REALE E APPARENTE:

LE TRASFORMAZIONI DI

LORENTZ E IL CONCETTO DI VELOCITA’

 

Pietro Di Mauro

 

 

Abstract

 

In special relativity two reference frames that move wìth unifom velocity relative ν known are considered. How can we define and measure it since the measure of the space and time are dependent on it? The “classic” definition of velocity is the so-called Galilean transformation. By utilizing a signal of light an observer can find the velocity of a body (or a system) compared to him. And every observer can do this. This way it is possible to obtain a formula that let us find the velocity (that result always minor c) and the position of a body in each instant. It is possihle, for example, to measure also the length of a rod (indirect way) always finding the same length. In the Appendix is reported the introduction to a communication given to the LXXXI S.I.F. Congress on the “real” and “apparent” and the Lorentz transformation.

 

 

 

In tutti i discorsi che si fanno sulla relatività ristretta si suppone sempre che ci siano due sistemi di riferimento (due osservatori) in moto relativo traslatorio uniforme tra loro con velocità v, e questa si suppone nota.

 

Già Einstein nel suo lavoro deI 1905 scrive: “... Immaginiamo ora l’asta collocata lungo l’asse X del sistema di coordinate stazionario, e che ad essa venga impresso un moto traslatorio uniforme (con velocità v) parallelamente all’asse X nel verso delle x crescenti”. E dopo: “… Imprimiamo ora all’origine di uno dei due sistemi, che chiameremo k, un moto con velocità (costante) v nella direzione delle x crescenti dell’altro sistema (K), che rimane a riposo, e supponiamo che tale velocità sia comunicata agli assi coordinati del sistema k, al relativo regolo e agli orologi”.1

 

Com’è possibile conoscere la velocità v relativa di un osservatore rispetto al­l’altro? Com’è possibile definirla?

 

In relatività sembrerebbe che la velocità sia definita nel modo usuale, come rapporto tra spazio percorso e tempo impiegato a percorrerlo. Ma se spazio e tempo sono “relativi”, dipendono dalla velocità, non ci troviamo forse in un circolo vizioso?

Nella meccanica di Galilei e Newton la velocità di un corpo (o, nella meccanica di Eulero e Lagrange, di un sistema) rispetto ad un osservatore (o un altro sistema) viene definita come ricordato prima.

 

Scrive Galilei: “Diamo avvio a una nuovissima scienza intorno a un sog­getto antichissimo. Nulla v’è, forse, in natura, di più antico del moto, e su di esso ci sono non pochi volumi,  né di piccola mole, scritti dai filosofi; tuttavia tra le sue proprietà ne trova molte che, pur degne di essere conosciute, non sono mai state finora osservate, nonché dimostrate… Del moto equabile: Circa il moto equabile o uniforme ci occorre una sola definizione, che formulo così: Definizione: Moto uguale o uniforme intendo quello in cui gli spazi percorsi da un mobile in tempi uguali, comunque presi, risultano tra di loro uguali”.2

 

In un’altra sua opera Galilei aveva trattato il concetto di velocità, in un dialogo tra Salviati (Galilei), Simplicio e Sagredo:

Sal. Credo che voi mi burliate, fingendo di non capire quel che voi intendete meglio di me. Però ditemi, signor Simplicio: quando voi v’immaginate un mobile esser più veloce d’un altro, che concetto vi figurate voi nella mente?

Simpl. Figuromi, l’uno passar nell’istesso tempo maggiore spazio dell’altro, o vero passare spazio uguale, ma in minor tempo.

Sal. Benissimo: e per mobili egualmente veloci, che concetto vi figurate?

Simpl. Figuromi che passino spazi eguali in tempi eguali.

Sal. E non altro concetto che questo?

Simpl. Questo mi par che sia la propria definizione de’ moti eguali.

Sagr. Aggiunghiamoci pure quest’altra di più: cioè chiamarsi ancora le velocità esser eguali,  quando gli spazi passati hanno la medesima proporzione che i tempi ne’ i quali sono passati, e sarà definizione  più universale.

Sal. Così è, perché comprende gli spazi eguali passati in tempi ineguali, ma pro­porzionali a essi spazi”.3

E infine formalizza il concetto di velocità in relazione ai concetti di spazio e tempo con le seguenti proposizioni:

Teorema I. Proposizione I: Se un mobile dotato di moto equabile, percorre due spazi con una stessa velocità, i tempi dei moti staranno tra di loro come gli spazi percorsi.

Teorema II Proposizione II: Se un mobile percorre due spazi in tempi uguali, quegli spazi staranno tra loro come le velocità. E se gli spazi stanno tra loro come le velocità, i tempi saranno uguali.

Teorema III. Proposizione III: Se il medesimo spazio viene percorso con veloci­tà diseguali, i tempi dei moti rispondono contrariamente alle velocità”.4

 

Dunque, come postula anche Bridgman: “Il concetto di velocità, come defi­nito di solito, implica  i due concetti di spazio e tempo. Le operazioni con cui noi misuriamo la velocità di un oggetto sono queste: dapprima osserviamo l’istante in cui l’oggetto è in una posizione, poi osserviamo l’istante in cui esso si trova in un’altra posizione, dividiamo la distanza fra le due posizioni per l’intervallo di tempo e se necessario, quando la velocità è variabile, passiamo al limite” (e qual­che rigo più avanti, Bridgman inserisce la seguente nota: “E’ una questione interessan­te per lo psicologo se il concetto di velocità non è qualcosa di più primitivo, nell’ordine dell’apprendimento, che non quello di tempo, e se il concetto di tempo non deriva dall’osservare le cose in moto, o se in effetti non vi è nessuna connes­sione necessaria tra la velocità e il tempo in termini di esperienza non elabora­ta”).5

 

Quindi, per definizione, la velocità media di un corpo (un punto materiale, nel senso euclideo), trascurando, come si fa sempre, la sua massa, o di un sistema ad esso associato che si muove dal punto 1 al punto 2, rispetto ad un osservatore, è:

                                               

                                               

 

essendo x(t1) la posizione del corpo all’istante t1 e x(t2) la posizione del corpo al­l’istante t2 rispetto all’osservatore, e i tempi misurati con un orologio dell’osservatore.6

 

Dato che in questo scritto (come nella relatività ristretta) si trattano velocità costanti nel tempo, possiamo sempre utilizzare la 1), senza passare al limite, per scrive­re la velocità del corpo (o del sistema ad esso associato).

