifici la sfera dei fatti da utilizzare per controllo delle teorie, e contribuì, più di qualunque altra circostanza, a portare all’impiego sistematico di quell’osservazione di fatti artifi­cialmente provati allo scopo di osservarli, che costituisce l’esperimento propria­mente detto. In altre parole, i fisici antichi non si sentivano spinti a sperimentare soprattutto perché, essendo più intenti a garantirsi della certezza delle propo­sizioni da cui prendevano le mosse che non della verità di quelle che da esse deducevano, non potevano aver ragione di domandarsi che cosa avvenisse in casi diversi da quelli che, presentandosi spontaneamente alla loro osservazione, sug­gerivano ad essi immediatamente le generalizzazioni su cui basavano i loro ra­gionamenti. Onde è lecito affermare, che fu in certo senso l’applicazione sempre più vasta e sistematica della deduzione allo studio dei fenomeni della natura, che fornì il primo impulso allo sviluppo dei metodi sperimentali moderni, e che non è da attribuire al caso se i più eminenti iniziatori di questi furono anche nello stesso tempo i più grandi instauratori e fautori dell’applicazione alle scienze fisi­che di quel potente strumento di deduzione che è la matemauica.»(9)

Chi fa progredire allora è la scienza, chi progredisce è la conoscenza.

La scienza è essenzialmente un metodo, che trasforma proposizioni descrittive in proposizioni prescrittive, ciò che è o può essere in ciò che deve essere, il fatto in valore conoscitivo, in ciò che si ritiene degno di essere conosciuto e apprezza­to.

Il progresso della conoscenza è di trasformare proposizioni prescrittive in pro­posizioni descrittive, il progresso della scienza è di trasformare proposizioni de­scrittive in proposizioni prescrittive.

Le verità della conoscenza sono contingenti (potrebbe essere altrimenti), le verità della scienza sono necessarie (non può essere altrimenti), almeno tali vo­gliono essere in linea di principio. Qua non si fa la distinzione metafisica, «ve­rità di fatto - verità di ragione», ma una distinzione epistemologica, poiché le verità della scienza sono verità di fatto trasformate in verità di ragione, portate dal piano dell’essere al piano del dover essere, dal contingente al necessario, attraverso le leggi della logica e della teoria.

Può ben scrivere a questo proposito il Vailati:

«È questa riduzione d’un fatto, o d’una legge, ad altre leggi o fatti più gene­rali che costituisce ciò che si chiama spiegazione scientifica, ed è importante notare come i vantaggi inerenti a questo processo non dipendono affatto dalla circostanza che i fatti e le leggi, sulle quali una data spiegazione è fondata, si presentino alla nostra mente come più famigliari o più evidenti per sé stessi che non quelli che spieghiamo per loro messo. La deduzione applicata in tal modo, come mezzo di spiegazione, ci permette di abbracciare, con un solo sguardo e con un solo atto della mente, una varietà e molteplicità di fatti, la cui considera­zione altrimenti esigerebbe una assai maggior copia di operazioni e di sforzi in­tellettuali distinti. Col suo aiuto noi riusciamo a collocarci a un punto di vista dal quale le analogie, i rapporti, le connessioni, tra i fenomeni che investighiamo, si esplicano al nostro intelletto come le particolarità topografiche d’una regione si offrono allo sguardo di chi le contempli da un’altura. La deduzione moltiplica così le nostre attitudini a percepire l’ordine, le uniformità, le leggi costanti in mezzo al succedersi tumultuoso dei fatti e degli eventi, o, per esprimere la stessa cosa con una frase di Platone (libro 70 della Repubblica), essa ci pone in grado di discernere l’uno in mezzo al molteplice e di scorgere cogli occhi della mente i poli immutabili attorno ai quali turbina il caos e la perpetua vicenda dei fenomeni e delle sensazioni.»(10)

Che ci sia poi un corpo di scienze che abbia a che fare con prescrizioni, il dover essere, è messo ben in evidenza da Menger, scienziato e metodologo della scienza, per non parlare dei cosiddetti, oggi, problemi di ottimizzazione, attinenti la ricerca scientifica di tipo operativo nell’azione pratica.

«Le scienze (le cosiddette scienze pratiche o arti), scrive infatti il Menger, non ci mostrano i fenomeni nè dal punto di vista storico né da quello teorico: esse non ci insegnano, in generale, ciò che è. Il loro compito è piuttosto di stabilire i principi fondamentali in base ai quali perseguire nella maniera più conforme allo scopo aspirazioni di un certo tipo, secondo il mutare delle circostanze. Queste scienze ci insegnano ciò che, a seconda delle circostanze, dovrebbe essere affinché gli uomini possano raggiungere determinati scopi. Simili arti sono, nell’am­bito dell’economia politica, la politica economica e la scienza delle finanze».(11)

L’uomo oggi vuole sempre più dominare il suo futuro; questo lo costringe a studiare con i metodi della scienza tendenze e potenzialità nei processi naturalistici e storici, e quanto tra queste è degno di essere perseguito nell’azione, il dover essere-valore.

