Aspetti
del rapporto tra tecnologia, società e ambiente
Oreste
Caniglia
Negli usuali riferimenti che le fonti di informazione di massa odierne fanno ai termini scienza, scientifico, e similari, risulta sempre più sfumata la differenza con i termini tecnologia, tecnologico, ecc., tanto da arrivare spesso a scomparire, fino a rendere perciò con lo stesso nome concetti assai diversi; sempre che non stia scomparendo via via la differenza tra i concetti stessi, affermandosi soltanto i secondi con i nomi dei primi.
Dichiarazioni un po’ più accurate mantengono la distinzione tra scienza e tecnologia, assegnando alla prima un valore di conoscenza (curiosamente univoco e granitico nel valore di indiscutibile verità, nonostante si siano affermati da un lato una pluralità, sempre crescente, di “scienze” – sociologiche, comunicative, bancarie, gastronomiche e via discorrendo – e dall’altro il paradigma empirista che assegna al metodo sperimentale la funzione di accrescere e modificare le scienze via via che il caos delle evenienze sensibili appalesa forme di regolarità non ancora riconosciute); alla tecnologia si attribuisce un neutro valore di applicazione, applicazione conseguente a conoscenze scientifiche, pura deduzione di tecniche e procedure applicative e pertanto anch’esse univoche. Si introduce poi un giudizio di valore, buono o cattivo, nell’utilizzazione che delle tecnologia si fa: evidentemente si riconosce un problema di compatibilità tra lo sviluppo tecnologico e l’introduzione di nuove forme di tecnologia da un lato e la vita umana dall’altro, negli aspetti del singolo individuo e delle strutture sociali.
Esaminiamo intanto l’aspetto lessicale della questione.
Tecnologia ha la sua radice semantica nella tecnica, essendo propriamente lo studio dei procedimenti tecnici di un determinato ramo (o di più rami) della produzione industriale.
L’aggettivo tecnico deriva dal latino technicus, che proviene dal greco technikós, da téchne (= arte). Téchne, poi, è dal verbo tíkto (= io produco), di origine indoeuropea, da una radice tac- che ha il senso generico di fare, produrre, creare.
Nel senso generale di arte la tecnica comprende ogni insieme di regole adatte a dirigere efficacemente un’attività qualsiasi, e pertanto il suo campo è quello più ampio possibile, cioè di tutte le attività umane. Ma tale definizione dona a tali procedimenti l’attibuto di causalità in riferimento alla loro efficacia e perciò permette le distinzioni classiche di tecniche razionali – articolate in simboliche (della scienza e delle attività artistiche), comportamentali (giuridiche, economiche, morali, ecc. ) e di produzione – e tecniche irrazionali (magiche o religiose).
La tecnologia va perciò riferita al significato (*) di tecnica razionale di produzione, cioè ai comportamenti umani nei confronti della natura diretti alla produzione di beni.
Vale la pena riassumere, per contrasto e in netta distinzione, il significato di scienza, come la tradizione di pensiero italica ha maturato e come è possibile approfondire nella vastissima produzione di G. Boscarino sia nei numeri della rivista che in pubblicazioni autonome (vedi, p. es. i libri citati in bibliografia): La scienza è la ricostruzione razionale e non definitiva della realtà sensibile: dal mondo empirico vengono “astratte” delle proprietà elementari indipendenti dall’osservatore che, così idealizzate, costituiscono gli “elementi” della scienza. Questi elementi hanno natura totalmente concettuale ed hanno perso qualunque riferimento ad una realtà sensibile. Naturalmente il processo di idealizzazione avviene rispettando i principi logici di non contraddizione (parmenideo) e dei contrari (pitagorico), guidato dagli indizi (semeion = segno) che, soli, possono essere colti nel caos del sensibile dalle operazioni fisiche elementari. Ciò dona agli elementi la “consistenza razionale”, ovvero il significato, ovvero di essi si può dire che esistono. Ed essi rappresentano la struttura portante della teoria, che sviluppa le relazioni tra essi. Essendo, poi, la logica elementare un raffinato insieme di convenzioni linguistiche, la scienza rappresenta una ri-costruzione logico-linguistica della realtà, essa diviene, per così dire, “la” realtà. Essa viene poi “provata” nel calo, nella immersione, nel mondo del sensibile, non già verificata (resa vera) o significata poiché già dotata di significato dalla sua natura razionale idealizzata. Il mondo del sensibile, infatti, è da considerare mutevole, apparente, relativo e volgare secondo la tradizione che da Pitagora, Parmenide, Democrito, giunge fino a Newton, massimo interprete di tale tradizione di pensiero razionalistico italico. Nel “calo” al mondo del sensibile non sono i fatti a sfidare la teoria, e men che meno a fondarla o a significarla: è la teoria che sfida i fatti a contraddirla, nel significato originario del cimento. Questa sfida, poi, è destinata ad essere persa dai fatti, dal momento che fatti ed esperimenti non possono neppure essere interpretabili senza la teoria: essi hanno senso nel contesto di un modello, cioè una selezione operata nell’ambito della teoria di proprietà che dovrebbero costituire il mondo empirico. Pertanto essi al più possono negare validità o assegnare significanza ad un modello scelto (più o meno arbitrariamente) e giammai alla teoria! Essa rimane l’unica in grado, tramite la deduzione, di spiegare il mondo in cui viviamo, di fare previsioni e di individuare quelle variazioni nelle condizioni iniziali che determinano gli esiti dei fenomeni e ci mettono, dunque, in grado di operare per cambiare il mondo. Lo “straordinario” accordo che si trova tra asserzioni teoriche e misure empiricamente determinate – che nulla ha di straordinario poiché è una prova eseguita sulla teoria! – non dona a queste ultime quella proprietà di oggettività reale che si pretende nella fondazione di una scienza, poiché essa rimane apparente: è nella natura razionale, concettuale, idealizzata degli elementi che risiede il significato e la consistenza scientifica. Una teoria, infine, si afferma e si impone sostituendosi ad un’altra non perché confutata, falsificata (ciò si addice al più ai modelli e non alle teorie), non perché più generale, capace di spiegare e predire in maggior misura (per quanto complessi gli epicicli della teoria tolemaica davano comunque conto dei fenomeni che trattavano, oppure nell’ambito della meccanica classica si perviene ad una formula più generale per la diffusione Compton che non nella meccanica relativistica1), bensì per ragioni extrascientifiche, sociali, economiche e politiche.
Nel senso (*) l’impatto della tecnica sulla vita degli umani ha accompagnato lo sviluppo della loro storia, condizionandolo. E tale condizionamento è stato l’oggetto dei giudizi più varî e di segno opposto, dalle esaltazioni di Francesco Bacone e delle successive correnti di pensiero sansimoniste e positivistiche ottocentesche alle demonizzazioni di Spengler, Rops, Camus, Weil, Duplessy e Husserl del XX secolo.
Oggi viene riconosciuto un “problema della tecnica” inerente gli aspetti energetici e sociali della vita organizzata degli uomini che può essere articolato nei seguenti punti:
1) lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali va al di là del limite del loro spontaneo ripristino e determina il progressivo rapido impoverimento di tali risorse, comprese l’aria e l’acqua, sempre più inquinate per gli scarichi industriali, il trasporto, e l’aumento della densità di popolazione che, peraltro, produce anche la distruzione di paesaggio naturale e di monumenti storici-artistici-paesaggistici;
2) il lavoro degli uomini è assoggettato alle esigenze dell’automazione, cioè delle macchine, cioè della tecnica in genere; l’uomo, pertanto, è un accessorio della macchina e non riesce a soddisfare i suoi bisogni estetici, affettivi e morali, con le conseguenti patologie sociali e dei singoli;
3) i campi di operabilità tecnica risultano sempre più ampi, e tanto radicalmente incisivi sembrano gli effetti da sollevare questioni etiche nuove e di difficile componibilità.
Sono riconoscibili almeno un aspetto energetico-economico e un aspetto tecnocratico del problema.
Dell’aspetto energetico-economico si sono occupati con un approccio sistematico integrato, tra gli altri2, Notarrigo ed Amata3: nella pubblicazione in nota 3 si costruisce una teoria economica come scienza empirico-formale utilizzando la metodologia classica della fisica, il metodo “idealizzazionale” proprio della tradizione di pensiero italica, e si sviluppano in piena analogia formale una statica e una dinamica che portano a leggi isomorfe a quelle di Newton per lo studio dell’evoluzione del sistema economico: esso potrà essere simulato da un sistema meccanico o da un circuito elettrico, così da permettere una interpretazione ed una spiegazione della storia economica del sistema capitalistico. Gli autori costruiscono poi una teoria macroeconomica sullo “stampo” della termodinamica che consente loro anche la considerazione degli immancabili effetti dovuti alla irreversibilità dei fenomeni economici.
Notiamo, intanto, che la formalizzazione proposta consente uno studio degli argomenti di natura economica da un punto di vista strettamente scientifico, sottraendoli alle considerazioni pseudo-scientifiche di cui si è nutrita una vasta letteratura rivolta all’orientamento dell’opinione pubblica e degli organi decisionali in tema di scelte di politica energetica ed economica.