 

Questo stesso concetto di velocità è quello utilizzato in geometria. Scrive Peano:

“Noi vediamo, nel mondo fisico, dei corpi rigidi muoversi col variare del tempo. Possiamo studiare la successione delle infinite posizioni che assume il corpo; ov­vero possiamo limitarci ad esaminare i rapporti fra due posizioni della figura, la prima e l’ultima, senza occuparci delle posizioni intermedie assunte dal corpo nel passare dall’una all’altra. Questo solo studio particolare è fatto da Euclide, e si può considerare come studio geometrico. Il primo studio, più generale e molto più complicato, fa  parte della Cinematica, e si può escludere dalla Geometria. Quindi mi pare conveniente di escludere da un libro di geometria elementare le seguenti proposizioni e simili: «Un punto muovendosi descrive una linea». «Un punto che percorre la retta, non può passare dall’una banda all’opposta di un punto fisso m di questa retta senza coincidere una volta con esso». Metten­doci adunque dal primo punto di vista, se m è un moto, ed a è un punto fisso dello spazio, risulta determinato un nuovo punto che indicheremo con ma, e che si chiama «la nuova posizione che ha il punto a dopo il moto m». Quindi il moto è una trasformazione di punti in punti”.7

E successivamente ribadisce la convenzione, quando tratta del rapporto tra grandezze eterogenee, che la velocità = spazio/tempo = quantità di c (centimetri) / quantità di s (secondi) e, per esempio, si ha che la velocità della luce = c= 3 x 1010c/s .8

 

La 1) è possibile scriverla nella forma:

 

 

2)         x(t2)=x(t1)+v(t2 - t1)

 

 

In quest’ultima equazione è possibile sostituire x’(t1) al posto di x(t1 ), cioè la posizione iniziale considerata in un altro sistema di riferimento in moto (con velocità v) rispetto al sistema dell’osservatore, in generale dovrebbe essere x(t1) = a + x’(t1), essendo a = OO’ = distanza tra le due origini dei sistemi di riferimento. Ma a partire da Einstein9 si fa la convenzione che nell’istante iniziale delle osservazioni (t1 nel nostro caso) le due origini coincidano, cioè a = O.

E d’altra parte è sempre possibile considerare la posizione iniziale del corpo, nel punto 1, all’istante iniziale, come l’origine di un altro sistema di riferimento (e di un possibile altro osservatore) dotato anch’esso di orologio che segna lo stesso tempo dell’altro.

 

Con la sostituzione operata si ottengono:

 

                                        

 

che, a partire da P. Franck (1909), viene chiamata trasformazione di Galilei.

 

 

Dunque, le cosiddetta trasformazione di Galilei (chiaramente non si trova negli scritti di Galilei!) è tautologicamente equivalente alla definizione data di velocità: la tra­sformazione di Galilei è la definizione classica di velocità!

 

Ma la trasformazione di Galilei è stata sostituita dalle più corrette (?!) e più generali (?!) trasformazioni di Lorentz! Anche contro il parere di Einstein, che nel 1934 scriveva: “Se una sola delle sue [della teoria della relatività] conseguenze apparisse inesatta, bisognerebbe abbandonarla: ogni cambiamento sarebbe impossibile senza scuotere tutto l’edificio. Ma nessuno deve pensare che  la  grande creazione di Newton possa realmente essere sostituita da questa teoria o da una consimile. Le sue idee grandi e chiare conserveranno sempre in avvenire la loro importanza eminente, ed è su di esse che fondiamo ogni speculazione moderna sulla natura dei mondo”.10

 

E la definizione di velocità? Usualmente in tutte le derivazioni delle trasforma­zioni di Lorentz si considera v nota e definita classicamente (v =x/t).11 Ma dalle trasformazioni di Lorentz, a differenza di quelle di Galilei, la velocità cosi definita si ricava solo ponendo x(t1) = x’(t1) = 0. Senza questa posizione si ha, in generale, avendo indicato x = x(t2 ),  x0 =  x(t1 ), Δt = t2 - t1  :

 

                                        

 

dalla quale si ricava   (eliminando la radice con il segno positivo) solo per

 

Anche nella derivazione di altre trasformazioni più generali o diverse da quelle di Lorentz la velocità si dà sempre nota, anche se la sua definizione alla fine si può discostare da quella usuale, pur restando una finzione dello spazio e del tempo.12

D’altra parte quando in una qualunque trasformazione che riguarda, per esem­pio lo spazio (in funzione del tempo e della velocità), si richiede l’omogeneità, con le convenzioni date, può essere presente un termine che sia prodotto di funzioni solo del tempo e della velocità, che abbiano le dimensioni di t e v, ma non è detto che debba essere il più semplice vt! Proprio la definizione di velocità si potrebbe considerare come possibile discriminante tra le varie trasformazioni trovate.

