LE TRADIZIONI
DI PENSIERO TRA
PROGRESSO E
REAZIONE.
tradizione di
pensiero platonico-aristotelica.
Ogni paese della terra è
aperto al saggio: poiché
la patria dell’uomo virtuoso
è l’intero universo.
L’interpretazione dello
storico della scienza antica, Farrington, della filosofia di Platone e di
Cicerone come filosofie, non autogene, ma reazionarie ad una tradizione di
pensiero tendenzialmente laica, razionalistica ed egualitaria, quale quella che
chiama tradizione naturalistica ionica di contro a quella pitagoreggiante,
mistica, animistica ed élitaria, che ha il suo corifeo nel Socrate di Platone,
è nelle sue linee generali molto convincente, e quindi condivisibile, pur con
le dovute, a mio parere, correzioni e precisazioni.
In Farrington manca
innanzitutto una sofisticata coscienza epistemologica per cui scambia
l’empirismo e il naturalismo ionico con la complessa costruzione scientifico-razionalistica
elaborata lungo i secoli dalla tradizione di pensiero iniziata da Pitagora, a
mio parere, ma poi continuata da pensatori, quali Parmenide, Democrito e
Archimede, veri interpreti e continuatori della tradizione pitagorica,
manomessa e piegata invece ad esigenze reazionarie
da Platone e poi da Cicerone, come tenterò di dimostrare nel mio articolo,
nella tradizione latina.
Condivisibile, dicevo, è
l’interpretazione del Farrington della filosofia di Platone e di Cicerone quali
filosofie essenzialmente reazionane.
Scrive Farrington su
Platone: «Platone non rappresenta il pensiero greco nella maturità di una
virilità responsabile e nella pienezza delle sue capacità intellettuali. Platone
senza dubbio era un uomo di grandissima capacità intellettuale e di ricche doti
interiori, ma non allo stesso alto livello dei grandi uomini del V secolo,
Eschilo, Ippocrate, Tucidide. Nella
filosofia greca Platone rappresenta una reazione politica alla cultttra
ionica, in difesa dell’ideale di una città-stato basata sulla schiavitù, divisa
in classi e sciovinista, che era già divenuta un anacronismo. (Il corsivo è
nostro)
Mentre i suoi predecessori
avevano purificato tutto ciò di cui erano debitori alle civiltà del vicino Oriente
da ogni caratteristica di superstizione e di sacerdotalismo, Platone derivò dai
caldei la fede nella divinità degli astri e dall’Egitto un modello di
oppressione spirituale. Condusse una lotta lunga quanto la sua vita contro
tutto ciò che di più vivo vi era nella cultura greca, la poesia dì Omero, la
filosofia naturale della Ionia, il dramma di Atene.
Platone espresse questa sua
avversione attraverso la “rappresentazione” del carattere di Socrate, ed è
impossibile dire quanto di inventato vi sia nella figura di Socrate come ci
viene presentata da Platone. Ma Platone non era un Boswell intento a dipingere
con meticolosa cura un ritratto storico; anzi ogni elemento storico del suo
ritratto ci dà una conoscenza reale del pittore, non del soggetto.
Il Socrate del Dialoghi è il contributo di Platone, non
di Socrate, al pensiero; vi è nel suo ritratto qualcosa che colpisce
le radici stesse della filosofia così come la concepivano gli Ionici. Era
costume del clero delfico, centro di reazione oligarchica nel mondo greco,
emanare di tanto in tanto giudizi sul tipo ideale dell’uomo e del cittadino. Fu
così che il contadino Misone e Clearco di Metridione furono esaltati come
modelli e proposti all’imitazione dei greci, “simboli viventi”, afferma il
Nilsson, “della subordinazione richiesta da Apollo”. Socrate, il Socrate di
Platone, era anch’egli un modello di questo tipo; ci viene rappresentato subito
come l’“uomo” scelto dall’oracolo d’Apollo perché era il più saggio della
Grecia; e questa garanzia della saggezza di Socrate, legittima perché approvata
dal divino Apollo per bocca della sacerdotessa che si nutre di alloro, è un
insulto al pensiero dei due secoli precedenti. E’ la negazione di quella che fu
l’originalità propria del pensiero greco, l’essere stato cioè uno sforzo
dell’intelligenza umana per interpretare direttamente la natura senza l’aiuto
della rivelazione. In ultima analisi Platone ci sospinge indietro agli oracoli
o all’“antica tradizione”».(1)
E poi su Cicerone: «E’
evidente dunque che c’era, prima che Cicerone scrivesse, una radicata e diffusa
tradizione di filosofia epicurea a Roma, non soltanto legata ad opere greche ma
anche ad opere di molti scrittori latini. Perciò, possiamo dire, più
precisamente, che Cicerone si sforzò di
introdurre a Roma non la filosofia, ma una filosofia da opporre
all’epicureismo.»(2) (Il
corsivo è nostro).