Il tratto decisamente notevole dell’approccio di Notarrigo ed Amata è, però, la natura sistematica della loro trattazione che integra il processo economico all’ambiente nel quale esso si esplica: questo, da un lato, consente di comprendere i “lati oscuri” dei processi economici (ovvero quelli generalmente incompresi, come la miracolosa generazione del surplus, la misteriosa ofelimità, le curve di domanda e offerta e la “legge” che le lega, ecc., che vengono smascherate nella loro natura di apparenza e ricondotte alla realtà degli elementi razionali della teoria economica, le merci e il loro prezzo) e dall’altro permette una valutazione delle interazioni tra sistema economico e ambiente fisico circostante. Tale valutazione porta a conseguenze rilevantissime:
a) il surplus che ad ogni ciclo la macchina “sistema economico” produce non nasce per miracolo o per merito del sistema capitalistico che rischia il suo capitale, investendolo, e perciò viene premiato (!), ma è “pagato” dall’ambiente fisico circostante, l’ecosfera, con un incremento di entropia = irreversibile degrado ecologico;
b) i beni liberi, che gli economisti ritengono abbondanti (tanto da essere detti, appunto, liberi), risultano estremamente scarsi; i beni economici, così detti perché dovrebbero essere scarsi, sono invece sovrabbondanti;
c) il “problema energetico” non esiste!: tutta l’energia che è possibile usare deriva, in ultima analisi, dal sole secondo un bilancio del tipo4
Immissioni
Flusso di energia solare che investe l’ecosistema terrestre: » 178.000 terawatt (1 terawatt = 1 miliardo di Kilowatt);
Flusso da altre fonti: » 3,3 terawatt, circa lo 0,002 % del totale (di cui » 90% dovuto alle maree e » 10 % dovuto a vulcani e sorgenti termali; una parte assolutamente trascurabile è di natura gravitazionale e nucleare);
Emissioni
Riflessione diretta: » 62.000 terawatt, circa il 35 % del totale;
Conversione diretta in calore (ciclo notte-giorno): » 76.000 terawatt, circa il 22 % del totale suddiviso in
98,9 % evaporazione e precipitazioni atmosferiche » 39.600 terawatt
1,0 % venti, onde e correnti » 370 terawatt
0,1 % fotosintesi » 40 terawatt.
Le altre stelle apportano flussi entranti trascurabili e si può assumere il sole come l’unico astro rilevante ai fini della nostra discussione.
L’energia libera viene accumulata nel nostro
ecosistema dalla biomassa attraverso i cicli naturali e la fotosintesi. “…praticamente
l’unica fonte naturale di energia è il sole, ma, in realtà, non è l’energia che
noi sfruttiamo dal sole. Essa è solo il veicolo della vera ma impalpabile
“sostanza” che è necessaria alla vita e cioè l’«organizzazione» o, in altre
parole, la capacità che ha la radiazione solare, accoppiata alla fotosintesi
clorofilliana sulla terra, di ridurre
l’entropia del mondo organico con la produzione continua di biomassa. Per tale
produzione, che è solo una frazione quantitativamente trascurabile, rispetto al
totale dell’energia che riceviamo dal sole, come dall’elenco precedentemente
dato, ma qualitativamente essenziale, è invece necessaria una quantità enorme
di negaentropia, che si deve poter accumulare nel sistema meteorologico,
regolato dal gradiente termico, che si crea tra le zone equatoriali e le zone
dei ghiacciai perenni.
Il meccanismo capace di compiere questo miracolo è straordinariamente semplice ed è provocato giusto dall’effetto serra. L’atmosfera assorbe energia radiante alle alte frequenze (ultravioletto), che ha un più basso contenuto di entropia ( o, se si vuole, un più alto contenuto di negaentropia), la degrada alle basse frequenze (infrarosso), e la rinvia indietro con un più alto contenuto di entropia. Il bilancio energetico resta invariato, ma il bilancio entropico è a favore dell’ecosistema. L’accumulo si deve alla fotosintesi clorofilliana (energia libera), che quando, alla fine, viene consumato viene ritrasformato in radiazione e riemesso negli spazi extraterrestri, con cicli che hanno una serie praticamente infinita di durate temporali. Negli ultimi millenni il bilancio è stato positivo, come provano i combustibili fossili e la vita stessa sul pianeta…” 5
I cicli dell’ozono, del carbonio, dell’acqua, ecc., – oggetto di studio della fisica della biosfera condotto per larga parte in modo poco organico e senza una sintesi integrata di conoscenze diverse di più ambiti – sono macchine termodinamiche interdipendenti, il cui delicato equilibrio è largamente sconosciuto a causa dell’enorme complessità del sistema. (Tra l’altro, in proposito la pubblicistica contemporanea si diletta a introdurre “grani di disinformazione”, per esempio quando scambia l’effetto serra per l’effetto Callendar: l’atmosfera si comporta come una coperta di lana sulla terra poiché assorbe selettivamente, trasmenttendo gran parte della radiazione incidente e assorbendo gran parte di quella ritrasmessa dalla terra; poiché questo avviene sostanzialmente nelle serre con le coperture in vetro o plastica il fenomeno viene denominato «effetto serra». Esso risulta necessario per la vita sul pianeta, giacchè, per esempio, senza di esso la temperatura media sulla terra oscillerebbe di centinaia di gradi centigradi sopra e sotto lo zero tra giorno e notte! La variazione climatica dovuta ad un’alterazione dell’effetto serra fu, invece, proposta per primo da G. S. Callendar nel 1938 sulla scorta delle quantità di CO2 immesse in atmosfera dalle attività economiche umane. Le numerose e varie critiche all’ipotesi di Callendar succedutesi negli anni – quelle serie e scientificamente significanti però! – lasciano la questione del tutto aperta…Non dissimile è la conclusione sul cosiddetto “buco dell’ozono”…).
Pertanto è la biomassa del nostro pianeta che bisogna tutelare e conservare in efficienza. Ma poiché ogni joule di energia consumata si traduce in almeno un joule di inquinamento generale si vede che non servono fonti di energie “alternative” o “rinnovabili”, poiché inquinano lo stesso! Serve un salto dalla quantità alla qualità, ossia
d) esiste un problema entropico!: la limitatezza della Terra e i tempi propri di rigenerazione delle biomasse necessarie a conservare l’energia libera che permette le trasformazioni bio-sociali (la vita!) determinano un limite di entropia che il nostro pianeta è in grado di sopportare. La legge esponenziale della crescita economica è stata possibile fino al secolo scorso perché i consumi energetici erano contenuti rispetto all’energia solare che alimenta i cicli naturali e la fotosintesi. Ma quando i consumi sono tanto elevati da compromettere il ricambio organico naturale il sistema economico non può più espandersi, qualunque sia la volontà politica. Le foreste scompaiono, i ghiacciai si ritirano, le acque sono sempre più inquinate, le specie viventi si estinguono: e perciò lo sviluppo economico ne è compromesso!!
Se vogliamo
esplicitare un aspetto quantitativo del concetto dobbiamo rivolgerci alla
termodinamica: “…i consumi energetici mondiali, alla fine, e qualunque ne
sia il loro impiego, vanno a finire interamente e inevitabilmente in calore,
che si va ad aggiungere a quello che il sole invia sulla terra, anche se parte
di esso viene irraggiato verso gli spazi esterni alla terra, secondo la legge
di Stefan-Boltzmann, la quale prevede un irraggiamento proporzionale alla
quarta potenza della temperatura assoluta della terra.
Il bilancio
energetico totale della terra, considerata come un corpo omogeneo, e supponendo
che effetto serra rimanga immutato nel futuro, si può scrivere secondo la formula:
Abbiamo
indicato con Ф il flusso solare annuo assorbito dalla terra; con
φ il totale dei consumi energetici mondiali annui (che, allo stato
presente, sono circa i due quinti della produzione annua di biomassa!),
supponendo che tali consumi possano continuare a crescere con legge
esponenziale con lo stesso passo degli altri decenni (negli anni passati si è
avuto un tempo di raddoppio di circa 8,35 anni); abbiamo indicato con C la
capacità termica della terra, assumendo
(ottimisticamente!) che sia pari ad un’eguale massa di acqua; infine, il
coefficiente k si può stimare supponendo che, alla data attuale, il sistema
terra sia in regime stazionario per quanto riguarda i flussi naturali (cioè , essendo T0 la temperatura media della
terra).
Risolvendo
l’equazione del bilancio energetico si trova che, sotto le precedenti ipotesi
e, quindi, indipendentemente dalle
eventuali variazioni dell’effetto serra, la temperatura del globo
aumenterebbe di 1 grado tra 195 anni, di 2 gradi dopo altri 100 anni, di 10
gradi dopo solo 20 anni ancora, di 8000 gradi se si aspetta ancora 80 anni,
cioè dopo 300 anni dalla presente data!
Quindi la
temperatura del pianeta aumenterebbe, in ogni caso, per il solo effetto della
crescita esponenziale dei consumi energetici, senza necessità di fare ricorso
ad alcuna variazione dell’effetto serra.
e)
per arrestare il sistema dal proseguire verso
trasformazioni termodinamiche
catastrofiche bisogna ripensare al concetto di sviluppo: «…Bisogna
certamente arrestare lo sviluppo quantitativo e procedere a passo più spedito
verso lo sviluppo qualitativo. Le conoscenze tecniche e scientifiche che oggi
l’umanità possiede, acquistate grazie anche alla necessaria mediazione della
forma capitalistica della società, ci potrebbero permettere livelli non
immaginabili di civiltà e di sviluppo tecnico e scientifico in direzioni mai
esplorate.»7 Ed ancora: «…il
valore d’uso predominante nella società precapitalistica rappresentava il tutto
per il singolo individuo e per le più o meno piccole comunità in cui egli si è
venuto via via organizzando. Ha dovuto cedere il passo, nella società
capitalistica, al valore di scambio per poter procedere allo sviluppo impetuoso
e complessivo della società. Ma questo, a sua volta, dovrà cedere il passo
all’affermazione del valore sociale; l’unico oggi in grado di proseguire lo
sviluppo di tutta la comunità mondiale ormai unificata dal processo
capitalistico. Ma questo significa uniformarsi ai ritmi e ai modi della natura.