Nelle trasformazioni lineari più generali possibili che lasciano invariate in forma le equazioni di Maxwell e soddisfano i postulati della relatività ristretta di Einstein, da noi trovate nel 199613, è proprio la definizione di velocità ad operare la possibile distin­zione tra le infinite trasformazioni.

Infatti , si hanno le seguenti trasformazioni:

 

 

con a una qualunque funzione di v.

Con la solita imposizione di x’ = 0 si ottiene:

 

 

Se consideriamo x/t = v si otterrà per la a il termine e dunque le trasformazioni di Lorentz come scritte usualmente. Ma se fosse, per esempio,  si otterrebbe per a il termine   e dunque altre trasformazioni che soddisfano sia i postulati di Einstein che l’invarianza in forma delle equazioni di Maxwell! In generale se x/t = φ(v) si ottiene per a il termine   tale da individuare infinite trasformazioni ugualmente rispondenti alle ipotesi fatte e dipendenti solo dalla definizione di velocità.

 

Com’è possibile definire e misurare la velocità di un corpo (o di un sistema) rispetto ad un osservatore O, in modo indiretto, utilizzando i segnali luminosi percono­scere la posizione di un corpo nel tempo (supponendo la coincidenza tra spazio ottico e tattile evidenziata da Bridgman), mantenendo la definizione usuale di velocità (spazio percorso/tempo impiegato a percorrerlo)?14

 

In modo più semplice, ma senza perdere di generalità, è possibile trattare la questione in una sola dimensione, x. La posizione di un corpo, al tempo t, rispetto all’osservatore O dotato di orologio, può essere trovata in questo modo).15

 

Al tempo τ1 lancia un raggio di luce verso il corpo. Viene riflesso dal corpo e ritorna all’istante t1. Il corpo all’istante t1 si trova nella posizione:

 

                                   

 

essendo  ± ε1  lo spazio percorso dal corpo nel tempo che impiega la luce per tornare dopo la riflessione sul corpo che si allontana o che sì avvicina all’osservatore, avendo tenuto conto che il tempo t, istante in cui il raggio raggiunge il corpo, è dato da  e, quindi, che la luce impieghi lo stesso tempo nell’andata e nel ritorno (quest’ultima viene da alcuni chiamata “tesi di convenzionalità”16).

Analogamente scegliendo arbitrariamente un altro istante τ 2 si ha:

 

                                   

 

La velocità media che l’osservatore assegnerà al como sarà data dalla 1) sostituendo la 7) e la 8). Si ottiene:

 

                                   

 

Ma si avranno anche:

 

                                   

 

e sostituendo si ottiene la formula cercata:

 

                                   

 

avendo posto  e  .

 

La 11), dunque, ci permette di calcolare le velocità di un corpo (o di un siste­ma) rispetto ad un osservatore in modo indiretto, dalla sola misura di tempi sull’orolo­gio dell’osservatore. La velocità v data dalla 11) sarà sempre minore di c, dato che, per come si è definita, si avrà sempre τ2 > τ1 e t2 > t1  (oltre  a t2 > τ 2 e t1 > τ 1).

Inoltre si troverà v > 0,  cioè  il corpo si allontanerà dall’osservatore se t2 - τ 2 > t1 - τ 1  , mentre  si troverà v < 0, corpo in avvicinamento, nel caso contrario.

 

Ponendo T1 = t1 - τ 1  , T2 = t2 - τ 2   e  ΔT = T2 - T1   la 11) si può scrivere:

 

                                   

 

dalla quale si evince che v®0 per ΔT®0 e v®c per ΔT®¥.

            Data l’arbitrarietà degli istanti iniziali, sarà possibile scegliere, per esempio, τ2 = t1 (cioè nell’istante in cui si riceve il ritorno del primo segnale parte il secondo) e la 12) diventa la più semplice:

 

                                   

 

Utilizzando queste formule della velocità è possibile conoscere in ogni istante la posizione del corpo rispetto all’osservatore che ha misurato la velocità del corpo. Si ha, avendo posto t2 = t, istante generico:

 

                                   

 

 

che con le convenzioni adottate all’inizio, ci dà la posizione, istante per istante, in fun­zione del tempo e della velocità, del corpo come misurata dall’osservatore. E’ la “tra­sformazione” per le misure dello spazio!

Chiaramente le cose si complicano sc si considera la velocità come vettore. In questo caso la 11) diventa:

 

                                   

 

 

essendo e  i due “vettori velocità della luce” con moduli uguali ma versi e direzio­ni, in generale, diversi; questa velocità andrebbe poi usata in tutte le formule e applica­zioni.

Dunque, è possibile in modo indiretto, utilizzando un segnale luminoso, cono­scere la velocità di un corpo e la sua posizione istante per istante rispetto a un osserva­tore mantenendo la definizione di velocità usuale e trovando che questa deve essere sempre minore della velocità della luce (come in relatività!). Questo è ciò che un osser­vatore può dire del corpo dal punto di vista cinematico. La defnizione della grandezza velocità è rimasta invariata, ma è cambiato il metodo per misurarla e con ciò, forse, la sua misura. E’ la misura di una grandezza che può dipendere dal metodo usato per misurarla non già la sua definizione! E non come afferma, per esempio, Bondi e la fisica moderna tutta: “Una qualsiasi quantità è definita dal metodo impiegato per misurarla”17(si fa notare il termine quantità e non grandezza!).

 

In relatività si considerano però sempre due osservatori che descrivono lo stesso corpo e che dovrebbero scambiarsi le conoscenze delle grandezze misurate da ciascu­no. Questo è richiesto: l’impossibile confronto tra osservazioni fatte di un evento (o di un corpo, di un sistema) da due osservatori in moto tra loro18. E d’altra parte in tutti gli esperimenti che vengono portati a supporto della teoria non ci sono mai due osservato­ri! L’unico osservatore è colui che raccoglie le “sue” misure, che in questo senso si possono considerare “assolute” (l’osservatore non potrà accorgersi di essere in moto relativo uniforme rispetto a un altro, come chiarito da Galilei!).