Cerco di dimostrare in tutta
la prima parte del mio libro “Tradizioni
di pensiero. La tradizione filosofica italica della scienza e della realtà” la
natura essenzialmente reazionaria della filosofia di Socrate, Platone ed
Aristotele.
Preciso a proposito della
cosiddetta rivoluzione socratica in che cosa, a mio parere, essa consiste.
«Essa consiste nella rinuncia
del secondo Socrate, in contrapposizione a sofói, fisiologoi e sofistès, a
capire la realtà sensibile, a costruire teorie e istoríe naturali, che ne
spieghino l’apparente disordine o caos, nell’avere elaborato una nuova idea di sofia, che chiamo filosofia, interessata ai
problemi dell’anima, vista come “realtà staccata dal corpo, partecipe a sua
volta di una realtà, ritenuta, quella vera, la cui proprietà è di essere
immutevole, eterna, luogo di felicità”».(3)
E ancora in un’altra parte
scrivo a proposito di Platone ed Aristotele: «Dichiarandosi paladini della
tradizione e della religione tradizionale, questi rappresentano la reazione
politico-culturale alla tradizione pitagorico-democritea. Capendo la
pericolosità sul piano politico e sociale di una concezione dell’universo in
chiave atea e razionalistica (Si legge nella Metafisica di Aristotele «da
parte di antichi pensatori, vissuti in remotissime età è stato tramandato ai
posteri sotto forme mistiche che questi corpi celesti sono dei e che la
divinità contiene in sé l’intera natura. E le altre cose sono state
aggiunte in tempi posteriori sempre in forma mitica per suscitare persuasione
nelle masse e per indurle al rispetto delle leggi e delle comuni utilità», XII.
107 4B), il loro ruolo è stato quello di esprimere solo una mera reazione, nel
tentativo, riuscito poi vincente, ma per motivi esterni alla teoria, di
costruire una tradizione alternativa.
Essendo stato il loro
contributo, assolutamente nullo in questo campo, e dal punto di vista delle
osservazioni e dal punto di vista della costruzione di teorie matematiche, essi
più che rappresentare una scienza-filosofia alternativa, con teorie
logico-matematiche proprie, rappresentano l’antiscienza, la non teoria, la semplice reazione politico-culturale».(4)
La natura reazionaria della
filosofia di Platone è espressa abbastanza bene dai brani che cito di Plutarco
e che ritengo ancora di riportare, poiché assolutamente interessanti:
«Gli iniziatori della
meccanica, scienza oggi seguita e a tutti nota, furono Eudosso e Archita, i
quali comunicarono un grande fascino alla geometria mediante l’eleganza dei
suoi procedimenti. Essi diedero ai problemi che non offrivano possibilità di
soluzione con un procedimento soltanto logico e verbale il sostegno di schemi
visivi e meccanici. Ad esempio nella soluzione del problema di due rette medie
proporzionali elemento necessario alla composizione di una figura, entrambi
gli scienziati ricorsero a mezzi meccanici, servendosi delle medie
proporzionali che certi strumenti ricavano da linee curve e da segmenti. Platone rimase indignato da questo modo di
procedere e polemizzò con i due matematici (il
corsivo è nostro), quasi che distruggessero e corrompessero ciò che vi era di
buono nella geometria; in tal modo essa abbandonava infatti i concetti astratti
per scendere nel mondo sensibile, e usava anch’essa oggetti che richiedevano
ampiamente un grossolano lavoro manuale. La meccanica fu così separata e si
stacco dalla geometria; per molto tempo la filosofia l’ignorò ed essa divenne
una delle arti militari». (Cfr.Plutarco. Vite
parallele. Mondadori. Vol.III, p.335).
