LE FORME E I MUTAMENTI DELLA SCIENZA
OGGETTIVITÀ SCIENTIFICA E TRADIZIONI DI PENSIERO
Indice
- Questioni. La scienza, trascendentale storico o istituzione sociale? Sulla cosiddetta oggettività scientifica.
1. La scienza, istituzione sociale?
2. La scienza, trascendentale storico?
3. Le tradizioni di pensiero.
4. L’ordine, il conflitto e la scienza.
5. Gli elementi della scienza e le tradizioni di pensiero
6. I principi regolativi del mutamento della scienza e le tradizioni di pensiero.
7. La dialettica degli elementi e dei principi.
7.1 Ideologia e conflitto sociale.
7.2 Oggettività scientifica e tradizioni di pensiero
La scienza, trascendentale storico o istituzione sociale?
Sulla cosiddetta oggettività scientifica.
La scienza sembra oggi investita da una lacerante questione attorno a cui ne gravitano altre.
Se da una parte sembra sempre più accertarsi e constatarsi la sua dipendenza da interessi e moventi sociali, non solo nel suo uso ma anche nel suo stesso modo di essere e di produrre conoscenze, per cui appare sempre più un modello di produzione della conoscenza storicamente determinato, immerso nel mondo delle formazioni sociali, in quanto i suoi contenuti conoscitivi sono relativi al proprio tempo storico, quindi fallibili, soggetti ad essere superati, dall’altra c’è chi ne difende sul piano teorico la sua autonomia, la sua assolutezza o la sua specificità, irriducibili a dipendenze storiche e sociali.
La questione investe soprattutto la cosiddetta oggettività della scienza, ma anche la sua capacità di rispondere ai problemi socio-economici ed etico-politici emergenti nel nstro tempo.
La scienza è in grado di produrre verità che superano il proprio tempo storico?
È essa un modello di produzione delle conoscenze capace di verità intersoggettive valide oltre il proprio condizionamento sociale?
Sovrastorico è il suo metodo e le sue conoscenze, oppure solo il suo metodo, il suo modo di produrre conoscenze, valido oltre il proprio tempo storico e il proprio spazio geografico o altrimenti i suoi contenuti conoscitivi, che sono in grado di trascendere la caducità del presente storico e la ristrettezza del proprio spazio geografico?
Insomma la scienza è un’ istituzione sociale storicamente determinata nel suo metodo e nelle sue conoscenze chiusa nel proprio tempo storico, o un trascendentale storico capace di produrre conoscenze transtoriche, aperta ai problemi sociali, non etero-diretta da interessi di parte?
Nel nostro
scritto intendiamo ripensare l’insieme delle questioni, e in particolare, quella
riguardante la sua oggettività, alla luce della nozione da noi formulata, nei
nostri precedenti scritti, di “tradizione
di pensiero”, sviluppando in modo sistematico gli elementi costitutivi della scienza, i
principi regolativi del suo mutamento e quindi la relazione di questi con l’ideologia, il conflitto sociale, ovvero
con la tecnica, l’economia e la politica, e la cosiddetta oggettività della
scienza.
1. La scienza, istituzione sociale ?
La dipendenza della scienza dagli interessi e dai valori sociali, con il suo conseguente relativismo gnoseologico, viene messa sempre più in evidenza non solo dalla cosiddetta sociologia della scienza, che ha conosciuto e conosce negli ultimi anni uno straordinario sviluppo, ma anche dagli stessi scienziati impegnati in lavori di ricerca e di riflessione sul loro “mestiere di scienziato”.
Scrive Ziman, di professione scienziato nel campo della fisica, riflettendo sulle strutture epistemiche e sociali della scienza nella loro fase postmoderna:
«La scienza è sempre stata un’istituzione sociale, intessuta nella vasta società del suo tempo e luogo: gli scienziati sono sempre stati cittadini, consumatori, produttori, proprietari, impiegati, genitori, insegnanti, credenti e a volte persino guerrieri. È insensato supporre che simili persone possano essere riunite all’interno delle comunità scientifiche per produrre una conoscenza completamente incontaminata dagli interessi collettivi e dai valori culturali che muovono e plasmano le loro esistenze non scientifiche.»(1)
E ancora:
«Contrariamente alla Leggenda, la scienza non è un modo straordinariamente privilegiato di capire le cose, superiori a tutti gli altri né è basata su fondamenta più salde o più profonde di quelle di qualsiasi altro modello di cognizione umana. La conoscenza scientifica non è una <metanarratività> universale dalla quale ci si potrebbe infine aspettare di poter dedurre una risposta affidabile ad ogni significativa domanda sul mondo. Non è oggettiva, ma riflessiva: l’interazione tra il conoscitore e ciò che deve essere conosciuto è un elemento essenziale della conoscenza. E, come ogni altro prodotto umano, non è libera da ipoteche, ma permeata da interessi sociali.»(2)
Se la scienza è stata permeata da interessi sociali, essa ha però sviluppato nel corso della sua storia un proprio ethos sociale grazie al quale ha cercato di rendersi immune da questi interessi, come dal principio di autorità, sottraendosi al dogma e al soggettivismo relativistico.
Insomma la scienza, in quanto modello di produzione di conoscenze ha sviluppato norme epistemiche che si sono articolate su strutture sociali, entro cui hanno preso forma e sostanza.
Tali strutture sociali sono state messe in evidenza dal sociologo Merton; esse da Ziman vengono raccolte nella sigla CUDOS, cioè comunismo (la ricerca scientifica deve essere comunicata tra i soggetti che ad essa si dedicano), universalismo (non devono valere nella ricerca scientifica esclusioni di razza, lingua, religione, sesso, ecc,), disinteresse (la ricerca scientifica non deve essere soggetta ad interessi di chicchessia), originalità (la ricerca scientifica cresce su contributi nuovi), scetticismo (la ricerca scientifica deve essere soggetta alla critica e al dubbio).
Tali norme sociali hanno preso a loro volta forma entro pratiche epistemiche.
«La norma del <comunismo> è strettamente connessa, scrive ancora Ziman, al principio dell’empirismo - vale a dire, la affidabilità dei risultati di un’osservazione o di un esperimento riproducibili. Ancora, l’<universalismo> sociale è correlato all’unificazione esplicativa; il <disinteresse> è generalmente associato alla credenza in una realtà oggettiva; l’insistenza sulla <originalità> stimola congetture e scoperte; lo <scetticismo organizzato> richiede che queste ultime siano pienamente verificate e giustificate prima di essere accettate come conoscenza acquisita. E così via.»(3)
Ebbene nella società postmoderna queste norme sono state rivoluzionate, tramutandosi nelle nuove norme sociali che guidano la ricerca scientifica.
Al disinteresse della ricerca scientifica si è sostituita una concezione strumentale della scienza, piegata sempre più agli interessi dell’industria e dell’economia.
La nuova scienza, «la scienza industriale è di Proprietà, Locale, Autoritaria, Commissionata ed Esperta. Essa produce una conoscenza di proprietà che non viene necessariamente resa pubblica; è concentrata su problemi tecnici locali piuttosto che su una riflessione generale; i ricercatori industriali agiscono sotto un’autorità manageriale piuttosto che come individui; la loro ricerca viene commissionata per conseguire obiettivi pratici, piuttosto che intrapresa per il perseguimento di conoscenze; essi, infine, vengono impiegati come risolutori esperti, piuttosto che per la loro personale creatività. Non è un caso, comunque, che questi attributi formino in sequenza la parola <PLACE>: è questo, piuttosto che le norme <CUDOS>, ciò che garantisce una buona scienza industriale.»(4)
Il criterio dell’utile guida la ricerca scientifica; la scienza si trasforma in tecnoscienza.
«La R&S industriale, cioè ricerca scientifica e sviluppo tecnologico, e altre forme di scienza applicata, costituiscono in verità la parte cospicua di tutta l’attività scientifica moderna.»(5)
Il fattore <etica> irrompe sempre più nel modo di essere e di produrre della tecnoscienza.
Lo scienziato tecnologo diventa molto più responsabile dei risultati delle sue ricerche, e del loro uso, per cui gli diventa impossibile esimersi dalle proprie responsabilità morali. Perciò scrive ancora Ziman quasi a conclusione del suo lavoro: «L’integrità morale della scienza è diventata più discutibile: infatti, la scienza post-accademica non è direttamente salvaguardata contro interessi di gruppo né dal punto di vista istituzionale né da quello ideologico. Governi e corporazioni industriali esercitano ora un potere sia sull’avvio di progetti di ricerca sia sulla pubblicazione dei loro risultati. Di conseguenza, è diventato più difficile arruolare la scienza come forza non di parte contro oscurantismo, sfruttamento sociale o follia.»(6)
L’opera di
demolizione, da parte della nuova sociologia della scienza, della cosiddetta
oggettività della scienza, investe il tempio della scienza moderna: il laboratorio.
Scrive Bourdieu, filosofo e sociologo della scienza:
«I sociologi hanno, in gradi diversi, aperto il vaso di Pandora, il laboratorio, e questa esplorazione del mondo scientifico qual esso è ha fatto apparire tutto un insieme di fatti che mettono con forza in discussione l’epistemologia scientifica di tipo logicistico quale l’ho evocata e riducono la vita scientifica a una vita sociale con le regole, i suoi vincoli, le sue strategie, le sue astuzie, i suoi effetti di dominio, i suoi trucchi, i furti di idee ecc.».(7)
Contro la sacralità del fatto, di fronte a cui deve genuflettersi lo scienziato nelle sue dispute scientifiche ecco quanto ha scritto Karin Knorr-Cetina, sociologa della scienza:
«Gli oggetti scientifici non sono soltanto fabbricati tecnicamente nei laboratori ma sono
anche costruiti in modo inseparabilmente simbolico e politico attraverso tecniche letterarie di persuasione quali si possono trovare negli articoli scientifici, attraverso stratagemmi politici grazie ai quali gli scienziati mirano a formare alleanze o a mobilitare risorse, oppure attraverso le selezioni che costruiscono i fatti scientifici dall’interno.»(8)
Per questa
sociologia il fatto scientifico insomma è una costruzione, un artefatto, una
finzione, quindi non oggettivo, inautentico, fittizio: è frutto di un gioco simbolico e politico.
Pertanto nel
mondo post-moderno la scienza sembra destinata alla morte assieme alle sue
pratiche epistemiche e sociali, che ne hanno garantito nel mondo moderno autonomia, oggettività e
disinteresse.
La scienza è in pericolo, perché subordinata alla logica del profitto e dell’utile dell’industria e della politica, perché ne dipende sempre più per le sue necessarie risorse.
Scrive ancora Bourdieu:
«Credo in effetti che l’universo della scienza sia oggi minacciato da una temibile regressione. L’autonomia che la scienza aveva conquistato a poco a poco contro il potere religioso, politico, persino economico, e in parte almeno, contro le burocrazie di Stato che garantivano le condizioni minimali della sua indipendenza, è molto indebolita. I meccanismi sociali che sono andati instaurandosi a mano a mano che la scienza si affermava, come la logica della concorrenza tra pari, rischiano di trovarsi messi al servizio di fini imposti dall’esterno; la sottomissione agli interessi economici e alle seduzioni mediatiche minaccia di coniugarsi alle critiche esterne e alle denigrazioni interne - di cui certi deliri “postmodemi” costituiscono l’ultima manifestazione - per incrinare la fiducia nella scienza, e soprattutto nella scienza sociale. Insomma, la scienza è in pericolo, e proprio per questo diviene pericolosa.»(9)
2. La scienza, trascendentale storico ?
Contro queste tendenze vecchie e nuove della sociologia della scienza hanno reagito Popper e Bourdieu, per citarne alcuni, in nome della difesa dell’autonomia della scienza e della sua oggettività, lasciandosi alle spalle soluzioni di tipo metafisico o teologico alla Kant, Cartesio, e quanti altri.
Ai sociologi della scienza, per i quali «il pensiero scientifico non procede nel vuoto, ma in un’atmosfera socialmente condizionata»(1), per cui è immerso in uno spazio di nube tossica, rappresentata dall’ideologia, intesa in senso marxiano, di conoscenza mistificata della realtà, Popper obietta che l’aspetto sociale del metodo scientifico è di tipo diverso da essi indicato.
«L’oggettività è strettamente legata all’aspetto sociale scientifico, al fatto che la scienza e l’oggettività non risultano (e non possono risultare) dagli sforzi che compie un singolo scienziato per essere “oggettivo”, ma dalla cooperazione di molti scienziati. L’oggettività può essere definita l’intersoggettività del metodo scientifico. Ma questo aspetto sociale della scienza è quasi interamente trascurato da coloro che si proclamano sociologi della conoscenza.
Due aspetti del metodo delle scienze naturali sono importanti a questo proposito.
Insieme ad essi costituiscono
quello che posso definire il carattere pubblico del metodo scientifico. In
primo luogo, si tratta di qualcosa che si avvicina alla libera critica. …
In secondo luogo, gli scienziati cercano di evitare di parlare in modo da dar luogo a fraintendimenti…
Nelle scienze naturali questo risultato è raggiunto riconoscendo nell’esperienza l’arbitro imparziale delle loro controversie. Quando parlo di esperienza intendo riferirmi all’esperienza di carattere <pubblico>, come osservazioni ed esperimenti, diversamente dall’esperienza nel senso della più privata esperienza estetica o religiosa; e un’esperienza è pubblica se chiunque lo voglia può ripeterla. Al fine di evitare possibili fraintendimenti, gli scienziati cercano di esprimere le loro teorie in una forma tale per cui esse possono essere messe alla prova, cioè confutate (o anche corroborate) da tale esperienza.
In ciò consiste l’oggettività scientifica. Chiunque abbia appreso la tecnica di comprendere e dimostrare le teorie scientifiche può ripetere l’esperimento e giudicare da sé. Nonostante tutto ciò, ci saranno sempre alcuni che formuleranno giudizi viziati da parzialità o anche eccentrici. Ciò è inevitabile e non intralcia seriamente l’attività delle varie istituzioni sociali che sono state istituite al fine di favorire la critica e l’oggettività scientifica; per esempio i laboratori, i periodici scientifici, i congressi. Questo aspetto del metodo scientifico mette in evidenza quanto si può ottenere da istituzioni intese a rendere possibile il controllo pubblico e dalla manifestazione aperta della pubblica opinione, anche se la cosa è limitata a una cerchia di specialisti.
Soltanto il potere politico, quando è usato per sopprimere la libera critica o quando non si preoccupi di proteggerla, può compromettere il funzionamento di queste istituzioni dalle quali dipende, in ultima analisi, ogni progresso scientifico, tecnologico e politico.»(2)
Alla luce di queste sue riflessioni Popper modifica le concezioni tradizionali di razionalismo contrapposto a empirismo, di realtà vera contrapposta a realtà apparente, ecc. ecc...
Il razionalismo connesso alla scienza in tal modo diventa per Popper una pratica sociale di costruire la conoscenza, un atteggiamento più che una pratica epistemica, cioé un modo di costruirsi e di essere della scienza. Ma di questo discutiamo più avanti.
Riportiamo per adesso le stesse parole di Popper:
«Quella che chiamiamo oggettività scientifica non è un prodotto dell’imparzialità del singolo scienziato, ma un prodotto del carattere sociale o pubblico del metodo scientifico, e che l’imparzialità del singolo scienziato, nella misura in cui esiste, non è la causa ma piuttosto il risultato di questa oggettività socialmente o istituzionalmente organizzata della scienza.
È stata una delle più grandi conquiste del nostro tempo la dimostrazione, data da Einstein, che alla luce dell’esperienza, noi possiamo contestare e rivedere i nostri presupposti anche per quanto riguarda lo spazio e il tempo, idee che si era ritenuto fossero i presupposti necessari di ogni scienza e appartenessero al suo apparato categoriale. Così l’attacco scettico lanciato contro la scienza dalla sociologia della conoscenza fallisce alla luce del metodo scientifico. Il metodo empirico ha dimostrato di essere senz’altro capace di prendersi cura di sé stesso. …
Nel fatto che chiunque può esercitare la critica consiste l’oggettività scientifica»(3) …
«Quando parlo di <razionalismo> io uso sempre la parola in un senso che include tanto <empirismo> quanto <intellettualismo>, proprio nello stesso senso in cui la scienza fa uso sia di esperimenti che di pensiero. In secondo luogo, uso la parola <razionalismo> per indicare, grosso modo, un atteggiamento che cerca di risolvere il maggior numero possibile di problemi mediante un appello alla ragione, cioè al pensiero chiaro e all’esperienza, piuttosto che mediante l’appello alle emozioni e alle passioni. …
“L’atteggiamento della ragionevolezza” è molto simile all’atteggiamento scientifico, alla convinzione che nella ricerca della verità è necessaria la cooperazione e che, con l’aiuto del dibattito, possiamo col tempo giungere a qualcosa come l’oggettività». …
«Il razionalismo è un atteggiamento di disponibilità a prestare ascolto ad argomenti critici e ad imparare dall’esperienza».(4)
Così Galileo, il Salviati del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, sotto le critiche del Simplicio aristotelico, che faceva riferimento all’esperienza per sostenere che la terra non gira attorno a sé stessa, doveva imparare a modificare la sua proposizione contraria, che è invece la terra gira intorno a se stessa!? Tra l’altro tale proposizione non era riproducibile né tanto meno soggetta a pubblica critica o dibattito, considerati i pregiudizi e l’intolleranza del proprio tempo, che non permetteva la libera critica né il pubblico controllo e dibattito.
Popper a questo obietterebbe: è proprio il fatto che la proposizione di Galileo ha superato comunque le critiche, che ha reso possibile la sua scientificità
Ma allora a quale esperienza impersonale si è fatto riferimento, visto che l’esperienza apparente, sensibile ed oggettiva sembra contraddirla, dando ragione a Simplicio. Il ricorso all’esperienza come tecnica imparziale delle questioni è allora più complesso, meno semplicistico di quanto immagini Popper.
Il fatto è
allora un altro! I presupposti teorici e
filosofici su cui Galileo costruiva le sue proposizioni scientifiche erano ben
altri, come ben altri erano i presupposti
sociali. Essa resiste non perché corroborata dalla possibilità di critiche
sociali, allora inesistenti, né tanto meno dal ricorso ad una presunta esperienza impersonale.
Era proprio il razionalismo di Galileo che la sosteneva. Ma che tipo di razionalismo e con quali presupposti sociali? Di questo discuterò più avanti in modo più approfondito.
Superando l’astrattismo storico-sociale di Popper, con la sua idea di campo, Bourdieu ha cercato di recuperare la linea di difesa dello stesso Popper dell’autonomia e dell’oggettività della scienza, accusata di relativismo gnoseologico e di condizionamento sociale.
È vero per Bourdieu: «La scienza è un campo di lotte, come campo d’azione socialmente costruito in cui gli agenti dotati di risorse differenti si scontrano per conservare o trasformare i rapporti di forze vigenti. … (5)
L’idea di campo porta contemporaneamente a mettere in discussione la visione irenistica del mondo scientifico, quella di un mondo di scambi generosi in cui tutti i ricercatori collaborano a un medesimo fine. Questa visione idealizzante, che descrive la pratica come il prodotto della sottomissione volontaria a una norma ideale, è contraddetta dai fatti: ciò che si osserva sono lotte, a volte feroci, e competizioni all’interno di strutture di dominio. La visione “comunitaristica” si lascia sfuggire il fondamento stesso del funzionamento del mondo scientifico come universo di concorrenza per il “monopolio della manipolazione legittima” dei beni scientifici, cioé, più precisamente, del buon metodo, dei buoni risultati, della buona definizione dei fini, degli oggetti, dei metodi della scienza.»(6)
Il laboratorio stesso è un sottocampo, in cui sono in gioco rapporti di forza, di potere, di dominio e di interesse.
Il fatto è però per Bourdieu che questo campo scientifico ha sviluppato storicamente strutture epistemiche di chiusura e di organizzazione interna sociale tali da renderlo immune da pressioni esterne (economiche, politiche, religiose ecc.) e da degrado interno per lotte di potere o di successo personale o di parte.
«Il fatto che i produttori (della scienza) tendano ad avere per clienti solo i loro concorrenti più rigorosi e insieme più vigorosi, più competenti e insieme più critici, quindi i più disposti e i più adatti a dar forza alla loro critica, è per me il punto di Archimede su cui possiamo fondarci per render ragione scientifica della ragione scientifica, per sottrarre la ragione scientifica alla riduzione relativista e spiegare che la scienza può procedere incessantemente verso una maggior razionalità senza essere costretti a fare appello a una sorta di miracolo fondatore. Non c’è bisogno di uscire dalla storia per capire l’emergenza e l’esistenza della ragione nella storia. La chiusura su di sé del campo autonomo costituisce il principio storico della genesi della ragione e dell’esercizio della sua normatività. È, mi pare, perché l’ho costituito, molto modestamente, in problema storico, mettendomi così in grado (e in condizione) di stabilire scientificamente la legge fondamentale del funzionamento della città scientifica, che ho potuto risolvere il problemna dei rapporti tra la ragione e la storia o della storicità della ragione, problema vecchio come la filosofia, che soprattutto nel secolo XIX ha assillato i filosofi.»(7)
«La scienza è una costruzione che fa emergere una scoperta irriducibile alla costruzione e alle condizioni sociali che l’hanno resa possibile.»(8)
Si è sviluppato così un tessuto storico, un trascendentale storico, capace di sottrarsi al flusso del divenire storico, un modo di produrre verità transtoriche, trascendente il proprio tempo.
Bourdieu arriva alle stesse conclusioni di Popper, reinterpretando il trascendentale metafisico kantiano in chiave storico-sociale.
«Si sono così reintrodotte nell’intersoggettività kantiana le condizioni che la fondano e le conferiscono la sua efficacia propriamente scientifica. L’oggettività è un prodotto intersoggettivo del campo scientifico: fondata sui presupposti condivisi in quel campo. L’oggettività è il risultato dell’accordo intersoggettivo nel campo. ... La conoscenza scientifica è l’insieme delle proposizioni che sono sopravvissute alle obiezioni. ... Non c’è nessuno che sia meno isolato, lasciato a se stesso, alla sua originalità individuale, di uno scienziato. Non soltanto perché lavora sempre con gli altri, all’interno di laboratori, ma perché si appoggia a tutta la scienza passata. ... Inserito in un gruppo di pari ad un tempo molto critico. … (9)
Come già Popper, Bourdieu pensa così di salvare il razionalismo e l’oggettività della scienza dal relativismo storico, senza ricorrere a principi a priori metafisici alla Kant o quanti altri.
Parafrasando Bourdieu possiamo così dire: nella storia emergono universi in cui per avere ragione occorre far valere delle ragioni, delle dimostrazioni riconosciute come coerenti e nei quali la logica dei rapporti di forza e delle lotte d’interesse è regolata in modo che la “forza del miglior argomento” ha ragionevoli possibilità di imporsi; questo è il modo migliore di salvare la ragione, senza invocare come un deus ex machina, l’una o l’altra forma di affermazione del carattere trascendentale della ragione.
Il campo di Bourdieu è però esso stesso, - a parte le generiche critiche all’industrialismo, al capitalismo odierno e i richiami a rapporti di forza entro il campo della scienza, soggetta alle leggi del profitto -, un’astrazione storico-metafisica, come già il metodo per congetture e confutazioni di Popper.
Nel momento in
cui Copernico e Galileo rivoluzionano astronomia e fisica-aristotelica, non c’è
alcun campo autonomo di ricerca, come non c’è alcuno spazio per congetture e
confutazioni tra pari.
Essi si trovano invece entro un tessuto sociale, diciamo pure un campo di conflitto sociale, con richieste nuove, emergenti e contrastanti, e tradizioni di pensiero dominanti (quella aristotelica) o obsolete (quella pitagorico-archimedea), appartenente al passato, da cui poter attingere modi di conoscenza e conoscenze da utilizzare per il loro presente storico.
Nè la cosiddetta «rivoluzione scientifica» di Galileo e Copernico è stata mai una pratica sociale di produrre conoscenze, vuoi con il campo vuoi con il metodo del confronto pubblico, quanto bensì il prodotto di singoli individui, i cosiddetti “geni”, che hanno rivoluzionato conoscenze e modi consolidati di produrre conoscenza.
Questa è promossa non grazie alla pratica del confronto pubblico o alle emergenze dal campo autonomo, ma grazie al richiamo all’autorità di una tradizione di pensiero passata e alle nuove pressioni sociali esterne del presente.
Si riconosceva la validità di una tradizione di pensiero, quella pitagorico‑archimedea, da parte di Galileo e Copernico, perduta, sepolta, dimenticata, repressa, ma che andava ripresa per il progresso scientifico.
Ecco quanto
scrive Copernico nella sua dedica del “De
Revolutionibus”:
«Avendo a lungo meditato tra me e me questa incertezza dell’insegnamento matematico nel comporre i moti delle sfere del mondo, cominciò a darmi fastidio il fatto che i filosofi, mentre indagano con tanta finezza le cose più minute del mondo, non hanno poi alcun sicuro criterio di spiegazione sul meccanismo di questo stesso mondo che è stato creato per noi dal migliore e più regolare (optimo et regularissirno) degli artefici. Perciò mi misi a rileggere le opere di tutti i filosofi che avevo a disposizione, per vedere se mai qualcuno di essi avesse pensato che i movimenti delle sfere del mondo fossero diversi da quelli che ammettono coloro che nelle scuole insegnano matematica (cioè, astronomia matematica). E trovai dapprima in Cicerone che Niceto aveva intuito che la terra si muove. Poi trovai anche presso Plutarco che alcuni altri avevano avuto la stessa opinione; e trascrivo qui le sue parole perché siano note a tutti: “È opinione comune che la terra stia ferma; ma Filolao Pitagorico dice che gira intorno al fuoco secondo un circolo obliquo, così come il sole e la luna. Euraclide Pontico ed Ecfanto Pitagorico fanno muovere la terra, non però in moto traslatorio, ma rotatorio, infilata in un asse a guida di ruota e girante intorno al proprio centro da occidente a oriente”.