Il discorso sulle possibili trasformazioni da usare per passare da un sistema (osservatore) ad un altro nasce dalla pretesa di dover confrontare le misure fatte da un osservatore O di un evento E e quelle fatte sullo stesso evento da un altro osservatore O’ (supposto in moto relativo uniforme rispetto ad 0) e quindi conoscere, per esempio, la posizione di E rispetto a O’ come “vista” da O (o viceversa)19. Senza la pretesa del confronto ciascun osservatore potrà fare le sue misure senza dover invocare nessuna trasformazione!

 

Supponiamo di avere i due osservatori O e O’, in moto tra loro, muniti di orologi identici. Supponiamo, come fanno tutti, a partire da Einstein (anche se nel suo lavoro del 1905 non lo afferma esplicitamente), che gli orologi segnino lo stesso tempo (sincronizzati) quando passano uno accanto all’altro. Quando O’ si troverà distante da O quest’ultimo per sapere il tempo segnato dall’orologio di O’ lancia un segnale al­l’istante t0 verso O’. Il segnale è ricevuto da O’ all’istante t riflesso verso O e da questo ricevuto all’istante t1. Tutti, a cominciare da Einstein, come si è detto prima, pongono20 :

 

                                   

 

(a partire da questa Einstein nel  1905 crede di derivare le uniche trasformazioni possi­bili, cioè quelle di Lorentz!21).

La posizione di O’ assegnata da O all’istante t sarà:

 

                                   

 

(all’istante t1 sarà dato dalla 7)). Dalle 16) e 17) si ottiene:

 

                                   

 

cioè il tempo segnato dall’orologio di O’ è lo stesso di quello segnato dall’orologio di O, essendo x/c il tempo misurato da O perché il raggio di luce raggiunga O’. Se i due orologi, in un certo istante hanno segnato lo stesso tempo (quando sono passati uno accanto all’altro) continueranno a segnare lo stesso tempo, anche se sono separati da una distanza x.

 

 

Lo stesso si può dire per la lunghezza di un regolo.

Supponiamo che O conosca la lunghezza a riposo di un’asta, con metodo di­retto (per confronto con l’unità di misura) e questa risulta AB = l0 (comprensiva del­l’unitàdi misura). Si vuole determinare la lunghezza dell’asta quando essa è in moto con velocità v, rispetto ad O, con metodo indiretto, mediante segnali luminosi come si è fatto finora.

 

O lancia un segnale verso B al tempo t0 e uno verso A (l’estremità dell’asta più vicina ad O) al tempo t0 +l0/c. I due segnali raggiungeranno contemporaneamente le due estremità dell’asta e queste rifletteranno i due raggi verso O. Raggiungono O al tempo tA e tB  rispettivamente.

 

Le posizioni delle estremità A e B dell’asta, utilizzando la 7) nel caso di allonta­namento dell’asta da O, saranno date da:

 

                                   

 

La lunghezza misurata l sarà data da:

 

                                   

 

(il termine  è dovutoal fatto che all’istante tB l’estremità B si è spostata ulteriormente rispetto alla sua posizione nell’istante tA).

 

Sostituendo nella 20) le 19) si ottiene l = l0 .

 

Dunque un solo osservatore misurerà la stessa lunghezza per l’asta sia con metodo diretto che con metodo indiretto, utilizzando i segnali luminosi. Solo se entra in scena un secondo osservatore allora per accordarsi su i segnali da lanciare (simultanei­tà), per confrontare le loro misure, si possono ottenere misure “relative”, “apparenti” (contrazione, dilatazione, etc... e i loro paradossi22) dipendenti dalle convenzioni adot­tate.

 

 

 

 

APPENDICE

 

Introduzione dal preprint della Comunicazione all’LXXXI Congresso Nazionale della S.I.F, data a Perugia il 4ottobre 1995.

 

 

 

Critica delle usuali derivazioni delle trasformazioni di lorentz.

P. Di Mauro, S. Notarrigo

G.N.S.F. — Sezione di Catania

 

 

La stragrande maggioranza dei fisici e dei filosofi della scienza è concorde nel ritenere che la relatività ristretta di Einstein abbia introdotto profonde modifiche nelle concezioni di spazio e tempo come definite nel contesto della fisica classica.

In particolare, secondo le asserzioni della teoria einsteiniana, la lunghezza di un’asta e la durata di un processo vengono a dipendere dallo stato di moto relativo, rettilineo e uniforme, di due osservatori.

Molti si sono chiesti se tale importante modifica sia solo “apparente” o “rea­le”.

Le risposte che vengono date a tale quesito sono diverse in dipendenza del significato (mai esplicitamente definito) che viene attribuito a tali aggettivi dai singoli ricercatori. Qualcuno banalizza tale problema dicendo che tali aggettivi hanno a che fare con la filosofia e non con la fisica. Ma altri fanno deduzioni a partire dal significato che implicitamente danno ai detti termini.

Ma, come Peano notava, niente si può “dedurre” se tutte le ipotesi del discorso non siano state esplicitamente “asserite”.

Proveremo ad asserire alcune ipotesi sul significato di tali termini in base all’uso di essi che se ne fa comunemente in relazione a determinate situazioni osservative.