E ancora: «Perciò Platone mosse biasimo a Eudosso e ad
Archita e a Menecmo (il corsivo è nostro), che nel raddoppiamento del
solido cercavano di servirsi per costruire strumenti e meccanismi,
sembrandogli che irrazionale fosse il loro sforzo per trovare, come potevano,
due medie proporzionali; perché, diceva, in questo modo distruggevano e
corrompevano quello che è il bene della geometria, riconducendola a cercare
oggetti sensibili, e non più mirando verso l’alto, per cogliere le immagini
eterne e incorporee, presso le quali il dio essendo sempre è dio” (Plutarco,
Qaest.conv. VIII 2.1 p.718A in Pre.47,A, 15)».(5)
Dove Farrington sbaglia è
innanzitutto nel non aver capito che è il
razionalismo dei Pitagorici quello che sta alle origini della scienza
antica, continuata poi da Galilei e Newton, nell’età moderna, più che l’empirismo degli ionici, continuato
invece da Aristotele, contro cui si è costruita proprio la scienza moderna.
Non per niente assumo a
paradigma della mia interpretazione la classificazione di Diogene Laerzio, dove
si contrappone la tradizione ionica, entro
cui è posto Aristotele, alla tradizione
italica, entro cui sono collocati Pitagora, Democrito ed Epicuro.
Scrivo: «Platone contrappose
alla matematica e alla fisica pitagorica e italica una matematica mistica e una
fisica animistica, fondata sul senso comune, anche se ammantata da richiami
matematici, unita ad una teologia astrale, fondata sul culto degli astri come
dei. Ecco quanto scrive Platone nelle sue Leggi: “Ateniese (Platone): E l’anima che amministra e regge e inerisce
a tutto ciò che da ogni parte si muove, non è necessario dire che amministra e
regge anche il cielo?
Clin.: Sicuro.
Aten.: Un’anima o più anime? Più d’una risponderò io per voi. Non poniamone
certo meno di due, quella che opera il bene e quella che può operare il male.
Clin.: Hai detto in modo giustissimo.
Aten.: Sia così. L’anima conduce tutte le cose del cielo, della terra, del
mare, le muove con i moti che le sono propri, e che hanno nome: <volere>,
<esaminare>... (Le leggi.
X, 896e).
In un altro passo ancora
scrive:
Aten.: Così su tutte le stelle e la luna, gli anni, i mesi e le stagioni,
quale altro discorso diremo se non questo stesso, e cioè che, poiché
un’anima o molte anime apparvero cause di tutte queste cose, anime buone per
ogni virtù, le diremo divinità esse stesse, sia che siano celate nei corpi,
come esseri viventi, e così danno ordine a tutto il cielo, sia in qualche altro
luogo e modo? C’è qualcuno che convenendo in queste cose oserà ancora
sostenere che tutte le cose non sono piene di dei?
Clin.: Non ci può essere nessuno tanto pazzo, ospite. (ib. 899b)».(6)
La lettura di Pitagora in chiave mistica, animistica e teistica è di
Platone.
Cicerone, da vero propagandista, crea una serie di luoghi comuni, di
clichés, tali da farne un vero interprete di quella che io chiamo tradizione di
pensiero platonico-aristotelica (TPA), e un suo vero creatore nella tradizione
letteraria e culturale latina.
Cicerone contrasta duramente
l’epicureismo e fa del tema dell’esistenza dell’anima come realtà separata dal
corpo la discriminante fondamentale
tra le due tradizioni, come emerge chiaramente della lettura del suo libro Tusculanae Disputationes.
Scrive qui infatti: «Se fra
tutti gli esseri l’anima è l’unica a darsi da sé il movimento, è chiaro che non
può essere nata, ma è eterna.