Prendendo spunto da qui cominciai anch’io a meditare intorno alla possibilità di un movimento della terra. E sebbene l’opinione potesse sembrare assurda, tuttavia, poiché sapevo che prima di me ad altri era stata concessa questa libertà, cioè di immaginare qualsivoglia cerchio per spiegare i fenomeni celesti, ritenni che anche a me senza difficoltà fosse concesso di cercare se, ammesso un qualche movimento della terra, si potessero trovare spiegazioni più sicure delle loro sulla rivoluzione delle sfere celesti».(10)
E quanto scrive Galileo a proposito del suo studio di Archimede.
«La lettura de i libri dell’istesso Archimede, già da me con infinito stupore letti e studiati».(11)
Nei momenti di
scarso conflitto sociale, dove è diffusa solo una microconflittualità sociale,
ma domina nel complesso un potere sociale forte, si ha la cosiddetta «scienza normale», praticata
entro tradizioni di pensiero con propri assunti metafisici e fisici, e proprie
pratiche epistemiehe, articolate su pratiche sociali.
Si pensi al Medioevo e alle sue Università, con le sue dispute, condotte sul terreno pubblico del confronto e della critica molte volte aspra fino all’eresia e al sacrificio della propria persona.
La disputa nel Medioevo fa sviluppare la logica, la tecnica e la teoria dell’argomentare e del dimostrare, quella della tradizione aristotelica, come del richiamo ai fatti, come mezzi imparziali ed oggettivi di soluzioni delle controversie scientifiche.
E con questa logica del dimostrare e dell’argomentare, come del richiamo ai fatti imparziali, al metodo empirico, si attacca il nuovo (o vecchio ?!) modo di fare scienza di Copernico e Galileo e le sue conoscenze vecchie e nuove.
È con un
modo di concepire la ragione e la sua logica della dimostrazione, di tipo
matematico, che non hanno niente a fare con pratiche sociali, con campi
autonomi inesistenti di critica, che Galileo costruisce la nuova scienza, la
sua scienza, la sua oggettività
scientifica.
Quale scienza? Quale ragione? Quali fatti? Quale grammatica logica? Quale oggettività? Quali pratiche di produzione della conoscenza ha sviluppato la nuova scienza? Quali i suoi moventi sociali?
Ha senso parlare della pratica sociale della scienza, dei suoi aspetti sociali, senza una teoria della società e del suo mutamento, senza parlare delle basi sociali esterne dell’essere sociale della scienza?
Si può
costruire insomma una teoria della
scienza senza una teoria della società?
La socialità scientifica su quali basi sociali più ampie vive, in quali contesti sociali è inserita?
Perché gli scienziati, ad un certo punto si uniscono in comunità, quindi in istituzioni sociali? Per quali fini interni ed esterni alla comunità scientifica?
La teoria
popperiana su questa non offre che una spiegazione
tautologica:
“Gli scienziati si uniscono in comunità per fare scienza”, e viceversa: “Per fare scienza gli scienziati si uniscono in comunità”, cioé una non spiegazione.
E infine quale il rapporto della scienza con le tradizioni, visto che esso ha prodotto progresso, innovazioni, rotture, e può produrre progresso, cioè nuove oggettività scientifiche, riconosciulte e conservate, grazie alla sua entrata in campo, nel mutamento delle conoscenze e della società?
Alla luce della nostra nozione di “tradizione di pensiero” intendiamo, come già detto, riesaminare le questioni poste, riconoscendo insufficienti ed astratte, poichè non aderenti ai fatti, a quei fatti, a cui essi stessi si richiamano, le soluzioni di Bourdieu e di Popper.
3. Le Tradizioni di pensiero.
Per capire la forma-scienza e la dinamica del
mutamento della scienza,delle rivoluzioni scientifiche, riteniamo che vada
prima scandagliato il nostro concetto di tradizione
di pensiero.
Il ruolo della
tradizione sulla forma-scienza è stato riconosciuto da Kuhn con il suo concetto
di paradigma che non è altro se non
quello che egli chiama il pensiero convergente.
«La ricerca normale, anche al suo miglior livello, è attività altamente convergente, che poggia saldamente su di un consenso permanente acquisito per mezzo dell’educazione scientifica e rafforzato dalla successiva attività nella professione scientifica».(1)
«Nelle
condizioni normali lo scienziato ricercatore non è un innovatore, ma un
risolutore di rompicapi, ed i rompicapi sui quali si concentra sono proprio
quelli che egli pensa possano essere sia impostati, che risolti nell’ambito
della tradizione scientifica esistente».(2)
Il ruolo della
tradizione nello stesso tempo è stato riconosciuto da Kuhn nel mutamento
scientifico o nelle rivoluzioni scientifiche con il suo concetto di tensione essenziale.
Uno scienziato per scardinare un sistema di conoscenze e/o di tecniche di produzione della conoscenza deve innanzitutto pienamente possederlo per riconoscerne le anomalie, le insufficenze, le debolezze, le contraddizioni, i limiti.
«Per essere anomalie esse devono essere in esplicito ed inequivocabile conflitto con qualche dogma strutturalmente centrale del pensiero scientifico corrente. Perciò il loro riconoscimento e la loro valutazione, una volta di più, dipende da uno stabile collegamento con la tradizione scientifica contemporanea.
Questo ruolo centrale di una tradizione elaborata e spesso esoterica è ciò cui ho principalmente pensato, quando ho parlato di tensione essenziale nella ricerca scientifica. Non ho dubbi sul fatto che lo scienziato debba essere, almeno potenzialmente, un innovatore, che egli debba possedere flessibilità mentale, e che debba essere preparato a riconoscere difficoltà dove esistono. Questa grande parte dello stereotipo popolare è sicuramente corretto, ed è di conseguenza importante cercare indicazioni delle caratteristiche corrispondenti della personalità. Ma ciò che non è parte del nostro stereotipo e che appare avere bisogno di accurate integrazioni con esso è l’altra faccia della medesima medaglia. Noi siamo più pienamente adatti a sfruttare il nostro potenziale talento scientifico se riconosciamo in che grado lo scienziato fondamentale deve essere anche un deciso tradizionalista o, se sto usando bene il vostro vocabolario, un pensatore convergente. … ».(3)
«Lo scienziato produttivo, per essere un innovatore di successo che scopre nuove regole e nuovi elementi con i quali giocare, deve essere un tradizionalista cui piace giocare complicati giochi secondo regole prestabilite.»(4)
Come si vede il concetto di tradizione in Kuhn vale sia nel periodo di scienza normale sia nel periodo di scienza rivoluzionaria. È insomma ambiguo e vago.
Si può scardinare nel Medioevo un sistema di conoscenze, di tecniche consolidate di produrre conoscenze, come dicevo, ad esempio, il sistema fisico-astronomico di tradizione aristotelico-tolemaico, fatto proprio da un sistema di potere politico-religioso, quale la Chiesa, sostenuto da un vasto senso comune e da un sistema politico dominante, quale l’impero, fondato su un dominio di classe sociale, la feudalità, senza fare riferimento ad un’altra tradizione di pensiero, su cui costruire la nuova forma-scienza e senza scardinare nello stesso tempo il dominio socio-politico-religioso, che vincola il fatto scientifico ad un tale sistema di dominio, avvolgendolo nelle nebbie dell’ideologia?
Il fatto è doppiamente carico di teoria, poiché
discende da un modo di concepire la forma-scienza e da un sistema di potere
politico-religioso e di dominio sociale, che a quel modo si salda.
Vive di un doppio vincolo. Per essere reinterpretato ha bisogno di liberarsi dai due vincoli di una tradizione scientifica e di un sistema di potere politico-sociale, che con quella tradizione ha rinsaldato il vincolo.
La comunità
scientifica ha strutture epistemiche proprie
e modi di socialità, entro cui
strutturare e far progredire la scienza, ma nello stesso tempo ha il vincolo
della più vasta comunità socio-politico-religiosa, perché la scienza serve.
La scienza nasce dal seno della società, dalle sue esigenze e a queste è finalizzata, ma sviluppa connotati sociali propri, specifici, che interagiscono con quelli più ampi della società nel suo complesso, che le conserva o le rivoluziona a seconda dei suoi stessi interessi in campo, che sono certamente più forti di quelli della comunità scientifica.
4. L’ordine, il conflitto e la scienza.
Per andare avanti nell’individuazione delle connotazioni del nostro concetto di tradizione di pensiero, abbiamo bisogno di una breve digressione sulla dinamica “forma-scienza e società”, mutamento scientifico e mutamento sociale, rivoluzione scientifica e rivoluzione sociale.
In genere è comune opinione che nel mondo greco del VI, V e IV secolo a.C. vadano individuati i presupposti o le premesse di quel sapere che poi ha assunto la denominazione di “scienza”.
Vediamo infatti come sostanzialmente, due concezioni, con sfumature e arricchimenti diversi, si fronteggiano nel modo di concepire, nei suoi esordi, il rapporto “scienza-società”.
Da una parte vediamo come la scienza, e con essa la tecnica, come viene altrimenti chiamata la stessa scienza, viene concepita sorgere dal conflitto uomo-natura, uomo-uomo; anzi il conflitto è il principio stesso della realtà e la società è il luogo stesso del conflitto.
Sono questi i
pitagorici. Alcmeone di Crotone, italico, pitagorico, primo sofòs della natura,
sulla quale produsse per primo opere scritte, secondo alcune testimonianze,
dice che i principi degli enti sono i
contrari.
La malattia è la rottura di un equilibrio, di un ordine, chiamato da Alcmeone isonomia; la salute è il ristabilimento di essa. Il sapere nasce dal bisogno di costruire l’ordine, ma che va fatto attraverso indizi e segni, poiché la verità assoluta non appartiene agli uomini, ma solo agli dei.
Diceva: “Delle cose invisibili, delle cose mortali gli dei hanno immediata certezza, ma agli uomini tocca procedere per indizi, per prove”(1)
Su questa scia si muove Democrito, per il quale è lo stato di conflitto dell’uomo con la natura, ossia il suo stato di insicurezza, che lo ha costretto a sviluppare le tecniche e con esse il linguaggio, il necessario presupposto di ogni scienza, e a utilizzare, ammaestrato dall’esperienza, le mani e la ragione, cioè a fare scienza e tecnica.
Leggiamo un suo famoso passo:
«Dicono poi che gli uomini di quelle primitive generazioni, conducendo una vita senza leggi e come quella delle fiere, uscivano alla pastura sparsi chi di qua chi di là, procacciandosi quell’erba che era più gradevole di sapore ed i frutti che gli alberi producevano spontaneamente. Erano continuamente aggrediti dalle fiere, e l’utilità apprese loro ad aiutarsi a vicenda; e riunitisi in società sotto la spinta del timore, cominciarono a poco a poco a riconoscersi all’aspetto. E mentre prima emettevano voci prive di significato e inarticolate, gradatamente cominciarono ad articolar le parole; e, stabilendo tra di loro espressioni convenzionali per designare ciascun oggetto, vennero a creare un modo, noto a tutti loro, per significare tutte le cose. …
Ammaestrati dall’esperienza, si rifugiarono d’inverno nelle spelonche e riposero quei frutti ch’erano atti ad esser conservati. Conosciuto poi il fuoco e le altre cose utili alla vita, poco dopo si trovarono anche le arti e tutti gli altri mezzi che possono recar giovamento alla vita in società. Così in generale, maestro di ogni cosa agli uomini fu l’uso stesso, rendendo familiare l’apprendimento di ciascuna abilità a questo essere ben dotato e che ha come cooperatrici per ogni occorrenza le mani e la ragione e la versatilità della mente.»(2)
Protagora,
sofista, arrichisce il discorso democriteo, poiché riconosce che non solo il
conflitto uomo-natura alimenta e fonda la scienza e la tecnica, la sapienza tecnica, ma anche il conflitto
sociale alimenta e fonda il sapere politico, come scienza e tecnica, la sapienza politica.
E se la prima è posseduta da pochi uomini, poiché è diversamente distribuita, quest’ altra è, e deve essere, posseduta da tutti gli uomini.
Ecco quanto dice Protagora per bocca di Platone nel seguente brano:
«Ci fu dunque un tempo che esistevan gli dei, ma non le stirpi mortali. Come giunse anche per questo il momento fatale della nascita, ecco che gli dei le plasmano nel seno della terra mescolando terra e fuoco e quanti altri elementi sono di fuoco e terra composti Al momento di trarle alla luce, ordinarono a Prometeo e ad Epimeteo di distribuire le facoltà applicandole convenevolmente a ciascuno; chiede allora Epimeteo a Prometeo d’esser lui a distribuire: “E quando avrò finito, - gli dice, - vieni a osservare”. Riesce a persuaderlo, e così si mette a distribuire. Ed ecco che ad alcuni esseri dava forza senza velocità, mentre forniva di velocità i più deboli; alcuni armava, altri faceva inermi, ma escogitando per loro qualche altro mezzo di salvezza. E a quelli che rinchiudeva in un piccolo corpo, dava ali a fuggire o sotteraneo rifugio; e a quelli che dilatava in grandezza, con ciò stesso dava un mezzo di difesa. E tutto il resto così distribuiva, secondo una legge d’equilibrio; per evitare che alcuna specie venisse distrutta. Dopo che li ebbe provvisti dei mezzi di difesa contro le distruzioni reciproche, immaginò delle comodità per proteggerli dalle stagioni; così li rivestì di folti peli e di spesse pelli, sufficienti a preservarli dal freddo, e buone anche contro il caldo; e inoltre adatte a servir da coperta propria e connaturata a ciascuno, per quando si mettessero a giacere. E sotto ai piedi, agli uni pose zoccoli, ad altri unghie e pelli dure e senza sangue; e poi, a chi procurava un alimento, a chi un altro; ad alcuni erba, ad altri frutti degli alberi, ad altri ancora radici. E ce n’è cui ha dato per cibo la carne di altri animali; e ad alcuni assegnò scarsa riproduzione, ad altri, divorati da questi, la dette abbondante, per assicurare la conservazione della specie.
Ma ecco che Epimeteo, che era un po’ sciocco, senza accorgersene spese tutte le facoltà per gli esseri irragionevoli, mentre gli rimaneva ancora da fornire il genere umano; e non aveva che dargli. Mentre è lì nell’impiccio, ecco che viene Prometeo a esaminare la distribuzione; e vede gli altri animali forniti convenientamente di tutto, e l’uomo invece nudo, scalzo, senza giaciglio, senz’armi; e già s’era al giorno fatale, nel quale doveva anche l’uomo uscire dalla terra alla luce. Allora Prometeo, non sapendo più qual mezzo di difesa inventare per l’uomo, ruba la perizia tecnica di Efesto e di Atena insieme col fuoco (che separata da questo, era impossibile a chiunque o acquistarla o servirsene) e la regala all’uomo. In tal modo l’uomo ebbe si la sapienza per la vita pratica; ma non possedeva la sapienza politica, che questa era presso Zeus; né a Prometeo era più lecito entrare nell’acropoli, dimora di Zeus; (per di più le guardie di Zeus facevan proprio paura). Invece, che fa ? entra di nascosto nella casa dove Atena e Efesto lavoravano insieme, e rubata l’arte ignea di Efesto e l’altra propria di Atena, le dà all’uomo, che in tal modo si procurò gli agi della vita. Però più tardi Prometeo, a quanto si racconta, dovette scontar la pena del furto. Dopo che dunque l’uomo divenne partecipe della condizione divina, anzitutto, unico tra gli animali, credetti negli dei, ed eccolo a erigere altari e immagini sacre. Poi con l’arte ben presto articolò la voce in parola, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e scoprì gli alimenti che ci dà la terra. In tali condizioni da principio gli uomini vivevano sparsi, perché non c’eran città; sicché perivano uccisi dalle fiere, perché erano in ogni senso più deboli di quelle; e la perizia pratica, se bastava loro come aiuto alla produzione del cibo, era insufficiente nella lotta contro le fiere; ché non avevano ancora l’arte politica, di cui la bellica è parte. Cercarono allora di radunarsi e salvarsi fondando città; ma quando facevan tanto di raccogliersi, si recavano offesa tra loro, appunto perché non possedevano l’arte politica; sicché di nuovo si disperdevano, e perivano. Allora Zeus temendo per la nostra specie, che non andasse tutta in rovina, manda Ermes a portare agli uomini Rispetto e Giustizia, perché fossero ordinatori delle città e vincoli conciliatori di reciproco affetto. Domanda Ermes a Zeus in qual modo debba distribuire Giustizia e Rispetto agli uomini: “Debbo distribuirli come furon distribuite le arti ? Per queste si fece così: un solo medico basta per molti ignoranti di medicina; e così per le altre professioni.
Anche Giustizia e rispetto debbo assegnarli in questo modo, o debbo darne a tutti?” A tutti, - rispose Zeus - e che tutti ne partecipino; ché se solo pochi li avessero, come avviene per le altre arti, le città non potrebbero esistere. E fà pure una legge a nome mio, che chi non è capace di accogliere in sé Rispetto e Giustizia, sia ucciso come peste della città».(3)
La scienza secondo questa concezione è una risposta sociale, ma non di individui, secondo la loro discrezione, ad uno stato di conflitto “uomo-natura”, “uomo-uomo”.
Il sapere vuoi come scienza, vuoi come tecnica, deve costruirsi per portare in uno stato naturale di conflitto un ordine artificiale.
La scienza-tecnica deve portare un ordine artificiale, umano, dove c’è il caso, o, come si scrive negli scritti ippocratici, l’autòmaton, vuoi nello stato di conflitto naturale, vuoi nello stato di conflitto sociale, nel quale uno stato sociale in crisi, per essere difeso e conservato viene proclamato come stato naturale, immutabile.
Questa
concezione, fondata sul principio per cui la scienza-tecnica nasce come risposta sociale ad uno stato di
conflitto, accettata, conservata e variamente discussa nel tempo, a seconda delle circostanze storiche, ci porta a parlare di tradizione di pensiero.
La contrapposizione a questa tradizione di pensiero può ben essere illustrata dal seguente passo platonico delle Leggi, opera della vecchiaia, che raccomando di leggere attentamente:
«Ateniese (Platone): dicono alcuni che tutto
ciò che è, che è stato, e che sarà dipende in parte dalla natura, in
parte dall’arte, in parte dal caso.
Clinia: Non è vero.
Ateniese: Può darsi che
questi essendo sapienti abbiano ragione. Seguiamo il loro ragionamento e
vediamo che cosa mai anche si trovano a pensare quelli che stanno dalla loro
parte.
Clinia: Vediamo.
Ateniese: Le cose più
grandi e importanti, dicono, fra quelle sopra elencate e le più belle, sembra
le facciano la natura e il caso, e che l’arte faccia quelle meno
importanti e più piccole, l’arte la quale prendendo dalla natura i principi
originari delle opere prime e più grandi, plasma e costruisce tutto ciò che è
più piccolo e secondario e che noi tutti siamo chiamiamo <opera d’arte>.
Clinia: Che vuoi dire.
Ateniese: Sarò più chiaro
così. Essi dicono che il fuoco, l’acqua, la terra e l’aria sono tutti dalla
natura e dal caso, nessuna di queste cose viene dall’arte, che tutti i corpi
che vengono dopo di questi vengono all’essere tutti per opera di quegli
elementi primi che sono tutti corpi inanimati. Essi dicono che ciascuno di
questi essendo mosso e spostato a caso dalla forza propria a ciascuno, là dove
si incontrano e in un certo modo conveniente e familiare adattandosi il caldo
al freddo, il secco all’umido il molle al duro, e così tutte le altre cose che
per la mescolanza dei contrari, di necessità, quando ciò poté accadere, si
fusero insieme, ivi, proprio per questa stessa causa, in tal modo essi hanno
dato origine all’intero cielo, e a tutto ciò che è nel cielo, e a tutti gli
animali, e a tutte le piante, una volta che tutte le stagioni per la causa di
cui si è detto vennero ad esserci, e tutto ciò, non per l’azione, dicono di
una mente, né di un dio o di un’arte, ma come stiamo riferendo noi, si fonda
sulla natura e sul caso. L’arte è venuta dopo e discende da queste cose ed è
posteriore a loro, essendo essa stessa cosa mortale fatta da cose mortali, e
ha, alla fine di questa serie, generato dei giochi, che non partecipano della
verità, ma sono certe immagini appartenenti allo stesso genere delle stesse
arti, da cui derivano immagini, quali genera l’arte del dipingere e la musica,
e quali generano le altre arti loro compagne. E le arti che producono cose di
serio, dicono, essere quelle che uniscono la loro potenza a quella della
natura, quali la medicina, l’agricoltura e la ginnastica. E la politica dicono
ha pochi contatti con la natura, prevale in essa l’arte; così come tutta la
legislazione non è per natura, ma per arte, e le leggi che essa stabilisce non
sono vere.
Clinia: Caro mio, questi cominciano col dire
che gli dei sono frutto dell’arte degli uomini, non sono per natura,
sono per certe leggi e convenzioni, diversi da luogo a luogo, come cioè ciascun
popolo convenne con sé stesso nello stabilirli per convenzione, come fissando
una legge. E così per la bellezza; è diverso ciò che è bello per natura e ciò
che è bello per convenzione e per legge, e la giustizia non è affatto per natura, ma per gli
uomini, sempre in contestazione tra loro per tutta la loro esistenza e mutando
sempre ciò che appartiene alla giustizia, ciò che mutando a questo proposito, e
quando lo mutano, proprio allora, ciascuna appunto di queste cose, ha valore
sovrano, e tutto ciò viene all’essere per l’arte e per le leggi, ma non per un
qualche aspetto della natura. E, amici, tutto ciò che è proprio di quegli
uomini sapienti, tali ritenuti presso i giovani, uomini che sono semplici e
privati prosatori o anche poeti, dicono che la massima giustizia è ciò in cui
qualcuno riesce ad imporsi con la violenza. Di qui gli atti di empietà che
cadono sopra i giovani i quali agiscono come se gli dei non fossero quali la
legge comanda che si debbano pensare, di qui le rivolte di quelli che
trascinano per questa ragione verso la giusta vita secondo natura che è vivere
dominando gli altri e non servire mai gli altri nei limiti voluti dalle leggi.
Clinia: Quale dottrina, ospite, hai esposto
e quanta rovina propria di questi giovani uomini, sia pubblicamente per gli
stati sia in privato per le famiglie!
Ateniese: È vero, Clinia,
quello che dici. Che cosa credi che dovrà fare dunque il legislatore davanti
ad una situazione da così lungo tempo preparata? Dovrà soltanto
minacciare a tutti, levandosi in piedi nella città, che se i cittadini non
affermeranno che gli dei ci sono e non li penseranno ritenendo che essi siano
quali dice che sono la legge - e lo
stesso discorso sulla bellezza e sulla giustizia e tutta le cose più
importanti, tutte che hanno relazione alla virtù e al vizio, lo stesso discorso
che dice che bisogna per tutto ciò agire pensando nello stesso modo in cui il
legislatore scrivendo le leggi suggerisce - dovrà dunque minacciare e dire che, se qualcuno non si offre facile da
persuadere alle leggi, l’uno avrà la morte come inevitabile pena, un altro sarà
punito con la frusta e il carcere, un altro con la privazione dei diritti
civili, altri con la confisca dei beni e l’esilio? Non dovrà usare per
gli uomini, e unire ai suoi discorsi, alcuna forma di persuasione nel momento
stesso in cui dà loro le leggi, in modo da conferire nella misura del possibile
a questi discorsi un carattere più dolce?
Clinia: No ospite, in nessun modo, ma se
possibile persuadere anche di poco, in queste cose, il legislatore, che sia
degno anche di una piccola stima, non deve in modo alcuno stancarsi di farlo, e
come si suol dire, emettendo tutta la sua voce deve col suo discorso farsi
protettore e sostenitore dell’antica legge e dire che ci sono gli dei e
tutto il resto che tu hai detto ora, e difendere ed aiutare la legge stessa e
l’arte affermando che sono per natura ambedue queste cose o che sono ambedue
non meno della natura, se mai sono prodotti dell’intelletto che nascono sulla
base di un discorso corretto, discorso che mi pare tu dica e io credo ora a te ».
(Platone, Leggi. Libro X.IV 888)
Nell’ampio brano platonico riportato il precedente paradigma pitagorico-democriteo è completamente rovesciato.
La realtà naturale e sociale ha un unico ordine fisso.
C’è una scienza entro cui è codificato quest’ordine, la teologia astrale, di cui è depositario il Consiglio Notturno, che ne conserva e salvaguarda l’integrità, la messa in discussione, come nel caso in cui si negasse l’origine divina dell’ordine, si affermasse la presenza del caso e del conflitto nell’ordine naturale e sociale, si riconoscesse l’autonomia della scienza-tecnica di apportare modifiche umane, non ispirate a quell’ordine divino, a questo caos o conflitto, si assumesse il criterio del miglioramento o del progresso nell’ordine naturale e storico, attraverso l’intervento umano.
Nelle Leggi la fiducia nella scienza-tecnica, la scienza politica, è capovolta: solo ritornando ad un ordine divino miticamente trascritto in un’età anteriore, la società umana può riscattarsi e salvarsi dal perenne conflitto.
Uno studioso di Platone ha scritto:
«Mentre dal Protagora al Politico lo stato dell’uomo sprovvisto di tecniche per affrontare la natura era presentato con i caratteri della precarietà e dell’insicurezza, qui l’epoca pretecnologica è qualificata dalla sicurezza nei confronti della natura. E ciò, come si vedrà meglio in seguito, dipende dal fatto che, in questa fase della speculazione platonica, la natura, interpretata come frutto di un ordinamento divino, non presenta alcuna ostilità nei confronti dell’uomo.».(4)
Per concludere
secondo questa tradizione di pensiero la scienza non nasce dal conflitto o come
risposta sociale al conflitto, come costruzione umana, capace di promuovere e
migliorare l’evoluzione naturale e storica attraverso il suo stesso progresso,
ma come sapere già concluso, inscritto nell’ordine naturale e storico, di cui è
interprete il Consiglio notturno, i
pochi, garanti di quell’ordine naturale e sociale, fisso, voluto da una
mente divina, indiscutibile e immodificabile, che poi in verità è quello da essi voluto, ma attribuito a Dio.