 

Gli astronomi misurano le distanze tra gli astri a mezzo della parallasse. Naturalmente non si sorprendono se, in base ad altri tipi di misurazioni indiret­te, trovano che il rapporto tra due lunghezze il quale risulti minore di uno, quando misurato a mezzo della parallasse, risulti maggiore di uno, quando calcolato a mezzo delle leggi di forza; essi sanno che affinché la parallasse possa dare risultati coerenti con quelle delle leggi di forza è necessario che le lunghezze da misurare stiano alla stessa distanza dall’osservatore, per cui essi sono portati a dire che le misure effettuate a mezzo della parallasse sono “apparenti” mentre le altre sono “reali”.

Da dove viene loro la convinzione che le misure trovate a mezzo delle leggi di forza siano quantomeno più reali di quelle effettuate a mezzo della parallasse? Si po­trebbe pensare che ciò dipenda dalla loro cieca credenza nelle leggi di Newton. Ma, ovviamente, non è così. Infatti, nei casi in cui sia possibile misurare due lunghezze sia con la parallasse che con il confronto diretto con l’unità di misura, scoprono che la parallasse dipende sia dal la lunghezza effettiva dell’asta come misurata per confronto diretto con l’unità di misura (e che quindi è una “proprietà” dell’asta), sia dalla distanza dell’asta dal goniometro dell’osservatore (distanza che si suppone misurata anch’essa per confronto diretto).

Quindi la parallasse non è una proprietà dell’asta in quanto dipende anche da elementi estranei all’asta e cioè dalla distanza dell’osservatore e dalle proprietà di pro­pagazione della luce, che si suppone propagarsi in modo rettilineo (naturalmente biso­gnerà ammettere anche la validità della geometria euclidea).

 

Da quanto detto, possiamo azzardare l’ipotesi che quando i fisici usano la contrapposizione “reale”, “apparente”, in relazione alle grandezze fisiche, con il primo termine intendono il risultato di una misura per confronto diretto, mentre l’altro lo usano quando la grandezza viene misurata in modo indiretto e tale misura non coincide con la prima.

Marx nota, in un suo scritto23,come già Cicerone24 metteva in rilievo questo diverso uso dei due termini in Democrito ed Epicuro: Democrito considera apparenza soggettiva la realtà sensibile e attribuisce solo agli atomi e al vuoto lo statuto di realtà oggettiva, capace di esistenza indipendente dal fatto che alcun essere possa percepire il fenomeno da tale realtà sottostante causato ma, secondo Cicerone, Epicuro rovescia tale criterio di realtà scrivendo che “i sensi sono tutti araldi del vero e che niente può confutare la percezione sensibile”, per cui Cicerone conclude: “il sole sembra gran­de a Democrito, perché egli è uno scienziato ed ha una compiuta conoscenza della geometria; della  grandezza di circa due piedi a Epicuro, perché egli pensa che esso è grande tanto quanto appare”.

 

Ma vediamo come il criterio di realtà che abbiamo sopra ipotizzato si confronta con le asserzioni della relatività ristretta.

La relazione che lega tra loro le lunghezze di un’asta rigida come effettuate da due osservatori, in moto relativo rettilineo e uniforme tra loro, è data dalla relazione:

 

I)          L’ = γ L

 

Generalmente non si specifica se tale relazione si riferisca alle grandezze o ai numeri che le misurano.

Infatti, dalla teoria delle grandezze fisiche, sappiamo che non sono la stessa cosa.

Indichiamo con  una “grandezza fisica”, con  un’altra “grandezza fisica” che si assume come unità di misura, con l il “numero” che misura L in rapporto ad .

La relazione tra grandezze e numeri si suole esprimere con la formula:

 

Il)        

 

 

Se assumiamo che la I) si riferisca alle grandezze, la relazione può essere scrit­ta:

 

III)       

 

Poiché γ è una grandezza adimensionata, noi siamo sempre liberi di include­re25 il coefficiente γ o tra i valori (1’= γ l con , questo è l’uso comune in fisica; con tale scelta si realizza quello che si chiama un sistema di misurazione “coerente”, nel quale le stesse formule si possono interpretare come valide sia per le grandezze che per i numeri), o tra le unità di misura (1’=l con ,un tale sistema di misurazione viene chiamato dai metrologi “incoerente” e viene spesso usato dagli ingegneri perché nelle relazioni tra numeri vengono a sparire tutti i coefficienti numerici) o, anche, possia­mo fare altre convenzioni più convenienti a seconda dei casi.

Con la prima scelta noi siamo obbligati a misurare le due grandezze, riferentesi alla stessa asta, con la “stessa” unità di misura. Non sapendo se effettivamente i regoli si allunghino o si accorcino per effetto del movimento, se vogliamo essere sicuri che l’unità di lunghezza sia la “stessa” dobbiamo effettuare le misure nello stesso sistema di riferimento (dove abbiamo posto e fissato l’unità di misura) e quindi con metodi diversi, l’una per confronto diretto, l’altra, necessariamente, impiegando segnali luminosi. Non potremo mai decidere, in questo caso, se il fatto che γ sia diverso da uno sia solo apparenza, cioè dipendente dalla nostra convenzione sulle unità di misura, o una modi­ficazione effettiva delle lunghezze.

Con la seconda scelta, si deve presupporre, fin dal principio, che l’allungamen­to dell’asta in moto sia effettivo, essendo le unità di misura vere grandezze e non sem­plici numeri; ma, in tal caso, i valori misurati dai due osservatori risulterebbero sempre identici nei due sistemi e, quindi, entrambi gli osservatori sono legittimati ad usare la meccanica classica e a non menzionare più il fatto che hanno bisogno di segnali luminosi per comunicare, perché il fatto sarà irrilevante per tutti i loro esperimenti che ognuno è obbligato a fare nel suo proprio sistema, non potendone uscire fuori, in quanto misure per confronto diretto si possono fare solo nello stesso sistema.