Anche unendo tutte le forze,
i filosofi plebei - questo infatti mi sembra il nome adatto a definire quelli
che si discostano da Platone, da Socrate e dalla loro scuola - non solo non
sapranno mai dare una spiegazione tanto raffinata, ma non arrriveranno neppure
ad intendere, di questo ragionamento la sottigliezza della conclusione».(7)
Nel far questo crea una
serie, dicevo, di clichés, che saranno poi i luoghi comuni della TPA, contro
cui è stata costruita la prima parte del libro “Tradizioni di pensiero…”
Innanzitutto Platone è
elevato ad autorità indiscussa nella storia della filosofia, a cui bisogna
acriticamente sottoporsi, entro un sacro ipse
dixit, e con lui viene costruita la trilogia Socrate, Platone ed
Aristotele, ritenuti massima espressione della filosofia e della scienza greca,
non invece vero punto di catastrofe nella evoluzione di queste, come si tenta
invece di dimostrare nel mio libro citato.(8)Può
così scrivere Cicerone: «Quand’anche infatti Platone non portasse prova alcuna
- tu vedi in quanta considerazione io lo tenga! - già la sua autorità
basterebbe, da sola, a piegarmi; ma ha prodotto un numero di argomentazioni
tale da far pensare che voglia persuadere gli altri, mentre egli è già
fermamente convinto».(9)
L’universo viene visto in
chiave finalistica e teistica, frutto
di una mente ordinatrice.
«Vediamo la moltitudine
degli animali, destinati alcuni al nostro nutrimento, altri alla coltivazione
dei campi, altri al trasporto, altri ancora a rivestirci; e l’uomo stesso, con
il compito, si direbbe, di contemplare il cielo e onorare gli dèi, e tutti i
campi e i mari al servizio degli interessi umani; quando dunque ammiriamo
queste e altre innumerevoli meraviglie, possiamo forse dubitare che ci sia
qualcuno a governarle, e cioè un creatore, nel caso esse abbiano avuto
un’origine, come ritiene Platone, o, se sono sempre esistite, come pensa
Aristotele, un governatore di una costruzione e di un’impresa così grandiosa?
Così succede per lo spirito umano: anche se tu non vedi, come non vedi la
divinità, tuttavia, come riconosci la divinità dalle sue opere, così è dalla
memoria, dall’invenzione, dalla velocità del movimento e dalla bellezza di
ogni sua qualità che devi riconoscere la natura divina dello spirito».(10)
Come già Platone aveva steso
un velo di silenzio su Democrito, ordendo una vera e propria congiura del silenzio, così Cicerone
stende un velo di silenzio su Lucrezio, e dice, chiaramente, di non voler
parlare di Democrito, pur ritenendolo un grande uomo.
Scrive Cicerone infatti: «Di
Democrito infatti, uomo senza dubbio di notevole valore, ma che riduce l’anima
a una sorta di fortuito incontro di particelle lisce e rotonde, non voglio parlare (il corsivo è
nostro); per codesti filosofi infatti non esiste realtà che una moltitudine di
atomi non riesca a produrre».(11)
Scrive invece il Farrington
a proposito del silenzio di Cicerone su Lucrezio: «Che l’autore delle Tusculanae si presenti come il fondatore
della letteratura filosofica in Roma dieci anni dopo la morte di Lucrezio è,
anche per Cicerone, un notevole atto di presunzione. Quando egli scriveva le
parole: “La filosofia è rimasta, fino ad oggi, negletta, e su di essa la
letteratura latina non ha fatto nessuna luce,” poteva giustificarsi, per non
aver citato Lucrezio, solo con la scusa che egli si rifaceva unicamente alla
prosa.
Ma, davanti al giudizio della storia, egli non può
essere prosciolto dall’accusa di aver deliberatamente soppresso il più grande
nome nella storia della filosofia romana. Se egli fosse stato sincero nel
condannare gli altri per la loro mancanza di stile qui, senza dubbio, avrebbe
avuto un’ottima occasione per fare onore alla grande eccezione».(12)
Nel costruire la trilogia indiscussa,
Socrate, Platone ed Aristotele, Cicerone elabora una serie di clichés
storiografici che fanno parte della cosiddetta tradizione di pensiero
platonico-aristotelica che viene discussa e criticata nella prima parte del
libro “Tradizioni di pensiero…”
Socrate è visto come colui
che ha portato la filosofia dal cielo alla terra, dal tema della natura al tema
dell’uomo e della città.