5. Gli elementi della scienza e le tradizioni
di pensiero
5.1 Quale forma-scienza si è sviluppata nel tempo, da Pitagora, a Parmenide, a Democrito al sofista Protagora, ad Euclide, ad Archimede ecc, quali gli elementi che l’hanno costituita, tali da essere ripresi, da Copemico, Galilei, Newton, dai giusnaturalisti, dagli illuministi, da Marx, cioè da coloro che hanno legato la scienza al mutamento e al conflitto per rivoluzionare un’altra tradizione di pensiero, entro cui si era costruito un altro modo di fare scienza e di svilupparla, quella platonico-aristotelica?
La prima tradizione di pensiero si è costruita entro una cultura e una pratica sociale del conflitto.
Della “cultura” ne ho parlato nel precedente paragrafo, faccio ora qualche cenno alla seconda, la quale si è sviluppata entro la dinamica storica delle poleis, delle città-stato, lungo le coste del Mediterraneo centro-orientale tra il VI e il III sec. a.C., per parlare poi degli elementi della forma-scienza.
Ebbene è su queste coste che in questi secoli nasce e si sviluppa l’esperienza politica delle poleis.
Eoli, Doni e
Ioni, i cosiddetti “popoli del mare”, provenienti dalle terre dell’Europa
centrale, insediati ai confini dei grandi imperi orientali, ricchi di storia e
civiltà, a contatto con i popoli indigeni disgregati e deboli, si trovano a
vivere, in questo periodo, su queste coste un
momento storico eccezionale.
Affrancatisi dalle rigide tradizioni delle terre d’origine, a confronto, a loro volta con popoli, liberatisi dall’opprimente dominio degli imperi in crisi vicini, assimilando, però, quanto di meglio questi avevano prodotto, Eoli, Doni e Ioni danno vita ad un’esperienza di cultura e di civiltà, che darà i suoi splendidi frutti nei secoli successivi al VII-VI sec. a.C.
È su queste coste che in questi secoli nasce e si sviluppa l’esperienza politica delle poleis, delle piccole città-stato, riprende e si diffonde l’uso della scrittura, grazie all’assimilazione dell’alfabeto fenicio, fornito solo di consonanti, a cui vengono aggiunte le vocali, viene introdotto, grazie allo sviluppo economico e tecnologico, l’uso della moneta come mezzo di scambio, al posto del baratto, allora vigente sulle coste dell’attuale Grecia e in tutto l’Oriente.
Una miriade di fiorenti poleis costellano queste coste; si erge su tutte per grandezza e splendore Mileto, massimo emporio commerciale del Mediterraneo centro-orientale. Grazie alla fertilità del suo suolo, prosperano in essa agricoltura e pastorizia, per cui sono famose le lane del suo gregge. Lo straordinario sviluppo commerciale, le innovazioni tecnologiche, grazie anche alla lavorazione del ferro, fornito dai Fenici, e del legname, alle nuove tecniche di costruzioni nautiche, importate dagli stessi e migliorate, ma soprattutto i forti fermenti sociali e politici, che lacerano le poleis, portano ad una nuova ondata migratoria, questa volta verso il Mediterraneo centrale, verso le coste sicule ed italiche.
È appunto quella che è stata chiamata la seconda colonizzazione greca. I nuovi coloni sono soprattutto contadini, in cerca di terra, desiderosi di affrancarsi dalla opprimente servitù aristocratica, figli cadetti di famiglie aristocratiche in cerca di novità e di avventura, membri di fazioni politiche sconfitte.
“Nelle nuove terre i coloni si trovarono a godere di una libertà di iniziativa sconosciuta nella patria di origine. Ora poco valeva la nobiltà dei natali; assai più contavano le capacità dei singoli.” (F. Di Tondo, G. Guadagni, La storia antica, p.215, Torino).
È dentro queste profonde trasformazioni che si determinarono durissimi scontri socio-economici tra la classe povera, i contadini, ridotti sempre più alla servitù, per debiti, la nuova classe emergente, i mèsoi, gli “uomini di mezzo”, i nuovi ricchi, cioè mercanti navigatori, artigiani, e la vecchia classe aristocratica, detentrice del potere economico, fondato sulla proprietà delle terre e del potere politico.
Il conflitto contro il vecchio ordine aristocratico è politico, poiché si reclamano diritti di cittadinanza più estesi; è sociale, poiché si chiede una nuova distribuzione delle terre, la cancellazione dei debiti, una più equa amministrazione della giustizia; è culturale e religioso, poiché si criticano le vecchie gerarchie, i vecchi valori, miti, credenze, usi e tradizioni.
Si chiedono leggi certe e scritte (nomòi), grazie anche alla nuova diffusione della scrittura contro arbitri e soprusi aristocratici, e consuetudini incerte e contrastanti. Compaiono nelle nuove terre conquistate i primi legislatori (nomoteti), come Diocle a Siracusa, Zaleuco a Locri, Caronda a Catania, quest’ultimi discepoli di Pitagora, poiché è meno forte il potere della tradizione. Ma questi, come Filolao, pitagorico, a Tebe, Ligurgo a Sparta, Draconte e Solone ad Atene, Pittaco a Mitilene, ecc...., si diffondono in tutto il Mediterraneo centro-orientale.
Dove i conflitti non vengono placati, grazie alla redazione delle leggi scritte, popolo minuto e mèsoi appoggiano tiranni contro la vecchia classe aristocratica. L’esigenza di eunomia (buon governo) e di isonomia (leggi uguali per tutti) non può non investire i pilastri culturali e religiosi su cui si fonda il vecchio ordine.
Da qui la proclamazione di una nuova sapienza, laica e mondana, la sofia, che non sta più ad indicare la vecchia abilità del vate, che canta le origini mitiche e divine della classe aristocratica, le sue gesta eroiche, che si esprimono nella forza e nel coraggio, ma soprattutto nella supremazia delle origini.
La nuova concezione della sofia non è più quella dei vecchi vati, Omero ed Esiodo. Ecco quanto si dice e si scrive.
Il tutto non è generato da dei,
gli astri non hanno potere divino, gli eventi naturali non sono determinati dai
voleri divini, il progresso non è dono degli dei, ma conquista degli uomini
(scrive il sofós Senofone di Colofone: «Non è che da principio gli dei abbiano
rivelato tutte le cose ai mortali, ma col tempo essi cercando ritrovano il
meglio». D.K. 21.B.18)(1)
Le credenze religiose hanno carattere antropomorfico, per cui gli dei sono creazioni umane; la vera sofia è quella politica, finalizzata al buon governo della città.
La sofia, che si sviluppa sulle coste ioniche
ed italiche, è oltre che abilità teorica, è anche abilità pratica, tecnica di
osservazione e di esperimento, capacità politica nel buon governo della città.
I nuovi sofói sono Senofone di Colofone, Alcmeone di Crotone, Talete, Anassimene, Anassimandro di Mileto, Empedocle di Agrigento, Ippocrate di Cos, ecc.
Giustamente
alcuni storici hanno evidenziato come sulle coste ioniche ed italiche, la
sofia, concepita nello stesso tempo, come abilità tecnica, capacità di governo,
ma anche di elaborazione teorica, si sia avvalsa nell’interpretazione dei
fenomeni naturali di modelli tecnici o
politici, già sperimentati dalle popolazioni ioniche ed italiche.
Ed è quanto fà, come già
Anassimene ed Anassimandro, Alcmeone,
sofós italico e pitagorico, che applica il concetto di isonomia dal campo politico al campo naturale e medico.
5.2 Tra questi emerge Pitagora di Samo, che inizia la scuola italica sulle coste dell’Italia meridionale, ponendo i primi pilastri o i primi elementi del fare scienza e del suo progredire.
Il primo elemento su cui poggia il fare scienza è l’affermazione della superiorità della ragione sui fatti empirici, in quanto oggetto dei sensi.
C’è una testimonianza di Aristotele circa il modo di procedere dei Pitagorici nel fare scienza, anche se da questi viene affermata per criticarli, ma che invece ci dà tutto il senso del loro modo di fare scienza. «Essi, scrive sul suo De Caelo, ricercano la ragione e la causa non riportandosi a ciò che è oggetto di osservazione, ma piuttosto riconducendo a forza i fenomeni a certe loro ragioni ed opinioni, e tentando in questo modo di armonizzarli e condurli a un tutto ordinato»(2)
Le sensazioni per i Pitagorici sono caos, disordine; il mondo dei fatti empirici è mutevole e contraddittorio; i fatti ora appaiono in un modo, ora in un altro; quale è quello vero? Compito della ragione che vuole fare scienza, creare l’episteme, cioè qualcosa di stabile, di conoscibile, di comunicabile, e quindi di criticabile e accrescibile, è quello di costruire un cosmos, un modello razionale ordinato, che faccia riferimento a enti e strutture invisibili, grazie a cui interpretare le cose visibi.
Il reale, l’oggettivo, allora non può essere
l’apparente, perché mutevole, instabile e contraddittorio, ma il razionale, o l’ente concepito razionalmente.
Esso va però testimoniato dalle cose visibili, le quali non vanno assunte acriticamente.
La natura sensibile va forzata, costretta a manifestare il fatto vero, razionalmente dedotto, contro il fatto apparente, volgare, complesso, perciò coperto da infinite connessioni.
C’è un trattatello nel corpus ippocratico, Sull’arte, del V sec. a.C., a nostro parere di sicura provenienza dalla tradizione di pensiero pitagorico-sofistico-parmenidea(13), dove questa concezione, secondo la quale nelle conoscenze scientifiche un ruolo centrale deve avere la ragione, ma coadiuvata dall’uso dell’esperimento, del forzare, costringere la natura a parlare, ad esprimere l’invisibile attraverso le cose visibili artefatte, manipolate e destrutturate, viene chiaramente e lucidamente espressa e difesa.
Si scrive infatti in questo:
«Per essere conosciute (le malattie) tanto bene come se fossero viste con gli occhi, richiedono grandi sforzi e tempo non minore: giacché ciò che sfugge alla vista degli occhi dev’essere posseduto con gli occhi della mente»(4)
E ancora:
«Quando tali cose (le malattie) non si offrono alla comprensione, e la natura stessa non si disvela spontaneamente, la medicina ha scoperto mezzi di costrizione, con i quali la natura è forzata, pur senza suo danno, a rivelarsi: e quando s’è rivelata fà chiaro, a chi conosce i metodi dell’arte, che cosa si debba fare»(5)
Qui si vede come il concetto di scienza sia legato, non al concetto di ritorno all’origine, ma di avanzamento verso il meglio, attraverso lo sforzo, l’uso della ragione, il tempo e l’esperimento. La ragione qui è intesa in senso parmenideo; ma di questo più avanti.
Grazie all’elemento razionale, i Pitagorici hanno consegnato alla storia della scienza scoperte, conoscenze, principi, non altrimenti possibili con l’uso delle mere osservazioni.
Solo facendo appello alla ragione, i pitagorici siracusani Iceta ed Ecfanto possono sostenere nel V sec. a.C. la rotazione della terra attorno a se stessa, contro l’evidenza dei sensi, del senso comune e di quanto trasmesso dalla tradizione, o che la terra fosse rotonda. Solo facendo riferimento ad una teoria razionale, i pitagorici hanno potuto scoprire che la stella del mattino e la stella della sera facessero riferimento ad uno stesso pianeta, Venere. Solo grazie a questa tradizione di pensiero razionale Aristarco ha potuto sostenere la teoria eliocentrica. Per non parlare di tante scoperte in molti altri campi, come per esempio la natura irrazionale del rapporto tra il lato del quadrato e la sua diagonale solo visibile con l’uso della dimostrazione razionale.
È a questo modo di procedere razionale che i Galilei e i Copernico si rifaranno nella loro cosiddetta rivoluzione scientifica.
È alla ragione, alla forza razionale dei suoi principi e delle sue deduzioni che Galilei si appella, prima ancora che a fatti empirici, per sostenere le sue convinzioni contro gli aristotelici.
Leggiamo alcuni passi profondi di Vailati, valente storico della scienza, a proposito della potenza del metodo deduttivo (razionale) nella scoperta scientifica, la cui paternità è riconosciuta a Galilei e alla scienza moderna, ma che a nostro parere, va invece riconosciuta agli scienziati antichi, che non sono né Platone, né Aristotele, quelli a cui Vailati fa principalmente riferimento critico, ma a Pitagora, i Pitagorici, Eudosso, Archita, Iceta ed Ecfanto, Democrito, Euclide, Archimede, ecc.ecc.
«La storia delle scienze ci mostra chiaramente che, tra le cause che hanno condotto gradualmente alla sostituzione dei moderni metodi sperimentali al posto degli antichi metodi di semplice osservazione passiva, va annoverata, come una delle più importanti, l’applicazione della deduzione anche a quei casi nei quali le proposizioni prese come punto di partenza erano considerate come più bisognevoli di prove che non quelle a cui si arrivava, e nei quali quindi erano queste ultime che dovevano comunicare, alle congetture fatte, la certezza che attingevano direttamente dal confronto coi fatti e dalle verifiche sperimentali. L’impossibilità di trovare, nei fatti spontaneamente presentatisi all’osservazione, il materiale adeguato per la verifica delle conclusioni a cui spingevano deduzioni che, per quanto corrette e rigorose, non erano basate su premesse riconosciute per sè stesse meritevoli di fiducia incondizionata, come quelle dei matematici, fece nascere il desiderio e il bisogno di allargare con artifici la sfera dei fatti da utilizzare per controllo delle teorie, e contribuì, più di qualunque altra circostanza, a portare all’impiego sistematico di quell’osservazione di fatti artificiali provocati allo scopo di osservarli, che costituisce l’esperimento propriamente detto. In altre parole, i fisici antichi non si sentivano spinti a sperimentare soprattutto perché, essendo più intenti a garantirsi della certezza delle proposizioni da cui prendevano le mosse che non della verità di quelle che da esse deducevano, non potevano aver ragione di domandarsi che cosa avvenisse in casi diversi da quelli che, presentandosi spontaneamente alla loro osservazione, suggerivano ad essi immediatamente le generalizzazioni su cui basavano i loro ragionamenti. Onde è lecito affermare, che fu in certo senso l’applicazione sempre più vasta e sistematica della deduzione allo studio dei fenomeni della natura, che fornì il primo impulso allo sviluppo dei metodi sperimentali moderni, e che non è da attribuire al caso se i più eminenti iniziatori di questi furono anche nello stesso tempo i più grandi instauratori e fautori dell’applicazione alle scienze fisiche di quel potente strumento di deduzione che è la matematica.
Quella qualità mentale che a ragione fu designata come la più preziosa e necessaria per bene osservare, l’attitudine cioè a meravigliarsi a proposito, esige, come condizione indispensabile al suo sviluppo, la disposizione a confrontare coi fatti tutte le conseguenze, anche remote e artificiose, dei nostri preconcetti. Senza questa disposizione noi non riusciamo a distinguere, nell’immenso caos difatti accessibili alle nostre esplorazioni, quali quelle il cui esame e la cui constatazione può determinare delle modificazioni importanti alle nostre credenze (gli experimenta crucis di Bacone), od allargare realmente la sfera delle nostre cognizioni.
Non è forse stato abbastanza notato, da quelli che si occuparono di storia della Meccanica, che le prime e più decisive esperienze che determinarono l’avanzamento di questa scienza al di là del punto in cui essa era stata portata dai Greci, furono considerate, da quelli che prima le intrapresero, non tanto come delle interrogazioni rivolte alla natura quanto piuttosto delle provocazioni, dei cimenti, per usare la parola divenuta poi classica, a cui essi l’assoggettavano per sfidarla a rispondere diversamente da quella che essa avrebbe dovuto. In una gran parte anzi dei casi importanti, le esperienze non si presentarono che come delle semplici verifiche di conclusioni alle quali gli esperimentatori erano già arrivati indipendentemente da esse. Grande sarebbe stato il loro stupore se le risposte della natura non fossero state conformi alle loro anticipazioni, e tale assenza di conformità, allorquando si verificò effettivamente, li indusse piuttosto a domandarsi perché gli esperimenti non erano riusciti, che non a dubitare immediatamente della legittimità delle loro presunzioni. Essi sembrano perfino, talvolta essersi indotti all’esperimento più per convincere gli altri che per convincere sé stessi, e perché l’appello ai fatti era per loro, in certo modo, la linea di minor resistenza per penetrare nella dura cervice dei loro avversari, ai cui preconcetti essi non potevano contrapporre senz’altro i propri, senza appoggiare questi a qualche base meno soggettiva di quanto non fosse la loro propria convinzione individuale. Non sarà superfluo citare qui qualche fatto concreto in appoggio a queste considerazioni. Tra i molti che a tale scopo mi offrirebbe la storia della Meccanica, scelgo il seguente che ha per di più il vantaggio di presentare in chiara luce il contrasto tra l’induzione e la deduzione, com’era concepito ed espresso da Galileo. Nelle postille al libro intitolato Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco, filosofo peripatetico, Galilei combattendo l’opinione degli Aristotelici, che la velocità di due gravi cadenti stiano nella stessa proporzione dei loro pesi, alla quale oppone la sua, che cioè tali velocità non dipendano affatto dai pesi, scrive come segue
< Resta che io produca le ragioni che, oltre alla esperienza, confermano la mia proposizione, sebbene per assicurar l’intelletto, dove arriva l’esperieiiza non è necessaria la ragione, la quale io produrrò per vostro beneficio, si ancora perché prima fui persuaso dalla ragione che assicurato dal senso. Io mi formai un assioma da non esser revocato in dubbio da nessuno, e supposi, qualsivoglia corpo grave discendente aver nel suo moto grado di velocità dalla natura limitato ed in maniera prefisso. Che il volerglielo alterare col crescere la velocità o diminuirgliela, non si potesse fare senza usargli violenza per ritardargli o concitargli il detto suo limitato corso naturale. Fermato questo discorso, mi figurai colla mente due corpi eguali in mole e in peso, quali fossero due mattoni, li quali da una medesima altezza in un medesimo istante si partissero; questi non si può dubitare che scenderanno con pari velocità, cioè coll’assegnata loro dalla natura, la quale se da qualche altro mobile dee loro essere accresciuta, è necessario che questo con velocità maggiore si muova. Ma, se si figureranno i mattoni nello scendere unirsi ed attaccarsi insieme, quale sarà di loro quello che, aggiungendo impeto all’altro, gli raddoppi la velocità, stantechè ella non può essere accresciuta da un sopravveniente mobile, se con maggiore velocità non si muove? Conviene quindi concedere che il composto di due mattoni non alteri la loro prima velocità.> Dal che Galilei trae la conclusione, puramente deduttiva, che se due corpi di egual materia e di diverso peso cadono con diversa velocità, ciò non può dipendere dalle loro differenze di peso, ma tutt’ al più dalla loro differenza di forma la quale fa sì che il mezzo nel quale discendono opponga diversa resistenza alla loro caduta.
La scoperta della legge d’inerzia ci dà un altro esempio, non meno istruttivo, d’una conquista della scienza ottenuta col predominante intervento della deduzione. L’impossibilità di giungere ad essa per mezzo di semplici induzioni basate sull’osservazione diretta è riconosciuta chiaramente dallo stesso Galilei, il quale si esprime in proposito colle seguenti parole:
<Io dico che nessuna cosa si
muove di moto retto. Cominciamo a ricercar discorrendo. I moti di tutti i
corpi celesti sono circolari; le navi, i carri, i cavalli, gli uccelli tutti si
muovono di moto circolare intorno al globo terrestre. I moti delle parti degli
animali sono tutti circolari, e insomma noi ci riduciamo a non trovar altro che
gravia deorsum et gravia sursum che
sembrino muoversi rettamente. Ma nè di questi siamo sicuri se prima non si
dimostri che il globo terrestre sia immobile.> (Dialogo dei massimi sistemi, Giornata seconda)
È noto come a render plausibile la sua ipotesi della costanza della componente orizzontale della velocità in un grave lanciato orizzontalmente, Galilei ricorra spesso alla considerazione del piano orizzontale come caso limite di due serie di piani inclinati in senso opposto, e sui quali quindi una palla lanciata in una data direzione tenderebbe evidentemente a muoversi con velocità rispettivamente crescenti o decrescenti a seconda del verso dell’inclinazione dei piani stessi. Dal che egli conclude che la detta palla, qualora fosse lanciata sul piano orizzontale, si muoverebbe con velocità né crescente, né decrescente. Ma egli è lungi dal farsi illusione sul valore probatorio di questa esperienza ideale in quanto essa si adducesse per provare quella che ora si chiama la legge d’inerzia. Egli ammette anzi senz’altro che, poiché il detto piano orizzontale non si può fisicamente distinguere da una porzione di superficie terrestre, la quale pure gli Aristotelici ammettevano che fosse sferica, il moto uniforme della palla su di esso è, nei limiti delle possibili osservazioni, perfettamente conforme tanto alla ipotesi formulata poi da Newton come la prima legge del moto, quanto al principio aristotelico della persistenza del moto circolare e uniforme, e della dipendenza delle velocità dei gravi dal loro allontanamento od avvicinamento al punto al quale essi tendono. La legge d’inerzia, non meno di quella dell’attrazione universale, sarebbe probabilmente ancora ignota agli uomini, almeno in tutta la sua generalità, se, per analizzare e spiegare i fenomeni nei quali essa si manifesta, essi non avessero avuto a disposizione altro metodo che quello dell’osservazione e della misura diretta o delle semplici constatazioni sperimentali, per quanto molteplici ed accurate. La conquista di verità così importanti non poteva essere effettuata senza l’esercizio di attività mentali assai più elevate e complicate di quanto non siano i processi di paragone diretto e di generalizzazione basata sul riconoscimento di analogie, al cui rintracciamento il sussidio della deduzione non è necessario»(6) .
Che non sia il fatto empirico l’elemento di fondazione, di controllo e di crescita del fare scienza, ma la ragione, è riconosciuto da C.Bernard, geniale scienziato sperimentale ed epistemologo dell’Ottocento, in questo significativo passo di un suo aureo libretto:
«Io credo che la fede cieca nel fatto che vuole mettere a tacere la
ragione sia altrettanto dannosa per le scienze sperimentali quanto la credenza
cieca nell’intuizione che vuole egualmente far tacere la ragione. Infatti, sia
nel metodo sperimentale come in tutte le altre cose, l’unico criterio positivo è la ragione.»(7)
Questa ragione non si balocca platonicamente a immaginare un altro mondo, l’iperuranio, fatto di perfezioni, oltre quello apparente, imperfetto e mutevole, ma sfida questo mondo apparente ad esibire, a manifestare, forzandolo con l’esperimento, connessioni e strutture interne non percepibili immediatamente attraverso i sensi.
Il metro di paragone e di confronto per la
scienza non è allora il fatto empirico, né come punto di partenza, né come
punto di arrivo, ma il fatto razionalmente costruito, vuoi attraverso
l’elemento razionale assunto come principio del procedimento scientifico, vuoi
attraverso l’elemento di controllo, sia
esso una legge o un fatto singolo, costruito esso stesso attraverso teorie ed
idealizzazioni.
Il razionalista non si lascia sfidare dai fatti empirici, né tanto meno confutare, poiché nella costruzione delle sue teorie (Pitagora usa per primo, secondo le testimonianze, il termine “teoria”) punta a corroborare le sue proposizioni sui fatti scientifici, da esse dedotte, con la forza della verità di altre proposizioni attraverso il tessuto connettivo delle teorie, per cui egli sfida invece i fatti empirici a parlare secondo un altro linguaggio, quello delle sue teorie.
Una
proposizione singolare empirica, che dovesse falsificare una proposizione universale
dedotta dalla teoria, non riceve la sua verità dall’esperienza anche se questa
viene ben fatta, ma da una porzione di
esperienza, la teoria invece non solo trasmette tutta la verità formale delle sue proposizioni alla proposizione
universale, ma corrobora la
proposizione fattuale singolare formale, da essa deducibile, di tutta la sua verità reale.
Una pietra che cade non confuta la legge di Galilei s=1/2 g t2 , ma uno scienziato costruisce una esperienza artificiale, invece, per confermare la legge, poiché questa è corroborata da tutta una teoria, ricca di contenuti reali, di verità reale, quale quella newtoniana.
Allora non i fatti (quali fatti ?!) corroborano una teoria, come pensa Popper, ma una teoria è costruita per corroborare i fatti, cosiddetti empirici, con quelli cosiddetti scientifici, quelli cioè da essa dedotti, e per scoprirne di nuovi che l’esperienza invece non manifesta.
La teoria newtoniana corrobora le leggi
empiriche e di osservazione di Keplero e le innalza da fatti empirici a fatti
scientifici, perché le arricchisce del contenuto reale di tutta la teoria.
Per cui ho scritto in un mio saggio:
«Ecco perché il razionalista è più propenso a forzare i fatti empirici per conformarli ai fatti formali, alla teoria, che non la teoria ai fatti, a conformare la cosa al concetto, che il concetto alla cosa.
L’empirista Aristotele così criticava il razionalismo dei Pitagorici, ai quali dobbiamo tante scoperte nei vari campi delle scienze (matematica, astronomia, acustica, ecc.) mentre nessuna ad Aristotele.
Lo stesso Popper, in fondo, è un
empirista, un aristotelico, poichè sottovaluta il momento della elaborazione e
dello sviluppo del sistema deduttivo, e il suo aspetto razionale,
idealizzazionale nella costruzione degli “elementi” del sistema deduttivo e
quindi della spiegazione scientifica.
Scrive infatti Popper sui sistemi deduttivi:
“Non è il meraviglioso concatenamento deduttivo del sistema che rende razionale o empirica una teoria, bensì il fatto che possiamo esaminarla criticamente, cioè sottoporla a tentativi di confutazione che includono i controlli osservativi; e inoltre il fatto che, in certi casi, una teoria può rivelarsi capace di sostenere queste critiche e questi controlli, fra cui alcuni ai quali non ressero le teorie precedenti, e, talvolta controlli ulteriori e più severi. La razionalità della scienza risiede nella scelta razionale della nuova teoria, piuttosto che nello sviluppo deduttivo delle stesse”.