L’energia solare e quindi la biomassa, che ne è l’unico magazzino, sono
distribuite più o meno equamente in ogni parte del globo terracqueo (si possono
coltivare anche i mari, o quanto meno non inquinarli!) e le disparità naturali
possono essere compensate dallo sviluppo tecnico-scientifico.»8. Infine: «…dallo studio termodinamico dei sistemi
complessi sembra che siamo in un punto di diramazione (altrimenti detto punto
di catastrofe). E, come è noto, tra le varie possibili diramazioni c’è
inevitabilmente il cosiddetto ramo termodinamico che porta a un irreversibile
degrado entropico. Assieme a uno o più rami che portano a possibili nuove
forme emergenti di organizzazione strutturale caratterizzate da stati
metastabili, che nel campo biologico dipendono dall’efficacia dei meccanismi
omeostatici in rapporto all’ambiente. Il fatto è che nei punti di diramazione
il sistema è caratterizzato da una grande instabilità. Per cui, basta una
piccola fluttuazione casuale per far imboccare al sistema l’uno o l’altro ramo.
Ma quando la via sia stata scelta, per effetto del caso, il sistema procede
irreversibilmente nel ramo prescelto e sono necessarie fluttuazioni
energeticamente sempre più forti per fargli cambiare percorso; il quale,
quindi, diventa vieppiù stabile, buono o cattivo che sia. Può, nel nostro caso,
la fluttuazione propizia essere non casuale, ma dovuta all’intelligenza o alla
ragione o, in una parola, alla coscienza casualmente nata in un’emergenza di
parecchi millenni fa in un aggregato di materia organica? I mezzi oggi ci
sono, basterà fornirsi di volontà. Superando così la contraddizione dialettica
tra caso e necessità.»9.
Pagano, che in più articoli10 ha approfondito il problema con contributi originali, fa notare in proposito, come un processo economico in equilibrio con i ritmi di riproduzione della biomassa debba prevedere una componente di negaEntropia, cioè informazione, che è l’unica in grado di influire mediante il lavoro umano sul processo per abbassarne i livelli di entropia locale. L’energia è il vettore di tale informazione, cioè l’involucro esterno, il mezzo di trasporto, e pertanto conferma che quello energetico è un falso problema: il limite alle trasformazioni è rappresentato dalla quantità di informazione che si può utilizzare. D’altra parte poiché per produrre merci bisogna necessariamente degradare energia Pagano conclude che la crescita economica quantitativa non può continuare nella sua forma attuale, essendo incompatibile con l’equilibrio bio-fisico del pianeta perché per produrre merci occorre attingere Informazione (cioè negaEntropia) dalla biomassa vegetale in interazione col sole. Ed essendo assolutamente impossibile superare le necessità immanenti della natura bisogna convertire l’attuale livello di sviluppo tecnologico, modificandone i fini, per creare le condizioni per un’economia molto meno inquinante e un livello di civiltà superiore.
Esaminiamo ora l’aspetto tecnocratico del problema, per la verità già adombrato dalle conseguenze e) di Notarrigo e Amata e dalle conclusioni di Pagano.
Ci si può chiedere chi o che cosa impedisca di trasformare una data tecnica, di sostituirla, di trasformare la struttura su cui poggia il sistema produttivo?
Già nel 1956 Mills11 individuava l’uso della tecnica nello strumento di potere che dirigenti economici, politici e militari adoperano per difendere i loro interessi, quelli concordanti ed unificati, e per controllare l’intera società. Questa dimensione organizzativa è l’oggetto delle critiche più radicali del mondo contemporaneo: è ad essa che si addossa il “problema della tecnica”, ma, soprattutto, l’accusa è quella di non voler far nulla per risolverlo, anzi, addirittura le si imputa di voler limitare, bloccare ed eliminare la libera scelta degli uomini in tutte le loro attività, dal lavoro al relax e al divertimento, con un condizionamento dall’interno, che appare dall’interno, che impedisce l’uso della facoltà critica della ragione e reprime gli istinti vitali e la libera ricerca della propria felicità. Scrive infatti Marcuse12: «…L’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non solo le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente necessari, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali…La tecnologia serve a istituire nuove, più effettive e più piacevoli forme di controllo e di coesione sociale.».
È ormai esperienza personale assai diffusa il seguente circolo: un software sempre più ricco richiede computers sempre più potenti sui quali è “necessario” far girare programmi sempre più grossi.
In questo contesto, quale ruolo svolge lo scienziato, quali caratteristiche connotano le istituzioni scientifiche?
Mark A. Notturno, direttore del
Popper Project presso la CEU Foundation di Vienna (nonché collaboratore del
Popper fino agli ultimi giorni di vita del filosofo) lo illustra assai
chiaramente: “Popper pensava che l’aspetto pubblico della scienza e le sue
istituzioni impongano una disciplina mentale allo scienziato in quanto
individuo, che preserva l’oggettività della scienza e la sua tradizione di
dibattito critico. Questo ha portato molte persone a parlare di comunità
scientifica e di Istituzione Scientifica. … [Ma] Se l’Istituzione
Scientifica non riesce a imporre allo scienziato, inteso come individuo, una
disciplina mentale; se, al contrario, trasforma, pervertendola, la tradizione
di discutere criticamente nuove idee, nella tradizione dell’ossequio
incondizionato agli esperti; se porta gli scienziati ad agire senza scrupolo
per sopravvivere, e se si rivolge al potere della comunità e del pensiero
comunitario per tenere saldo il proprio partito gerarchico, allora le
istituzioni della scienza non sono ben costruite. E se i membri
dell’Istituzione Scientifica sono motivati principalmente da un interesse
personale, se sono preoccupati più per la loro carriera di quanto non lo siano
per la ricerca della verità e per la spiegazione dei fenomeni che non
conosciamo, allora non importa quanto bene l’istituzione sia stata costruita,
essa non è stata adeguatamente gestita.
Penso che questa sia un po’ la
situazione dell’Istituzione Scientifica attuale. Penso che l’ideale regolativo
della verità sia stato in gran parte sostituito con l’ideale regolativo del
potere. E penso che non dovremmo più rivolgerci all’Istituzione Scientifica per
sorvegliare i suoi uomini. Così come non dovremmo rivolgerci alla polizia
perché sorvegli se stessa — in quanto l’Istituzione Scientifica non può più
essere considerata disinteressata.
L’Istituzione Scientifica
forma, oggi, una specie di ibrido con i “Grandi Affari”, il “Grande Governo” e
la “Grande Educazione” —non l’Istituzione Scientifica, ma la
“Grande-Scienza-Grandi-Affari-Grande-Governo-Grande-Educazione”, in cui gli
interessi che sono sempre stati considerati di tipo scientifico, potrebbero
venire considerati per ultimi in una decisione che riguardi l’accettazione di
una nuova teoria o di una nuova tecnologia (tantomeno in una decisione di
lavoro, o nella decisione di pubblicare un articolo su un giornale). Non
possiamo più sostenere che l’Istituzione Scientifica imporrà una disciplina
morale allo scienziato per salvaguardare la tradizione della discussione
critica. Invero, se Kuhn ha ragione, allora lo scienziato che cerca di
discutere criticamente le nuove idee potrebbe trovarsi a imporre una
involontaria disciplina morale su una comunità che risponderebbe, con
l’approvazione kuhniana, ostracizzandolo.
Il pensiero comunitario offre
molte attrattive; ma il suo vizio principale consiste nell’usare il potere
della comunità per punire gli individui che si permettono di criticare le
autorità vigenti. È sempre stato così e, sebbene non sia un induttivista, non
vedo alcuna ragione per pensare che, adesso, le cose sono cambiate.
Al contrario: ho ragione di
pensare che questo tipo di pensiero comunitario punitivo abbia trovato proprio
in Occidente il modo migliore per poter funzionare. Ed è facile capire il
perché. Nessuno crede ancora che sia possibile dimostrare la verità delle teorie.
Ma questo fa soltanto si che sia più importante che le autorità proteggano il
proprio potere (altrimenti esse smetterebbero di essere tali). E, quale modo
migliore per l’Istituzione Scientifica di proteggere la propria autorità se non
quello di definire la conoscenza e la verità come ciò in cui i suoi esperti
credono, e di escludere quelli che osano metterlo in discussione?