Che non esistono fatti non impregnati di valori è ben messo in evidenza in questo magistrale passo di E. Fromm, che vale la pena di riportare e leggere per intero:

« Il fatto da cui partiamo non ha alcun significato se non lo valutiamo in relazione all’intero sistema, e ciò comporta l’analisi di un processo in cui noi, in quanto osservatori, siamo coinvolti. Infine, bisogna rilevare che l’avere deciso di scegliere certi eventi come fatti esercita un effetto su di noi, perché con questa decisione ci siamo impegnati a muoverci in una certa dimensione, e questo impe­gno condiziona l’ulteriore selezione dei fatti.

Ma non solo i fatti sono scelti e ordinati in base ai valori; anche la programma­zione del calcolatore è basata su valori precostituiti e spesso inconsci. Il principio “più si produce meglio è” comporta un giudizio di valore. Se invece noi ritenes­simo che il nostro sistema può portare al miglior dispiegamento delle attività e alla migliore esaltazione della vitalità dell’uomo, programmeremo diversamente e altri fatti diventerebbero importanti. L’illusione della certezza delle decisioni del calcolatore, condivisa da un vasto settore dell’opinione pubblica e da molti fra coloro che detengono il potere decisionale, si basa sull’erronea assunzione

 

a.  che i fatti sono “dati” oggettivi;

b.  che la programmazione non è vincolata da leggi precise.

 

Ogni programmazione, elaborata o no con l’uso di calcolatori, dipende da leg­gi e da valori che la condizionano. La pianificazione in se stessa è uno dei pro­gressi più rilevanti compiuti dall’uomo, ma può essere un fatto negativo se è “cieca”, ossia se l’uomo rinuncia a decidere, a emettere giudizi di valore e alla propria responsabilità. Diventa un fatto positivo se è vitale, sensibile, “aperta”, se i fini umani sono sempre presenti e guidano il processo di pianificazione(12).

Ma già gli antichi riconoscevano ai principi conoscitivi la loro natura di valo­re, quando li chiamavano assiomi, da axios, che nella lingua greca vuoi dire «de­gno», cioé degni di essere conosciuti, valori.

I fatti di una scienza sono i fatti che quella scienza ritiene degni di essere conosciuti, mentre altri li scarta, li trascura, li occulta, li manipola, li altera, ecc.ecc. In verità ciò che si vuol negare è che la scienza, in quanto teoria, cioé struttu­ra organizzata di conoscenze, secondo principi, definizioni e teoremi, possa pro­durre norme per le azioni degli uomini, in vista del loro benessere fisico, mate­riale ed intellettuale, vuoi individuale vuoi collettivo.

Scrive M.Weber: «Siamo convinti che non può mai essere compito di una scienza empirica quello di formulare norme vincolanti e ideali, per derivarne direttive per la prassi... Una scienza empirica non può mai insegnare ad alcuno ciò che egli deve, ma soltanto quello egli può e - in determinate circostanze - ciò che egli vuole»(13).

Si tratta allora di scandagliare innanzitutto meglio nella natura della scienza, nelle sue categorie fondanti.

 

 

3. L’essere, il poter essere e il dover essere della scienza.

 

Tra scienziati e filosofi della scienza non c’è mai stato un accordo costante nel tempo ed omogeneo nello spazio geografico su quale dovesse essere l’oggetto della scienza, o se si vuole, la categoria logica che individuasse lo statuto ontologico della scienza.

Quando questo accordo si è raggiunto o c’è stato, tacito o espresso, magari solo a livello linguistico sull’uso di un comune linguaggio, anche se le interpreta­zioni ontologiche che di esso venivano date erano diverse tra i singoli membri della comunità scientifica (Si pensi al metodo degli indivisibili nella storia della matematica, o in generale allo sviluppo del calcolo infinitesimale, nell’età mo­derna.- Peano diceva che «l’analisi è un linguaggio ben costruito»(14)) la scien­za ha potuto progredire (cioé ha risolto problemi vecchi e nuovi, ha incrementato le sue conoscenze, ha fatto un uso applicativo di queste, quando il suo statuto ontologico di ciò che era scienza lo richiedeva, ecc. ecc. ...), quando è venuto meno, la scienza ha avuto momenti di stasi, di regresso o di progresso a secondo di come si interpreta la <cosa>, cioé l’essere e il divenire della scienza da parte degli storici e/o filosofi della scienza.