E sul significato di ‘spiegazione scientifica’ scrive inoltre:
“Dare una spiegazione casuale di un evento significa dedurre un’asserzione che la descrive usando come premesse della deduzione una o più leggi universali, insieme con alcune asserzioni singolari dette condizioni iniziali”».(8)
Quale teoria è ben costruita dal punto di vista razionale, pronta a sfidare i fatti, a forzarli a cercarne di nuovi, più che farsi miseramente confutare, lasciarsi recintare, circoscrivere limitare nell’ambito dell’empirico, dell’immediatamente accertabile dal punto di vista osservativo ?
L’elemento razionale, ecco il secondo elemento del fare scienza, deve rispettare il Principio di non contraddizione; se di un qualcosa si dice che esso è, non si può affermare nello stesso tempo che esso non è, poichè questo è assurdo, e l’assurdo è l’impossibile, il nulla, ciò di cui non si può dire che esiste, che è reale.
È questa la proibizione di Parmenide di Elea, di scuola italica, di formazione pitagorica, stando a molte testimonianze.
«Tu mai costringerai ad essere
ciò che non è» F. 7 (9)
Di ciò che è contraddittorio, di cui si dice che è e non è, cioè l’apparente sensibile, non ha senso dire che esiste, che appartiene all’essere.
Allora “pensare è lo stesso che essere” afferma
categoricamente Parmenide. Il nostro enuncia così il principio della scienza,
cioè del costruire l’oggettività
della scienza.
Se il fatto empirico è mutevole, ora è, poi non è, non su di esso si può costruire l’oggettività della scienza, una valenza conoscitiva oltre i punti di vista personali, soggetti al mutamento spazio-temporale, al relativismo dei sensi, che dicono ora in un modo ora in modo contrario, pronunciano vane parole, si rinchiudono nel soggettivismo solipsistico delle proprie esperienze e del proprio linguaggio.
Con queste
esperienze e linguaggi personali non si può costruire la comunicazione interpersonale, cioè la possibilità del confronto, della critica e della crescita delle
conoscenze, che sono i correlati sociali del fare scienza, i suoi aspetti
sociali; il principio della scienza deve essere qualcosa che va oltre i
linguaggi naturali, oltre le esperienze personali, cioé l’idea, il concetto.
Siamo così al terzo elemento del fare scienza; il concetto
è il principio della scienza,
o come si dice che lo chiamasse Democrito “l’atomo-idea”.
Ecco quanto egli diceva secondo le testimonianze:
«Diotimo riferisce che secondo lui [Democrito] tre sono i criteri di giudizio: [1] i dati fenomenici, per la comprensione delle cose visibili...; [2] il concetto, per la ricerca scientifica...; [3] le passioni, per quel che si deve desiderare o fuggire: perchè ciò verso cui ci sentiamo attratti è da seguire, ciò da cui ci sentiamo respinti è da fuggire.»(10)
«Democrito chiama gli elementi “idee”. Democrito dice che i principi delle cose sono le “idee”.»(11)
Che il significato di elemento nei Pitagorici non faccia riferimento a qualcosa di empirico e sensibile, (come l’acqua, l’aria, ecc.ecc.), ma di razionale, lo si può constatare attraverso le seguenti testimonianze di Aristotele seppure vaghe e pasticciate.
«I cosiddetti
Pitagorici si dedicarono per primi alle scienze matematiche, facendole
progredire; e poichè trovarono in esse il proprio nutrimento, furono del parere
che i principi di queste si identificassero con i principi di tutte le cose. I
numeri occupano naturalmente il primo posto tra i principi, e i Pitagorici
credevano di scorgere in quelli, più che
nel fuoco o nella terra o nell’acqua, un gran numero di somiglianze con le
cose che esistono e sono generate, e asserivano che una determinata proprietà
dei numeri si identifica con la giustizia, un’altra con l’anima e con
l’intelletto, un’altra ancora col tempo critico, e che lo stesso vale, presso a
poco, per ciascuna delle proprietà numeriche, e individuano, inoltre, nei
numeri le proprietà e i rapporti delle armonie musicali e, insomma, pareva loro
evidente che tutte le altre cose modellassero sui numeri la loro intera natura
e che i numeri fossero l’essenza primordiale di tutto l’universo fisico; e per
tutte queste ragioni essi concepirono gli
elementi dei numeri come elementi di tutta la realtà, e l’intero cielo come
armonia e numero; e quante concordanze con le proprietà e le parti del cielo e
con l’intero ordine universale essi riscontravano nei numeri e nelle armonie,
le raccoglievano e le adattavano al loro sistema»(12)
Il terzo elemento della scienza è così il costruire “elementi che siano razionalmente coerenti”, non soggetti cioè a contraddizioni, secondo i dettami di Pitagora, Parmenide e di Democrito.
A quali condizioni questo è possibile?
Quali gli altri elementi necessari per fare scienza?
L’elemento necessario, il quarto, al costituirsi
dell’<elemento razionalmente coerente> è la costruzione di un linguaggio
ad esso adeguato, cioè un linguaggio
artificiale, con
significati univoci, che elimini ambiguità e vaghezze di significato, senza il
quale la comunicazione interpersonale non
è possibile, come la crescita della
conoscenza.
Solo se ci si intende, ci si può confrontare, criticare e si può crescere.
Questo è possibile solo se c’è
una corrispondenza uno a uno idea-nome,
linguaggio-ragione, binomio indicato nella scienza antica dallo stesso
nome: logos.
Dice Parmenide:
«Bisogna che il dire e il pensare siano l’ente.» F. 6(13)
«Il non essere nè lo puoi pensare (infatti non è possibile) nè lo puoi esprimere» F.2(14)
Per costruire un linguaggio scientifico, artificiale, è necessario allora o abbandonare il linguaggio naturale con i suoi vaghi e ambigui significati o restringere e precisare i suoi significati, se esso dovesse essere usato nella comunicazione scientifica.
Per fare questo bisogna abbattere una filosofia del linguaggio di tipo naturalistico secondo la quale le parole empiriche esprimono la natura stessa della cosa, sono la stessa cosa.
La scienza per questa filosofia naturalistica è un’opera di scavo dentro le parole, che sono espressione di una esperienza immediata, alla ricerca del significato originario, autentico della cosa, della sua oggettività, nascosta dentro le parole empiriche.
La scienza, l’oggettività scientifica, non è un’opera di mediazione logico-linguistica sulla base di uno scambio interpersonale, ma divinatorio, individuale, volto a cogliere i significati profondi o veri della parola. Il vero è già nella parola empirica, si tratta di portarlo alla luce.
Qui non c’è bisogno, di critica e confronto, poichè si tratta di mettersi in sintonia con le rivelazioni del filosofo-vate
Ci può essere il commento, la chiosa, non la critica.
È questa la tradizione di pensiero platonico-aristotelica, secondo la quale la scienza deve andare alla ricerca del significato originario ed autentico della parola.
Si tratta allora non di costruire un significato razionale univoco di essere, come in Parmenide, ma di scoprire i tanti significati con cui nel linguaggio comune, dell’empiria, la parola “essere” è usata. È quanto fa Aristotele nella sua critica a Parmenide.
Gli altri, come si fa nel Medioevo, devono solo commentare se quest’opera di scavo nei tanti significati empirici in cui è usata la parola “essere” è stata ben fatto o ben espressa. Si tratta di fare opera di chiarimento. Dopo di ciò, ci si impantana in una scienza verbalistica e ripetitiva, parassitaria, per cui vive di solo commento e chiarimento, ed autoritaria, che è quanto rimproverano Bacone e Galilei alla scienza aristotelica agli inizi della cosiddetta rivoluzione scientifica nell’età moderna.
Per costruire
la scienza di conseguenza si deve affermare e diffondere nel tempo la natura convenzionale del linguaggio, la
sua natura creativa di enti puramente razionali.
È quello che secondo le testimonianze, nel tempo fanno i Parmenide, i Democrito e i sofisti, cioé l’affermazione della teoria razionalistica della scienza, secondo la quale l’oggettività scientifica non può che essere logico-linguistica; questa è la condizione del suo stesso formarsi, crescere e progredire, la quale fonda una comunità di scienziati e ricercatori, non di vati o di sacerdoti o di interpreti di un sapere già dato, preordinato, inscritto, e perciò stesso oggettivo, nella realtà, come abbiamo visto in Platone.
Ecco quanto dice Parmenide:
«Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero
né l’abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa per questa
via
a usar l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba di suoni illusori
e la lingua, ma giudica con il raziocinio la pugnace disamina
che io ti espongo. Non resta oramai che pronunciarsi sulla via
che dice che è. Lungo questa sono indizi
in gran numero. Essendo in generato è anche imperituro,
tutt’intero, unico, immobile e senza fine.
Non mai era né sarà, perchè è ora tutt’insieme,
uno, continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare?
Come e donde il suo nascere ? Del non essere non ti permetterò né
di dirlo né di pensarlo. Infatti non è né dicibile né pensabile
ciò che non è. E quand’anche, quale necessità può aver spinto
lui, che comincia dal nulla, a nascere dopo o prima ?
Di modo che è necessario o che sia del tutto o che non sia affatto.
Giammai poi la forza della convinzione verace concederà che dall’essere
alcunché altro da lui nasca. Perciò nè nascere
né perire gli ha permesso la necessità disciogliendo i legami,
ma lo tiene fermo. La cosa va giudicata in questi termini
è o non è. Si è giudicato dunque come di necessità,
di lasciare andare l’una delle due vie come impensabile e inesprimibile
(infatti non è la via vera) e l’altra esiste ed è la via reale.
L’ente come potrebbe esistere nel futuro ? In che modo sarebbe nato ?
Se fosse nato, non è, è neppure è se dovrà un tempo esistere.
In tal modo il nascere è spento e non c’è traccia del perire.
Neppure è divisibile, perché è tutto quanto uguale.
Nè vi è in alcuna parte un di più di essere che possa impedirne la
contiguità
ne un di meno, ma è tutto pieno di essere.
Per cui è tutto contiguo; difatti l’essere è a contatto con l’essere.
Ma immobile nel limite di possenti legami
sta senza conoscere né principio né fine, dal momento che nascere e perire
sono stati sospinti lontano e li ha scacciati una prova veritiera.
E rimanendo identico nell’identico stato, sta in se stesso
e così rimane lì immobile; infatti la dominatrice necessità
lo tiene nelle strettoie del limite che tutto intorno lo cinge;
perché bisogna che l’essere non sia incompiuto:
è infatti non manchevole: se lo fosse mancherebbe di tutto.
È la stessa cosa pensare e pensare che è:
perché senza l’essere in ciò che è detto,
non troverai il pensare: null’altro infatti è e sarà
eccetto l’essere, appunto perché la Moira lo forza
ad essere tutto intero e immobile. Perciò saranno solo parole
quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero:
nascere perire, essere e non essere,
cambiamento di luogo e mutamento del brillante colore.» Fr.8(15)
Ecco quanto dice Democrito:
«Democrito, invece, il quale afferma che i nomi sono per convenzione, sostiene la sua tesi con queste quattro dimostrazioni: [1] quella dell’omonimia: cose differenti sono designate col medesimo nome: dunque il nome non è per natura; [2] eppoi quella della molteplicità di nomi, dal momento che si applicano nomi differenti ad un medesimo ed unico oggetto, e nomi che si possono scambiare l’uno con l’altro, il che è impossibile [che sia per natura]. [3] Terza, quella del mutamento di nome: come mai infatti potremmo cambiare il nome di Aristocle in quello di Platone, quello di Tirtamo in quello di Teofrasto, se i nomi sono per natura ? [4] Infine, quella della mancanza di nomi <derivati da nomi> simili: come mai da <saggezza> diciamo <pensare, essere saggi>, e da <giustizia> invece non ricaviamo [analogamente] il verbo ? Dal caso, dunque, non da natura dipendono i nomi. E Democrito chiama la prima dimostrazione ‘dei nomi polisensi’, la seconda ‘dei nomi equivalenti’, la terza ‘delle denominazioni soggette a mutare’, la quarta ‘dell’assenza di nome’.»(16)
E quanto infine afferma il sofista Antifonte:
«Io credo che ciascuna derivi il
suo nome dalle sue proprietà, perchè è assurdo credere che le proprietà delle
cose traggano origine dai nomi, oltreché è impossibile; perché i nomi sono
convenzioni mentre le proprietà non sono convenzioni, ma formazioni naturali».(17)
Quale grammatica logica, ecco il quinto elemento, questo linguaggio razionale per essere coerente dal punto di vista sintattico deve seguire?
Questa grammatica logica, chiamata matematica o mathesis, o linguaggio matematico, deve fondarsi su:
1) una logica intensionale o di proprietà , dove le classi siano definite a partire da proprietà astratte dalla realtà empirica e non da individui sensibili raccolti in insieme.
2) il principio dei contrari o di complementarità, che opera su proprietà astratte per costruire l’algebra delle
proprietà, che è l’algebra della
teoria scientifica.
3) definizioni, assiomi e teoremi, cioè su un rigoroso linguaggio dove si definiscono idee e proprietà primitive, e a partire da queste si formano assiomi e si deducono teoremi.
4) modelli idealizzazionali, nei quali si considerano solo le proprietà assunte e le loro relazioni, tralasciando la complessità o il caos del mondo empirico.
Perciò parliamo di tradizione di pensiero razionalistico, poichè questi quattro aspetti del quinto elemento, si costruiscono e si conservano nel tempo, con il contributo di diversi pensatori, sollecitati dalle ragioni epistemiche degli elementi precedentemente elencati e dalle ragioni sociali, in cui si trovano a vivere.
Questa tradizione è una linea ideale che si costruisce su un unico panorama sociale di conflitto delle poleis dal VI al III sec. a.C. e che trova nei diversi pensatori le ragioni del suo costruirsi e del suo tramandarsi.
È una linea ideale che va colta oltre le apparenze, le contraddizioni, le sfumature, le deviazioni del panorama socio-culturale in conflitto esso stesso, come già quello scientifico dell’essere e del tramandarsi della forma-scienza.
Questa va colta non solo nei suoi sostenitori, ma anche nei suoi oppositori, attraverso le loro testimonianze, espressione essi stessi non solo del conflitto sociale, ma anche di un modo di intendere e di tramandare una diversa forma-scienza.
Platone ed
Aristotele, per citare quelli ritenuti più grandi, non solo sostengono la naturalità della struttura sociale o
dell’ordine sociale esistente, anche sotto forma immaginaria come in Platone,
ma anche la naturalità del linguaggio, e
con esse una logica fondata sul significato
estensionale di classe e sul linguaggio
comune legato ai sensi.
La società schiavistica per Aristotele è naturale, non lo è per il sofista Antifonte per il quale gli uomini sono tutti uguali senza distinzione di razza, lingua, religione. ecc.ecc.
Ora come solo una tradizione razionalistica o una logica intensionale può portare i Pitagorici ad affermare che la stella del mattino è uguale alla stella della sera, superando un modo di pensare, sensibile, così solo una logica razionalistica può portare il sofista Antifonte ad affermare l’uguaglianza degli uomini, oltre le apparenze delle realtà sociali, fondate invece sulle differenze e sui privilegi.
Scrive il sofista Antifonte:
«...noi rispettiamo e veneriamo
chi è di nobile origine ma chi è di natali oscuri, né lo rispettiamo, né
l’onoriamo. In questo, ci comportiamo gli uni verso gli altri da barbari,
poiché di natura tutti siamo assolutamente uguali, sia greci che barbari. Basta
osservare le necessità naturali proprie di tutti gli uomini ... nessuno di noi
può essere definito né come barbaro né come greco. Tutti infatti respiriamo
l’aria con la bocca e con le narici, e …»(18)
Con una logica estensionale mai si sarebbe potuto capire che la stella del mattino è uguale alla stella della sera.
Solo superando il grossolano errore, che continuano a commettere molti matematici moderni, in ciò eredi della tradizione aristotelica, di confondere il significato estensionale di classe con quella intensionale, i Pitagorici hanno potuto scoprire la loro identità oltre le apparenze.
Riporto quanto scrive lucidamente sull’argomento il fisico Notarrigo nel suo libro inedito “Alice nel mondo della realtà”, immaginando un dialogo tra Alice e il filosofo Parmenide.
«Alice pensò che forse avrebbe potuto risolvere i suoi dubbi e chiese:
- Ma cos’è una “classe” ? E forse sinonimo di “insieme” ?
-Così pensano i matematici moderni, ma questo è un grossolano errore!
Una classe è un concetto, una proprietà che abbiamo astratto dal mondo sensibile e che è definita dalla sua “intensione” come intersezione di tante proprietà, mentre l’insieme è semplicemente la sua “estensione”.
L’intensione implica la sua estensione ma non viceversa.
- Puoi farmi un esempio?
-Certamente! Vedi, per esempio noi pitagorici avevamo capito che quella cosa che veniva chiamata la “stella del mattino” era la stessa cosa di quella che veniva chiamata la “stella della sera”.
Ora le intensioni di questi due nomi sono concetti complementari, e quindi classi complementari, la loro intersezione è il “nulla”.
Se un oggetto è del mattino non può essere della sera. Ma se diciamo che quegli oggetti che abbiamo chiamato con tali nomi sono solo apparenza, la contraddizione si risolve; l’uno “appare” al mattino, l’altro “appare” alla sera, ma in realtà sono la stessa cosa, cioè “il pianeta Venere”, che non è nemmeno una stella, anche se ci “appare” come una stella.
Indicando con il simbolo di Peano, “∩”, l’intersezione di due classi, non possiamo scrivere “(la stella del mattino) ∩ (stella della sera)” perché il risultato sarebbe il nulla, che indicheremo con il simbolo “Ù”.
E quindi nella sua estensione non vi può essere alcun oggetto.
Perciò questa estensione non può essere quella vera.
Non così nell’intensione di “pianeta Venere”, che tuttavia, anche se immutabilmente “è” pianeta Venere, può apparire ora come stella del mattino, ora come stella della sera.
L’apparenza è l’estensione; invece il concetto, cioè la realtà, ne è l’intensione, dalla quale scientificamente possiamo dedurne l’estensione; ma non possiamo mai dedurre l’idea di pianeta Venere dalla sua estensione; la sua intensione la possiamo dedurre solo da una teoria scientifica coerente, come tu vedrai che è possibile conseguire, senza far alcun riferimento alle apparenze dei mortali».(19)
Ecco i
Pitagorici hanno indicato la strada della scienza razionalistica. Questa scienza non muove dai fatti
empirici, né assume questi come mezzo di controllo, poichè altrimenti la
smentirebbero, la confuterebbero, ma da proprietà e da concetti.
Si dice che Aristotele abbia fondato la logica e che l’abbia desunta dalla matematica.
«La principale realizzazione di Aristotele fu la fondazione della scienza della logica. Fornendo leggi corrette al ragionamento matematico i Greci avevano posto le basi per la logica, ma toccò ad Aristotele codificare e sistematizzare queste leggi in una disciplina separata. Gli scritti di Aristotele chiariscono al di là di ogni dubbio che egli derivò la logica dalla matematica.» (M.Kline, Storia del pensiero matematico, VoI. I, Torino, 1991, p.66).
Ma su questo ho già scritto:
«Per poter fare cotali affermazioni si dovrebbe poter avere una base sicura che permetta di negare l’affermazione di diversi dossografi, i quali attribuiscono a Democrito provetto in cose di matematica e uno dei pochissimi predecessori menzionati dal grande Archimede, delle opere sulla logica.
Viceversa, abbiamo una precisa opinione espressa da Peano, il quale di logica e di matematica se ne intendeva, che nega ad Aristotele tale supposta paternità:
“È noto che la logica scolastica [che come tutti sanno si appellava a quella di Aristotele, inciso nostro] non è di sensibile utilità nelle dimostrazioni matematiche, poiché in queste mai si menzionano le classificazioni e le regole del sillogismo, e d’altra parte vi si fa uso di ragionamenti, del tutto convincenti, ma non riduttibili alle forme considerate in Logica. Per queste ragioni alcuni matematici, fra cui Cartesio, proclamano essere l’evidenza l’unico criterio per riconoscere l’esattezza di un ragionamento. Ma questo principio lascia alla sua volta a desiderare... (Peano, O.S., II, p.81)
Per non parlare del concetto aristotelico di definizione:
“Aristotele, Topici, I, 8, pone la regola:
che Boezio tradusse “per genus proximun et differentiam specificam” ed è riprodotta come regola assoluta in tutti i trattati di logica. L’esempio classico di questa proprietà è la definizione:
homo = animal rationale
Qui “animal” e “rationale” indicano due classi. Fra quelle due classi è sottintesa l’operazione detta congiunzione dai grammatici, moltiplicazione logica dopo Boole, indicata in genere da “et” nel linguaggio comune, in logica matematica dal segno ∩, quindi la regola di Aristotele direbbe che ogni definizione ha la forma:
x = A∩B
ove A e B sono le classi note, dette genere e specie, e x è la classe che si definisce. Qualche definizione matematica soddisfa alla regola di Aristotele. Tale è la definizione 22 di Euclide, che può tradursi:
quadrato = quadrilatero ∩ equilatero ∩ equiangolo.
Ma questa definizione si può applicare al più alla definizione di una classe. Essa non è vera per la definizione 2 = 1+1, per definizioni di enti che non sono classi. Anche le definizioni di classi non hanno necessariamente la forma precedente. Per esempio, nella definizione:
numero composto = (numero maggiore di 1) ´ (numero maggiore di i)
fra le due classi, che in questo caso sono identiche, non è posto il segno di congiunzione ∩, ma il segno di moltiplicazione.
I cultori della logica classica rispondono che nelle definizioni: “2 = somma di 1 con 1”, “numero composto = prodotto di due numeri”, “e = limite di ...”, il genere è rappresentato dalla parola somma, prodotto, limite. Ma queste parole non indicano classi, bensì funzioni; ogni numero è somma e prodotto e limite. La classe corrisponde alla prima categoria ousía di Aristotele, mentre la funzione appartiene alla quarta prós ti» (Peano, Opere Scelte, II, pp. 426-427).
Poiché Democrito, Eudosso, Euclide, Archimede adoperavano ben altra logica, bisogna congetturare che già fra gli antichi popoli di lingua greca si fronteggiarono due modi diversi di intendere la logica, quello platonico-aristotelico e quello pitagorico-parmenideo-democriteo; il primo fondato sulle ambiguità del linguaggio comune, che è tramite per la logica grammaticale e per le assurdità metafisiche, dove distinzioni puramente morfologiche assumono il senso di distinzioni logiche, o peggio empiriche; il secondo che, invece, cerca di capire il senso delle nostre espressioni linguistiche mediante un’analisi logica che riguardi i concetti e non le loro espressioni verbali.»(20)
Qual è il principio logico che deve guidare questa grammatica della scienza o logica della scienza?
Esso, ancora una volta, ci viene indicato dai Pitagorici, ed esattamente nel principio dei contrari, o come oggi si dice di complementarità, con il quale si interpreta il primo però in modo estensionale, facendo confusione, poiché non su questo è costruita la scienza di tradizione pitagorica o razionalistica.
Non si può dare una proprietà (o un concetto o una classe) senza dover dare contemporaneamente il suo contrario o il suo complementare.
Ogni proprietà dicotomizza l’essere in due classi complementari. Vale la regola allora che se un qualcosa appartiene all’una non può contemporaneamente appartenere all’altra, senza contraddirsi, violando il divieto di Parmenide.
Non ci può essere un x che sia nello stesso tempo “stella del mattino” e “stella della sera”, senza contraddirsi; solo se l’apparenza è un nulla o un non essere, si può altrimenti affermare che Venere è la stella del mattino e della sera.
Eppure nella scienza quantistica di oggi con il principio di complementarità di Bohr si viola il principio da noi enunciato.
Per cui può scrivere il fisico Notarrigo, esperto di meccanica quantistica:
«Secondo queste regole elementari di logica, o se si vuole di “convenzioni linguistiche”, che poi la logica altro non è, non è possibile che qualcosa sia nello stesso tempo “onda e particella”, dal momento che le definizioni formali di onda e di particella, che si danno in “fisica classica”, ma che “non” si danno in “fisica quantistica” (facendo appello solo alle impressioni sensoriali che abbiamo ricevuto nel guardare le onde del mare o una pietra che cade), l’intersezione delle due classi è vuota, ovvero è il “nulla”.»(21)
Voler applicare tale principio dei contrari, di origine pitagorica, agli esseri sensibili, significa cadere in assurdi, paradossi e grossolane ambiguità, come succede alla meccanica quantistica, accusata di inconsistenza semantica da parte di eminenti epistemologi.(22)
Che è quanto faceva, più banalmente, Platone scimmiottando nei suoi scritti le idee dei Pitagorici.(23)
La realtà, la oggettività scientifica può essere solo una ricostruzione razionale, logico-linguistico, della realtà sensibile, altrimenti, complessa, caotica e contraddittoria, inadatta a fondare la possibilità della comunicazione e della crescita della scienza.
La scienza si può costruire allora solo a partire da costruzioni idealizzazionali, da modelli, dove gli enti e le loro relazioni sono definiti in modo coerente.
La logica non ci dice niente né sulla verità di esse nè su quella dei teoremi, da quelle dedotti; essa non è la scienza della verità. Essa ci dice solo se assiomi e teoremi sono compatibili o contraddittori tra loro, quali conclusioni possiamo dedurre a partire da certi assiomi, e quali corrette regole di deduzione vanno rigorosamente applicate.
Affinché il modello razionale con i suoi enti abbia significato fisico, siamo al sesto elemento, parli cioè della natura, non di quella apparente, che può essere solo un nulla, un non essere, né di una natura immaginaria, ma di una natura vera, oggettiva, che sta oltre le apparenze, le sue aggregazioni e disgregazioni, esso deve trarre le sue proprietà da essa stessa, ma non da quelle, che esistono in quanto fanno riferimento al soggetto sensibile, ma che esistono in quanto fanno riferimento a sé stesse, la cui esistenza è pero garantita dal non voler violare il principio di non contraddizione secondo il dettame di Parmenide.