Ma questa
convinzione, secondo cui esistono degli esperti che possiedono uno speciale
tipo di conoscenza che non può essere messa in discussione — soprattutto da
parte dei non esperti — è la strada maestra che conduce alle società chiuse. E
per tutti i discorsi che si fanno adesso intorno alla società aperta, è la
strada che stiamo percorrendo.” 13
Riteniamo che le visioni ottimistiche della questione, proposte, per esempio, dal Galbraith, e tendenti a minimizzare gli effetti della subordinazione delle vite dei singoli ai bisogni del sistema economico-industriale, non siano state profeticamente efficaci!14 Fatte salve, infatti, le molteplici attività lobbistiche, un indizio del carattere necessitante che negavano tali interpretazioni, si può scorgere, invece, nel fatto che una data tecnologia, una volta introdotta su larga scala, è assai difficilmente “rifiutabile” o sostituibile: immaginiamo di poter fare scelte socialmente rilevanti, senza la preventiva decisione delle cosiddette “tecnostrutture”, a riguardo della sostituzione di tecnologie legate al petrolio (trasporti, riscaldamento, ecc.) o al silicio (apparecchi microelettronici come telefonini, computer, ecc.) o a cemento&calcestruzzo (opere pubbliche, edilizia) ? : non è certamente solo una questione di “massa critica”, di dimensione di diffusione che rende economicamente svantaggioso sostituire certe scelte.
Che dire ancora delle tecnologie “negate”?
Fino a qualche mese fa, per esempio, era presente sul web un sito che proponeva ai produttori un prototipo di auto ad aria compressa messo a punto da un team di ingegneri francesi: mentre scriviamo il sito è uno spazio vuoto mestamente in vendita. Pecchiamo di pensiero dietrologico, ma temiamo di aver intuito chi abbia acquistato il brevetto.
Il bacino delle tecnologie legate alle applicazioni militari è forse accessibile? Solo quando qualche applicazione perde importanza a fini bellici, perché superata o riconosciuta ormai inefficace, viene diffusa alla conoscenza pubblica. È il caso di internet, che in ambito militare ha mosso i primi passi, ma che nella sua “carriera” civile è diventata una scheggia impazzita per il sistema, perché, difficilmente controllabile, tende a realizzare ambiti -mercantili e non- realmente liberi e concorrenziali. Ciò spiega, peraltro, gli strenui tentativi di impedirne, ostacolarne, incepparne, restringerne l’utilizzo da parte di governi, sia totalitari che democratici, e di gruppi di potere a vario titolo classificabili. In un tale “orizzonte di libertà” è potuto nascere il freesoftware e l’opensource, ma non si potrebbe spiegare altrimenti che con le motivazioni riportate in apertura di paragrafo il loro lento diffondersi.
Il nostro parere è che la tecnologia richieda un apparato di conoscenze scientifiche, possibilmente sviluppato, come condizione necessaria al suo essere. Tuttavia tali sostrati conoscitivi non determinano univocamente un tipo di tecnologia; consentirebbero, bensì, una serie di diverse applicazioni tecnologiche (la condizione non è quindi sufficiente). Il criterio di scelta in tale bacino di possibilità ci appare ben lontano da motivazioni di tipo etico, o di cogenza per fattori contingenti (forse ad eccezione di un passato niente affatto recente): le ragioni dell’affermarsi di una determinata tecnologia riteniamo siano di natura economica e tecnocratica. Risulta evidente che nel corso degli ultimi secoli si siano immancabilmente affermate quelle scelte che massimizzano certi profitti, con il concorso della gestione delle risorse primarie (in termini di produzione e distribuzione funzionali ad una data tecnologia). In tal senso si può addirittura parlare in termini di monopolio, spesso realizzato a livello locale, o al più oligopolio, a livello planetario.
Inoltre, assai ingenuo ci appare credere ad una tecnologia “neutra”, ovvero priva di pregi e difetti, o, peggio, priva soltanto di difetti. Sembra anche questa una credenza imposta per esigenze tecnocratiche: si vorrebbe così “scaricare” sulle scelte umane di chi usa un dato tipo di tecnologia il bene o il male che le è legato (categorie, queste, che potrebbero scuotere le coscienze) salvando la stessa tecnologia dall’essere messa in discussione! Non vorremo sostenere che ne siano scevre le scelte individuali (!), ma asseriamo che altrettale è qualsiasi tipo di tecnologia, nel senso che si possono individuare alcune caratteristiche intrinseche al tipo di tecnologia ed esse possono certamente essere valutate buone o cattive in relazione ai nostri criteri di giudizio.
La situazione non è senza speranza: il problema ammette soluzione, politica.
È necessario prendere coscienza del problema, rendersi sensibili ai suoi aspetti, rifiutarsi di assuefarsi all’“ineluttabile” status quo. Poi darsi coraggio, tutto il coraggio necessario per scegliere, scegliere attivamente, per operare tutti i mutamenti necessari nelle convenzioni sociali, nelle istituzioni, e, soprattutto, nelle menti di tutti noi acciocché possano liberarsi i nostri comportamenti. Gli autori citati [Amata e Notarrigo] ipotizzano il superamento della forma partito in politica, per ragioni che riteniamo plausibili15, ma si potrebbe generalizzare al concetto di nazione nell’organizzazione dei popoli e alle strutture transnazionali degli interessi costituiti. Notarrigo esplicita altrove il concetto con le parole: “…dalla considerazione che il sole distribuisce la vita equamente sul pianeta, [si evince che] un sistema economico compatibile può solo essere un insieme di piccoli sistemi economici, ognuno quasi totalmente autonomo, soprattutto dal punto di vista energetico, e che si autoprogrammino. Del resto la storia ci insegna che le più grandi conquiste di civiltà sono invariabilmente avvenute in quei periodi storici in cui si è avuto un tale tipo di organizzazione socioeconomica, si pensi alle città stato dei Sumeri, a quelle degli antichi popoli di lingua greca (Ionici e Italici) o, infine, a quelle dell’Italia postmedievale, dopo che è sistematicamente sopravvenuta la barbarie, preceduta da potenti imperi, che si sono fatti belli ricorrendo, ma nel contempo creando le sementi per la loro distruzione, delle conquiste scientifiche dei popoli soggiogati. Ma, oggi, si tende a confondere la barbarie con la civiltà, la quale ultima, come sempre nella storia, viene descritta, invece, come ‘un ritorno alla candela’, confermando le ardite previsioni di George Orwell, con l’invenzione del suo nuovo dizionario. …”16
Nella stessa
direzione vanno gli sforzi di definire dei “comportamenti ecocompatibili”
tramite il metodo dell’«impronta ecologica»: M. Wackernagel, riprendendo le
teorie di W. Rees degli anni Ottanta, spiega che “… l’obiettivo è quello di
raggiungere un’economia realmente sostenibile, rispetto alle capacità
rigenerative ed assimilative dei sistemi naturali che ci consentono di vivere
ed è basata su di un principio di equità che impedisca il prosieguo di
intollerabili iniquità sociali di cui purtroppo è ricco il mondo odierno.
L’«impronta ecologica» è un integratore ambientale di tipo aggregato che
esprime il livello di risorse necessarie ad una comunità per il suo
sostentamento. Scientificamente viene definita come l’area totale di ecosistemi
terrestri e acquatici richiesta per produrre le risorse che una determinata popolazione (un individuo,
una famiglia, una comunità, una regione, uno stato) consuma e per assimilare i
rifiuti che la stessa popolazione produce. Attualmente l’umanità consume le
risorse naturali con una velocità del 20 % in più rispetto alla capacità della
terra di rinnovarle. L’impronta ecologica calcola quanto terreno serve a
sostenere la produzione di quello che consumiamo e lo smaltimento dei rifiuti
prodotti. Si calcola in ettari pro capite e misura il consumo alimentare,
materiale ed energetico basandosi sulla superficie terrestre o marina
necessaria per produrre tali risorse o, nel caso dell’energia, sulla superficie
terrestre necessaria ad assorbire le emissioni di anidride carbonica. Il suo
utilizzo dovrebbe servire ad aumentare la biocapacità senza distruggere l’ecosistema,
ridurre la richiesta di risorse, diminuire i consumi individuali, mirare meglio
la qualità del consumo, rimodulare il proprio stile di vita: camminare a piedi
o in bicicletta, comprare pochi vestiti, usare contenitori per cibi
riutilizzabili, evitare sprechi di acqua, capire che non sempre consumare di
più significa essere più felici…”17
Da quanto detto finora risulta dunque che la corretta gerarchia tra i varî ambiti è distorta: tacitamente lo status quo impegna l’etica al seguito delle scelte economiche, piegata alle esigenze politiche funzionali a tali scelte. La struttura della società è perciò determinata, in ultima analisi, dagli interessi economici.