Si costruisce una linea di continuità di pensiero
Pitagora-Platone, facendo di quest’ultimo il continuatore e l’interprete
del più vero pitagorismo, del primo l’iniziatore di quella che chiamo
tradizione di pensiero platonico-aristotelico (TPA).
Scrive infatti Cicerone: «I
filosofi antichi fino a Socrate, che aveva ascoltato le lezioni di Archelao,
discepolo di Anassagora, si occupavano dei numeri e dei movimenti,
dell’origine e della dissoluzione delle cose, e studiavano con grande impegno
le grandezze, le distanze, i moti delle stelle e tutti i fenomeni celesti.
Socrate fu il primo a far scendere la filosofia dal cielo, a collocarla nelle
città, a introdurla nelle case e a costringerla a occuparsi della vita e dei
costumi, del bene e del male».(13)
E ancora: «Platone - a
quanto si dice - per conoscere i Pitagorici venne in Italia e apprese tutta la
dottrina pitagorica; e fu il primo, non solo a condividere l’opinione di
Pitagora sull’eternità dell’anima, ma anche a darne una dimostrazione
razionale. Questa però, se non hai obiezioni, lasciamola da parte, e
rinunciamo a tutta questa speranza nell’immortalità dell’ anima.
Ma come! E tu, dopo aver
suscitato la mia curiosità, mi abbandoni? Preferisco, per Ercole, sbagliare in
compagnia di Platone - so bene quanto tu lo stimi e lo ammiri attraverso le tue
parole - piuttosto che essere nel vero con costoro».(14)
Cicerone, come già Platone,
interpreta il detto delfico “conosci te stesso” in chiave animistica, per cui
“conosci te stesso” equivale a conoscere l’anima, come interpreta il conoscere
come un ricordare, la conoscenza non come progresso, ma come regresso, un
tornare indietro ad una realtà incontaminata dell’anima, che, priva del corpo,
tomba dell’anima, contempla il mondo vero delle essenze o delle idee delle cose
sensibili.
Ecco quanto scrive Cicerone
a proposito delle due cose: «Quando dunque il dio dice: “conosci te stesso”,
intende dire “conosci la tua anima”, perché il corpo non è altro che una specie
di vaso, quasi un recipiente fatto per contenere l’anima; se l’anima tua fa
qualcosa sei tu a farla». …(15)
«L’anima possiede la
memoria, una memoria infinita di un numero illimitato di cose. Per Platone,
questa memoria si spiega solo col ricordo di una vita precedente. Nel dialogo
intitolato Menone, infatti, Socrate
pone a un ragazzino alcune domande di geometria sulla dimensione del quadrato.
Le sue risposte sono quelle di un ragazzo, tuttavia le domande sono così facili
che egli, rispondendo a ciascuna di seguito, arriva alle stesse conclusioni cui
sarebbe giunto se avesse studiato geometria. Secondo Socrate, questo dimostra
che imparare altro non è che ricordare».(16)
La natura contemplativa
della filosofia e la sua genesi attribuita da Cicerone a Pitagora, la
filosofia, come teoria, pura osservazione, slegata dall’azione tecnica, dalla
causa del progresso materiale degli uomini, dal sua legame con la pratica, sono
una delle colonne portanti della TPA.