Questi enti possono essere solo il concetto o l’idea di corpo impenetrabile, o di pieno, e quello di vuoto, che nasce come suo contrario o complementare, senza il quale non sarebbe possibile il movimento dei corpi e la loro aggregazione, la cui negazione porterebbe a violare il principio di non contraddizione.
Citiamo alcune testimonianze su Democrito, vera pietra miliare della tradizione razionalistica.
«Nei Canoni afferma che vi sono due modi di conoscenza, cioè mediante i
sensi e mediante l’intelletto: e chiama genuina la conoscenza mediante
l’intelletto, riconoscendo ad essa la credibilità nel giudicare il vero, mentre
all’altra dà il nome di oscura, negandole la sicurezza del conoscere il vero.
Dice testualmente: “Vi sono due forme di
conoscenza, l’una genuina e
l’altra oscura; e a quella oscura appartengono tutti quanti questi oggetti:
vista, udito, odorato, gusto e tatto. L’altra forma è la genuina, e gli oggetti
di questa sono nascosti [alla conoscenza sensibile od oscura].”
Poscia, mostrando la superiorità della conoscenza genuina su quella oscura, prosegue dicendo: “Quando la conoscenza oscura non può più spingersi ad oggetto più piccolo nè col vedere né coll’udire né coll’odorato né col gusto né con la sensazione del tatto, ma “si deve indirizzar la ricerca” a ciò che è ancor più sottile, “allora soccorre la conoscenza genuina, come quella che possiede appunto un organo più fine, appropriato al pensare”. »(24)
«Leucippo e il suo discepolo Democrito pongono come elementi il pieno e il vuoto, chiamando l’uno essere e l’altro non essere, e precisamente chiamando essere il pieno e il solido, non essere il vuoto e il raro (onde essi affermano che l’essere non è affatto più reale del non essere, perchè neanche il vuoto è <meno reale> del corpo), e pongono questi [elementi] come cause materiali degli esseri. E come quei filosofi che, considerando unica la sostanza che serve di sostrato, ricavano tutto il resto da modificazioni di quella, ponendo il raro e il denso come principi delle modificazioni, così anche costoro dicono che le differenze [originarie] son causa di tutte le altre cose. E quelle [originarie] essi affermano che sono tre, la figura, l’ordine e la posizione: infatti essi così si esprino: l’essere può presentare differenze soltanto per la misura, per il contatto reciproco e per la direzione.»(25)
«“Opinione è il colore, opinione il dolce, opinione l’amaro, verità gli atomi e il vuoto” dice Democrito, ritenendo che tutte quante le qualità sensibili, ch’egli suppone relative a noi che ne abbiamo sensazione, derivino dalla varia aggregazione degli atomi, ma che per natura non esistano affatto bianco, nero, giallo, rosso, dolce, amaro: infatti l’espressione “per convenzione” equivale per esempio, a “secondo l’opinione comune” e a “relativamente a noi”, cioè non secondo la natura stessa delle cose, la quale egli indica con l’espressione “secondo verità” ricavata da eteón, che significa “vero”. E tutto il senso di questo discorso sarebbe il seguente: gli uomini credono che sia qualche cosa di reale il bianco e il nero, il dolce e l’amaro, e tutte le altre qualità del genere, mentre in verità ente e niente sono tutto ciò che esiste, perchè Democrito usava anche questi altri termini, chiamando “ente” gli atomi e “niente” il vuoto. Così tutti quanti gli atomi, essendo corpi piccolissimi, non posseggono qualità sensibili, ed il vuoto è uno spazio nel quale tali corpuscoli si muovono tutti quanti in alto e in basso eternamente o intrecciandosi in vario modo tra loro o urtandosi e rimbalzando, sicché vanno disgregandosi e aggregandosi a vicenda tra loro in composti siffatti; e in tal modo producono tutte le altre [maggiori] aggregazioni e i nostri corpi e le loro affezioni e sensazioni.»(26)
Se con questi
enti di significato fisico si costruiscono modelli
o relazioni tali, o assiomi, che fanno riferimento a fattibili operazioni fisiche elementari, siamo al settimo elemento del fare scienza, allora è garantita
alla nostra teoria fisica una sua coerenza non solo sintattica ma anche
semantica.
È questo il solo modo di garantire alla teoria fisica la sua coerenza semantica, il fatto cioé di un insieme di assiomi tra loro non contraddittori.
L’indipendenza poi di ogni singolo assioma si può verificare se vi sono o si possono costruire dei modelli fisici che obbediscono a tutti gli assiomi ma che falsificano quello di cui si vuole provare l’indipendenza.
La coerenza della logica che si vuole usare e della matematica che si vuole costruire, essa stessa è garantita dall’adeguatezza dei loro assiomni alle fattibili operazioni fisiche elementari: che è quanto fanno i matematici antichi con l’uso della riga e compasso e Archimede con l’uso della leva, grazie al quale era possibile costruire gli enti e le loro relazioni fondamentali, da cui dedurre i teoremi.
Si sbarrava così la strada a qualunque formalismo o razionalismo presuntuoso e inconcludente senza bisogno di ricorrere al famoso teorema di Gödel, che ha sbarrato la strada al formalismo hilbertiano nel secolo XX.
La ragione, quella che vuole fare scienza della natura, in questa trova però il suo limite e la possibilità stessa delle sue costruzioni deduttive concludenti, dove i suoi teoremi possono assumere significato ed oggettività fisica solo dal significato e dall’oggettività fisica dagli assiomi.
Ecco quanto fa dire Democrito alla ragione da parte della natura o dei dati empirici:
«Chi non può neppure stabilire
principio alcuno senza tener conto dell’evidenza sensibile, come sarebbe
credibile costui qualora si mettesse a parlare con alto spregio di
quell’evidenza da cui ha attinto i suoi principi? Ben conscio di questo, anche
Democrito, quando svaluta i dati del senso dicendo: “Opinione è il colore, opinione il dolce, opinione l’amaro, verità gli
atomi e il vuoto”, immagina poi che i sensi si rivolgano alla ragione con
queste parole: “O misera ragione, tu, che
attingi da noi tutte le tue prove, tenti di abbattere noi ? Il tuo successo
significherebbe la tua rovina”.»(27)
Per questa tradizione di pensiero allora non ha senso separare la logica e la matematica dalla fisica, perché assieme costruiscono la scienza. Siamo quindi all’ottavo elemento del fare scienza.
Per chi
volesse liberare la matematica dalla
schiavitù verso la fisica, come hanno voluto fare Cantor e Dedekind(28),
abbandonando definitivamente il supporto delle grandezze fisiche, bisogna pure
che si trovi una soluzione al problema della coerenza degli assiomi!
Specialmente quando si volesse continuare a parlare dell’infinito e degli infinitesimi!
Lo stesso dicasi per chi vuole liberare la fisica dalle grandezze fisiche, facendo esclusivo riferimento alle osservazioni, alle misure o alle cose sensibili, tralasciando la cosa fisica, che è cosa razionale o filosofica, poiché si aggirerebbe tra vane ombre, ambiguità e paradossi.
Che è quanto succede alla meccanica quantistica.
Si dice che per la teoria quantistica non hanno senso “posizione e quantità di moto assoluti”, come proprietà intrinseche delle particelle indipendentemente dagli strumenti di misura e di osservazione.
La teoria ci dà solo la probabilità di trovare l’elettrone in un piccolo volume dV attorno ad un punto (x,y,z) di un sistema di riferimento all’istante t. Il valore o la misura di probabilità è data da ΨΨ* (x,y,z,t) dV.
Non viene assegnata quindi alla particella, nel nostro caso l’elettrone, posizione precisa ma solo una distribuzione di probabilità per la sua localizzazione. L’operazione di misura della posizione di colpo riduce la sovrapposizione di varie possibilità con diverse misure di probabilità ad un ben preciso valore, ovvero ad una ben precisa posizione.
Credo che un corpo pensato e concepito senza una posizione e un tempo definiti non è più un corpo fisico, ma un fantasma.
Non è forse proprietà dei fantasmi non avere posizioni definite, di trovarsi in più posti o di avere il dono dell’ubiquità o dell’onnipresenza!
Così agli enti fisici, concepiti come enti razionali, e alle grandezze fisiche si sostituiscono gli enti sensibili e i meri numeri, cioe i loro fantasmi, le loro ombre.
Nella teoria quantistica grandezze fisiche, quali energia e quantità di moto, sono sostituite da operatori differenziali, da simboli matematici che all’occorrenza possono fornirci un numero, che non è più un rapporto tra grandezze ma una frequenza di osservazioni.
Nell’equazione d’onda di Schrödinger la particella con la sua massa, la sua posizione e il suo impulso scompare, poi ricompare nell’interpretazione come moltiplicata in una pluralità di posizioni e di impulsi che si riducono di nuovo ad un solo valore o di coordinata odi impulso, ma non ad entrambi, all’atto della misura.
Anche Einstein, con il suo programma machiano in fisica, anche se nella vecchiaia appare pentito, ha contribuito a costruire la scienza dei fantasmi, delle apparenze con la sua teoria della relatività.
Cosa è “la luce” che compare nel II assioma della teoria della relatività ristretta?
Un “fatto empirico” dai significati ambigui e complessi per la scienza razionalistica newtoniana, di tradizione pitagorico-democritea, non può diventare l’elemento da cui partire per costruire il sistema ipotetico-deduttivo della scienza.
Il fatto è che
sia nella scienza nuova (meccanica quantistica e relatività) sia nell’epistemologia,
vedi ad esempio Popper, si è espulso l’altro elemento fondamentale della
scienza antica di tradizione pitagorico-democritea, ovvero il significato di sistema ipotetico-deduttivo o
di spiegazione scientifica.
Ecco il nono elemento fondamentale del fare scienza, come viene descritto da Vailati, del quale assegna a Galilei e alla scienza moderna la paternità, ma che è, secondo noi, come stiamo dimostrando, della tradizione pitagorico-democritea, mettendola in contrapposizione alla tradizione empiristica di matrice aristotelica, con un suo significato di spiegazione scientifica.
«A me preme di più, per il presente proposito, richiamare l’attenzione sulle differenze che si presentano tra il concetto che Aristotele si faceva dei servigi che l’applicazione della deduzione è atta a rendere per la costituzione e l’avanzamento delle scienze, e le opinioni professate e adottate su questo soggetto dagli scienziati moderni da Galileo in poi.
Le convinzioni di Aristotele su questo argomento sembrano esser state soprattutto determinate dall’osservazione del modo di funzionare della deduzione nei due soli campi nei quali gli scienziati suoi predecessori e contemporanei erano riusciti a servirsene con vantaggio, cioé da una parte la Geometria, e dall’altra la Retorica, intendendo questa nel senso antico, cioé come l’arte di modificare le opinioni altrui per mezzo della parola. Sono questi due generi di applicazione che egli, nelle sue considerazioni sull’ufficio e sull’utilità della deduzione, ha continuamente in vista, anche quando sembra fare da esse affatto astrazione; ed è in conseguenza di ciò che egli è portato a considerare come scopo, non solo principale ma pressocché esclusivo, dell’argomentazione deduttiva l’accrescimento della certezza, la riduzione di ciò che è discutibile a ciò che è indiscutibile, di ciò che è dubbio a ciò che è evidente. La deduzione è per lui, anzitutto uno strumento che serve a garantire la verità di proposizioni solo probabili e plausibili, ricollegandole ad altre più sicure e meno contestabili e rendendole in certo modo partecipi della loro saldezza ed evidenza, come fa appunto nelle dimostrazioni geometriche o nelle discussioni forensi, nelle quali ognuno cerca di corroborare le proprie asserzioni appoggiandole a degli assiomi o a delle disposizioni di legge sulle quali non si discute”...
“E precisamente nella pochissima importanza data alla deduzione come mezzo di spiegazione e di anticipazione sull’esperienza, in confronto alla grande fiducia posta in essa come mezzo di prova e di accertamento, che giace la differenza caratteristica tra le idee di Aristotele e quelle dei fondatori della scienza moderna sulla funzione della deduzione nella ricerca scientifica (il corsivo è nostro). I suoi ragionamenti sui fenomeni naturali, anche in quei casi nei quali essi, invece di essere diretti a dimostrare le conclusioni a cui portano, sono adoperati per mettere alla prova le premesse su cui si fondano, mirano a raggiungere questo scopo più col mettere in mostra le contraddizioni e le incoerenze tra le varie affermazioni, a far vedere che esse non possono essere ammesse simultaneamente, che non collo spingere a conclusioni non prima sospettate, e la cui verifica sia atta a provocare nuove osservazioni, che contribuiscano a un maggior schiarimento, della questione di cui si tratta.”
“Ciò che gli scienziati greci (Platone ed Aristotele! Non certamente Democrito, Euclide ed Archimede, per i quali appunto la spiegazione scientifica muove da <elementi razionali>- inciso nostro) intendevano per spiegazione di un dato fenomeno non era tanto la sua analisi e scomposizione nelle sue parti elementari, o la determinazione delle leggi della sua produzione (il corsivo è nostro) quanto piuttosto il suo ravvicinamento o identificazione con altri fenomeni più comuni e famigliari, i quali, appunto per tale ragione, non eccitavano in loro quel genere speciale di stupore o di meraviglia che li conduceva a domandarsi perchè avvenissero.”
“L’unico tipo di spiegazione applicabile a fenomeni appartenenti a un tale campo sarebbe allora quello che abbiamo riconosciuto come caratteristico degli stadi inferiori di sviluppo scientifico, quello cioè che consiste nel paragonare immediatamente il fatto in questione a quelli tra i fatti conosciuti coi quali sembra presentare maggiore somiglianza e affinità, facendolo rientrare, se è possibile, sotto il dominio di qualche generalizzazione già effettuata o, se ciò non è possibile, registrandolo a parte, in attesa di altri fatti che gli somiglino e che permettano, in seguito, di arrivare per mezzo di un’induzione alla scoperta di qualche legge non ancora conosciuta. L’insieme di verità indipendenti e sconnesse, alle quali si può arrivare in tal modo, sono quelle che si designano col nome di leggi empiriche. Una scienza che fosse costituita interamente di esse presenterebbe l’aspetto di un catalogo di proposizioni generali, ognuna provata da distinti gruppi di osservazioni e di esperimenti, e nessuna delle quali sarebbe atta a servire per controllo delle altre, o per comunicare alle rimanenti le maggior certezza o attendibilità di cui eventualmente godesse.”»(29)
La posizione di compromesso, come quella di Einstein, sul significato di sistema ipotetico-deduttivo, appare poco convincente e coerente.
Ho scritto con Notarrigo e Pagano a questo proposito:
«Da un lato egli fa appello ad una particolare interpretazione del cosiddetto metodo “ipotetico-deduttivo”, che secondo lo stesso Einstein dovrebbe ricevere la sua validità, solamente a posteriori, dalla verifica empirica delle conseguenze matematiche delle ipotesi; ma, dall’altro lato, per giustificare le sue ipotesi fa appello, a priori, a dei fatti empirici complessi, difficilmente analizzabili in termini di “elementi”, intesi come quei mattoni, i più adatti, per la costruzione dell’edificio teorico.»(30)
Scompaiono nel significato di spiegazione scientifica così gli elementi che fanno riferimento a “elementi razionali di significato fisico” e a “modelli fisici idealizzati”, che è quanto si mostra nel seguente significativo brano di Popper:
«Dare una spiegazione causale di
un evento significa dedurre un’asserzione che la descriva usando come premesse
della deduzione una o più leggi universali, insieme con alcune asserzioni
singolari dette “condizioni iniziali”»(31)
Questa viene formalizzata nella letteratura epistemologica con il seguente schema:
1) L1,
L2,L3 Lr
2) C1,C2,C3 Ck
____________________
E
dove c’è un cosiddetto Explanans, formato da condizioni iniziali (C1, C2, ... Ck ) e da Leggi di copertura ( L1, L2 ... Lr) e un cosiddetto Explanandum, E.
Perché scompare nella premessa della spiegazione scientifica la presenza dell’elemento razionale e del processo idealizzazionale, attraverso il modello, facendo esclusivo riferimento a leggi o assiomi e condizioni iniziali, desunti dall’osservazione empirica o di ipotesi, che non si sà da che cosa derivano ?
Questo aspetto sarà esplorato più avanti.
Per ora dobbiamo continuare ad analizzare quali sono gli elementi fondanti del fare scienza, della tradizione pitagorico-democritea, e come essa sia stata modificata e contrastata dall’altra tradizione di tradizione platonico-aristotelica.
Se nella scienza fisica contemporanea, meccanica quantistica e relatività, sono state separate le grandezze fisiche dalle osservazioni empiriche, seguendo in ciò la tradizione empiristica aristotelica, nella matematica di Dedekind e Cantor, di fine Ottocento, sono stati separati i numeri dalle grandezze fisiche, dando ad essi una esistenza autonoma, seguendo in ciò il più forsennato idealismo di matrice platonica.
Le conseguenze
per la scienza sono state disastrose, poiché non si sà più cosa sono i numeri, nè in che senso esistono.
Nella scienza fisica e matematica di matrice pitagorica ed euclidea, siamo al decimo elemento del fare scienza, i numeri sono nostre astrazioni da operazioni fisiche elementari e la loro esistenza è puramente logica, per cui non ha senso una loro esistenza ontologica, in un presunto iperuranio come pensa Platone, o una loro creazione, simile a quella di dio, ex nihilo, dal niente, come pensa Dedekind.(32)
Contro un simile sfrenato idealismo, che viola financo le regole della grammatica logica, si scagliava Peano, logico e matematico, oltre che profondo linguista, agli inizi del secolo XX, nei seguenti brani che scegliamo dalle sue opere e che ci piace portare alla conoscenza del lettore, ma tutta la sua produzione è ispirata alla tradizione di pensiero che stiamo delineando, di cui nè è diffusore e grande interprete.
G. Peano: Sui fondamenti dell’analisi.
(Tratto da:
Bollettino Mathesis, II Giugno 1910, p. 31).
…Uno dei punti più controversi, e a cui mi limiterò, è l’introduzione delle varie specie di numeri, naturali, negativi, fratti, irrazionali e immaginarii. E qui finisce; poiché le definizioni dei vari numeri complessi, quaternioni e sostituzioni, non presentano più difficoltà.
La difficoltà nella definizione di questi vari enti è in parte linguistica. Introdotta la parola numero, come versione dell’aritmnós di Euclide, o numero naturale, la frase numero primo indica e in grammatica e in matematica, una classe di numeri, come uomo bianco indica una classe di uomini. Invece la seconda frase numero negativo, non indica una classe di numeri, secondo la grammatica, ma bensì una classe più ampia di quella dei numeri. Qui l’aggettivo non restringe la classe cui si applica, ma la dilata. Così numero razionale indica una classe non contenuta, ma contenente la seconda, e numero reale indica una quarta classe più ampia della terza. Questa nomenclatura, contraria all’uso comune, non si trova in Euclide, quantunque i più interessanti calcoli sugli irrazionali vi siano sviluppati. Essa è abbastanza recente. In conseguenza si volle per forza che la frase «numero negativo» indicasse un numero, e così si fabbricò il «principio di permanenza» dall’HANKEL nel 1867.
Vediamolo in azione. Si sogliono premettere le proposizioni, su cui non cade alcun dubbio:
Non esiste alcun numero (della serie 0, 1, 2, ... ) che aggiunto a 1 dia per risultato 0.
Non esiste un numero (intero), che moltiplicato per 2 dia 1.
Non esiste numero (razionale), il cui quadrato sia 2.
Non esiste numero (reale), il cui quadrato sia -1.
Allora si dice: per ovviare siffatto inconveniente, noi estendiamo il concetto di numero, cioè introduciamo, fabbrichiamo, creiamo, (wir erschaffen, dice DEDEKIND), un nuovo ente, un nuovo numero, un nuovo segno, un Zeichen - Verknüpfung, ecc., che diremo -l o 1/2, o Ö2, o Ö-l , che soddisfi alle condizioni imposte. Cioè:
-l = quel numero x tale che x + 1 = 0,
1/2 = quel numero x tale che x ´ 2 = l,
Ö2 = quel numero x tale che x2 = 2,
Ö-l = quel numero x tale che x2 = -l .
Se nel secondo membro, per numero si intende ciò che fino a quell’istante ha quel nome, gli enti considerati sono contraddittori in sé; quindi si sono dati vari nomi all’ente non ente. Ovvero nel secondo membro per numero s’intende un nuovo ente, e allora resulta definito l’ingnoto per l’ingnoto; e il dire che esso è «ganz verschieden von allen Zahlen», dice ciò che esso non è, e non ciò che è. È poi naturale il domandarsi, perché qui si creano nuovi enti, e in altri casi di impossibilità, no. Non esiste il massimo numero primo; per la generalità dell’aritmetica, fabbrichiamo un numero primo ideale, maggiore di tutti i numeri primi. Due rette parallele non hanno punto euclideo comune, e si imagina il punto all’infinito; due rette sghembe non hanno punto comune; per togliere tutte le eccezioni attribuiamo loro un punto transinfinito comune. «Ecquis risum teneat», dice GAUSS a proposito di questa introduzione degli immaginari. <Hoc esset verbis ludere seu potius abuti».
Il principio di permanenza pervenne al suo apogeo con SCHUBERT, nella
«Enciclopädie der Mathematischen Wissenschaften», il quale afferma che si deve
«beweisen dass für die Zahlen in erweiterten Sinne dieselben Sätze gelten, wie
für die Zahlen in noch nicht erweiterten Sinne».
Ora se tutte le proposizioni che valgono per gli enti di una categoria, valgono pure per quelli di una seconda, le due categorie sono identiche; quindi, se si potesse provare ciò, i numeri fratti saranno interi. Nell’edizione francese dell’«Encyclopédie», le cose furono messe a posto. Si dice che si deve essere «guidé par le souci de conserver autant que possible les lois formelles». Così il
principio di permanenza acquista il valore di un principio non di logica, ma di pratica, e della massima importanza nella scelta delle notazioni. Precisamente fondandosi su questo principio, caso particolare di quello che il MACH chiamò principio dell’economia del pensiero, i proff. BURALI FORTE e MARCOLONGO riuscirono a districare l’arruffata matassa delle notazioni del calcolo vettoriale, ove tutto era arbitrario, e molti credono ancora che le notazioni siano necessariamente arbitrarie.
Gli enti prima considerati -l , ½ , Ö2 , Ö-l si possono definire, cercandoli in una categoria nota che li contenga. Risultano per astrazione, ovvero come operazioni....
G. Peano: Sulla
definizione di limite.
(Tratto da: Atti della Reale Acc. delle Scienze di Torino, Vol. XLVIII, A. 1912-13, p. 750).
Ogni numero reale produce nella classe dei razionali una sezione, o Schnitt dei matematici tedeschi, o coupure dei francesi; dice la definizione Euclidea, che due numeri reali sono eguali, se ad essi corrisponde la stessa sezione.
Perciò la sezione dei numeri razionali, che individua un numero reale, popolarizzata da Dedekind nel 1872, che però già si trova in trattati precedenti, si può far rimontare ad Euclide.
Ciò che manca in Euclide, è l’affermazione che ad ogni sezione corrisponde un numero reale esistente. E ciò non si trova mai in Euclide, poiché le grandezze che egli considera sono tutte costruibili con riga e compasso. Quindi Dedekind dice che se non esiste il razionale che produce quella sezione, noi creiamo «wir erschaffen» un nuovo numero che ha quelle proprietà.
Questa creazione di nuovi numeri
presenta delle difficoltà. Alcuni autori ammettono la proposizione esistenziale
precedente come un postulato, che alcuno, e a torto, chiama postulato di
Dedekind. Ma questa proposizione esistenziale contiene l’ente nuovo «numero reale» che si vuol definire; e
perciò ha i caratteri d’una definizione. E alcuni autori la chiamano definizione, e scrivono «noi conveniamo che...» Ora essa non ha
la forma d’una definizione, poiché non è un’eguaglianza il cui primo membro è
il segno nuovo, che si definisce, ed il secondo è un gruppo di segni noti…»(33)
Nei brani citati Peano critica la teoria dei numeri come viene oggi presentata da Dedekind in poi e il cosiddetto postulato di Dedekind, posto a base dei moderni trattati di calcolo, come nel seguente scritto critica il concetto di numero irrazionale di Dedekind e il significato di esistenza ad esso collegato.
Lo scritto è una nostra
traduzione dall’interlingua, originale in <Boll. Mathesis, VII, Aprile, 1915>
G. Peano:
Definizione dei numeri irrazionali secondo Euclide.
(Dall’interlingua,
originale in Boll. Mathesis, VII, Aprile, 1915,)
Euclide espone le proprietà dei numeri irrazionali in parecchi suoi libri; in particolare nel libro X. La trattazione comincia nel libro V. Trascrivo la definizione N. 5, con traduzione interlineare (dal greco, ma qui il testo greco non è riportato, e la parentesi è nostra).
In illo ipso ratione magnitudines se-dic que-es, primo ad
secundo et tertio ad quarto,
quando illos de primo et
tertio aequo-vice
multiplices de-illos de secundo et quarto
aequo-vice multiplices, per quocumque multiplicato singulo
de-singulo, aut simul
supera, aut simul aequo es aut simul defice,
sumptos correspondentes.
I vocaboli composti “se-dic . . . de-singulo” corrispondono ad un solo vocabolo nell’originale greco. La traduzione latina di Heiberg (editore Taubner) sopprime i vocaboli “per quoqumque multiplicato singulo de-singulo” [per qualunque moltiplicazione termine a termine]. Nessuna traduzione può essere del tutto fedele. Bisognerebbe leggere i libri in originale; la traduzione può solo aiutare nella lettura.
Diamo ora alla proposizione precedente una costruzione simile a quella delle lingue neolatine; otteniamo:
“Si dice che, date quattro grandezze, il
rapporto tra la prima e la seconda è uguale al rapporto tra la terza e la
quarta, quando presi i multipli della prima e della terza secondo un numero
arbitrario, e i multipli della seconda e della quarta secondo un altro numero
arbitrario, se i multipli della prima sono maggiori, uguali o minori dei
multipli della seconda, allora rispettivamente i multipli della terza sono
maggiori, uguali o minori della quarta”.