Boscarino ha individuato il campo comune tra scienza ed etica in un suo saggio, a cui rimandiamo18, nel quale si evidenzia una netta sovrapposizione di parte degli ambiti di competenza di etica e scienza. Riportiamo i passi relativi:
“A base di qualunque concezione della scienza, dietro la scelta ontologica, c’è una scelta di valori o un’assiologia che sostiene a sua volta la scelta epistemologica. Ontologia, assiologia ed epistemologia non sono quindi separabili in qualunque filosofia o metafisica della scienza, come nella pratica dello stesso scienziato. Il privilegiare l’uno o l’altro aspetto fa perdere la complessità ontologica del fatto scientifico e della teoria scientifica e il suo punto di coniugazione con il valore etico. La potenzialità, intanto, non è una categoria ontologica della realtà, che, invece, è quella che è (questo è il piano dell’essere apparente, mutevole nel tempo), ma una categoria epistemologica, cioè della teoria scientifica, nella quale il fenomeno, l’essere apparente, viene scisso tra quanto viene da esso ricostruito, il fatto scientifico, quanto ad esso viene sotteso, l’essenza, cioè gli elementi della teoria e le sue leggi, (è questo il piano dell’essere vero, immutabile ed eterno o il campo della logica della scoperta scientifica), quanto in esso (fenomeno) può essere, il possibile (è questo il piano tecnico-scientifico), e quanto in esso tra i possibili (questo è il piano etico-politico) deve essere, il valore, ovvero quanto è degno di essere conosciuto e perseguito dall’agire umano, vuoi dall’uomo in quanto singolo (il piano etico) vuoi dall’uomo in quanto membro di una società (il piano politico) – è questo il campo della logica dell’invenzione. …la tecnocrazia è la supremazia della tecnica sull’etica; <Se puoi , devi> (<can implies ought>) è stato scritto. … Cosa media il poter essere al dover essere? Cosa fa passare lo scienziato, e con lui tutto il complesso socio-economico-politico che lo circonda, visto che la scienza e la tecnica sono divenute parti integranti del processo economico e delle decisioni politiche , dall’ è e puoi della scienza-tecnica al devi, che guida il suo agire, vuoi come singolo vuoi come membro di una comunità socio- politico-economica? Se non sono le sue conoscenze scientifiche, magari di altro campo o di altra natura, e la potenza del suo metodo deduttivo… se non è la ragione, e la scienza è la ragione … , Cosa altro può essere? Saranno il sentimento, l’intuizione cieca, il conformismo, la tradizione, la sua convinzione religiosa, i suoi pregiudizi di qualche natura, l’autorità e il potere di chi dirige il suo lavoro di scienziato e di tecnico, cioè quanto di irrazionale ed eteronomo è in lui? Qui non si solleva un problema di sociologia della scienza ma di teoria della scienza, di sue categorie fondanti! …
… Una scarsa conoscenza della natura umana e della sua storia, di quanto in essa di positivo è presente e si è sedimentato nel tempo, vuoi nel costume, vuoi nelle istituzioni, rende lo scienziato, benché forte dei suoi fatti e delle sue teorie, prigioniero solo di pregiudizi e di cattivi maestri, quali possono essere, dicevo già, il conformismo o l’autorità di chi comanda, guidato da soli fini di profitto e di interesse personale.
Lo scienziato che recide coscientemente, nel nome di una presunta autonomia della scienza e della tecnica, i legami della sua scienza con le fonti dell’etica è uno scienziato alienato, reificato, ridotto a cosa, a mero strumento di un ingranaggio che non controlla e non sa discutere, nei suoi principi direttivi come nelle sue finalità; egli, in tal modo, si preclude la possibilità di una crescita armonica di scienza ed etica, del dover essere di natura scientifica e del dover essere di natura etica.
Lo status alienato dell’esperienza scientifica è quello di concepire e di vivere il rapporto con la natura, intesa quale mero oggetto, al solo fine di carpirle i segreti, che sono le sue leggi, con intento di sfruttamento, di consumo e di dominio, mentre lo status, non alienato, è quello in cui lo scienziato è restituito, e con lui e attraverso lui, l’uomo, ad un rapporto positivo e di progresso reciproco, con la natura, intesa quale oggetto e soggetto ad un tempo, con sue possibilità, necessità e limiti, che sono gli stessi dell’uomo. …
Guidato dalla logica dell’invenzione,
grazie ai processi idealizzazionali che mette in essere, il razionalista
costruisce o immagina, a partire dalla realtà empirica, astraendo e combinando
proprietà, modelli di realtà, che
sottopone a verifica o a falsifica, e che arricchisce sempre più di nuove
proprietà, vuoi per meglio comprendere la realtà empirica in sé complessa,
vuoi per sottoporla ad esperimenti di
cambiamento. …
È chiaro che l’empirista, per il quale il reale è appunto, l’empirico, quale esso si manifesta, è portato a identificare i valori con i fatti (valore=fatto), la morale, in quanto scienza o arte del dover essere, con l’etica o il costume, le norme descrittive con le norme prescrittive, né pone il momento della scissione o della lacerazione, tra il dover essere morale mescolato alla teoria scientifica e l’essere e il dover essere della scienza stessa nella dinamica dell’individuo e della comunità umana, poichè la morale si esprime a suo parere nell’etica ovvero nelle norme sociali o nei gusti personali di soddisfacimento o nel normativismo biologico della legge del più forte e dell’adattamento all’ambiente.
Sul piano etico e politico tutto questo si traduce in conformismo, nell’appiattimento dei valori ai fatti, nella perdita della propria identità ed individualità, che dovrebbe essere produttrice di valori e di tensioni ideali, ma di fatto è priva delle grandi virtù etiche dell’uomo creativo, quali la fede, la speranza, la fortezza d’animo e il coraggio del cambiamento.
Il motto dell’umanesimo
illuministico era, secondo Kant, «Abbi il
coraggio di sapere».
L’atto del conoscere, del fare
scienza, è innanzitutto un atto di coraggio; lo scienziato razionalista osa guardare dove altri non riescono per
mancanza di coraggio o non sanno guardare, per mancanza di strumenti
intellettuali adeguati, ma soprattutto perché attaccati all’empirico, all’immediato, non sapendo
mediare tra l’essere e il dover essere della scienza e il dover essere morale. …
… Per Fromm empirismo e razionalismo sono due
modalità esistenziali, il primo dell’avere, il secondo dell’essere. … Per il razionalista non vale la presunta dicotomia
<fatto-valore>, <essere-dover essere>, <reale-potenziale>. Il
potenziale, l’ideale, il valore non è qualcosa che <<non è>> e che
poi <<è>>, poiché <<deve>> accadere, <<deve
essere>>, ma qualcosa che è, e, che se non appare, è perché aspetta di
manifestarsi, di esprimersi, in quanto, o è mascherato, o è represso, o è nascosto ed occultato, ma che solo la
teoria coglie nel suo poter e dover essere. …
Lo scienziato, forte della teoria, grazie a cui scopre e può produrre energia nucleare o qualche altra forma di energia, deve essere cosciente delle potenzialità costruttive o distruttive che quella comporta come dall’impatto della stessa sull’ambiente, e quindi sull’uomo, sul suo essere e sul suo divenire.
Sull’essere della conoscenza e il dover essere della scienza a quel punto si impone il dover essere della coscienza, la scelta, il valore umano o il disvalore, comunque un devi, che meno si nutre di conoscenze e di altre scienze meno è libero e responsabile.
Qui è in discussione la separazione del sapere, il cosiddetto scienziato specialista, non quello globale, che invece sa andare oltre le sue conoscenze, integrarle entro una pluralità di saperi, essi stessi scientifici, per cui poi sa scegliere, può scegliere, deve scegliere.
È la scelta della tradizione razionalistica della scienza, a nostro
parere, con quanto abbiamo detto, che porta a coniugare scienza ed etica,
progresso scientifico e tecnologico con progresso etico, le descrizioni della
scienza con le descrizioni dell’etica, la scienza dell’etica con l’etica della
scienza, i fatti della scienza con i valori dell’etica, la deduzione delle
scienza con la deduzione etica del tu devi. Se sai e puoi, tu devi migliorare l’uomo secondo quanto ti insegna
la tradizione etica umanistica e
razionalistica.”19
Dunque, è tale riconoscimento del “dover essere della scienza” che sostanzia l’essere o il poter essere della conoscenza: ciò, poi, mette a disposizione delle scelte politiche gli strumenti per optare tra più tecnologie, determinando così la struttura della società ed un sistema economico che sia funzionale alla società stessa.
Ci sembra che si sia
focalizzato il nucleo filosofico ed epistemologico che sia la base per una
rimodulazione della gerarchia, protrettico ad un nuovo umanesimo.
Riportiamo di seguito la situazione corrente e lo schema rimodulato:
Fig. 1 La situazione corrente
Fig. 2 Schema rimodulato
Il commento di quanto raffiguarato richiede ben altri spazi, perciò ci limitiamo in questa sede ad indicare soltanto alcune particolarità che differenziano le due situazioni: la figura 1 rappresenta un ciclo chiuso, tipico negli schemi dei sistemi controllati (feedback); la presenza di un “ritorno” individua, tra l’altro, la presenza di una fase induttiva che consente all’apparato economico‑dirigenziale, in base agli effetti prodotti nella struttura sociale, di rimodulare le proprie scelte (zona sinistra dello schema) fino ad ottenere gli esiti voluti. È perciò uno schema conservativo e politicamente reazionario. Ha tuttavia la caratteristica di essere stabile, cosicchè se non ci fossero i fenomeni di interscambio tra società ed ambiente di cui abbiamo trattato renderebbe l’organizzazione capitalistica meno difettosa. La stabilità consente inoltre un campo di applicabilità estensibile a qualsivoglia dimensione, anche mondiale. Inoltre, a meno (e oltre) delle progressive concentrazioni di potere politico economico che si realizzano nel tempo, consentirebbe addirittura una dinamica interna, individualistica, che porterebbe ai singoli la possibilità di “scalare” le posizioni sociali per inserirsi nelle tecnostrutture di controllo. Bisognerebbe ancora spendere più di qualche parola sul divario economico dei diversi ceti sociali e sulle effettive possibilità di una dinamica di tal genere, ma ciò ci allontanerebbe dalla questione trattata in questo scritto. Lo schema 2, invece, è aperto, come tipicamente avviene nei processi deduttivi. Si intuisce dunque il suo carattere progressista (politicamente) e aperto al ricambio delle classi dirigenti della società. Tuttavia non dà garanzie di stabilità. Inoltre, l’idea di far funzionare una società di dimensioni sufficientemente estese su uno schema simile ha il sapore amaramente utopistico.