Il campo pertanto è stato conteso tra chi ha concepito la scienza come scienza di ciò che è, che possono essere i fenomeni e/o le essenze, che stanno dietro ai fenomeni, chi ha concepito la scienza come scienza di ciò che può essere, che sono le potenzialità o le tendenze di cui la realtà si ritiene composta, e chi ha concepito la scienza come scienza di ciò che deve essere, che è quanto tra le potenzialità è degno di essere conosciuto ed attuato dall’agire umano.

Per Aristotele la scienza ha come categoria fondante la necessità(15), per Hegel compito della filosofia, che per lui è la vera scienza, è <di intendere ciò che è, poiché ciò che è, è la ragione>(16), per Marx il compito della scienza non è più quello di interpretare il mondo, ma di trasformarlo, di dire come deve essere, perché ciò che deve essere, il non-ancora, per parafrasare Bloch, è il vero esse­re”(17).

Per Bloch tanto la filosofia che le scienze sono state prese nel passato da una specie di malia dell’esser-già(18), dimenticando l’essere-ancora.

Di questa malia dell’essere come passato o dell’essere come eterno presente non sono rimaste immuni né la scienza né la religione teistica, nella quale Dio è presente come l’essere, <colui che è>, ens realissimum et perfectissimum, è pre­sente quindi in modo concluso, chiuso, statico, non aperto, come già nelle filoso­fie che storicamente si sono succedute nelle quali l’essere ora identificato con la natura (Spinoza) ora con lo Spirito (Hegel) è concepito come l’essere-già-stato. In Aristotele l’essenza dell’essere è poi concepita come <tò tì en eina i>, come <ciò che era l’essere>.

Le scienze sono state prese come da un blocco di pensiero. La medicina, la psicologia, la fisica e in particolare la logica non hanno saputo tradurre in concet­ti, in pensiero, né tanto meno esprimerlo in direzione di nuovi possibilità di esse­re nel mondo e con il mondo, «il non - ancora - divenuto, anche se riempie il senso di tutti gli uomini e l’orizzonte di tutto l’essere».(19)

L’ontologia, a parere di Bloch, del non-ancora è stato poco meditata e compre­sa.

La possibilità reale resta solo un concetto nuovo ancora vergine.

In molte filosofie «la logica e l’ontologia dell’ampio regno del possibile sono state schiacciate dalla follia statica secondo cui tutto il possibile è stato già configurato nel reale».(20)

Ultimamente si è scoperta non solo da parte di filosofi ma anche di scienziati come categoria fondante della scienza la categoria della possibilità, anzi alcuni la vogliono mettere a base della meccanica quantistica(21).

L’ultimo Popper ha elaborato una teoria della propensità come base ontologica della scienza.

«Tutto è propensità», scrive Popper, secondo la terminologia degli ionici riportata da Aristotele. «Essere è essere sia l’attualizzazione di una propensità anteriore a divenire, sia una propensità a divenire».(22)

Anche Prigogine, scienziato, ha riscoperto la categoria della possibilità come categoria fondante della scienza. «Il caos appare oramai come un elemento unificatore, non come uno ostacolo, le “leggi della natura”, concepite come “leg­gi del caos”, non descrivono più un mondo chiuso, sottomesso ad una intellegibilità deterministica, ma un mondo aperto, ove la categoria di probabilità, come di possibilità, è fondamentale».(23)

Chi della possibilità e della potenzialità ha fatto il principio stesso della realtà è stato il filosofo marxista Bloch nella sua opera « Il principio speranza», dando una nuova definizione di essere.

Qui l’essere è definito ora come “docta spes ora come “utopia concreta” ora come <evento>; sono le diverse accezioni usate da Bloch per indicare l’essere, ma il cui significato resta però identico.

In verità la confusione e la miopia speculativa in queste filosofie o ontologie o filosofie della scienza sono grandi, anche se giuste esigenze e felici intuizioni invece sono presenti nella poderosa opera citata di Bloch.

 

 

4.    Teoria, etica e stratificazioni ontologiche della scienza.

 

Per avere chiaro il punto in cui scienza ed etica si possono coniugare, anzi si debbono coniugare assieme, bisogna aver chiare le diverse stratificazioni ontologiche entro cui si muove la scienza o la conoscenza scientifica e le scelte gnoseologiche ed assiologiche di fondo che in quelle comunque si fanno.