Se usiamo i simboli algebrici e scriviamo la proposizione sotto la forma a/b = c/d, otteniamo:
“Date quattro grandezze a, b, c, d, si dice
che a/b = c/d quando, scelti ad arbitrio due numeri m, n, si ha che se ma > nb allora mc > nd; se ma= nb allora mc = nd;
se ma <nb allora mc < nd”.
Usiamo ora i simboli della logica matematica, che oggi sono di uso internazionale, per opera di Couturat in Francia, di Russell e Whitehead in Inghilterra, di Huntington e di Moore in America.
Tali simboli sono:
Î, che indica la proposizione individuale,
É, che indica la proposizione universale o deduzione.
La definizione di Euclide assume la forma:
a, b, c, d Î grandezza . É
\
a/b =c/d=:
m,n Î numero .ma > nb. Ém,n .mc
>
nd :
” .ma = nb. Ém,n .mc
=
nd :
” .ma
<
nb. Ém,n .mc
< nd .
I tre
punti \ dividono la proposizione in tre parti;
la prima parte consta delle ipotesi “a,b,c,d
sono grandezze” e del segno di deduzione É “implica”.
La
seconda parte è un’uguaglianza separata da due punti (:) nel primo membro abbiamo a/b
= c/d e il segno uguale sta per “significa”.
Il secondo membro è l’asserzione simultanea di tre proposizioni separata
dai :, mentre le singole proposizioni sono separate da punti semplici, “se m, n sono numeri e se ma > nb, allora per ogni m, n, si ha mc> nd”.
Nell’ultima
espressione della definizione di Euclide compaiono i due termini “grandezza” e “numero”. Il termine “numero”,
traduzione del greco ’αριθμός,
significa quello che oggi si chiama “numero
intero positivo” indicato nel Formulario
mathematico con il segno N (N1).
Euclide non usa i termini
equivalenti al nostro “numero razionale”; ma scrive sempre
λόγος
‘όν
πρός
’αριθμόν ’έχει
“rapporto di un numero ad un altro numero”; in simboli N/N.
Né Euclide usa il termine “numero reale (razionale o irrazionale)”; ma parla sempre di rapporto tra due grandezze. Le grandezze di cui se ne considera il rapporto sono omogenee; la condizone di omogeneità viene data da Euclide nella definizione 4, che precede quella da noi considerata.
Quindi se al posto di ma > nb scriviamo a/b > n/m, se al posto di a/b e c/d scriviamo x e y, e al posto di n/m scriviamo z; risulta che x e y sono quantità reali (Q nel Formulario), e z è un numero razionale (R nel Formulario). La definizione assume ora la forma:
x,
y Î Q . É \ x = y . =: z Î R . z
< x. Éz .z
<
y :
” . z = x. Éz .z
=
y :
” . z > x. Éz .z
>
y :
“Si dice che due numeri reali x e y sono uguali, se ogni numero razionale z minore di x è anche minore di y; e ogni razionale maggiore di x è maggiore di y; e se da z = x risulta anche z = y”.
E, più brevemente:
“Due numeri reali (irrazionali) sono, per definizione, uguali quando ogni numero razionale minore del primo è minore del secondo e viceversa”.
o
“quando la classe dei numeri razionali
minori del primo coincide con la classe dei razionali minori del secondo”.
In logica
matematica si usa il segno ', per indicare l’operazione inversa di Î. Il segno
∩ significa “e”. Quindi R ∩ z ' (z <
x) significa “z è razionale e tale che z <
x”.
Quindi la definizione di Euclide assume la forma:
x,
y Î Q . É : x =
y . = . R ∩ z ' (z < x) = R ∩ z '
(z < y)
come scritta nel Formulario mathematico, Ediz. V, 1908, pag. 105, Prop. 2.1.
Quindi ogni numero reale x separa i razionali in due classi, i razionali minori di x, e i razionali maggiori di x. Tale separazione viene chiamata sezione (Schnitt in Dedekind, 1872). Euclide assume per definizione che due numeri reali sono uguali, quando vi corrisponde l’identica sezione di razionali.
Delle due classi di razionali è sufficiente considerare solo la prima; dal momento che la seconda non è altro che la complementare della prima. La prima classe, cioè la classe dei razionali minori di un numero reale dato, è chiamata “segmento” (Strecke in Pasch, 1872). Per cui Euclide, in sostanza, dice che due numeri reali sono uguali quando sono l’estremo dello stesso segmento.
Quello che abbiamo scritto sopra è la pura e semplice traduzione della definizione di Euclide. Noi ci siamo limitati a tradurre dal greco in interlingua e dal linguaggio matematico di quel tempo in quello di oggi.
Quello che non si trova in Euclide è l’affermazione dell’esistenza degli irrazionali. Euclide considera solo quegli irrazionali che vengono fuori da qualche costruzione geometrica, cioè per ripetute estrazioni di radici quadrate; l’esistenza delle grandezze ci viene assicurata dalla geometria.
In Euclide non si trovano proposizioni del tipo:
“Ad ogni sezione di razionali corrisponde un
numero reale”,
o “ogni segmento di razionali ha un limite
superiore razionale o irrazionale”,
o “ogni frazione decimale illimitata rappresenta un numero reale”, ecc. ecc.
Le proposizioni esistenziali precedenti, che si scrivono dopo l’introduzione della teoria dei numeri razionali, contengono l’idea, non precedentemente definita, di “numero reale irrazionale” e, quindi, non possono essere considerati dei postulati, i quali sono relazioni tra idee che si suppongono già note.
Nè possono essere definizioni, poiché non hanno la forma:
numero reale = espressione composta con idee già introdotte…»(34)
Se nella matematica si marcia verso uno sfrenato idealismo o formalismo o nominalismo, come dir si voglia, nella fisica, nella relatività, non si distinguono più le grandezze dai numeri, per cui non si sa se si sta parlando di grandezze o di numeri. Vedi a questo proposito gli scritti dei fisici Notarrigo, Pagano e Di Mauro.(35)
Nelle due tradizioni di pensiero in conflitto anche il significato di vero ha il suo diverso significato.
Per la
tradizione empiristica il vero è il conformarsi o l’adeguarsi del pensiero o
della proposizione alla cosa sensibile, per
la tradizione razionalistico il vero invece, e così siamo al nostro undicesimo elemento della forma-scienza, è il conformarsi della cosa al pensiero,
all’elemento razionale, che si imprime nella proposizione.
Scrive per la prima Aristotele:
«Affermare quello che è e negare quello che non è il vero.»(36)
Per Democrito
invece il vero è “l’elemento razionale di
significato fisico”.
«Democrito talora rifiuta le apparenze sensibili e dice che nulla in esse ci appare conforme a verità, ma solo conforme a opinioni, e che il vero negli oggetti consiste in ciò ch’essi sono atomi e vuoto. Infatti egli dice: “Opinione il dolce, opinione l’amano, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore; verità gli atomi e il vuoto;” vale a dire si ritiene e si opina che esistano le qualità sensibili, ma in verità non esistono queste, sibbene soltanto gli atomi e il vuoto.»(37)
Per la meta-fisica di Democrito, il significato di vero fisico, per essere oggettivo, deve avere carattere razionale, formale, linguistico, come è la sua ontologia. Ho già scritto:
«“Ente” per Democrito è “il pieno”, il “non-ente” e “il vuoto”, il non pieno. Testimonia a tal proposito Aristotele:
“Empedocle ha avuto questa concezione circa i principi (archai) e il
loro numero. Leucippo, invece, e il suo discepolo Democrito pongono che sono
elementi (stoicheia) il pieno (tò plêres) e il vuoto (tò kenòn) , chiamando l’uno essere (tò òn) e l’altro non
essere (tò mè ón), e precisamente chiamano essere il pieno e il solido, non
essere il vuoto e il raro (onde essi affermano che l’essere non è affatto più
reale del non essere, perché neanche il vuoto è « meno reale » del corpo) e
pongono questi <elementi> come cause materiali degli esseri (ton ónton)».(38)
Interpretando questa testimonianza che cosa sono allora” ente “e “non-ente “per Democrito?
“Ente” è il «nome» del pieno, “non-ente” è il «nome» del vuoto.
“Ente” quindi è un mero nome, o se si vuole è il nome proprio di “pieno” come “non-ente” è il nome proprio del “vuoto”. Il loro significato è puramente nominale, linguistico, a cui Democrito però associa un significato razionale.
Di essi, dell’ente e del non-ente secondo Democrito si può dire che esistono, ovvero che sono “idee” o altrimenti che non sono parole senza significato. Stando alle testimonianza, Democrito chiamava i principi (archai), il pieno e il vuoto, “idee”. Essi sono allora idee, indicano cose esistenti, anche se di natura irrazionale. Si può dire pertanto che “pieno e vuoto” sono (= esistono sono essere = appartengono all’essere). Essi, il pieno e il vuoto, sono idee non contraddittorie, per questo di essi si può dire che esistono.»(39)
Per Democrito vale la seguente identità:
Il mondo dell’ente e del non ente, in quanto mondo non contraddìttorio, è il mondo dell’essere. Se scriviamo questo nell’algebra delle classi e delle sue operazioni, allora possiamo scrivere
Essere = Physis = (Ente U Non-ente).
L’essere, che Democrito chiama «physis», è il nome comune di ente e non-ente. Il significato di Physis di Democrito e di Lucrezio è il significato di Essere parmenideo; esso, in quanto principio degli esistenti, o idea, ha come elementi, il pieno e il vuoto.
Nel
linguaggio aristotelico, come dei dossografi, degradato dal punto di vista di
un rigoroso linguaggio filosofico-scientifico, si perde la distinzione tra elemento
(stoicheion) e principio (arché), ovvero tra l’elemento e la sua idea.
Ecco perché Democrito chiamava i principi “idee”!
Democrito si muove dentro la tradizione di pensiero di Parmenide, per il quale le cose sensibili o apparenti non sono l’essere. Per Democrito infatti non sono “ente e non-ente” le cose sensibili o apparenti, sono invece “ente e non-ente” il pieno e il vuoto, che sono physis, essere. Sono essi la physis, l’essere, ciò che può essere pensato e detto, stando alle indicazioni di Parmenide.
Essi, il pieno e il vuoto, hanno le proprietà dell’essere parmenideo: sono “uno”, tanto il pieno, come tutto, quanto il vuoto, suo complementare, sono “indivisibili”, poiché non si può dividere il vuoto (la dizione di “atomo = indivisibile” riferita al “pieno” è solo della nomenclatura piatta e volgare degli aristotelici e dei dossografi), come non si può dividere il pieno, in quanto elemento, assieme al vuoto, dall’idea di essere o di physis, sono quindi “continui”, “limitati”, l’uno dall’altro, “ immutevoli” (non può passare l’uno nell’altro), e quindi “eterni”.
L’essere, come unione di “ente e non-ente”, di ciò che in quanto “tutto” (1’“omne” di Lucrezio) non è contraddittorio, è razionale.
Se si vuole restare alle indicazioni di Democrito per cui l’essere è il mondo del razionalmente compatibile, si può dire pertanto che con la tradizione aristotelica si è smarrita la via dell’essere per seguire la via dell’ente, ma, per restare al linguaggio heideggeriano, dell’ente sensibile, apparente!
Per Aristotele l’essere si dice in tanti modi: come categoria, come sostanza, come potenza e atto, come vero o falso, come accidente.
Ma questo è piatto empirismo, poiché questi sono proprietà degli enti sensibili, anzi modi di dire del linguaggio comune. Di questi Parmenide scriverebbe:
dalle molteplici esperienze ti costringa lungo questa via
a usar l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba di suoni illusori
e la lingua, ma giudica col raziocinio la pugnace disamina che io ti
espongo
…
E’ la stessa cosa pensare e pensare che è
perché senza l’essere, in ciò che è detto, non troverai il pensare
…
Perciò saranno tutte soltanto parole,
Quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero
il nascere e il perire, essere o non essere,
cambiamento di luogo e mutazione di brillante colore
L’essere
aristotelico, in quanto rispecchia modi del parlare, conformi alla mera conoscenza
sensibile, non può essere la realtà, la quale può essere solo razionalmente
costruita.»(40)
6. I principi regolativi del mutamento della
scienza e le tradizioni di pensiero.
Domandiamoci adesso quali sono i principi regolativi che rendono possibile il mutamento della scienza ovvero 1) la sua crescita, l’accumulazione di nuove conoscenze, al di là di quelle acquisite e tramandate, 2) le sue rivoluzioni, quando cambiano i modi stessi del fare scienza, i suoi elementi fondanti e i principi regolativi della sua crescita.
Chiamiamo
intanto l’insieme degli elementi fondanti del fare scienza sia dell’una che
dell’altra tradizione il principio
empiristico e il principio
razionalistico.
Sia l’una quanto l’altra sono convinte che il principio nel momento stesso in cui garantisce la fondazione della scienza nello stesso tempo ne garantisce anche la crescita e le rivoluzioni.
Una concezione sincretica dei due principi è rappresentata da Kant.
Il principio razionalistico, che nel suo caso è rappresentato dalle forme a priori del soggetto conoscente, che Kant chiama anche elementi, garantisce la fondazione della scienza, la sua oggettività, il principio empiristico rappresentato dalle nuove esperienze empiriche garantisce la crescita della scienza. Nel suo caso si misconosce il sorgere di rivoluzioni scientifiche, come mutamento radicale del modo di fare scienza e del farla crescere.
Un’altra concezione sincretica dei due principi è rappresentata da Popper, per il quale la formulazione di ardite ipotesi, il principio razionalistico, garantisce la crescita e le rivoluzioni scintifiche, mentre l’oggettività scientifica è garantita in ultima istanza dal dato scientifico, che nel momento in cui falsifica un’ipotesi, ne corrobora un’altra nella sua oggettività, come nel caso della relatività di Einstein, come emerge dai brani citati precedentemente.
Il dato scientifico è a sua volta garantito nella sua oggettività dall’accordo interpersonale degli scienziati competenti, che per Bourdieu è un elemento di chiusura del costituirsi della scienza.
A questo punto si pone una domanda cruciale:
È il dato scientifico, in quanto oggettivo, in sé, che costituisce l’accordo degli scienziati o è l’accordo degli scienziati che costituisce l’oggettività del dato scientifico ?
E sopratutto: su quali basi si costituisce l’accordo degli scienziati ? Sulla base della competenza?
Ma perché Tolomeo criticato da Galileo è un incompetente in astronomia? O Newton, criticato da Finstein, è un incompetente in fisica?
Bisogna allora ancora riferirsi all’esperienza ripetibile, imparziale, pubblica fatta dagli scienziati, come al dato scientifico ? Siamo cosi in un circolo vizioso!
Allora cosa fa crescere la scienza: il principio razionalistico o il principio empiristico, e soprattutto chi la rivoluziona?
Stiamo poi
attenti: mentre nel nostro caso il principio razionalistico di tradizione
pitagorico-democritea è ben preciso, come abbiamo cercato di dimostrare, nel
caso di Popper è un misto di idee confuse e poco chiare di sociologismo, per gli aspetti
sociali a cui si richiama, e di piatto
empirismo, perché si confonde il dato
scientifico con il dato empirico.
E il dato
scientifico non può essere mai il dato empirico, che resta sempre qualcosa di
complesso e di caotico, non
modellizzabile.
Intanto Popper confonde modello fisico e teoria fisica, non capendo che è il modello fisico ad essere verificato o falsificato e non la teoria.
Chi decide che un modello fisico è verificato o falsificato?
L’accordo degli scienziati ? Ma abbiamo visto che esso ci porta in circolo vizioso. Come uscire dall’impasse!
Intanto bisogna dire che tanto il principio razionalistico, come da noi delucidato, non quello di Popper o di Einstein, un misto di idee sincretiche, ma anche quello di Kant, il cui formalismo trascendentale, modellizzato sulle categorie aristoteliche cade nel grammaticalismo, già da noi dimostrato in nostri precedenti scritti, quanto il principio empiristico sono principi regolativi, metafisici.
Questo per noi significa che la loro verità non è nè qualcosa di empiricamente verificabile o falsficabile, né di formalmente decidibile, ma qualcosa che viene deciso dall’esterno, dal modo di concepire la scienza e il suo mutamento.
Il criterio dell’assunzione della loro verità, e quindi del loro uso, bisogna cercarlo fuori dalla forma-scienza, nel conflitto socio-economico e politico di un determinato momento storico, più che negli aspetti morali e sociali interni dal fare scienza, che si costituiscono nella loro interazione con quello.
Per adesso continuiamo ad indagare ancora sui principi regolativi interni del mutamento della scienza.
Gli elementi della forma-scienza sia della tradizione empiristica che della tradizione razionalistica raccolti nel principio empiristico e nel principio razionalistico, non sono però sufficienti a costituirla e a rendere possibile il suo mutamento, poiché vanno affermati e difesi nello stesso tempo altri principi regolativi, metafisici, nel significato da noi già indicato.
Bisogna postulare nella cosa scientifica, vuoi nella sua forma razionalistica, vuoi nella sua forma empiristica, un principio di legalità, con leggi immutabili, la cui esistenza fonda la possibilità della scienza come ricerca e crescita, contro un altro principio, esso stesso legittimo nella sua ammissione, in quanto metafisico, ma con il quale non si crea la possibilità della scienza e della sua crescita; è questo il principio del caso o del caos o del miracolo operante nell’essenza della cosa naturale, non solo in quella apparente.
Costituire una scienza e la possibilità di una sua crescita significa allora costituire un campo di ricerca, cioè un campo di nessi causali, regolati da leggi, da ben precisi rapporti tra enti a loro volta ben definiti o essenze o idee.
È quanto emerge in un mirabile scritto agli inizi della scienza medica da noi già citato, Sull’arte, di matrice pitagorico-parmenidea, ma inserito nel corpus ippocratico, nel quale si sostiene che un sapere acquista sostanza, forma o ousía, come si scrive nel testo greco, cioè diventa scienza, nel momento in cui costituisce:
1) sue essenze o idee, che rispettano il significato di elemento nel senso pitagorico-democriteo, per il quale il non razionale è l’impossibile, il non pensabile e il non dicibile,
2) un campo di relazioni tra le essenze, fondato sul principio di legalità,
3) forza con questi elementi la natura a parlare un linguaggio vero al di là di quello apparente e soprattutto
4) scaccia il principio che blocca la formazione della scienza e la sua crescita, il principio del caso o dell’autómaton, come si scrive, nel paradigma o modello di natura che si costruisce.
Riportiamo alcuni brani significanti del trattatello a sostegno di quanto da noi affermato.
«Ora la conoscenza di ciò che è, si acquisisce solo dopo che le arti
siano costituite, e non v’è alcuna di esse che non risulti effettivamente da
qualche essenza. Io invero penso che esse abbiano assunto anche i loro nomi in
funzione delle essenze: infatti è contraddittorio pensare che le essenze
derivino dai nomi, ed è anche impossibile: i nomi infatti sono imposizioni
della convenzione, le essenze invece non sono imposizioni della convenzione,
bensì progenie della natura.»(1)
Nel testo greco si afferma l’uguaglianza álogon = adúnaton, cioè contraddittorio = impossibile, di chiara matrice parmenidea. L’elemento è l’eidos o essenza.
E ancora:
«La spontaneità del caso difatti sparisce se viene analizzata
rigorosamente: si scoprirebbe infatti che tutto ciò che accade accade a causa
di qualche cosa, e questo ‘a causa di qualcosa’ rivela che la spontaneità
del caso non ha sostanza alcuna, ma solo un nome.
La medicina invece si inserisce sia nell’ordine di ‘a causa di
qualcosa’ sia in quello delle previsioni razionali, e quindi si rivela e sempre
si rivelerà possedere una sostanza.»(2)
La scienza si costituisce, si dà forma, sostanza, ousía, nel momento in cui scaccia l’autómaton, l’indeterminato dall’ordine della natura, ritenendolo un mero nome.
Il principio del nesso causale o di legalità deve fare riferimento a enti di ordine empirico, o di ordine ideale, sì, ma di significato fisico, non ad altro, del quale non si sa di che cosa si parla, quando si usano nomi quale spirito, dio, demone, o quant’altro.
Chiamo questo il principio immanente. È quanto si afferma in un altro scritto dello stesso corpo ippocratico agli inizi della scienza medica, nel quale si critica il principio opposto, che chiamo il principio trascendente, il quale una volta affermato, non solo bloccherebbe la possibilità della scienza, ma anche quella della sua crescita.
Benchè
quest’altro scritto ippocratico, La
medicina antica, sia ispirato al principio empiristico, conduce però una
stessa battaglia per la scienza e la sua crescita contro il principio trascendente e il principio del caso.
A favore del principio empiristico qui si scrive:
«Non trovai misura alcuna, né numero né peso, la quale valga come punto
di riferimento per un’esatta conoscenza, se non la sensazione del corpo.»(3)
Contro il principio trascendente qui si scrive:
«Circa il male cosiddetto sacro questa è la realtà.
Per nulla - mi sembra - è più divino delle
altre malattie o più sacro, ma ha struttura naturale e cause razionali: gli
uomini tuttavia lo ritennero in qualche modo opera divina per inesperienza e
stupore, giacché per nessun verso somiglia alle altre. E tale carattere divino
viene confermato per la difficoltà che essi hanno a comprenderlo, mentre poi
risulta negato per la facilità del metodo terapeutico col quale curano, poiché
è con purificazioni e incantesimi che essi curano.
Ma se per quanto ha di meraviglioso questo male è ritenuto divino,
molte allora saranno le malattie sacre e non una soltanto, ché io ne mostrerò
altre che non sono meno meravigliose né straordinarie, e che pure nessuno
ritiene essere divine. Così le febbri -
e quotidiane e terzane e quartane -
per niente mi sembrano essere meno sacre e generate da un dio di questo
morbo, eppure non incutono stupore; e ancora vedo uomini impazziti e in preda
al delirio senza alcuna causa manifesta, che si abbandonano a vari gesti
inconsulti; e so di molti che nel sonno gemono e urlano, questi si sentono
soffocare, quelli perfino balzan dal letto e fuggono via finché siano destati,
e poi tornano normali e assennati proprio come prima - ma ne restano pallidi e deboli -,
e tutto ciò non una volta soltanto, ma spesso.
E ancora vi sono casi numerosi e d’ogni genere, ma raccontare di
ciascuno farebbe lungo il discorso.
In verità io ritengo che i primi a conferire un carattere sacro a
questa malattia siano stati uomini quali ancor oggi ve ne sono, maghi e purificatori
e ciarlatani e impostori, tutti che pretendono d’essere estremamente devoti e
di veder più lontano. Costoro dunque presero il divino a riparo e pretesto
della propria sprovvedutezza -
giacché non sapevano con quale terapia potessero dar giovamento -, e affinché la propria totale
ignoranza non fosse manifesta, asserirono che questo male era sacro.»(4)
È difficile stabilire storicamente una linea divisoria tra le due tradizioni, poiché poi troviamo momenti in cui il principio empiristico sposa il principio del caso, come avviene nella meccanica quantistica, dove il caso è entrato nella sua interpretazione come elemento costitutivo all’interno della cosa fisica.
La critica del loro connubio va cercata nei momenti di conflitto sociale, quando uno status sociale, ritenuto fondato sul caso, chiamato anche necessità, dike, nella lingua greca, è contestato nel nome di un nuovo ordine, che può essere solo pensato, per cui si afferma il principio razionalistico, come è nel caso della sofia pitagorica e dello scritto, Sull’arte, di matrice pitagorico-democritea del V secolo a.C., da noi già richiamato.
Non per niente si ritiene da parte degli storici della filosofia e della scienza che il nome di legge naturale, nomos, è stato mutuato dai sofói, o pitagorici, dal suo uso politico, per il quale i nomoteti (i legislatori) si battono e si impegnano nell’agone politico, per trasferirlo nel mondo naturale, nel momento in cui vogliono ricostruirlo razionalmente.
La difesa del principio di legalità può però essere a sua volta invocata a difesa dell’ordine sociale costituito, del dominio di una classe sulle altre, che è quanto fa Platone, nelle Leggi, come abbiamo visto, contro i sofói, cambiando il significato di ordine, inteso, non come costruzione umana, sia nel senso di ordine naturale, costituito dalla scienza, sia di ordine sociale, costituito dalla politica, ma come ordine già dato che va colto e rivelato da pochi, che possono essere i filosofi, i sacerdoti, i vati, o altri.
Quando l’uso
del principio, cambiato nel suo significato, trapassa, dal suo significato
fondativo della scienza e della possibilità della sua crescita, al suo uso a
difesa di un ordine sociale costituito, allora esso trapassa nell’ideologia.
Con il che non
si vuole dire che esso diventa falso, in quanto era vero solo nella sua
assunzione di senso formale, ma viene mistificato,
cioé cambiato di senso, poiché trapassa dal suo senso logico-linguistico,
di costruzione umana, scientifica,
a quello ontologico o persino teologico, e il suo significato
di verità viene deciso dalle circostanze esterne, cioé dal conflitto sociale in corso, in cui si misurano rapporti di
forza, che decidono appunto sul significato di verità, del principio,
assumendolo come reale, nel significato empirico.
Sulle correlazioni complessive “tradizioni di pensiero, ideologia e società” vedremo più avanti, per adesso continuiamo nella nostra indagine dei principi regolativi del mutamento della scienza.
Perché la scienza potesse accrescersi, ha dovuto combattere contro un altro principio regolativo, affermandone in contrapposizione un altro.
Mi riferisco al principio del finalismo, che non è un caso se esso è legato nella storia delle tradizioni di pensiero al principio trascendente e al principio empiristico, e al principio di legalità o di ordine, inteso nel senso di legare quest’ultimo ad un ordine sociale costituitivo, interpretandolo quindi in senso ideologico.