Troviamo così tracce delle motivazioni sulle estensioni temporali e geografiche degli “imperi” e delle “microsocietà rinascenti e rigogliose di progressi di civiltà” a cui si riferiva la citazione del Notarrigo in apertura di questo paragrafo.
La transizione a sistemi microeconomici con una forte connotazione etica e scientifica è dunque una necessità che scaturisce dalle argomentazioni che abbiamo sviluppato. Non si tratta di teorizzare rivoluzioni e sconquassi: una pluralità di entità liberali sono pacificamente compatibili con strutture federali e consociative, in un panorama sovranazionale che al rifiuto dell’imperialismo autoritario associa la cultura delle opportunità di espressione. Che si tratti di individui, classi sociali o comunità, è la negazione di tale opportunità che ha generato in ogni epoca e in ogni angolo della terra dei magnifici inferni, compresi i recenti fenomeni terroristici locali e internazionali.
Il tempo necessario perché tali mutamenti avvengano spontaneamente, tuttavia, potrebbe essere assai maggiore di quello in cui il sistema, lasciato inalterato, potrebbe imboccare uno di quei rami che, come la teoria dei sistemi complessi ci spiega, porta alla catastrofe termodinamica irreversibile. Poiché di pianeti abitabili dal genere umano per ora conosciamo solo il nostro, offriamo ai nostri posteri l’impegno e lo sforzo etico di fare in fretta, anche perché, parafrasando Ezra Pound, se un uomo non è disposto a battersi per le sue idee, o non vale niente lui, o non valgono niente le sue idee.
Affidiamo la conclusione di questo scritto alle estese ma illuminanti considerazioni di J. Mander, che al termine di un intero libro20 nel quale esamina un pernicioso prodotto tecnologico, – la televisione, della quale arriva ad elencare trentatré nefaste tendenze intrinseche al mezzo tecnologico stesso21, nel corso di circa 300 pagine di dissertazione – così si esprime:
«…Stando ai bibliotecari, cui mi sono rivolto, sull’argomento televisione sono stati scritti all’incirca seimila libri. Tra questi sono riuscito ad individuarne uno solo (un romanzetto superficiale, Il giorno in cui la televisione morì di Don McGuire) che contempli anche l’idea che la televisione potrebbe o dovrebbe esser eliminata. Che cosa rende così difficile quest’idea?
Nei tre anni impiegati per preparare questo libro, per lo meno un centinaio di persone deve essere venuta da me … e dopo aver espresso il suo appoggio per un libro che tratta duramente la televisione, era solito chiedermi: «Intendete realmente propugnarne l’eliminazione?»
«Sì» ero solito rispondere, …
«Non potrei esser d’accordo di più con voi», era l’invariabile risposta, «ma non v’aspettate realmente di riuscirci, non è vero?»
Quest’ultimo interrogativo mi riempiva sempre d’un sentimento di sconforto. Le persone che ponevano quella domanda avevano appena ammesso di odiare la televisione e, ciò nonostante, restavo con l’impressione che essi odiassero anche l’idea che io credessi realmente possibile l’eliminazione della televisione. In qualche modo ciò mi faceva sembrar loro bizzarro.
Ebbene, si tratta di un punto di vista, penso. Come posso attendermi di aver successo quando anche coloro che detestano la televisione trovano così totalmente impossibile l’idea di eliminarla? Ma perché è così impensabile che potremmo eliminare un’intera tecnologia?
Se gli argomenti esposti nelle pagine precedenti sono anche parzialmente corretti, allora la televisione produce un tale diverso insieme di effetti pericolosi — mentali, fisiologici, ecologici, economici, politici; effetti che sono pericolosi per la persona ma anche per la società e il pianeta — che a me sembra solo logico affermare che non avrebbe dovuto mai essere introdotta o, una volta introdotta, non le si dovrebbe permettere di continuare ad essere.
… Abbiamo visto diversi tipi di controlli legali imposti al tabacco, alla saccarina, ad alcuni coloranti alimentari, a certi usi di policloruri bifenili, aerosoli, fluoroscopi, raggi X, per citarne alcuni. Si è pensato che fossero tutti troppo pericolosi perché potesse esserne giudicato lecito l’uso eppure esercitano effetti solo a livello individuale, poiché pare che siano cancerogeni. E per lo meno possibile, giudicando da una parte del materiale esposto nel capitolo nono sugli effetti potenziali degli spettri ridotti della luce televisiva, che anche la televisione provochi il cancro. Ma è soltanto sulla spinta del cancro che riusciamo a pensare all’opportunità di bandire qualcosa? Consideriamo alcuni altri effetti della televisione:
Sembra che la televisione crei dipendenza. Per il modo in cui il segnale visivo è elaborato nella mente, esso inibisce i processi cognitivi. La televisione si propone più come uno strumento per il lavaggio del cervello, per l’induzione del sonno e/o ipnosi che come qualcosa che stimoli coscienti processi d’apprendimento.
La televisione è una forma di deprivazione sensoriale, poiché provoca disorientamento e confusione. Diminuisce negli spettatori la capacità di distinguere il reale dal non reale, l’interno dall’esterno, ciò che viene personalmente sperimentato da ciò che viene inculcato dall’esterno. Disorienta il senso del tempo, dello spazio, della storia, della natura.
La televisione sopprime e sostituisce la creativa immaginazione umana, incoraggia la passività collettiva, e addestra la gente ad accettare l’autorità. E’ uno strumento di trasmutazione, poiché trasforma le persone nelle loro immagini televisive.
Con lo stimolare l’azione mentre simultaneamente la sopprime, la televisione contribuisce a causare iperattività.
La televisione limita e circoscrive la conoscenza umana. Cambia il modo in cui gli uomini ricevono informazioni dal mondo. In luogo della naturale multidimensionale ricezione dell’informazione, essa propone una ridottissima esperienza sensoriale, poiché diminuisce la quantità e specie d’informazione che la gente riceve. La televisione mantiene la coscienza contenuta entro i suoi propri rigidi canali, minuscola frazione dell’area naturale d’informazione. A causa della televisione crediamo di sapere di più, ma sappiamo di meno.
Con l’uniformare tutti entro i suoi schemi e con il centralizzare entro di sé l’esperienza, la televisione praticamente si colloca al posto dell’ambiente. Essa accelera la nostra alienazione dalla natura e perciò accelera la distruzione della natura. Ci spinge ancora più dentro una realtà artificiale già invadente. Accresce la perdita della conoscenza individuale e personale e concentra tutta l’informazione nelle mani di un’élite tecno-scientifico-industriale.
La tecnologia televisiva è intrinsecamente antidemocratica; a causa dei suoi costi, della limitata specie d’informazione che può diffondere, del modo in cui trasforma la gente che ne fa uso e del fatto che alcuni parlano e milioni assorbono, la televisione si presta ad essere usata soltanto dai più potenti interessi dei grandi gruppi presenti nel paese. Questi inevitabilmente se ne servono per rimodellare la mente umana in una forma canalizzata, artificiale, commerciale, che s’adatti graziosamente all’ambiente artificiale. La televisione fa in modo che con le autostrade, con i sobborghi residenziali, con i prodotti di consumo s’identifichino gli esseri umani che sono così più facilmente controllabili. Intanto coloro che controllano la televisione consolidano il loro potere.
La televisione favorisce la creazione delle condizioni sociali che producono l’autocrazia; crea anche i necessari schemi mentali e contemporaneamente ottunde in ogni coscienza il fatto che ciò stia accadendo.
Tenendo conto di tutti questi effetti e degli altri descritti a dozzine nel corpo di questo libro, è realmente necessario dimostrare che la televisione provoca il cancro per potercene liberare? Non è possibile mettere fuori legge una tecnologia fondata sui suoi effetti politici o economici o psicologici? Infatti se anche una piccola porzione di questi argomenti è valida, allora a lungo termine essi saranno certamente più importanti del fatto che una certa percentuale di persone s’ammali. Perché mettere al bando una tecnologia del genere deve sembrare bizzarro?
Una risposta a questa domanda si ritrova nell’assolutamente erronea affermazione secondo cui le tecnologie sono «neutrali», strumenti benigni il cui buon uso o cattivo uso dipende da chi li controlla. Gli americani non hanno capito che molte tecnologie determinano il loro proprio uso, i loro propri effetti e persino la specie di persone che le controllerà. Non abbiamo ancora imparato a pensare la tecnologia come un qualcosa che abbia la sua ideologia strutturata dentro la sua propria forma.
Una seconda spiegazione è che, una volta introdotta, una tecnologia di una certa dimensione diventa prepotentemente l’ambiente della nostra coscienza. Mentre possiamo immaginare la nostra vita senza raggi X o aerosoli, non possiamo immaginare la vita senza cemento armato o elettricità. Sono cose così onnipresenti che letteralmente straripano intorno alla nostra coscienza. Siamo contenuti entro esse, e come espone la questione McLuhan: «Il pesce è l’ultima tra le creature in grado di capire l’acqua». Ed è così che la più invadente delle tecnologie diventa a noi invisibile. La televisione è un esempio ultimo di questa penetrazione e di questo confinamento; diventa non soltanto l’ambiente esterno per un’intera popolazione, ma si proietta anche dentro di noi. La televisione ci ha così avviluppati ed è così penetrata- in noi, che è quasi impossibile per la maggior parte di noi ricordare che poco più di una generazione fa non c’era una cosa come la televisione, o che per quattro milioni di anni l’evoluzione dell’uomo era andata avanti senza di essa.