Lo statuto ontologico di tipo fenomenistico o essenzialistico porta a concepire la teoria scientifica, in senso tassonomico, come registrazione o classificazione di osservazioni e/o di scoperte di essenze, di cui i fenomeni sono la manifestazio­ne.

Lo statuto ontologico di tipo potenziale conduce a concepire la teoria scienti­fica in senso previsionale, come scienza non solo di ciò che è, ma anche di quello che può essere, o può accadere nel tempo.

Queste scelte aumentano il bisogno di conoscenza delle essenze, di quanto dietro i fenomeni si cela, per poter conoscere meglio quanto può e/o deve accade­re, come pure l’aspetto razionale della teoria, cioè il bisogno della costruzione di enti ideali e leggi ideali, non direttamente osservabili, da cui muovere nell’elabo­razione della teoria, abbandonando il campo del meramente osservabile o misurabile.

Lo statuto ontologico di tipo assiologico, cioé di quanto tra la potenzialità deve essere conosciuto e attuato, conduce ad accentuare, invece, l’aspetto etico-­politico della teoria; questa deve scegliere tra le potenzialità quale di esse sia degna di essere meglio conosciuta e perseguita nell’agire etico-politico.

Tutti e tre, a secondo dei punti di vista giustificati diversamente, ciò che è, cio che può essere, ciò che deve essere, sono ritenuti, tacitamente o espressamente, volutamente o non, valori.

C’è quindi a base di qualunque concezione della scienza dientro la scelta ontologica, una scelta di valori o un’assiologia che sostiene a sua volta la scelta epistemologica.

Ontologia, assiologia, ed epistemologia non sono quindi separabili in qua­lunque filosofia o metafisica della scienza, come nella pratica dello stesso scien­ziato.

Il privileggiare l’uno o l’altro aspetto fa perdere la complessità ontologica del fatto scientifico e della teoria scientifica e il suo punto di coniugazione con il valore etico.

La potenzialità intanto non è una categoria ontologica della realtà, che invece è quella che è (è questo il piano dell’essere apparente, mutevole nel tempo), ma una categoria epistemologica, cioé della teoria scientifica, nella quale il fenome­no, l’essere apparente, viene scisso tra quanto viene da esso ricostruito, il fatto scientifico, quanto ad esso viene sotteso, l’essenza, cioé gli elementi della teoria e le sue leggi, (è questo il piano dell’essere vero, immutabile ed eterno o il campo della logica della scoperta scientifica), quanto in esso (fenomeno) può essere, il possibile (è questo il campo tecnico-scientifico) e quanto in esso tra i possibili (è questo il piano etico politico) deve essere, il valore, ovvero quanto è degno di essere conosciuto e perseguito dall’agire umano, vuoi dall’uomo in quanto sin­golo (il piano etico) vuoi dall’uomo in quanto membro di una società (il piano politico) - è questo il campo della logica dell’invenzione.

Si dice che la tecnocrazia è la supremazia della tecnica sull’etica; <Se puoi, devi>; «can implies ought» è stato scritto.

Qui il passaggio è dal poter essere al dover essere.

Così, in barba ai nostri teorici, ed epistemologi, per i quali non è possibile dedurre etica dalla scienza e dalla tecnica, qui si passa dall’è, al puoi, al devi.

Può ben scrivere a questo proposito E. Fromm:

«Se è possibile costruire armi nucleari bisogna costruirle, anche se possono distruggerci tutti, se è possibile andare sulla Luna o sugli altri pianeti, bisogna farlo, anche se ciò comporta la mancata soddisfazione di molti bisogni qui sulla Terra.

Questo principio rappresenta la negazione di tutti i valori elaborati dalla tradi­zione umanistica, per la quale una cosa andava fatta in quanto necessaria all’uo­mo, al suo sviluppo, alla sua felicità e alla ragione, perché bella, buona e vera. Se si accetta il principio che qualcosa va fatto perché tecnicamente possibile, tutti gli altri vengono messi da parte e lo sviluppo tecnologico diventa il fondamento dell’etica».(24)

Cosa media il poter essere al dover essere ? Cosa fa passare lo scienziato, e con lui tutto il complesso socio-economico-politico che lo circonda, visto che la scienza e la tecnica sono divenute parti integranti del processo economico e delle decisioni politiche, dall’è e puoi della scienza-tecnica al devi, che guida il suo agire, vuoi come singolo vuoi come membro di una comunità socio-politico-economica?

Se non sono le sue conoscenze scientifiche, magari di altro campo o di altra natura e la potenza del suo metodo deduttivo (per es. per un fisico le sue cono­scenze scientifiche in campo economico e in quello etico e politico e viceversa per un economista o per un politico le sue conoscenze sulla natura dell’energia nucleare come sulle sue potenzialità, e così via), cosa lo guida?