Scrive Cicerone, infatti:
«Stando alla tradizione riportata da Eraclide Pontico, discepolo di Platone,
uomo di straordinaria cultura, Pitagora si era recato a Fliunte dove aveva
discusso con grande dottrina ed eloquenza alcune questioni con Leonte, principe
dei Fliasi; Leonte allora, ammirato per il suo ingegno e la sua eloquenza, gli
chiese quale arte soprattutto professasse e si sentì rispondere che egli non
conosceva nessuna arte in particolare, ma era un filosofo. Leonte, stupito
della novità del nome, chiese chi mai fossero i filosofi e quale differenza tra
loro e gli altri; Pitagora allora rispose che, secondo il suo modo di vedere,
c’era un’analogia tra vita degli uomini e quel tipo di fiere che si tengono con
grandissimo apparato di giochi davanti a un pubblico che accorre da tutta la
Grecia. Infatti, come là c’è chi cerca di ottenere la gloria e la celebrità
della corona con l’allenamento atletico, e chi vi giunge con l’intento di fare
buoni affari comprando e vendendo, ma c’è anche una categoria di persone, ed è
di gran lunga la più nobile, che non cerca né il plauso nè il lucro, ma vi si
reca solo per vedere e osservare attentamente ciò che succede e come succede,
lo stesso vale per noi uomini: come la gente parte da una città per recarsi a
una fiera affollata, così noi, giunti in questa vita dopo essere partiti da una
vita e da una natura diversa, ci troviamo a servire chi la gloria, chi il
denaro; ci sono alcuni, ma sono rari, che senza tenere in alcun modo tutto il
resto, si dedicano con passione allo studio della natura, e questi -diceva
Pitagora - si chiamano amanti della sapienza, cioè filosofi; e come alla fiera
il comportamento più nobile è quello dell’osservatore disinteressato, così
nella vita l’indagine e la conoscenza della natura sono attività di gran lunga
superiori a tutte le altre».(17)
In contrapposizione alla
tradizione epicurea, nella quale l’ornamento stilistico del discorso filosofico
è sottovalutato, è disprezzato, Cicerone getta un ponte tra la tradizione
retorico-isocratica e quella socratico-aristotelica, accomunate ambedue dalla
concezione che fine principale della
filosofia è la conoscenza dell’anima e che l’eloquenza, il bel parlare deve accompagnare il bel pensare.
«C’è infatti una certa
categoria di persone che aspirano al titolo di filosofi, autori, a quanto si
dice, di moltissimi libri in latino; - libri che non sono certo io a
disprezzare, per il semplice motivo che non li ho mai letti - ma siccome sono
proprio i loro autori a dichiarare di scrivere senza curarsi della precisione
né dell’ordine dei concetti, senza badare alla proprietà e all’eleganza
formale, io rinuncio a una lettura che non offre alcun diletto. Che cosa dicano
e che cosa pensino i seguaci di questa scuola, non c’è nessuno che lo ignori,
neppure se di cultura modesta. Perciò, visto che sono loro i primi a non
curarsì della forma espressiva, non capisco perché dovrebbero essere letti, a
meno che non vogliano leggersi l’un l’altro quelli che condividono le stesse
idee. In effetti, come Platone e gli altri Socratici e poi quelli che da loro
hanno preso spunto sono letti da tutti, anche da chi non concorda con quelle
idee o non ne è un appassionato sostenitore, mentre quasi nessuno, tranne i
discepoli, prende in mano Epicuro e Metrodoro, così questi latini sono letti
solo da chi crede nella validità delle loro idee». ... (18)
«Ma come Aristotele, uomo dotato
di ingegno, cultura, eloquenza straordinarie, colpito dalla fama del retore
Isocrate, incominciò anch’egli a insegnare ai giovani l’arte del dire
accoppiando la saggezza con l’eloquenza, così anch’io vorrei, senza abbandonare
la mia antica passione per l’eloquenza, coltivare anche quest’arte più elevata
e più ricca. Ho sempre giudicato infatti modello perfetto di filosofia quello
capace di trattare gli argomenti più complessi con linguaggio ricco ed
elegante; e mi sono esercitato in questo con tale ardore, che ho persino osato
organizzare una scuola sul tipo di quelle greche».(19)
Alla concezione
socratico-platonica della filosofia come
preparazione alla morte, descritta da Cicerone e fatta sua propria, si è
contrapposta nel corso dei secoli, la concezione di origine epicurea, di
Spinoza, della filosofia, come meditatio
vitae, non meditatio mortis.