Una terza ragione per cui non crediamo possibile il controllo della evoluzione tecnologica è che, di fatto, per la maggior parte di noi non è possibile esercitare tale controllo. La grande maggioranza di noi non ha voce in capitolo nella scelta o nel controllo delle tecnologie. Queste scelte, come ho spiegato, ora sono unicamente nelle mani di questa stessa élite tecnico-scientifico-industriale-corporativa il cui potere è rafforzato dalla tecnologia ch’essa creano. Dal nostro punto di vista le macchine e i processi ch’essi inventa e dissemina sembrano proprio materializzarsi dal nulla sulla scena. Eppure tutta la vita vi si adegua, compresi i sistemi umani concernenti l’organizzazione e la comprensione. Quando queste cose vengono introdotte, nessuno ci chiede di votare su di esse; ci viene soltanto chiesto di pagare per esse, di usarle e di vivere quindi nell’ambito dei loro effetti.
Nelle rarissime occasioni in cui noi percepiamo gli effetti negativi di una tecnologia, scopriamo che occorre un erculeo sforzo organizzativo per imporre qualcosa. Ho fatto l’esempio dei supersonici. Sebbene questa non sia tra le tecnologie più assurde, dispendiose, inutili e da élite inventate sino ad oggi, ci vollero anni di sforzi di migliaia di persone perché in questo paese ne venisse vietata la produzione. Nonostante ciò si sta permettendo ora ai supersomci costruiti all’estero di atterrare negli aeroporti americani.
Mi sono servito anche dell’esempio dell’energia nucleare. Questa tecnologia è così pericolosa, non solo per la nostra generazione ma per parecchie generazioni future, che dovrebbe essere impensabile non la sua messa al bando ma la sua esistenza. Eppure proprio quando stavo portando a termine questo libro verso la metà del 1977, il dott. James Schlesinger dell’Amministrazione Nazionale per l’Energia diceva: «Se i Californiani desiderano eliminare l’energia nucleare, allora dovremo trovare una maniera per aggirare questo loro desiderio, poiché abbiamo troppo bisogno di quell’energia».
Storie analoghe potrebbero esser dette sull’ingegneria genetica, sui sistemi di comunicazione via satellite, sulla tecnologia delle microonde, sulle bombe al neutrone, sulla tecnologia del laser, sulle banche a computerizzazione centralizzata, e un altro migliaio di procedimenti, compresi molti che non abbiamo avuto neanche la possibilità di conoscere.
Noi stessi crediamo di vivere in una democrazia per il fatto che ogni tanto andiamo a votare per i candidati a cariche pubbliche. Eppure il nostro voto per i rappresentanti al congresso o per il presidente significa ben poco alla luce della nostra impotenza nei confronti delle invenzioni tecnologiche che esercitano sulla natura della nostra esistenza un condizionamento maggiore di quello che qualsiasi singolo leader sia mai riuscito ad esercitare. Se non acquistiamo il controllo sulla tecnologia, tutto ciò che passa per democrazia non è altro che una farsa. Se dev’esser per noi impensabile persino abbandonare una tecnologia o se pur pensando di doverla mettere al bando non possiamo determinarne la scomparsa, allora vuol dire che siamo intrappolati in una condizione di passività ed impotenza in nulla differenziata dal vivere sotto una dittatura. Ciò che confonde è il fatto che il nostro dittatore non è una persona. Per quanto un pugno di persone tragga, molto certamente, vantaggio da quelle tecnologie invadenti e trovi in esse i mezzi per il raggiungimento dei suoi scopi, i veri dittatori sono le tecnologie stesse.
David Brower, presidente degli Amici della Terra, ha affermato che a differenza degli esseri umani accusati di crimini, tutte le tecnologie dovrebbero essere considerate colpevoli di produrre effetti pericolosi fino a che non ne sia stata provata l’innocenza. Nessuna nuova tecnologia dovrebbe essere introdotta mai, ha detto, fino a che non siano noti e spiegati alla popolazione tutte le possibili conseguenze. Ritiene che ciò sia necessario, perché una volta che una tecnologia sia stata introdotta è praticamente impossibile liberarsene. Tanta parte della vita viene riorganizzata intorno ad essa e tanto potere e tanti interessi acquisiti ne impongono la sopravvivenza. Naturalmente ciò che sogna Brower è di per sé praticamente impossibile. Molte tecnologie sono tecnicamente troppo complesse per la persona media, come me, senza preparazione tecnica, perché possano essere capite. Inoltre in molti casi è impossibile individuare prima della sua introduzione tutti gli effetti di una tecnologia, specialmente quelli che non si prestano a prove e dimostrazioni scientifiche. Ma ciò dove ci conduce? Poiché è impossibile comprendere pienamente o spiegare molte tecnologie, dobbiamo continuare necessariamente a servircene? Abbiamo fiducia nei capi delle nostre industrie? Dobbiamo semplicemente permetter loro di giocare ai dadi con le nostre vite? E se prevediamo con certezza che una tecnologia produrrà effetti indesiderabili, quali mezzi esistono per liberarcene? Ce ne sono? E tutto ciò che senso ha in riferimento al controllo effettivo delle nostre vite?
Nel quarto capitolo ho prospettato la possibilità di un modo di pensare alternativo circa il problema. Se crediamo nei procedimenti democratici, allora dobbiamo credere anche nel resistere a tutto ciò che sovverta la democrazia. Nel caso della tecnologia potremmo voler cercare una linea al di là della quale il controllo democratico non sia possibile e allora affermare che qualsiasi tecnologia vada al di là di quella linea debba considerarsi tabù. Potrebbe esser difficile definire con precisione questa linea, ma potrebbe non essere altrettanto difficile sapere quando delle tecnologie siano con chiarezza al di là di essa. Qualsiasi tecnologia capace di arrecare vantaggi soltanto ad un piccolo numero di persone con danno fisico, emozionale, politico, psicologico di un gran numero di altri individui, sarà anch’essa certamente al di là di quella linea. In effetti si potrebbe sostenere che qualsiasi tecnologia i cui procedimenti ed effetti siano troppo complessi per esser capiti dalla maggioranza della gente si trovi anch’essa al di là della linea del controllo democratico.
Possiamo ancora dire realmente che un motivo per andare avanti con una certa tecnologia sia il fatto che è troppo complessa perché la gente possa capirla o troppo ingombrante o difficile a smantellarsi? O crediamo nel controllo democratico o non crediamo in esso. Se crediamo, allora qualsiasi cosa si trovi al di là di quella linea è certamente anatema per la democrazia.
Attualmente le nostre scelte sono
scelte personali. Per quanto non sia proprio possibile per noi far qualcosa
circa l’ingegneria genetica o le bombe al neutrone, individualmente possiamo
dire «no» alla televisione. Possiamo buttare i nostri televisori nel secchio
dei rifiuti che è il posto che si addice loro. Ma mentre questo è un gesto che
può essere molto gratificante e benefico,
nel fare questo gesto non dobbiamo dimenticare mai che, al pari della scelta di
non guidare l’auto, non è un’espressione di libertà democratica. In termini
democratici questo gesto individuale è privo di significato, poiché non ha
affatto alcun effetto sulla società, che continua a funzionare come prima.
Infatti questo gesto ci stacca dal sistema e ci rende meno capaci di
partecipare ad esso e di condizionano di quanto potessimo prima. Come il
«selvaggio» di Huxley o come i giovani d’oggi che si ritirano nelle comunità
agricole, ci ritroviamo sempre più allontanati dalla partecipazione ai processi
centrali che dirigono la nostra società, la nostra cultura, la nostra politica
e la nostra organizzazione economica. Ci troviamo stretti nella classica morsa.
Poiché sembra impossibile eliminare la televisione ed il rigetto individuale è in un certo senso insufficiente, per lo meno ad un livello sistematico, naturalmente la maggior parte di noi punta a uniformarne l’uso. Nel caso della televisione ci siamo adoperati per migliorarne e democratizzarne le manifestazioni.
Ma uno degli argomenti fondamentali di questo libro è proprio che la televisione, in grandissima parte, in realtà non è riformabile. I suoi problemi sono intrinseci alla stessa tecnologia nella stessa maniera in cui la violenza è intrinseca alle armi da fuoco.
Nessuna nuova era di ben intenzionati funzionari televisivi può cambiare ciò che il mezzo fa alla gente che lo segue. I suoi effetti sul corpo e sulla mente sono inseparabili dal fatto che la si guardi.
Per quanto riguarda gli effetti di natura politica, se passassimo dal controllo commerciale della televisione a quello, diciamo, statale, come in Svezia, Argentina o Russia, questo fatto non altererebbe gli essenziali rapporti politici: la unificazione dell’esperienza, l’uno che parla ai molti, l’inevitabile preparazione all’autocrazia che queste condizioni producono.
Analogamente nessun cambiamento nel tipo di programmazione, dalle attuali tendenze violente, antisociali alle più «prosociali» visioni di educatori e psicologi significherà molto se confrontato all’esercizio alla passività, alla distruzione della creatività, all’intorpidimento delle abilità comunicative che qualsiasi prolungata permanenza dinanzi al televisore inevitabilmente produce. Ciò sempre ipotizzando che i programmi possano essere sostanzialmente cambiati, sul che, come abbiamo già visto, si nutrono profondi dubbi.