In questo caso L’ non rappresenta la lunghezza dell’asta in moto come misurata dall’osservatore in moto (concetto “a”) ma la lunghezza dell’asta in moto come misura­ta dall’osservatore in quiete (concetto “b”).

Questa ambiguità tra i due concetti, “a” e “b”, si ritrova in tutti quelli che scrivo­no sulla relatività a partire da Einstein, il quale cerca le formule relative al concetto “a” ma ragiona come se si trattasse del concetto “b”.

Potremmo ancora conven ire di porre:

 

 

o infinite altre convenzioni, senza che per questo cambi il rapporto tra le lunghezze, cioè senza che cambi la fisica.

Lo stesso discorso vale per qualunque altra grandezza.

Esaminiamo formalmente le implicazioni delle due ipotesi precedentemente considerate.

Poniamo dapprima:

 

                                    ,

 

i numeri sono sempre uguali nei due sistemi ma le unità di misura non sono uguali nei due sistemi e se i due sistemi sono in moto relativo fra di loro non è possibile un confronto diretto e dobbiamo ricorrere a un modo indiretto per confrontare gli standard di lun­ghezza nei due sistemi e in questo secondo caso non potremo più mantenere la (*).

Supponiamo di avere uno standard di velocità, p. es., un segnale di velocità data; supponiamo di avere due regoli filiformi tali che, quando confrontati per un tempo finito, necessario per il confronto diretto, siano relativamente in quiete; supponiamo di mettere in moto uno dei regoli, lungo l’asse, approssimativamente comune, dei due regoli; supponiamo, per definizione, che i due regoli abbiano la stessa lunghezza se a un dato istante gli estremi sinistro e destro dei due regoli coincidano perfettamente, il sini­stro dell’uno con il sinistro dell’altro e il destro dell’uno con il destro dell’altro, allo stesso istante.

Per realizzare tale confronto avremo bisogno di un sistema di coincidenza tra due segnali, p. es. elettrici, luminosi, ecc., dovremmo essere in grado di posizionarci nel punto di mezzo del nostro regolo e assicurarci che la differenza dei tempi tra le due linee che portano i due segnali di coincidenza sia nulla.

E’ difficile fare un tale esperimento quando uno dei due regoli sia in moto (se si vogliono realizzare tutte queste condizioni) ma si può calcolare il risultato facendo l’ipotesi che si abbiano segnali con velocità di propagazione costante.

Mediante il calcolo scopriremo che i due regoli, che avevano lunghezza uguale quando confrontati in quiete relativa tra loro (con entrambi i metodi di misura), non hanno la stessa lunghezza quando confrontati con il sistema delle coincidenze tra i due segnali di sovrapposizione degli estremi, e che la lunghezza varia con la velocità relativa dei due regoli.

Una simile osservazione fu il punto di partenza di Einstein.

Possiamo concludere intanto che se vale la (*), qualunque sia γ ,anche dipen­dente dalla velocità relativa, non potremo mai sapere se ci sia una reale modificazione delle lunghezze.

Il fatto che i numeri, in questo caso, devono essere uguali, è dovuto al fatto banale, che se avessimo graduato l’asta con un numero arbitrario, l, di incisioni, tale numero di incisioni non può cambiare per il fatto che ora l’asta (che per definizione è “rigida”, in quanto può essere assunta come standard di lunghezza per entrambi i siste­mi) è in moto rettilineo uniforme con velocità arbitraria o anche di moto accelerato arbitrario, lo stesso vale per l’unità di misura essendo una grandezza come le altre.

Questo comporta l’ipotesi fisica che in entrambi i sistemi lo spazio è omogeneo e il tempo uniforme, anche se separatamente. I due sistemi sono definiti solo dal diverso modo di misurare tempi e lunghezze e questo esplicitamente assume Einstein nel famo­so lavoro del 1905.

 

Consideriamo ora il caso che si abbia:

 

                                    ,

 

l’uguaglianza delle due grandezze, che rappresentano le unità di misura nei due sistemi, dal momento che è impossibile un loro confronto diretto, implica che l’unità di misura delle lunghezze è unica ed è posta in uno dei due sistemi. Il fattore γ posto tra i numeri è quello ottenuto per un confronto indiretto a mezzo di segnali di velocità costante, come sopra chiarito e quindi è “apparente”, secondo la nostra precedente definizione.

Infatti anche l’altro osservatore compiendo le stesse operazioni trova la stessa cosa, ed è impossibile credere che sia reale un effetto (allungamento dei regoli) che appare identico per i due osservatori.

Qualcuno si avventura a sostenere, in relazione al famoso paradosso dei ge­melli, che l’effetto è reale e avvertito “realmente” solo dal sistema che ha subito le accelerazioni26 (ci si chiede, rispetto a quale sistema di riferimento viene misurata l’ac­celerazione, non si dice che in relatività non esistono sistemi privilegiati?!).

Ma alcuni sostengono che argomenti del tipo quelli avanzati dal Feynman non servono perché facendo intervenire le accelerazioni si esce fuori dal quadro della rela­tività ristretta. A nostro giudizio la ragione è più forte: anche introducendo campi di forza reali o fittizi il problema del confronto tra le unità di misura viene semplicemente spostato ma si ripresenta invariabilmente e immutato...

 

…Immaginiamo due sistemi di riferimento in moto relativo, rettilineo, uniforme lungo un’arbitraria direzione, con velocità .

Indichiamo con   le coordinate di un evento che si produce in A come misurato da A, con  le coordinate dell’evento che si produce in A come misu­rato da B e, analogamente, per un evento che si produce in B, indichiamo con e le coordinate misurate da A e B, rispettivamente.