Che il finalismo sia legato al principio empiristico per cui questo pago dell’apparenza, dell’immeditezza della cosa, si rifugia sull’affermazione del fine, per farne il rifugio dell’ignoranza e della non scienza bloccando la ricerca della causa e delle essenze, ovvero il criterio del dubbio, connaturato alla forma-scienza, è affermato in mirabili passi dal razionalista Spinoza, che ci piace qui di seguito riportare:
«Gli uomini fanno tutto in vista
di un fine, cioè di un utile che desiderano; per cui avviene che cerchino
sempre di conoscere solo le cause finali delle cose compiute, e, appena le
abbiano apprese, ne siano paghi: infatti
non hanno più alcun motivo per continuare a dubitare».(5)
Che l’affermazione del fine sia legata nello
stesso tempo ad un principio d’ordine o di legalità di natura conservatrice o
reazionaria in campo socio-politico-religioso e al principio trascendente,
sostenitori del principio di autorità e del dogma, emerge in modo chiarissimo
in questi altri brani di Spinoza.
«Né si deve qui trascurare che i seguaci di questa teoria, che hanno voluto far mostra del loro ingegno nell’assegnare fini alle cose, hanno introdotto un nuovo modo di argomentare, per provare questa loro teoria, la riduzione, cioè, non all’impossibile ma all’ignoranza; il che dimostra che non c’era altro mezzo per sostenere questa teoria. Infatti, se per esempio una tegola è caduta dal tetto in testa a qualcuno e lo ha ucciso, essi dimostreranno che la tegola è caduta per uccidere l’uomo: se, infatti non fosse caduta per questo scopo, per volontà di Dio, come mai tante circostanze (e spesso ne concorrono molte) avrebbero potuto concorrervi a caso? Forse direte che ciò è accaduto perché soffiava il vento e perché l’uomo passava di là. Ma essi insisteranno: perché il vento soffiò in quel momento? e perché l’uomo passava di là proprio allora? Se ancora risponderete che il vento si era levato in quel momento perché il giorno prima il mare, con il tempo ancora tranquillo, aveva cominciato ad agitarsi, e che l’uomo era stato invitato da un amico, insisteranno ancora, perché non c’è mai fine alle domande: ma perché il mare era agitato? perché l’uomo era stato invitato in quel momento? e così via non la smetteranno più di domandarvi le cause delle cause, finché non vi sarete rifugiati nella volontà di Dio, cioè, nel rifugio dell’ignoranza (corsivo nostro). Così pure, quando vedono la struttura del corpo umano si meravigliano, e poiché ignorano le cause di un così grande artificio concludono che è stato creato con arte non meccanica, ma divina e soprannaturale, e che è costituito in modo che una parte non nuoccia all’altra.
Così accade che chi cerca le vere cause dei miracoli, e si forza di capire le cose naturali da scienziato e non meravigliandosi come un ignorante, è generalmente considerato eretico ed empio, ed è dichiarato tale da coloro che il volgo adora come interpreti della natura e degli dèi. Essi infatti sanno che, eliminata l’ignoranza, vien meno anche lo stupore, l’unico mezzo che essi hanno per difendere e sostenere la loro autorità».(6)
Così scrivendo
Spinoza si colloca dentro una tradizione di pensiero, che a suo parere ha reso feconda
la scienza, che lui chiama “la
Matematica”, ma che noi
invece abbiamo chiamato tradizione di
pensiero razionalistica, dalla
quale è stato affermato un altro principio, come condizione del crescere della
scienza, che possiamo denominare principio del determinismo.
Ecco quanto scrive a questo proposito Spinoza:
«Dicono che Dio ha creato tutte le cose con ordine, e così, senza saperlo, attribuiscono a Dio l’immaginazione; quando addirittura non sostengono che Dio, a vantaggio dell’immaginazione umana, abbia disposto tutte le cose in modo che gli uomini potessero immaginarle molto facilmente; né li coglie alcun dubbio nel trovare una infinità di cose che superano di gran lunga la nostra immaginazione, e moltissime che la confondono, a causa della sua debolezza».(7 )
«La verità sarebbe rimasta in eterno celata al genere umano se la Meccanica, che non si occupa dei fini ma solo delle essenze e delle proprietà delle figure, non avesse mostrato agli uomini una norma diversa di verità»(8)
Nel principio del determinismo viene ricapovolto ciò che nel principio finalistico è capovolto, seguendo il principio empiristico.
Scrive così Spinoza:
«Questa teoria del fine capovolge tutta la natura. Infatti essa considera come effetto ciò che in realtà è causa, e viceversa. Inoltre rende posteriore ciò che in realtà è anteriore».(9)
È quanto faceva, nel solco della tradizione razionalistica, il filosofo Lucrezio nel II sec. a. C., ispirandosi al pensiero di Democrito:
«Qui voglio che tu fugga a ogni costo quel vizioso ragionamento, ed eviti con ogni cautela l’errore di credere che il limpido lume degli occhi sia stato creato perché possiamo vedere; e per consentirci di muovere lunghi passi, le estremità delle gambe e delle cosce fondate sui piedi possano piegarsi; o, ancora, che gli avambracci siano congiunti ai bracci robusti, e ci siano date le mani come ancelle ai due lati, perché possiamo compiere quanto occorre alla vita. Tutte le altre spiegazioni di tal genere, che gli uomini danno, stravolgono la verità con assurdo ragionamento, perché nessun organo si è formato nel corpo per consentirci di usarlo, ma ciò che è nato genera poi l’uso (il corsivo è nostro). Né la vista fu prima che nascesse il lume degli occhi, né l’esprimersi con la parola avanti che fosse creata la lingua, ma piuttosto la nascita della lingua precorse di molto il parlare, e le orecchie furono create ben prima che s’udissero i suoni, e insomma tutte le membra esistettero, io credo, prima che sorgesse il loro uso. Non poterono, dunque, formarsi in vista dell’uso. Al contrario, azzuffarsi nella mischia della battaglia e lacerare membra e bruttare il corpo di sangue, furono molto prima che volassero i lucidi dardi, e la natura costrinse a evitar le ferite prima che il braccio sinistro, educato dall’arte, opponesse a difesa lo scudo. E, certo, abbandonare il corpo stanco al riposo è assai più antico, che le morbide coltri del letto, e spegnere la sete nacque prima dei calici. Si può credere dunque che in vista dell’uso siano stati scoperti questi oggetti, ispirati ai bisogni della vita. Ma sono a parte tutte quelle altre cose che, già prima formate, suggerirono poi la nozione della loro utilità. Tra queste in primo luogo vediamo i sensi e le membra; dunque; più che mai sei lontano dal poter credere che per l’utile loro funzione siano stati creati».(10)
Il principio razionalistico, di andare oltre le apparenze alla ricerca degli elementi, che, in quanto si ritengono di natura logico-linguistico, sono considerati quindi passibili di critica e quindi di mutamento, spezza il circolo vizioso improduttivo del principio empiristico, di andare dall’organo all’uso e viceversa, di presupporre la scienza prima della scienza, di conoscere già l’organo attraverso il suo uso empirico, poiché esso punta ad indagare su come l’organo si è fatto e come si è fòrmato relazionandosi all’ambiente attraverso un lento adattamento.
L’affermazione del fine blocca la ricerca degli elementi, cioé delle possibilità insite nella cosa e quindi del loro inveramento, cioé blocca la nascita e la crescita della tecnica, ovvero la costruzione di una natura artificiale, a misura d’uomo, o della politica, come tecnica del possibile, cioé di un nuovo possibile ordine uomo-natura, uomo-uomo.
Se nella tradizione empiristica e finalistica, la scienza, come in Aristotele, è la conoscenza del necessario, il quale viene stabilito dall’uso, dall’apparente, che rivela nell’interiore ciò che esso deve essere, nella tradizione razionalistica, quella da noi delineata, la scienza diventa la conoscenza del possibile, poiché, attraverso la conoscenza degli elementi e delle loro leggi, la necessità, si riverbera, sì, nell’apparente, ma in quanto la scienza è conoscenza degli elementi e delle loro leggi, questi possono essere immaginati diversi da come sono, nei limiti della necessità conosciuta, dando luogo ad una conoscenza del possibile, dove il vero, e l’oggettivo, ancora una volta sono il razionale, il logico-linguistico costruito, che è il solo che può essere criticato, modificato e migliorato, e quindi costruito ontologicamente nella realtà empirica.
Qui il vero non è più l’adeguamento della ragione al sensibile, ma del sensibile al vero della ragione. Questa non tende solo a giustificare, ma anche ad inventare, creare e migliorare. Per questo vale il principio di libertà e del progresso, per l’altro il principio dell’autorità e della conservazione o della reazione.
Ha descritto in modo mirabile questa logica della scienza il Vailati, del quale si può leggere il brano che citiamo:
«“Questa efficacia della deduzione, come mezzo di generalizzazione, sussiste sempre, anche quando nessun caso reale abbia luogo, o si conosca, pel qual si presentino le condizioni richieste pel verificarsi dell’una o dell’altra delle premesse, senza che, nello stesso tempo, si verifichino anche tutte quelle che sono ulteriormente richieste per il verificarsi di ambedue, e quindi anche della conclusione da esse dedotta. Per spiegarmi con un esempio, se anche le leggi di Keplero avessero corrisposto ai movimenti effettivi degli astri non meno esattamente di quanto vi corrispondano i risultati che si ottengono per deduzione dalle leggi di Newton, la sostituzione di queste ultime alle prime non avrebbe perciò mancato di rappresentare un passo verso una maggior generalizzazione, in quanto che mentre le leggi di Keplero non si riferiscono che ai moti che i pianeti hanno effettivmnente, quelle di Newton (anche facendo astrazione dal fatto che esse abbracciano anche il caso dei moti dei gravi alla superficie della terra) ci dicono qualche cosa anche sui moti che essi avrebbero, o avrebbero avuto se la distribuzione iniziale delle masse e delle velocità fosse stata diversa.
Nelle scienze che hanno rapporto colla pratica, che si riferiscono cioè a fatti in parte soggetti al controllo della volontà umana, le congetture relative a ciò che avverrebbe, se si verificassero condizioni che mai si verificarono in passato, hanno tanta e, spesse volte, maggiore importanza che non le cognizioni relative a ciò che avviene, o è sempre avvenuto, in assenza di tali nuove condizioni.
È perciò che alla deduzione va attribuita una funzione assai più importante come mezzo di invenzione che non come mezzo di scoperta. La parte che le compete nelle invenzioni meccaniche è messa assai bene in luce dal Reulaux (Cinematica. Traduzione italiana del professore Colombo, pag. 22). Sono pure da consultare a questo proposito le opere del Kapp (Philosophie der Technik) e dell’Espinas (Tecnologie des Grecs). Analoghe considerazioni possono forse dar ragione del fatto spesse volte notato che, anche per quanto riguarda lo studio dei fenomeni sociali, i più arditi inventori e costruttore di schemi di riforme, e i critici delle teorie giustificatrici dell’istituzione e degli ordinamenti sociali effettivamente esistenti sono precisamente quelli tra gli investigatori che si distinguono per una maggiore tendenza verso l’uso, o anche l’abuso, della deduzione (per esempio Rousseau e Marx)».(11)
Ciò che il
Vailati non coglie e quindi non spiega è che questa dialettica, come da
noi descritta con Spinoza, è scandita ancora una volta dal conflitto sociale.
Per passare ad una teoria più generale dell’oggettività scientifica e del suo mutamento domandiamoci adesso: chi decide per una logica della giustificazione e/o dell’invenzione oppure del progresso?
E soprattutto chi determina il passaggio dell’oggettività logico-linguistica alla sua
interpretazione ontologica, visto che nel dato empirico non si può dare alcuna
oggettività, e se esistesse, nessuna crescita della scienza, poiché si può
criticare l’interpretazione del dato, ma non il dato in sé stesso ?
Insomma chi decide l’uso di una tradizione di pensiero a scapito di un’altra; con i principi ad ognuna di esse connessi?
7. La dialettica degli elementi e dei principi
7.1 Ideologia e conflitto sociale.
Domandiamoci per prima più precisamente: le due tradizioni di pensiero con elementi e principi propri, che denotano e arricchiscono le forme della scienza, procedono secondo due linee parallele, che si interrompono e riprendono il proprio percorso, all’interno di uno scontro aperto e trasparente nel divenire del mutamento sociale?
Ognuna ha elaborato nel tempo una sua forma di scienza con elementi e principi propri del farsi e del crescere della scienza. Per l’una chi fa nascere e mutare la scienza è la conoscenza dei fatti empirici, di volta in volta osservati e scoperti, per l’altra è invece la ragione che costruisce e allarga il numero dei fatti da indagare, mentre rivoluziona quei fatti, trasformati in dogmi, in verità ritenuti oggettivi, non soggetti a critiche o a revisioni.
Ma la dinamica delle due forme di scienza frutto di due tradizioni di pensiero è così chiara, semplice e lineare come sembra delineata? No!
In realtà
nella dinamica delle due forme di scienza si sviluppa una dialettica ideologica, nel senso da noi già indicato, che
può rendere progressive o regressive le due forme di scienza a seconda delle
circostanze storiche.
Per cui se è vero che è il principio razionalistico che fa crescere la scienza, quando interpreta il fatto empirico, oltre la sua apparenza osservata, portando ad altri fatti ideali, ma ritenuti reali, poiché verificabili, anche se indirettamente, può accadere che esso si trasformi in principio ideologico, quando diventa principio idealistico o idealismo con l’affermazione dell’indipendenza della ragione nella conoscenza del reale, senza il confronto con il fatto empirico.
L’appello ai fatti, a quelli osservati o osservabili,
diventa allora rivoluzionario nei
confronti di una ragione presuntuosa e sterile di nuove conoscenze,
formalistica, parassitaria e verbalistica.
È il caso storico di Bacone, che fa appello ai fatti, contro una ragione sterile e verbalistica, quale quella aristotelica, che informa la scienza del suo tempo.
Lo stesso dicasi per il principio empiristico quando esso si trasforma in principio ideologico, cioè in principio positivistico o positivismo, per cui l’appello ai fatti diventa un modo per negare il principio razionale, per il quale oltre ai fatti è possibile postulare elementi razionali che li spiegano e che stanno oltre ai fatti empirici, relativi ed apparenti, o che li superano, perché contradditori e limitativi di bisogni e di valori umani di libertà e di giustizia.
È il caso di Galileo, il cui appello alla ragione contro i fatti empirici, è condotto nel nome di una ragione scientifica, di tradizione pitagorico-democriteo-archimedeo non riconducibile a strumento di registrazione di fatti, molte volte apparenti e ingannevoli. Rimando ancora una volta al saggio di Vailati, già citato ampiamente.
È il caso pure dell’Illuminismo, che, contro ingiustizie e privilegi sociali, giustificati come fatti naturali, rivendica invece il carattere naturale, di principi ritenuti però razionali, nel nome dei quali critica e lotta contro l’ordine esistente.
Il platonismo con il suo principio idealistico e l’aristotelismo con il suo principio positivistico rappresentano secondo questa interpretazione allora forme ideologiche delle due forme di scienza.
Il platonismo cambia il senso degli elementi del principio razionale, quali ad esempio quelli di modello ideale o di numero, ritenendoli indipendenti dalle grandezze e dal confronto con il fatto empirico, e dà loro un significato di verità, ovvero natura ontologica, come cambia il senso del principio di legalità in quello di ordine, dando ancora una volta a quest’ultimo un significato di verità di natura ontologica.
L’ordine in
natura si ritiene già dato, come già abbiamo visto, citando Platone
precedentemente, fissato; esso va rivelato dal filosofo-veggente,va
salvaguardato e ripristinato, nel caso in cui venisse infranto, dal guardiano
dell’ordine, il Consiglio notturno.
Esso non rappresenta un momentaneo equilibrio, instabile, soggetto al caso e alle circostanze esterne che con esso possono interagire, infrangendolo, portando ad uno stato di conflitto, però aperto ad un nuovo possibile ordine, né la scienza, quale tecno-scienza, volta a ricostruire e a modificare lo stato di disordine naturale, né la politica, quale sapienza tecnica, volta a conoscere e a modificare o migliorare il disordine politico in atto, devono permettersi il compito di determinare un nuovo ordine naturale o socio politico, che non sia quello stesso, che la natura manifesta, senza cadere nello stato di superbia, di hybris, di rottura del limite posto dall’ordine voluto dagli dei.
Come si vede
lo stravolgimento ideologico della forma-scienza può portare al connubio del principio idealistico con il
principio positivistico, alla convivenza dei due nella comune opposizione al
cambiamento.
Infatti se da una parte si idoleggia la ragione in contrapposizione alla natura, apparente e transeunta, con la teoria delle idee, esistenti in mondo stabile e permanente, in un altro mondo, nell’iperuranio, dall’altra in politica e nella prassi naturale si idoleggia il fatto naturale, ritenendolo immodificabile, divino, insomma si inneggia al più bruto e volgare materialismo o naturalismo.
Per cui se in
una forma-scienza il principio
razionalistico è progressivo e democratico, poiché concepisce un determinato ordine naturale e sociale
come stato transeunte, modificabile, grazie alla costruzione-immaginazione di
un nuovo ordine, per mezzo dell’intervento della sapienza tecnica e politica,
nell’altra nella sua forma ideologica, quella platonica, esso diventa regressivo, autoritario ed elitario.
Si proibisce un ordine artificiale, frutto della costruzione razionale e democratica degli uomini, grazie allo scontro e al confronto, per delegare ad una ristretta cerchia di legislatori il compito di preservare l’ordine e di ripristinarlo, se dal conflitto sociale e dalla crescita della conoscenza si fosse portati a modificarlo.
Se per Antifonte sofista lo stato naturale degli uomini è l’uguaglianza, per Aristotele lo stato naturale di alcuni uomini è quello di essere schiavi, inferiori ad altri uomini.
Qui il principio empiristico, di attenersi ai fatti, a ciò che noi osserviamo, tende a farsi ideologia, positivismo, sottomissione ai fatti, ritenuti immodificabili.
Nell’aristotelismo quale forma ideologica, il principio deterministico della relazione di causa ed effetto viene rovesciato nel suo opposto, è l’effetto che guida la causa. Però se nell’uno la relazione causa-effetto è giustificata in modo neutro, poiché altre cause potrebbero determinare l’effetto, o perché si ritiene che la causa può essere modificata o sospesa, se in conflitto con esigenze o valori umani, insomma è un principio progressivo di modifica e di possibile miglioramento, nell’altra, la relazione di causa ed effetto è guardata dal punto di vista di un giudizio di valore, poiché solo quell’effetto giustifica il determinismo della causa, per cui essa non va soppressa né modificata. Insomma il finalismo porta ad un determinismo rovesciato più rigido, oltre che ad un becero oscurantismo, all’arresto del progresso della conoscenza, poiché se il fine oramai giustifica la causa, questa non va più indagata oltre, come anche al più brutale autoritarismo, poiché chi ritiene oramai di conoscere il fine, si ritiene di essere in dovere di reprimere o di non tollerare, chi questa concezione del fine non la condividesse. La conoscenza del fine, accessibile ai pochi, porta una concezione della conoscenza di natura elitaria, riservata a caste, gerarchie, chiese, filosofi-veggenti, ecc. ecc., limitativa pertanto della libertà della ricerca scientifica, del confronto-scontro razionale e democratico tra gli uomini, circa la concezione condivisa di un fine o valore.
Succede,
quando l’elemento non cambia solo di senso, che esso può anche essere soppresso
nella costruzione della scienza, assumendo quali
elementi primitivi le leggi stesse,
che si desumono dai fatti empirici osservati, ritenuti primordiali.
La costanza della velocità della luce, fatto in sé complesso ed apparente, viene posto nella relatività, quale assioma fondamentale, assumendo la luce, concetto in sé oscuro, quale elemento della teoria.
Nella teoria della spiegazione scientfica poi può scomparire qualunque riferimento agli elementi dall’insieme delle premesse, come è nel caso citato di Popper.
Se con il primo, Einstein, siamo dentro una forma-scienza ancora di tipo empiristico, come detto, discutibile e criticabile, dal punto di vista opposto, quello razionalistico, con l’altro, Popper, siamo chiaramente dentro una forma ideologica di scienza, poiché il fine politico, è chiaramente espresso nei suoi scritti.
Con la forma di scienza che Popper propone intende criticare le forme, a suo dire, sbagliate, di scienza, che indica principalmente nel marxismo.
È noto come Popper abbia ancorato la sua riflessione epistemologica al suo giovanile incontro del 1919 con la teoria della relatività di Einstein e con altre tre teorie: la teoria marxista della storia, la psicanalisi di Freud e la psicologia individuale di Adler.
Ciò che della prima impressiona il giovane Popper, in cerca di un “criterio per determinare lo stato scientifico di una teoria”, è l’alto potere di rischio delle sue previsioni, mentre ciò che lo lascia insoddisfatto delle altre è il loro “apparente potere esplicativo”. <Esse sembrano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi in cui si riferivano>. È in questa loro forza apparente che il giovane Popper scorge la loro intrinseca debolezza. La validità di una teoria scientifica sta nelle sue limitazioni: <Ogni teoria scientifica valida è una proibizione> <una teoria che non può essere confutata, non è scientifica; ogni controllo genuino di una teoria è un tentativo di falsificarla>... Dato il decalogo dello statuto della scienza, Popper quindi proclama scientifica la teoria di Einstein, poiché <la teoria einsteiniana della gravitazione soddisfaceva chiaramente il criterio della falsificabilità,>(1) e caccia la teoria marxiana della storia nell’alveo della pseudo-scienza, come l’astrologia.
<Nell’analisi della ‘incombente rivoluzione sociale, le previsioni erano controllabili, e di fatto furono falsificate. Tuttavia, invece di prendere atto delle confutazioni, i seguaci di Marx reinterpretarono sia la teoria che i dati per farli concordare..., imposero una mossa convenzionalistica alla teoria e con questo eliminarono la sua conclamata pretesa di possedere uno stato scientifico>.(2)
Quanto riportato tra virgolette, è stato esposto da Popper in una conferenza del 1953, poi riveduta per un saggio pubblicato in Congetture e confutazioni. Lakatos, riprendendo i temi dell’epistemologia popperiana per una loro revisione, accusa i marxisti di disonestà intellettuale, perché, essi non specificano “con precisione le condizioni alle quali si accetta di rinunciare alla propria posizione”.(3)
È strano, tuttavia che Popper come esempio di teoria falsificabile, porti proprio la teoria della relatività generale che, fra tutte le teorie fisiche, è quella meno falsificabile, come è ben noto nella letteratura specialistica. Ed infatti Popper doveva, già nel 1953, sapere che Einstein nel 1916, proprio grazie ad un artificio ad hoc, introducendo la costante cosmologica nelle equazioni nel campo gravitazionale, aveva tentato di evitare le conseguenze spiacevoli derivanti dalle sue primitive equazioni del campo gravitazionale con la soluzione datane da Schwarzschild, pur essendo consapevole che l’esistenza o meno di questa costante non fosse accertabile. Sembra esagerata, pertanto, l’accusa di disonestà intellettuale per l’uso di stratagemmi convenzionalistici fatta ai marxisti, quando Popper avrebbe tutto sommato dovuto riconoscere che lo stesso Einstein era stato costretto, pur di salvare il suo programma macchiano, a ricorrere ad un artificio ad hoc, dando le equazioni del campo gravitazionale modificate. Si noti che non è tanto Marx ad essere criticato da Popper di mancanza di scientificità, quanto i suoi seguaci per l’uso di ipotesi ad hoc. La teoria di Marx ha un suo statuto scientifico, poiché ha elaborato delle previsioni che erano controllabili, anche se poi sono state falsificate. Appare anche strana la critica di Popper alla ‘teoria della storia’ di Marx, quando questi ha sempre rivendicato lo statuto di scienza solo alla sua analisi della società capitalistica e al modello teorico che di essa ha elaborato in sintonia con quello già in atto nelle scienze empiriche.
Come lavora in verità Marx nella sua produzione scientifica?
Non certamente in modo diverso da Newton. Anche se non in forma astrattamente assiomatica, Marx dà i suoi assiomi, le sue definizioni, semplifica i concetti, dà gli elementi, in senso italico, della teoria, «le merci», definite dalle loro «idee di proprietà», che quindi non sono «le merci sensibili», dà in un primo momento nel libro I del Capitale un modello semplice idealizzato della società capitalistica che è oggetto del suo studio scientifico.
Le merci «come valori sono soltanto misure determinate di tempo di lavoro», scrive Marx.
L’assioma fondamentale di Marx è che, in assenza di cause perturbative, il prezzo di mercato delle merci tende a coincidere con il valore di mercato delle merci (empiricamente quindi si potrebbe poter verificare che la media temporale dei prezzi di mercato, su un intervallo di tempo sufficientemente lungo, deve coincidere con il valore di mercato delle merci, che si può determinare empiricamente con un campionamento statistico effettuato sui tempi medi-sociali di lavoro impiegati nelle varie industrie per la produzione delle merci).
In base a ciò
in un primo momento Marx costruisce un modello semplificato in cui «le merci si scambiano secondo il tempo di
lavoro necessario in esse coagulato».
È a partire dai suoi concetti semplificati, dalla sua definizione di valore, e dal suo assioma fondamentale, che Marx dapprima costruisce il suo modello semplice ed idealizzato della società capitalistica, a due classi, la classe dei possessori dei mezzi di produzione, i capitalisti, e la classe dei possessori della forza-lavoro, gli operai, considerati nel momento dello scambio di quella specifica merce, che nella società capitalistica moderna, è la forza lavoro, e considera un ciclo economico, prima a riproduzione semplice, e poi a riproduzione allargata, in cui c’è produzione di un surplus, e quindi la possibilità di un plusvalore.
Il problema di Marx è l’origine di questo plusvalore. Il suo teorema fondamentale, che vale anche nella teoria di Morishima, Seton e Okishio, è che ci sono profitti positivi se e solo se è positivo il saggio di sfruttamento.
Marx dimostra poi altre leggi, dalla eventuale falsificazione di alcune delle quali non si può inferire la falsificazione di tutta la sua teoria economica, come dal fatto che alcune leggi di Galileo non sono più considerate valide non si può inferire che la teoria di Galileo e il suo metodo di indagine non siano validi.