Se non è la ragione, e la scienza è la ragione come ben diceva C. Bernard in un suo aureo libretto («Io credo che la fede cieca nel fatto che vuole mettere a tacere la ragione sia altrettanto dannosa per le scienze sperimentali quanto la credenza cieca nell’intuizione che vuole egualmente far tacere la ragione. Infatti, sia nel metodo sperimentale come in tutte le altre cose, l’unico criterio positivo è la ragione»(25), la quale allarga il campo delle conoscenze dello scienziato dal campo della tecnica e delle scienze positive e particolari al campo politico ed economico e nel nostro caso al campo etico, chi guida lo scienziato a scegliere e a valutare, al dover essere?

Cosa altro può essere?

Saranno il sentimento, l’intuizione cieca, il conformismo, la tradizione, la sua convizione religiosa, i suoi pregiudizi di qualche natura, l’autorità e il potere di chi dirige il suo lavoro di scienziato e di tecnico, cioè quanto di irrazionale ed eteronomo è in lui?

Qui non si solleva un problema di sociologia della scienza ma di teoria della scienza, di sue categorie fondanti

Lo scienziato resta un uomo, con una sua identità psichica e sociale, anche quando costruisce la sua scienza.

Ogni teoria nasce mescolata ad attese, a speranze, a progetti, a pensieri, a bisogni, a interessi di carriera, di guadagno, di prestigio, di dominio e di potere, ecc. ecc.

Scriveva giustamente Marx a proposito della difficoltà che incontrava l’eco­nomia politica a svilupparsi in quanto scienza:

«Nel campo dell’economia politica la ricerca scientifica non incontra sol­tanto gli stessi nemici che incontra in tutti gli altri campi. La natura peculiare del materiale che tratta chiama a battaglia contro di essa le passioni più ardenti, più meschine e più odiose del cuore umano, le Furie dell’interesse privato».(26)

L’uomo è una sintesi di elementi positivi e negativi, di natura e cultura, cioé una sintesi di quanto in lui è pulsione, naturalità, animalità, bisogno naturale, e di quanto della sua natura si è nobilitato o sublimato, ovvero di quanto alla sua natura animale si è aggiunto, attraverso la storia, che sono i valori della tradizione culturale umanistica, intesa nel suo significato altamente etico, non retorico o meramente linguistico.

Una scarsa conoscenza della natura umana e della sua storia, di quanto in essa di positivo è presente e si è sedimentato nel tempo, vuoi nel costume, vuoi nelle istituzioni, rende lo scienziato, benché forte dei suoi fatti e delle sue teorie, pri­gioniero solo di pregiudizi e di cattivi maestri, quali possono essere, dicevo già, il conformismo o l’autorità di chi comanda, guidato da soli fini di profitto e di interesse personale.

Lo scienziato che recide coscientemente, nel nome di una presunta autonomia della scienza e della tecnica, i legami della sua scienza con le fonti dell’etica è uno scienziato alienato, reificato, ridotto a cosa, a mero strumento di un ingra­naggio che non controlla e non sa discutere, nei suoi principi direttivi come nelle sue finalità; egli, in tal modo, si preclude la possibilità di una crescita armonica di scienza ed etica, del dover essere di natura scientifica e del dover essere di natu­ra etica.

Lo status alienato dell’esperienza scientifica è quello di concepire e di vivere il rapporto con la natura, intesa quale mero oggetto, al solo fine di carpirle i segreti, che sono le sue leggi, con intento di sfruttamento, di consumo e di domi­nio, mentre lo status, non alienato, è quello in cui lo scienziato è restituito, e con lui e attraverso lui, l’uomo, ad un rapporto positivo e di progresso reciproco, con la natura, intesa quale oggetto e soggetto ad un tempo, con sue possibilità, neces­sità e limiti, che sono gli stessi dell’uomo.

Ma si dice, ispirandosi in ciò al cosiddetto individualismo metodologico, da noi già richiamato all’inizio, che l’uomo, cioé qualcosa di comune a tutti gli uo­mini, non esiste, poiché esistono solo individui!

Ma questo è brutale empirismo, frutto di miopia e di mistificazione, poiché anche quando si dice che esistono solo individui, si fa una affermazione univer­sale, si afferma una proprietà, poiché si dice che ci sono solo individui e questi sono per esempio Giovanni, Giuseppe, Mario ecc.ecc. <Giovanni è un individuo>, <Giuseppe è un individuo> ecc. “Individuo” è una proprietà universale. Eppure si afferma che esistono solo individui, non classi, come se “individuo” non fosse una proprietà universale, cioé una classe.