Può ben scrivere a questo
proposito Cicerone: «L’intera vita dei filosofi infatti, dice ancora Platone, è
una preparazione alla morte. In effetti, che altro facciamo quando cerchiamo
di allontanare l’anima dal piacere, cioè dal corpo, dal patrimonio, che è a
sostegno e servizio del corpo, dalla politica, da ogni altro impegno, che altro
facciamo - dico - se non richiamare l’anima a sé stessa, costringendola a
stare da sola, e soprattutto staccarla dal corpo? Ma separare l’anima dal corpo
non è altro che questo: imparare a morire. Perciò, dammi ascolto, prepariamoci
a questo, e allontaniamoci dal corpo; abituiamoci cioè a morire. In questo
modo, da un lato vivremo, già durante la nostra permanenza sulla terra, una
vita simile a quella che avremo in cielo, dall’altro, quando, liberati da
questi legami, giungeremo lassù, sarà meno ritardata la corsa dell’anima.
Infatti le anime che hanno sempre subìto le pastoie del corpo, anche quando se
ne sono liberate, camminano a passi lenti, come chi ha trascorso molto anni in
catene. Quando saremo giunti lassù, allora finalmente vivremo».(20)
Oggi dell’opera di Archimede
si conoscono molte cose, sconosciute nel corso dei secoli.
Archimede fa poche citazioni
dei matematici del suo tempo e di quelli a lui anteriori.
Non cita mai nè Platone né
Aristotele, mentre cita, nella sua famosa lettera ad Eratostane, Democrito assieme
ad Eudosso, sommo matematico.
Eppure nella tradizione
viene etichettato come un platonico. Ironia della sorte!
Cicerone ha contribuito a
creare il cliché di Archimede come di un platonico, come emerge dal seguente
suo brano: «Quando Archimede vincolò in una sfera i movimenti della luna, del
sole e dei cinque pianeti, ottenne lo stesso risultato di colui che, nel Timeo costruisce l’universo, il dio di
Platone: un’unica rivoluzione capace di governare movimenti del tutto diversi
tra loro per lentezza e velocità. Se è impossibile che ciò avvenga in questo
mondo senza l’intervento di dio, neppure nella sua sfera Archimede avrebbe
potuto imitare gli stessi movimenti senza un’intelligenza divina».(21)Si potrebbe ancora continuare sui luoghi
ciceroniani, espressione della TPA, ma tanto basta, voglio invece concludere
con alcune riflessioni su quelle che io chiamo tradizioni di pensiero, sulla
loro natura progressiva o regressiva nella storia del pensiero.
Le tradizioni di pensiero sono complesse costruzioni razionali, linee ideali,
che vivono per un tempo lungo, ora in superficie ora in profondità, secondo le
condizioni storiche, composte da principi metafisici, orientamenti
storiografici, insieme di teorie, operanti nei vari campi del sapere o in
uno stesso campo, accomunate da opzioni epistemologiche, strategie
metodologiche, tecniche di controllo, di osservazione ed esperimento,
dinamicizzate da scelte politiche, etiche, interessi di classe sociale,
fedi religiose, che costituiscono assieme ai principi metafisici, agli
orientamenti storiografici ed opzioni epistemologiche, il nucleo ideologico, ovvero l’elemento motore progressivo o
regressivo dell’insieme di teorie, in sé statiche, in
quanto strutture organizzate di conoscenze, nè verificabili nè falsificabili,
avendo fuori di esse l’elemento
dinamico della conservazione, del progresso o della reazione, del vero e del
falso.(22)
Cicerone e Platone non sono filosofi, nel senso di
costruttori di teorie (i due non hanno dato nessun contributo originale nei
vari campi del sapere, costruendo teorie, vuoi in quella che oggi chiamano
astronomia, vuoi in fisica, vuoi in chimica, in biologia, in matematica, ecc.) ma filosofi nel senso, di aver elaborato un
proprio significato di fatto da conoscere e da spiegare (il fatto
scientifico, degno di conoscenza, è ciò che è inquadrabile dentro i due
postulati di esistenza, anima e Dio), ma soprattutto ideologi regressivi, reazionari, il cui intento principale è stato
quello di avvolgere le teorie e dinamicizzarle entro principi metafisici,
interessi di classe e concezioni religiose, ben determinate, piegati cioè
all’interesse politico della conservazione e della stratificazione del
privilegio di classe.