 

Se assumiamo che all’istante  si abbia , con le opportune condizioni iniziali per la velocità, secondo la meccanica classica si hanno le seguenti formule di trasformazione:

 

 

Le ultime due, a partire da P. Franck, vengono delle “trasformazioni di Galileo”.

Se confondiamo le dette trasformazioni tra loro arriviamo a degli insostenibili paradossi come analizzati dal Perucca27.

 

Consideriamo una sorgente in A capace di sparare proiettili in tutte le direzioni con velocità arbitraria, ma costante in modulo, diciamo c.

 

Consideriamo il fronte d’onda della nuvola di proiettili sparati al tempo tAA = 0. Vista da A sarà una superficie sferica di equazione:

 

 

vista da B sarà una superficie ellittica di equazione:

 

 

Analogamente per una sorgente posta in B.

 

In altre parole, se la sorgente si trova nel sistema in cui le misure vengono effettuate appare sferica, se si trova nell’altro sistema appare ellittica. E’ irrilevante quale dei due sistemi si voglia ritenere in quiete (notiamo qui che lo spazio in quiete assoluta non è di Newton ma è un’ invenzione di Eulero, la fisica di Newton si può mettere in forma “assoluta”, cioè indipendente dal sistema di coordinate e dalle unità di misura, cioè dalle misure relative, sensibili e volgari di Newton, utilizzando il calcolo geometrico assoluto di Peano28).

Ma introducendo la trasformazione di Voigt (illustre discepolo di Kirchhoff nel 1887 intraprese un accurato e competente studio sulle implicazioni matematiche, e sulle relative conseguenze fisiche, della equazione dell’onda in relazione all’effetto Doppler, nel contesto della fisica classica come è ovvio, data l’epoca29) si può fare in modo che anche A può scrivere l’equazione della superficie sferica per una sorgente in B.

Naturalmente tale superficie sferica non è quella che vedrebbe, effettuando le opportune misure; la trasformazione è solo un artificio formale per cambiare la forma dell’equazione e non la forma del fronte d’onda. Se i proiettili avessero una velocità diversa da c il vantaggio formale verrebbe automaticamente perso, se si volessero mantenere le trasformazioni ricavate con lo stesso valore della precedente velocità.

In tutti gli scrittori di relatività si riscontra l’ambiguità relativa a questa interpre­tazione delle dette trasformazioni; in certi contesti sembra che si parli della quaterna di numeri  , in altri contesti sembra che si parli dell’altra quaterna , come se la trasformazione non fosse più un semplice artificio formale ma riguardasse le effet­tive misure che i due osservatori compiono. E’ chiaro che finché nelle formule non intervengono le condizioni iniziali non c’è differenza tra i vari casi; non è più così quando intervengano le condizioni iniziali che sono diverse per i vari casi.

 

____________________________________

 

 

Qualche tempo dopo con Totò Notarrigo tornammo sulla questione. Egli formalizzò le idee con queste altre righe che qui trascrivo come furono lasciate.

 

 

Ipotesi e deduzioni matematiche valide indipendentemente dal significato dei simboli.

 

Ipotesi:

 

 

a)  S1 e S2  sono due sistemi lineari unidimensionali, S1 ¹ S2 

b)  O1 e O2  sono due campi commutativi che rappresentano i campi degli operatori di S1 e S2  rispettivamente.

c) Esiste una corrispondenza lineare tra gli individui di S1 e S2 .

 

Deduzioni:

 

 

Per a), b):

 

 

(1)        ,

 

                        (2)        ,

 

per c):

 

(3)        ,

 

(4)        .

 

 

Per(1), (2) e (3):

 

(5)        ,

 

da (4) e (5):

 

(6)        ,

 

ovvero:

 

                         (7)       l2 = l1 .

 

Queste ipotesi corrispondono all’ipotesi originale di Einstein per cui un regolo di lunghezza unitaria messo in moto “appare” di lunghezza .

 

Bisogna dire “appare” perché ognuno dei due osservatori vede il regolo accor­ciarsi e, dal momento che il regolo è lo stesso, non può essere più corto per entrambi gli osservatori in moto relativo tra loro, quindi si deve concludere che la relazione si riferi­sce alle grandezze e non ai numeri, allora γ è un numero che rappresenta il rapporto tra le due lunghezze misurate con metodi diversi.

 

 

Supponiamo ora di aggiungere l’ipotesi:

d) Esiste una corrispondenza lineare tra gli individui di O1 e O2 ma esiste uno standard di lunghezza che resta invariato per effetto del movimento, ciò equivale a porre .

Ciò implica:

(8)        ,

 

quindi:

 

(9)        .

 

 

Questo significa che, rispetto allo standard, le varie aste si allungano effettiva­mente quando sono in moto.

Ma, nella teoria della relatività, l’ipotesi dello standard indipendente dal movi­mento non è prevista.

Ancora una volta dobbiamo concludere che in detta teoria si vogliono confron­tare diversi metodi di misura e non un effettivo allungamento dei regoli.

 

L’idea di confrontare due regoli per mezzo delle coincidenze, “contempora­nee”, fra gli estremi di due regoli equivale a una misura col metodo indiretto. I due osservatori in moto relativo misureranno, per lo stesso regolo, numeri diversi, perché se i due eventi sono contemporanei per l’uno non saranno contemporanei per l’altro, esattamente come nel primo dei due casi che abbiamo sopra esaminato. Ciò, natural­mente, se i due osservatori usano lo stesso metodo. Così resta arbitraria la definizione di uno standard unico e possiamo assumere, convenzionalmente, che la lunghezza “re­ale” dello standard è quella del riferimento in cui la misura diretta coincide con quella indiretta. Ma ora abbiamo creato un osservatore privilegiato che è unico, e tutti gli altri osservatori, che si muovono rispetto ad esso di moto traslatorio uniforme con velocità non nulla, osserveranno solo misure apparenti, in quanto per essi i due metodi daranno sempre risultati diversi.