Ma si immagini che nel momento del tentativo di costruzione della scienza del movimento si fosse detto che esistono solo corpi singoli in movimento o movi­menti singoli, e non il moto in quanto proprietà o insieme di proprietà comuni a più corpi o a più movimenti! Come si sarebbe potuto costruire una scienza del moto così come egregiamente è stata iniziata da Galileo e poi sistemata da Newton?

 

5.    Razionalismo, logica dell’ invenzione, etica e progresso.

 

Il fatto è che nella storia si sono scontrati due grandi tradizioni di pensiero sul concetto di realtà, con quanto questo vuol dire sul piano etico, quella empiristica e quella razionalistica.

L’una ha concepito la realtà come quella data dai sensi, i quali si limitano a fare semplice opera di registrazione e di classificazione dei dati fenomenici, per cui la scienza è mera tassonomia, l’altra ha concepito la realtà non come quella data dai sensi, che è mera apparenza, ma come quella che ci costruiamo con il pensiero attraverso un’opera di scavo e di penetrazione oltre le apparenze, oltre la semplice empiria.

Il razionalista si serve di indizzi, segni e frammenti di realtà per ricostruire l’invisibile, la catena deduttiva, il dover essere, l’intero della scienza e della teo­ria.

Guidato dalla logica dell’invenzione, grazie ai processi idealizzazionali che mette in essere, il razionalista costruisce o immagina, a partire dalla realtà empirica, astraendo e combinando proprietà, modelli di realtà, che sottopone a verifica o a falsifica, e che arricchisce sempre più di nuove proprietà, vuoi per meglio com­prendere la realtà empirica in sé complessa, vuoi per sottoporla a esperimenti di cambiamento.

Può ben scrivere in modo magistrale, a questo proposito, il Vailati in una sua nota di un suo saggio:

«Questa efficacia della deduzione, come mezzo di generalizzazione, sussi­ste sempre, anche quando nessun caso reale abbia luogo, o si conosce, pel quale si presentino le condizioni richieste pel verificarsi dell’una o dell’altra delle pre­messe, senza che, nello stesso tempo, si verifichino tutte quelle che sono ulterior­mente richieste per il verificarsi di ambedue, e quindi anche della conclusione da esse dedotte. Per spiegarmi con un esempio, se anche le leggi di Keplero avessero corrisposto ai movimenti effettivi degli astri non meno esattamente di quanto vi corrispondano i risultati che si ottengono per deduzione dalle leggi di Newton, la sostituzione di queste ultime alle prime non avrebbe perciò mancato di rappre­sentare un passo verso una maggior generalizzazione, in quanto che mentre le leggi di Keplero non si riferiscono che ai moti che i pianeti hanno effettivamente, quelle di Newton (anche facendo astrazione dal fatto che esse abbracciano anche il caso dei moti dei gravi alla superficie terra) ci dicono qualche cosa anche sui noti che esse avrebbero, o avrebbero avuto se la distribuzione iniziale della mas­se e delle velocità fosse stata diversa.

Nelle scienze che hanno rapporto colla pratica, che si riferisce cioé a fatti in parte soggetti al controllo della volontà umana, le congetture relative a ciò che avverrebbe, se si verificassero condizioni che mai si verificarono in passato, han­no tanta e, spesse volte, maggiore importanza che non le cognizioni relative a ciò che avviene, o è sempre avvenuto, in assenza di tali nuove condizioni.

È perciò che alla deduzione va attribuita una funzione assai più importante come mezzo di invenzione che non come mezzo di scoperta».(27)

È chiaro che l’empirista, per il quale il reale è appunto l’empirico, quale esso si manifesta, è portato a identificare i valori con i fatti (valore=fatto), la morale, in quanto scienza o arte del dover essere, con l’etica o il costume, le norme de­scrittive , con le norme prescrittive, né pone il momento della scissione o della lacerazione, tra il dover essere morale mescolato alla teoria scientifica e l’essere e il dover essere della scienza stessa nella dinamica dell’individuo e della comu­nità umana, poichè la morale si esprime a suo parere nell’etica ovvero nelle norme sociali o nei gusti personali di soddisfacimento o nel normativismo biolo­gico della legge del più forte e dell’adattamento all’ambiente.

Sul piano etico e politico tutto questo si traduce in conformismo, nell’appiat­timento dei valori ai fatti, nella perdita della propria identità ed individualità, che dovrebbe essere produttrice di valori e di tensioni ideali, ma di fatto è priva delle grandi virtù etiche dell’uomo creativo, quali la fede, la speranza, la fortezza d’ani­mo e il coraggio del cambiamento.