Marx quindi come pure Newton ha costruito un suo sistema assiomatico, nella spiegazione della società capitalistica, ha dato i suoi elementi, ha attivato modelli attraverso il metodo idealizzazionale, ha semplificato concetti, ha dedotto teoremi, ma soprattutto ha seguito da grande scienziato la prassi teorica della concretizzazione dei suoi modelli.
Si è criticato
infine una contraddizione fondamentale nella
struttura teorica di Marx, tra la sua equazione
dei valori e la sua equazione dei prezzi.
Ma dire cha la teoria di Newton, poiché suppone un sistema fisico ad un solo corpo con una forza centrale, è incoerente, in quando le leggi di Keplero, così come da essa vengono dedotte non corrispondono alla realtà effettiva, o che la legge di Galileo s=l/2gt2 è incoerente, poiché ad una osservazione superficiale viene smentita dalla realtà, è tanto assurdo quanto il dire che la teoria di Marx è incoerente, perché i prezzi di produzione, che il capitalista industriale vende al capitalista commerciale, non coincidono con i valori.
Ma quali prezzi? A quale livello teorico sono definiti? In quale modello idealizzazionale sono inseriti e quale è il loro spessore semantico? Marx, come già i grandi fondatori della scienza antica italica e moderna, opera su modelli prima molto semplici e poi via via più complessi attraverso la concretizzazione. Scambiare i suoi modelli con la realtà, i suoi termini teorici, definiti all’interno di una teoria con i suoi modelli, con termini empirici o surrettiziamente e inconsapevolmente assunti da altre teorie, è il grosso errore epistemologico, che ha commesso la critica nei riguardi di Marx e quella di Popper in particolare.
Marx come già
Einstein, si sono attenuti ad una tradizione di pensiero, hanno costruito una scienza fisica ed economica, sono scienziati,
Platone, Aristotele, Popper come poi Hegel, sono ideologi della scienza,
sia perché non hanno costruito alcuna scienza, sia perché hanno sostenuto o difeso una forma di ideologia di
scienza dentro una tradizione di pensiero.
Se Platone, Aristotele ed Hegel si muovono però dentro una ideologia chiaramente reazionaria, ostile al cambiamento, Popper sembra muoversi con la sua idea della società aperta dentro una ideologia progressista, che per la verità a noi non sembra vero.
Popper non vede o non vuole vedere poiché ne ha terrore, che la storia è attraversata, nostro malgrado, da momenti di rottura rivoluzionaria, dal punto di vista socio-economico-politico, da cui sono scosse anche le sue forme di scienza, usate in tempi normali di crescita sociale e scientifica, con le sue strutture epistemiche e sociali a questi corrispondenti.
Per cui è nei
momenti di crescita cumulativa della conoscenza, a cui corrisponde nel profondo
una situazione di statica sociale, nelle sue strutture
socio-econimico-politiche, che si adotta per
lo più il principio empiristico della verifica, a giustificazione 1) dell’ordine
sociale costituito, con i suoi fatti
sociali, o 2) delle teorie scientifiche dominanti, con i suoi fatti naturali.
Il principio
razionalistico viene emarginato, o represso, o eliminato, o idealizzato, poiché
vive una sua vita solo apparente nel
campo dell’astratto e del formale, né le forme sociali della conoscenza scientifica, di qualunque tipo, sembrano
scalzare una forma di conoscenza di
tipo positivistica, dominante. Il fatto naturale e sociale è ritenuto sacro,
intoccabile, vuoi per il crescere della scienza vuoi per le sue apparenti rivoluzioni.
Relatività e meccanica quantistica sono ritenute rivoluzioni, in verità sono un ritorno ad una forma di scienza di tipo empiristico, quando non vengono avvolte dalla nebbia della forma ideologica con il ritorno di vecchi elementi e principi avversi alla tradizione chiamata classica (per noi razionalistica) della scienza.
Tutto ciò si è cercato di dimostrare un po’ più approfonditamente e dettagliatamente nei miei articoli pubblicati nel tempo.
Il principio
di razionalità entra in campo nei momenti di rottura rivoluzionaria, nel campo
socio-economico-politico, quando ad elementi
empirici si contrappongono elementi
razionali, di spiegazione
scientifica, quando a fatti sociali e naturali, ritenuti esaustivi del campo empirico,
si contrappongono altri fatti,
prima occultati, o eliminati, o
diversamente interpretati.
Le teorie scientifiche
possono adesso essere rivoluzionate,
falsificate, assumendo una nuova forma
di scienza con suoi elementi e principi, nuovi fatti e nuove interpretazioni.
I nuovi fatti mettono in crisi la forma ideologica del principio razionalistico; le nuove interpretazioni mettono in crisi la forma ideologica del principio empiristico.
Così la
scienza, con i suoi elementi e principi, le sue forme epistemiche e sociali, le
sue forme ideologiche progressive e regressive, a seconda delle circostanze
storiche, i suoi vecchi e nuovi fatti e le sue vecchie e nuove interpretazioni,
vive nel groviglio dello scontro
sociale, quando a forme
ideologiche si contrappongono forme ideologiche antagonistiche nel divenire del
conflitto storico-sociale, a classi sociali in declino si contrappongono classi
sociali in ascesa, a ceti politici e religiosi dominanti si contrappongono
forme politiche e culturali in lotta per il potere, a forme di concepire l’essere naturale, o ritenute tali, si
contrappongono nuove forme di concepire
l’essere naturale.
Insomma in
Popper il criterio metodologico della
falsificazione si fa ideologia, poiché gli si
assegna in tempi di statica sociale una vita vera, quando invece vive una vita apparente, gli si assegna una
vita che non ha, poiché si accettano solo verifiche a quanto è già stato
stabilito, sugli elementi e sui principi, fuori nello scontro sociale,
mosso da interessi o da rapporti
di forza.
Certo che vecchi fatti resitono, mentre nuovi fatti si aggiungono, la conoscenza cresce, ma quello che conta sono le interpretazioni, le spiegazioni scientifiche, le forme di scienza, entro cui sono collocate, e queste sono decise fuori, del divenire della conoscenza, dal conflitto sociale, entro cui viene interpretato anche il conflitto uomo-natura, scienza-tecnica-natura.
Nella politica, quale suprema forma ideologica, entro cui esso stesso si media, quale interpretazione dei fatti socio-politici, si mediano le forme ideologiche della scienza e della tecnica, mentre quale campo fondamentale entro cui si giocano i rapporti di forza sociali si afferma il dominio dell’una o dell’altra forma di scienza.
Non per niente grandi ideologi, quali Platone e Aristotele, Hegel, Marx e Popper, hanno rivolto alla forma politica particolare attenzione.
Nella politica si costruisce il luogo della scienza, delle forme di scienza, del loro dominio come del loro declino, di breve o di lungo periodo, fino a quando profondi sconvolgimenti sociali, le mettono in discussione o di nuovo in campo.
Siamo adesso in grado di rispondere al nostro quesito fondamentale: chi decide ciò che è oggettivo o non oggettivo, nelle costruzioni scientifiche; sono le loro pratiche epistemiche e/o i loro metodi di organizzazione sociale della scienza?
7.2 Oggettività scientifica e tradizioni di pensiero.
Leggiamo il seguente brano dello scienziato, fisico ed economista, Georgescu-Roegen:
«Il fatto palese che tra il processo economico e l’ambiente
materiale esista una mutua, ininterrotta influenza è irrilevante agli occhi
dell’economista standard. E lo stesso è vero per gli economisti marxisti, i
quali giurano sul dogma di Marx secondo il quale tutto ciò che la natura offre
è un dono spontaneo. Anche nel famoso diagramma marxiano della riproduzione il
processo economico è rappresentato come qualcosa che è completamente circolare
e che si autoalimenta.
Ma autori precedenti avevano guardato in un’altra direzione: per
esempio William Petty il quale sostenne che il lavoro è il padre e la natura la
madre della ricchezza. L’intera storia economica dell’umanità dimostra al di là
di ogni dubbio che anche la natura svolge un ruolo importante nel processo
economico, oltre che nella formazione del valore economico. È tempo, io
credo, che accettiamo questo fatto e ne consideriamo le conseguenze
per il problema dell’umanità».(1)
Vediamo come ciò che per Georgescu-Roegen è un fatto oggettivo, che dovrebbe essere notato da tutti, in quanto in sé palese, invece dalla scienza economica standard non è stata notato.
Noi abbiamo adesso una nostra risposta.
Intanto non è vero che in Marx non viene notato il fatto che il processo economico sia un processo di interazione dell’uomo con la natura.
Scrive, per
citare uno dei tanti passi di Marx, ne “Il
Capitale”:
«Il processo lavorativo, come l’abbiamo esposto nei suoi movimenti semplici e astratti, è attività finalistica per la produzione di valori d’uso, appropriazione degli elementi naturali pei bisogni umani, condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita e, anzi, è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana».(2)
La verità è pertanto un’altra. Sono stati i marxisti che non hanno notato e denunciato il degrado naturale e ambientale, e quando lo hanno messo in evidenza, poiché il conflitto uomo-natura, o meglio il conflitto sistema economico-natura emergeva sempre più, si veniva evidenziando, si faceva palese, questo in contrapposizione veniva occultato, o diversamente interpretato dalla scienza economica dominante mossa da interessi di classi o da difesa della legge del profitto o del mercato.
Si legga
quanto deve scrivere l’economista J.E.Stiglitz, di formazione non marxista, a
proposito di scienza economica ed ideologia:
«Troppo spesso, la scienza economica è stata soppiantata dall’ideologia — un’ideologia che ha dato chiare indicazioni, ma non sempre ha costituito una guida efficace, e perfettamente allineata agli interessi della comunità finanziaria anche se, quando non funzionava, quegli stessi interessi venivano danneggiati.
Una delle distinzioni importanti tra ideologia e scienza è che quest’ultima prende atto dei limiti di ciò che conosce. L’incertezza c’è sempre. Per contro, l’FMI non ama mai discutere delle incertezze associate alle politiche che raccomanda, ma piuttosto preferisce proiettare un’immagine di infallibilità. Questa presa di posizione e questa mentalità gli impediscono di trarre insegnamento dagli errori del passato. Come può imparare da quegli errori, se nemmeno li ammette?»(3)
Ma perché l’FMI non ammette i propri errori, e, aggiungiamo noi, non si lascia guidare dal principio di falsificazione di Popper?
Perché è guidato, a dire dello stesso Stiglitz, da precisi interessi finanziari e commerciali, dal fondamentalismo del mercato o del profitto.
«L’ideologia fornisce una
lente attraverso la quale guardare il mondo facendo riferimento a una serie di
convinzioni talmente radicate da non richiedere praticamente nessuna conferma
empirica. Qualsiasi elemento vada a contraddire queste convinzioni viene
sommariamente rifiutato».(4)
Dobbiamo dire allora che Marx aveva ragione quando scriveva:
«Nel campo dell’economia politica la libera ricerca scientifica non incontra soltanto gli stessi nemici che incontra in tutti gli altri campi. La natura peculiare del materiale che tratta chiama a battaglia contro di essa le passioni più ardenti, più meschine e più odiose del cuore umano, le Furie dell’interesse privato».(5)
Oggi una nuova forma di scienza economica è possibile, perché il conflitto uomo-natura si va facendo sempre più esplosivo, più dirompente per il destino umano. Scrive ancora Georgescu-Roegen:
«Dobbiamo inventare una
nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo
razionale del progresso e delle applicazioni della tecnica, per servire i reali
bisogni umani, invece che l’aumento dei profitti o del prestigio nazionale o
le crudeltà della guerra. Dobbiamo elaborare un’economia della sopravvivenza,
anzi, della speranza, la teoria di un’economia globale basata sulla giustizia,
che consenta l’equa distribuzione delle ricchezze della Terra fra i suoi abitanti,
attuali e futuri. È ormai evidente che non possiamo più considerare le economie
nazionali come separate, isolate dal più vasto sistema globale. Come
economisti, oltre a misurare e descrivere le complesse interrelazioni fra
grandezze economiche, possiamo indicare delle nuove priorità che superino gli
stretti interessi delle sovranità nazionali e che servano invece gli interessi
della comunità mondiale. Dobbiamo sostituire all’ideale della crescita, che è
servito come surrogato della giusta distribuzione del benessere, una visione
più umana in cui produzione e consumo siano subordinati ai fini della
sopravvivenza e della giustizia»(6)
Se il conflitto uomo-natura diventa sempre più acuto, quello sociale, oggi, a nostro modesto parere, sembra languire, per cui non si crea una forma ideologica alternativa e progressiva, con una sua forma di scienza, dentro una tradizione di pensiero, ad essa conforme, poiché le forze sociali alternative antagonistiche non si delineano bene e non si organizzano in modo omogeneo nel multiforme groviglio sociale degli interessi contrapposti e dei rapporti di forza in campo.
Parafrasando Marx, a questo punto, possiamo affermare: la scienza economica, oggi, in quanto immagina l’ordine capitalistico come forma assoluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere, oggi, una particolare forma ideologica di scienza, finché la lotta sociale rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati o di pura protesta.(7) Quale forma ideologica di scienza oggi accomuna l’economia alla fisica e alla matematica?
È il soggettivismo e con esso la forma
ideologica del principio empiristico e del principio razionalistico !!!
Nella forma ideologica dominante di scienza economica
il punto di partenza e di arrivo è un
illusorio soggetto o persona, o individuo, o singolo, come genericamente si
dice, che produce e consuma secondo scelte, desideri, utilità marginali,
ecc.ecc, per cui l’economista Samuelson, premio Nobel, ha potuto scrivere che
gli economisti oggi concordano su questa definizione generale:«l’economia
è la scienza che studia come i singoli e la società scelgono di impiegare
risorse scarse che potrebbero avere usi alternativi allo scopo di produrre vari
tipi di beni e di distribuirli per il consumo, nel presente e nel futuro, tra
gli individui e i gruppi della società».(8)
Questo modo di interpretare il fatto economico ha suscitato le critiche di GeorgescuRoegen e di molti altri, secondo i quali invece esso va interpretato, al di là delle apparenze, come un processo essenzialmente fisico, non tra ipotetici soggetti economici, ma di proprietà o stati fisici, oggettivi, indipendenti dalle scelte e dalle utilità marginali dei singoli e dei gruppi, un processo da uno stato di bassa entropia, ad uno stato di alta entropia, che la legge del profitto fa crescere esponenzialmente, mettendo a repentaglio la vita del pianeta, con gravi squilibri sociali in termini di libertà, di giustizia e di democrazia, poiché tra l’altro il potere si concentra sempre più nelle mani di pochi.
Nelle teorie fisiche, relatività e meccanica quantistica, poi il soggetto, in quanto osservatore ed operatore di misure è stato messo al centro della costruzione come delle dissoluzione delle teorie.
I fatti quantistici sono stati così interpretati all’interno di una forma di scienza, come denuncia Bunge, in un suo articolo, di carattere soggettivistico, animistico ed antropomorfico sostituendo ad enti fisici, fantasmi:
«Il soggettivista
(l’operazionalista, il positivista, il fenomenista) cerca di esorcizzare i
fantasmi di Amleto sostituendo “guardare o non guardare” a “essere o non
essere”. Questo è ciò che egli fa quando asserisce che il problema dell’esistenza
reale (autonoma) degli atomi è senza significato o metafisico, quando egli
crede che il comportamento di ogni atomo — anche il più derelitto nel centro di Siria — è determinato dai nostri sistemi di
misurazione e quando egli sostiene che lo stato di un atomo salterà dopo che
l’interazione di misurazione è finita, esattamente perché l’osservatore guarda
l’indicatore.
In questo modo il soggettivista convoca più fantasmi di quelli che ha
frequentano Amleto. Difatti, la pretesa che le cose acquistano le loro
proprietà esattamente perché noi accondiscendiamo a guardarle è vero e proprio
antropocentrismo, e, al fine di essere eseguito in modo consistente, esso
pretende di riempire tutto il cosmo con uno staff di osservatori sempre pronti
a prendere misurazioni infinitamente precise di ogni cosa concepibile — esattamente di prendere l’andatura del
mondo.
E questa è solo una moderna versione dell’animismo.
L’usuale interpretazione della M.Q. — ma anche delle teorie relativistiche — pullula di fantasticherie: la richiesta teoretica che ogni simbolo,
anche se esso svolge una funzione puramente computazionale, deve essere
correlato ad un aspetto sperimentale; la decisione dell’osservatore di
guardare o non guardare il contatore come decisivo per lo stato dell’oggetto;
la misurazione ideale che nessuno mai eseguirà; le “osservabili” che nessuno
può percepire; l’interpretazione delle medie come valori di aspettazione e
delle dispersioni come incertezze.
Tutti questi sono fantasmi nel senso che essi non sono aspetti fisici.
Molti di essi sono di fatto idee psicologiche.
Certamente ogni aspetto psicologico può costituire l’oggetto di ricerca
psicologica. Ma questo è irrilevante per il fisico, poiché, per definizione,
il fisico studia sistemi fisici, e i sistemi fisici, sono, per definizione,
autoesistenti, entità libere dall’osservatore.
Certamente non ci è dato ogni aspetto fisico e nessuno è afferrato
esattamente come esso è: noi dobbiamo gradualmente scoprire cose e questo
richiede di fare e di correggere ipotesi su di esse.
Ma il punto è che, se non si assume che esse sono là fuori, allora esse
non si qualificano come oggetti fisici, cioè come oggetti della scienza fisica.»(9)
A quanto scrive Bunge per concludere voglio qui aggiungere quanto ho scritto in un mio articolo.
«“Osservazioni e misure” possono solo controllare le nostre costruzioni
razionali, le teorie, non fondarle. Purtroppo come in M. Q. anche in relatività
“osservazioni e misure” fondano la teoria. Agli enti fisici, concepiti come
enti razionali, e alle grandezze fisiche si sostituiscono gli enti sensibili e
i meri numeri, cioè i loro fantasmi, le loro ombre. Nella teoria quantistica
grandezze fisiche, quali “energie e quantità di moto”, sono sostituite da operatori differenziali, da simboli matematici
che all’occorrenza possono fornirci un numero, che non è più un rapporto tra
grandezze fisiche ma una frequenza di osservazioni. Nell’equazione d’onda di
Schrodinger la particella con la sua massa, la sua posizione e il suo impulso
scompare, per ricomparire nell’interpretazione come moltiplicata in una
pluralità di posizioni e di impulsi che si riconducono di nuovo a un sol valore
o di coordinata o di impulso, ma non entrambi, all’atto della misura. Anche
Einstein, con il suo programma machiano in fisica, anche se nella sua vecchiaia
appare pentito, ha contribuito a costruire la scienza dei fantasmi. La verità è
che tanto Einstein quanto Bohr vivono in una stagione culturale che aveva
bisogno di cambiare profondamente il suo paradigma filosofico, ma non per
ragioni scientifiche. Nel programnma di ricerca machiano, cioè nel paradigma
positivistico viene rovesciato il significato razionale di “ente fisico” e di
“significato fisico”, che viene
sostituito con ciò che Newton qualifica come “relativo, apparente e volgare”.
Così viene ad avere signiflcato fisico e
realtà fisica solo quanto osserviamo e misuriamo; il numero, cioè l’apparenza,
si sostiene alla grandezza, alla “cosa”,
la quale svanisce nel nulla
Lo stesso avviene in matematica, con il programmna di ricerca di
Dedekind.
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si ha un profondo
cambiamento metafisico, il quale, sostituendo le misure alle misurazioni, cioè
i numeri alle grandezze, nella fondazioni della “cosa” matematica e della
“cosa” fisica, sovverte la “realtà fisica”. Nell’un caso (Dedekind) si insegue il “mito formalistico” o idealistico
di credere di potere “creare” la cosa matematica a partire dal puro pensiero
[senza più riferimento alle operazioni fisiche elementari effettuate,
eventualmente con riga e compasso], di creare la grandezza fisica dal numnero
astratto, di creare il significato a partire dal mero segno indicatore,
nell’altro caso (Mach) si insegue il “mito empiristico” di poter ricavare la
“cosa fisica”, che è cosa filosofica,
a partire dalle imperfette operazioni fisiche che possiamo compiere sulla
realtà, che invece è già stata stabilita nella nostra mente, con l’illusione
di poter ricavare il “significato fisico” dalla “cosa empirica”, dalla mera osservazione, che invece
è pura apparenza, come già sosteneva Parmenide. Il programma di ricerca di
Newton non è altro che il prosieguo di quella “tradizione di pensiero”, che affonda le sua radici nella
scienza, o meglio nella filosofia antica italica che resta sotto i nomi di
Pitagora, Parmenide, Democrito, Euclide ed Archimnede.(10)
Note:
1.
1) Vedi J.Ziman, La vera scienza, Dedalo, Bari, 2002. pp. 210-211.
2) lbidem p.4l3
3) lbidem pp. 81-82
4) lbidem p.
109
5) Ibidem p.31
6) Ibidem p.417
7) Vedi Pierre Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 13.
8) lbidem pp. 34-35
9) lbidem p.7
2.
1) Vedi K.R. Popper, La
società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 2000, V.2, p.254
2) Ibidem pp.259-260
3) Ibidem pp.261-263
4) Ibidem p.268
5) Bourdieu, op. cit., p.50
6) Ibidem p.62
7)
Ibidem p.72
8) Ibidem p. 92
9) Ibidem pp.l 04-105
10) Vedi N.Copernico, Opere, UTET, Torino, 1971, pp.l73-175
11) Vedi G.Galilei, Opere, UTET, Torino, 1964, Vol.2, p.6l3
3.
1) Vedi T. Kuhn, La tensione essenziale, Einaudi, Torino, 1985, p.246
2) Ibidem p.254
3) Ibidem p. 257
4) Ibidem p.257
4.
1) D.K. Alcmeone, B1
2) Vedi I Presocratici, Laterza, Bari, Vol.2, p.744
3) Ibidem p.899
4) Vedi G.Cambiano, Platone e le tecniche, Einaudi, Torino, 1971, pp.245-246
5.
1) Vedi I Presocratici, Laterza, Bari, Vol.1, p.l72
2) Vedi Aristotele, De Caelo, II, 13
3) Vedi Ippocrate, Opere, UTET, Torino, 1976, pp.459-4l3
4) Ibidem p.470
5) Ibidem p.472
6) Vedi G.Vailati, Scritti, 1911, pp.l25-128
7) Vedi C.Bernard, Introduzione allo studio della medicina sperimentale, Feltrinelli, Milano, p.63
8) K.Popper, La logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 1990, p.44
9) Vedi I Presocratici, op.cit., Vol.1, p.273
10) Ibidem Vol.2, p.709
Il) Ibidem, p.690
12) Vedi Aristotele, Metafisica, libro I
13) Ibidem, I Presocratici, p.271
14) Ibidem p.271
15) Ibidem pp.274-276
16) Op.cit., Vol.2, p.758
17) Ibidem Vol.2, p.987
18) lbidem Vol.2, p.997
19) Op.cit., pp.37-38
20) Vedi Mondotre. n.8, 1992, pp.l-l3
21) Vedi G.Boscarino, S.Notarrigo, La meccanica quantistica: scienza o filosofia?, Laboratorio, l997,p.38
22) Vedi M.Bunge, Foundations of Physics, Springer-Verlag Berlin Heisenberg, New York, 1967.
23) Vedi per esempio Platone, Il
sofista.
24) Vedi op.cit., Vol.2, p.749
25) Ibidem p.647
26) Ibidem pp.688-689
27) Ibidem p.775
28) Vedi, Mondotre, Grandezze fisiche e numeri matematici, n.7, 1991
29) Vedi G.Vailati, op.cit., p.129, p.139
30) Vedi G.Boscarino, S.Notarrigo, A. Pagano, Mondotre, n.8, 1992, p.63
31) Vedi K.Popper, La logica della scoperta scientifica, op.cit., p.44
32) Vedi Mondotre, Grandezze fisiche e numeri matematici, cit.
33) Ibidem Mondotre, cit.
34) Ibidem Mondotre, cit.
35) Ibidem Mondotre, cit., vedi anche ad esempio n.9, 1993
36) Vedi Aristotele, Metafisica, IV, 7, 1011 b 26
37) Op.cit., Vol.2, p.748
38) Vedi G.Boscarino, Tradizioni di pensiero, p.409
39) Ibidem pp.409-410
40) Ibidem pp. 411-412
6.
1) Vedi Ippocrate, op.cit., p.460
2) Ibidem p. 464
3) Ibidem p.170
4) Ibidem pp. 297-298
5) Vedi B.Spinoza, Etica, UTET, Torino, 1972, p.122
6) Ibidem pp.124-125
7) Ibidem p.126
8) Ibidem p.123
9) Ibidem p.124
10) Vedi Lucrezio, La natura delle cose, UTET, Torino, 1963, pp.307-308
11) Vedi, Vailati, op.cit., pp.143-144
7.1
1) Vedi K.R. Popper, Congetture e confutazioni, Vol.I, Il Mulino, 1972, p.61-75
2) Ibidem, op.cit.
3) Vedi Lakatos, Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1976, p.165.
7.2
1) Vedi, N.Georgescu Roegen, Energie e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino, 1998,
pp.25-26
2) Vedi K.Marx, Il Capitale, Vol. I, Ed.Riuniti, Roma, 1967, p.218
3) Vedi J.F.Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino, 2002, p.234.
4) Ibidem p.226
5) Vedi K.Marx, op.cit., p.34
6) Vedi N.Georgescu Roegen, op.cit., p. 208
7) K. Marx, op.cit.,p.39
8) Vedi P.A. Samuelson, Economia, Zanichelli, Bologna, 1987, p.4
9) Vedi Mario Bunge, in Quantum theory and reality, A Ghostfree Axiomatization of Quantum Mechanics, Springer-Verlag 1967 pp.105-106 - la traduzione del testo in inglese è nostra.
10) Vedi Giuseppe Boscarino, Tradizioni di pensiero, La Scuola italica, 1999.