Tutto questo resta vero con le sole ipotesi di Einstein, anche per le trasforma­zioni più generali di quelle di Lorentz, che con tali ipotesi si possono ricavare.

Si conclude che l’ipotesi, sottintesa da Einstein, che la coincidenza dei risultati per i due metodi di misura possa essere sempre valida per tutti gli osservatori, non può essere mantenuta e il principio di relatività vale solo per le misure eseguite con lo stesso metodo, che può solo essere quello delle misure indirette, con risultati “apparenti” e non “reali”.

 

 

 

NOTE

1 cfr “L’anno memorabile di Einstein”, a cura di J. Stachel, Ed. Dedalo, 2001, pp. 138— 140.    TORNA

2 G. Galilei: “Discorsi intorno a due nuove scienze Giornata terza Del moto locale” (1638), UTET, p. 722.    TORNA

3 G. Galilei: “Dialogo sui massimi sistemi Giornata prima’’ (1632), UTET, p. 41.    TORNA

4 G. Galilei: “Discorsi intorno a due nuove scienze Giornata terza Del moto locale” (1638), UTET, p. 726.    TORNA

5 P.W. Bridgman: “La logica della fisica moderna”, Boringhieri (TO), 1977, p.110.    TORNA

6 cfr. G. Boscarino, S. Notarrigo, A. Pagano: “Geometria e fisica” in Mondotre/Quaderni, Anno IV— Numero 8— Novembre 1992, Ed. Cooperativa Laboratorio (SR), pp. 88—89.    TORNA

7 G. Peano: “Opere scelte”, VoIII, “Sui fondamenti della geometria”, Ed. Cremonese(1959), pp.141—142.    TORNA

8 cfr G. Peano, op. cit., p. 436.    TORNA

9 cfr. nota l, pp. 140—141.    TORNA

10 A. Einstein. ‘‘Come io vedo il mondo’’, Tascabili Newton (1988), p. 79.    TORNA

11 cfr. nota l, p. 140.    TORNA

12 cfr. P. Di Mauro, Mondotre/La Scuola Italica—AnnoI — Numero 1—Dicembre1999, p. 15 e relativa bibliografia; S. Marinov, Found. of Phys., 9,445 (1979); C. Giannoni, Found. of Phys., 9,427 (1972), A. R. Lee, T. M. Kalatos, Am. J. Phys. 9, 870(1977).    TORNA

13 P. Di Mauro, S. Notarrigo: “Sull’invarianza delle equazioni di Maxwell”, Atti del XVI Congres­so Nazionale di Storia della Fisica e dell’Astronomia, Como 1996 (a cura di P. Tucci), Gruppo di lavoro per le Celebrazioni Voltiane, CNR, maggio 1997,(MI),p.335; anche sul sito internet: http:// albinoni.brera.unimi.it/Atti-Como-1996.    TORNA

14 Per le questioni relative alle unità di misura e agli effetti “reali” o “apparenti” si rimanda all’Ap­pendice a questo scritto.    TORNA

15 cfr. W.G.V. Rosser, “Relativity”, Butterworths, London (1967), App. 6: “Radar Methods and the k-calculus”, p.319.    TORNA

16 C. Giannoni, op. cit. nota 12; E. Feenberg, Found. of Phys., 9, 329(1979).    TORNA

17 H. Bondi: “Miti e ipotesi della teoria fisica”- Zanichelli, 1971, p.52    TORNA

18 cfr. Appendice a questo scritto; P. Di Mauro, op. cit. nota 12; A. Pagano, Mondotre/ La scuola Italica—Anno II, numero 2— Dicembre 2000- Nuova serie; H. Dingle, Nature, 195(1962), p. 985; M. Born, Nature, 197(1963) p. 1287; H. Dingle, Nature, 197(1963), p. 1248, p. 1287.    TORNA

19 cfr. Appendice a questo scritto.    TORNA

20 cfr. op. cit. nota 16.    TORNA

21 cfr.op. cit. nota l. pp. 141-143.    TORNA

22 cfr.Appendice a questo scritto; op. cit. nota 18; W. Rindler; Am. J. Phys.,29,365 (196l) e 38.1111 (1970); Ya. A. Smodinskii, V. A. Ugarov, Soviet Physics Uspekhi, 15,340(1972); i. A. Zinnie, Am. J. Phys., 40, 1091 (1972).    TORNA

23 K. Marx, “Democrito e Epicuro”, dissertazione dottorale in appendice al libro di A. Sabetti, ‘‘Sulla fondazione del materialismo storico’’, La Nuova Italia, Firenze, 1962.    TORNA

24 Cicerone, “De Fin.” 1, 6, 20.    TORNA

25 cfr. E. Perucca, “Fisica Generale e Sperimentale”, UTET; cfr. anche G. Peano, “Operazioni sulle grandezze”, in “Opere scelte di G. Peano”, a cura di U. Cassina, vol. III, p. 435 e segg.    TORNA

26 R. P. Feynman, “The Feynman Lectures on Physics”, Addison Wesley, 1966, I, 1, 16- 3.    TORNA

27 cfr. E. Perucca, op. cit. nota 25, p. 261.    TORNA

28 cfr. S. Notarrigo, “A ppunti di Fisica Superiore”, non pubblicati.    TORNA

29 W. Voigt, Uber das Doppler’sche Princip”, Nachrichten der Konigliche Gesellschaft der Wissenschaften zu Gottingen, 10 Marz 1887.    TORNA