Il motto dell’umanesimo illuministico era, secondo Kant, «Abbi il coraggio di sapere».

L’atto del conoscere, del fare scienza, è innanzitutto un atto di coraggio; lo scienziato razionalista osa guardare dove altri non riescono per mancanza di coraggio o non sanno guardare, per mancanza di strumenti intellettuali adeguati, ma soprattutto perché attaccati all’empirico, all’immediato, non sapendo media­re tra l’essere e il dover essere della scienza e il dover essere morale.

L’atto del conoscere, del fare scienza, è carico di attesa, di speranze in un qualche futuro cambiamento, anche quando tale non sembra.

Così scrive ad esempio il grande Newton inventore del calcolo infinitesimale e scopritore delle leggi della gravitazione universale:

«Sembra infatti che tutta la difficoltà della filosofia consiste nell’investigare le forze della natura a partire dai fenomeni del moto e dopo nel dimostrare i restanti fenomeni a partire da queste forze. A questo mirano le proposizione ge­nerali delle quali abbiamo trattato nel libro primo e secondo. Nel terzo libro, invero, ho esposto un esempio di ciò al fine di spiegare il sistema del mondo. Ivi, infatti, dai fenomeni celesti, mediante le proposizioni dimostrate matematica­mente nei libri precedenti, vengono derivate le forze della gravità, per effetto delle quali i corpi tendono verso il sole e i singoli pianeti. In seguito da queste forze, sempre mediante proposizioni matematiche, vengono dedotti i moti dei pianeti, delle comete, della luna e del mare. Volesse il cielo che fosse lecito de­durre i restanti fenomeni della natura dai principi della meccanica col medesimo genere di argomentazione. Infatti, molte cose mi spingono a sospettare che essi tutti possano dipendere da certe forze per effetto delle quali le particelle dei corpi, per cause non ancora conosciute o si urtano fra di loro e si connettono secondo figure regolari o si respingono e recedono l’una dall’altra: per le quali forze igno­te, i folosofi fin qui invano indagarono la natura. Spero in verità che, o a questo modo di filosofare, o ad un altro più vero, i principi qui posti possano apportare qualche luce».(28)

Per Fromm empirismo e razionalismo sono due modalità esistenziali, il primo dell’avere, il secondo dell’essere.

L’empirista vuole avere, possedere conoscenze per classificarle, ordinarle, il razionalista vuole che le potenzialità che sono all’opera nella realtà, ma che la teoria solo coglie, perché sono nascoste occultate, manipolate, alterate, specie quelle positive in quanto non rispondono a interessi ben determinati, in particola­re di potere e di dominio, e, aggiungiamo di profitto nella moderna società capi­talistica, si manifestino e vengano all’essere.

Non ha senso per il razionalista la possibile accusa si «fallacia naturalistica» di cui si diceva all’inizio, perché per lui non vale la presunta dicotomia «fatto­-valore», «essere-dover essere», «reale-potenziale».

Il potenziale, l’ideale, il valore non è qualcosa che «non è» e che poi «è», poiché «deve» accadere, «deve essere», ma qualche cosa che è, e, che se non appare, è perché aspetta di manifestarsi, di esprimersi, in quanto, o è mascherato, o è represso, o è nascosto ed occultato, ma che solo la teoria coglie nel suo poter e dover essere.

Se la realtà è un complesso intreccio sovrapposto di manifestazioni ed occul­tamenti, armonie e scissioni, di segni e frammenti, e di conoscenze ed illusioni, di ideologia, in senso marxiano, e di razionalizzazioni in senso freudiano, allora il razionalista, in quanto vuole produrre scienza oltre le apparenze, le scissioni, le sovrapposizioni, gli intersizi, non può produrre se non valori,  potenzialità,  ten­sioni, scelte, libertà e responsabilità, cioé etica o morale, come dire si vuole.

Si è liberi e responsabili sol se si conosce, si ha scienza, non solo del fram­mento o dell’aspetto di realtà che si studia, ma anche dei risultati delle nostre azioni di essere umani, in quanto singoli membri di una comunità, vuoi su quel frammento di realtà vuoi sugli altri essere umani.

Nella moderna società la natura sociale della produzione è imprigionata entro il rapporto privato di tipo capitalistico ed è occultata dall’«ideologia», che poi si traveste da «scienza».