Farrington da questo punto
di vista è condivisibile.
È il suo nucleo ideologico ciò che rende regressiva o progressiva una
tradizione di pensiero.
Progressiva è la tradizione
di pensiero pitagorico-democritea per i suoi principi metafisici e le sue
opzioni epistemologiche ( il principio
finalistico e teistico blocca la
ricerca delle cause, appagato dalla conoscenza del fine e dell’ente creatore ed
ordinatore; l’opzione empiristica blocca la
ricerca di sempre nuovi principi, fermandosi alla conoscenza dell’immediato, del
fenomenico, del dato, mentre l’opzione
razionalistica, pitagorico-democritea, per la quale il reale è ragione e
numero, cioè legalità, va sempre alla ricerca di nuovi nessi, oltre le
apparenze, le scissioni o contraddizioni, gli interstizi, i sintomi; il principio meccanicistico e legalistico, cioè di nessi, ritenuti
insiti alla natura, va alla ricerca di sempre nuove cause, leggi più generali,
o più particolari, non si ferma all’idolo del caso o del miracolo, rifugio
dell’ignoranza e della superstizione, ma cresce e progredisce, estendendo il
campo del razionale; la concezione della
conoscenza, come ricordo, platonica, è circolare, non progressiva, porta
al vagheggiamento del primitivo, dell’età dell’oro, del vecchio o dell’antico,
al culto della tradizione, non porta al nuovo, alla costruzione di nuove realtà
morali e politiche, ecc.ecc.), oltre che per le sue scelte ideali di natura
etica, politica o religiosa, laiche, contro
qualunque religione di classe e fonte di superstizione, umanitarie, cosmopolitiche ed egualitarie,
al di là dei privilegi di classe, di sangue, di razza, di nazione o stato.
Neopositivisti e popperiani,
vuoi con il criterio di verificabilità, vuoi con il criterio di
falsificabilità, hanno visto dentro le teorie l’elemento progressivo o
regressivo della scienza, mentre è il loro nucleo ideologico espressione di
interessi di classe, di fedi religiose organizzate e di caste politiche, ciò
che le dinamizza, le fa muovere in avanti o indietro, le rivoluziona o le
conserva, mutandole in tradizione di pensiero progressive o regressive.
NOTE
1) Cfr B. Farrington, Scienza
e politica nel mondo antico. Lavoro intellettuale e lavoro manuale nell’antica
Grecia. Felirinelli, Milano, 1976, p.78. TORNA
2) ibidem p.226. TORNA
3) Cfr Giuseppe Boscarino, Tradizioni
di pensiero. La tradizione filosofica italica della scienza e della realtà. La
Scuola italica, Sortino, 1999, p.152. TORNA
4) Ibidem p.205. TORNA
5) Ibidem pp. 102-103. TORNA
6) Ibidem p. 107. TORNA
7) Cfr. Cicerone, Tuscolane,
BUR, Milano, 1996, p.115. TORNA
8) Si veda a questo proposito anche S.Notarrigo, Il linguaggio scientifico dei presocratici
analizzato con l’ideografia di Peano, in Mondotre, 1989. TORNA
9) Op. cit. p.109. TORNA
10) Op. cit. pp. 129-131. TORNA
11) Op. cit. p.8l. TORNA
12) Op. cit. p.226. TORNA
13) Op. cit. pp.453-455. TORNA
14) Op. cit. pp. 97-99. TORNA
15) Op.
cit.p. 113. TORNA
16) Op. cit. p. 117. TORNA
17) Op. cit. pp. 451-453. TORNA
18) Op. cit. p. 115. TORNA
19) Op. cit. p. 63. TORNA
20) Op. cit. p. 135. TORNA
21) Op. cit. p. 123. TORNA
22) SuI significato di vero e
falso nelle teorie e sulla loro dinamica, vedi Sul significato di verità, la scienza e la metafisica di Giuseppe
Boscarino, in Mondotre - La Scuola Italica, Sortino 2000, n. 2. TORNA