Il “segno” evidente della loro profonda contraddizione o incompatibilità si manifesta attraverso le crisi cicliche di sovrapproduzione, o di recessione, come dir si voglia, vero punto di catastrofe della moderna società capitalistica, per evi­tar il quale si producono e si sono prodotte guerre, diffuso e disgustante consumi­smo, omologazione, distruzione delle qualità umane più alte, quali la libertà, l’in­dividualità e la solidarietà..

Solo una teoria scientifica non reificata, umanistica, cioé a forti principi etici, che pone a suo centro l’uomo con i suoi bisogni veri, sociali, di crescita può portare ad una interpretazione autentica della suddetta incompatibilità nel senso del suo superamento, al dover essere, di una società solidale, dove non domina la legge del profitto e dell’appropriazione indebita privata della produzione sociale.

Lo scienziato, forte della teoria, grazie a cui scopre e può produrre energia nucleare o qualche altra forma di energia, deve essere cosciente delle potenzialità costruttive o distruttive che quella comporta come dall’impatto della stessa sul­l’ambiente, e quindi sull’uomo, sul suo essere e sul suo divenire.

Sull’essere della conoscenza e il dover essere della scienza a quel punto si impone il dover essere della coscienza, la scelta, il valore umano o il disvalore, comunque un devi, che meno si nutre di conoscenze e di altre scienze meno e libero e responsabile.

Qui è in discussione la separazione del sapere, il cosiddetto scienziato specia­lista, non quello globale, che sa andare altre le sue conoscenze, integrarle entro una pluralità di saperi, essi stessi scientifici, per cui poi sa scegliere, può sceglie­re, deve scegliere.

È la scelta della tradizione razionalistica della scienza, a nostro parere, con quanto abbiamo detto, che porta a coniugare scienza ed etica, progresso scientifi­co e tecnologico con progresso etico, le descrizioni della scienza con le prescri­zioni dell’etica, la scienza dell’etica con l’etica della scienza, i fatti della scienza con i valori dell’etica, la deduzione della scienza con la deduzione etica del tu devi. Se sai e puoi, tu devi migliorare l’uomo secondo quanto ti insegna la tradi­zione etica umanistica e razionalistica.

 

 

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     NOTE

 

1) D. Hume, Opere, Laterza, Bari, 1971, p.496.   TORNA

2) K.R.Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1973, vol. 2, p.313.   TORNA

3) D. Antiseri, Trattato di metodologia delle scienze sociali, Utet, Torino, 1996, p.493.   TORNA

4) Cfr. a questo proposito D. Antiseri, op. cit., pp.44O-446.   TORNA

5) K.R.Popper, Utopia e violenza in Congetture e confutazioni, Il Mulino, 1972, p.611.   TORNA

6) A.J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano, 1961, p.l45.   TORNA

7) E.Lecaldamo, Etica, Tea, Torino, 1995, p.100.   TORNA

8) I.Newton, Principi matematici della filosofia naturale, Utet, Torino, libro terzo.   TORNA

9) G.Vailati, Scritti, 1911, p.125.   TORNA

10)  Ibidem pp.144-145.   TORNA

11) C.Menger, Sul metodo delle scienze sociali, Liberilibri, Macerata, 1997, p.21.   TORNA

12) E. Fromm, La rivoluzione della speranza, Bompiani, Milano, 1996, pp.66-67.   TORNA

13) M.Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1974, p.58, p.61.   TORNA

14) G.Peano, Opere, volI, Cremonese, Roma, p.388.   TORNA

15) Aristotele, Metafisica, VII, 6, 1031, 65 e An.Post.,I, 33, 89a 38.   TORNA

16) G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1974, Laterza, p.19.   TORNA

17) Per le diverse accezioni del termine “essere” cfr. E. Bloch Il principio speranza, 1994, Garzanti, p.9, p.1585, p.337   TORNA

18) Ibidem, p.11.   TORNA

19) Ibidem, p.11.   TORNA

20) Ibidem, p.289.   TORNA

21)Vedi G. Boscarino, La meccanica quantistica: il reale e il possibile in Tradizioni di pensiero, Ed. La Scuola italica, 1999, Sortino.   TORNA

22) K.R.Popper, Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, II, Il Saggiatore, Milano, 1984, p.208.   TORNA

23) IIya Prigogine, Isabella Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino, 1995, p. XIII.   TORNA

24) E. Fromm, op. cit. pp.41-42.   TORNA

25) C.Bernard, Introduzione allo studio della medicina sperimentale, Feltrinelli, Milano, p.63.   TORNA

26) K. Marx, Il Capitale, Ed. Riuniti, Roma, 1967, p.34.   TORNA

27) G. Vailati, op. cit., pp.143-l44.   TORNA

28) I Newton, op. cit., p. 57   TORNA