Non v’è influenza di registi o autori talentati che possa controbilanciare i limiti tecnici propri del mezzo. Non importa chi sia il controllore, il mezzo resta confinato ai suoi freddi, ristretti canali d’informazione iperattiva. Niente e nessuno può cambiare ciò, né v’è alcuno che possa cambiare il modo in cui i limiti tecnici della televisione imprigionano la coscienza. Come la persona che contempla i fiumi diventa simile al fiume, così quando noi guardiamo la televisione inesorabilmente ci trasformiamo in creature i cui corpi e le cui menti diventano simili alla televisione.
È vero che se mettessimo al bando tutta la pubblicità, ciò diminuirebbe tutti gli effetti negativi del mezzo e il potere dei gruppi giganteschi che stanno ri-creando la vita secondo la loro immagine.
È vero che se mettessimo al bando tutta la televisione a radiodiffusione circolare lasciando soltanto i sistemi via cavo, ciò ridurrebbe l’effetto della centralizzazione del controllo. Più tipi di persone potrebbero accedere al mezzo, ma dovrebbero ancora assoggettarsi ai dettami della tecnologia. Se usassero la macchina televisiva, si accorgerebbero del graduale mutare del materiale e della loro stessa coscienza determinato dalla necessità di adeguarsi alla forma tecnologica. Le persone che usano la televisione diventano più simili l’una all’altra; gli indiani che imparano l’uso della televisione non sono più indiani.
Se riducessimo il numero giornaliero di ore di trasmissione, o il numero di giorni per settimana in cui permettere alla televisione di trasmettere, come avviene in molti paesi, questo sicuramente rappresenterebbe un miglioramento.
Se eliminassimo gialli e delitti e altri programmi raccapriccianti si rivelerebbe quanto intrinsecamente noioso sia questo mezzo, poiché diverremmo coscienti della fissazione ottenuta artificialmente a dispetto della noia.
Se bandissimo tutti gli spettacoli fondati sulla natura o la diffusione di notizie da parte della televisione a causa delle inevitabili e pericolose distorsioni ed aberrazioni che sono intrinseche alla trasmissione per televisione di questi argomenti, allora ciò consentirebbe ad altri mezzi più qualificati di riferircene. Diventeremmo più consapevoli di una più complessa, completa e sottile informazione.
Se mettessimo fuori legge le reti televisive, si porrebbe una nuova enfasi sugli eventi locali, il che ci porterebbe più vicino ai fatti sui quali potremmo esercitare una certa influenza diretta.
Tutti questi cambiamenti nel campo della televisione rappresenterebbero un risultato positivo, secondo la mia opinione, e meriterebbero d’essere sostenuti, ma ritenete che sarebbe più facile ottenere quei cambiamenti che non la completa eliminazione dell’intera tecnologia? Non lo credo. Considerato quanto sia stato difficile ridurre il volume o la specie della pubblicità diretta ai nostri bambini, e considerato lo schiacciante potere degli interessi che controllano le comunicazioni in questo paese, tanto vale che concentriamo tutti i nostri sforzi nel cercare di ottenere almeno uno di quei cambiamenti. Non richiederà un maggiore lavoro organizzativo e non è soggetto all’inibizione dell’ambiguità.
Quando penso ad un mondo senza televisione, riesco ad immaginare solo effetti benefici.
Ciò che si perde per il fatto che non potremmo più sfiorare una levetta per ottenere istantaneamente uno «spettacolo» sarà più che controbilanciato dal contatto umano, dalla restaurazione della mente e dal risorgere dell’indagine e partecipazione personali.
Ciò che si perde perché non possiamo più vedere confuse e ridotte versioni di drammi e foreste sarà più che controbilanciato dalla reale esperienza della vita e dell’ambiente direttamente vissuta e dalla resurrezione del sentimento umano che accompagnerà tutto cio.
Ciò che va perduto perché non sarà possibile un modo di evadere dalle penose condizioni di vita di molte persone, potrebbe esser più che controbilanciato dalla concreta presa di coscienza che la vita è stata resa penosa ad alcuni più che ad altri, e dal desiderio di far qualcosa per rimediare a ciò e di aggredire tutte le forze che hanno contribuito a creare tali condizioni.
Una volta liberatasi della televisione, l’area della nostra informazione istantaneamente si allargherebbe sino ad includere aspetti della vita che sono stati trascurati e dimenticati. Gli esseri umani riscoprirebbero facce dell’esperienza che abbiamo permesso cadessero nell’oblio.
La natura dei processi politici sicuramente cambierebbe, rendendo possibile non solo prospettive più intelligenti ma anche la possibilità del prevalere dei contenuti sullo stile. Il potere politico ed economico, ora concentrato in America più di quanto lo sia mai stato nella storia in precedenza, sicuramente in qualche misura si sposterebbe in direzione di strutture più decentrate, noncapitalistiche, comunitarie.
Senza dubbio la cultura riemergerebbe per rimpiazzate il lavaggio del cervello. Il sapere individuale e il sapere collettivo delle comunità di amici e di eguali fiorirebbero di nuovo al declinare della cultura monolitica, istituzionale, sostitutiva.
Insomma eccellenti sono le possibilità che gli esseri umani, una volta usciti dalla caligine delle immagini televisive, siano più felici di quanto siano stati ultimamente, tornando a vivere in una realtà che sia meno artificiale, meno imposta e più sensibile all’azione personale.
Come ottenere l’eliminazione della televisione? A quest’interrogativo certamente non posso rispondere. È ovvio comunque che il primo passo da fare per tutti noi è questo: sgombrate la nostra mente dall’idea che per il solo fatto che la televisione esista noi non possiamo liberarcene.»22.
1 P. Di Mauro, La
formula di diffusione Compton con la meccanica classica in Atti del
XIX Congresso Nazionale di Storia della Fisica e dell’Astronomia di Como 1999
(a cura di P. Tucci), pag. 179-184, CNR, Università degli Studi di Milano,
Aprile 2000. Ciò con buona pace di Popper propugnatore di un “progresso” delle
teorie che, emendandosi dagli errori confutati, si generalizzano in teorie più
ampie, che contengono le precedenti e alle quali si riducono per opportuni
valori di certi paramentri. In proposito, nello stesso articolo si mostra la
falsità dell’asserto che le trasformazioni di Lorentz per velocità molto
inferiori a quella della luce si riducano alle trasformazioni di Galilei. TORNA
2 Si possono consultare le seguenti opere:
J. K. Galbraith, The affluent
Society, 1958
J. W. Forrester et altri, I limiti dello sviluppo, MIT-Club Roma, 1975, Mondadori
Georgescu, Roegen, The entropy
low and the economic process, Cambridge, 1976 in edizione italiana Energia
e miti economici, Boringhieri, 1983
D. E. James e coll., Economic
approaches to environmental problems, Elsevier, Amsterdam, 1978
E. P. Odum, Fundamentals of
Ecology, Saunders Cie., Philadelphia, 1971
R. Passet, La double dimension
energetique et informationelle de l’act economique, in Une approche
multidisciplinaire de l’environment, Economica, Paris, 1980
J. Rifkin, Entropia, Mondadori, 1985
Rapporto della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo sviluppo ONU, 1987, con prefazione di G. Ruffolo TORNA
3 S. Notarrigo, G. Amata, Energia e Ambiente, una ridefinizione della teoria economica, C.U.E.C.M., Catania, 1987 TORNA
4 dati rilevati in S. Notarrigo, Scienza, Natura e Società, in Jeronimus, fuori dal sole nero, Logos, n. 52/53 , 3/4/1994, pag. 28 TORNA
5 ibidem, pag. 38 TORNA
6 ibidem, pag. 34 TORNA
7 S. Notarrigo, G. Amata, Energia e Ambiente, una ridefinizione della teoria economica, C.U.E.C.M., Catania, 1987, pag. 167 TORNA
8 ibidem, pag. 168 TORNA
9 ibidem, pag. 170 TORNA
10 A. Pagano, Sviluppo sostenibile ed economia fisica, in Quaderni di MONDOTRE, n.10 novembre 1994, Siracusa; A. Pagano, Elementi di Economia: un’impostazione più vicina alla scienza fisica secondo le idee di Von Neumann, Sraffa e Notarrigo, in MONDOTRE La Scuola italica, n. 1 dicembre 1999, Sortino; A. Pagano, Sviluppo sostenibile tra mito e realtà, in MONDOTRE La Scuola italica, n. 3 dicembre 2001, Sortino TORNA
11 C. W. Mills, The
Power Elite, 1956 TORNA
12 H. Marcuse, One Dimensional Man, 1964, pag. 15 TORNA
13 M. A. Notturno, La socieetà aperta e i suoi nemici: autorità, comunità e burocrazia, in Popper e La società aperta 50 anni dopo, a cura di I. Jarviee S. Pralog, Armando Editore, Roma, 2000, pag. 94 e segg. TORNA
14 Galbraith parla di
tecnostrutture e indica in esse una pluralità nella composizione dei gruppi che
dirigono la società industriale: ciò minerebbe il carattere monolitico della
tecnocrazia. Inoltre, non ne ammette il carattere necessitante, giacchè ritiene
il sistema economico-industriale solo una parte della vita degli uomini, e
relativamente in diminuzione. J.
K. Galbraith, The New Industrial State, 1967) TORNA
15 Notarrigo-Amata, op. cit., pag. 170 TORNA
16 S. Notarrigo, Scienza, Natura e Società, in Jeronimus, fuori dal sole nero, Logos, n. 52/53 , 3/4/19994, pag. 39 TORNA
17 tratto da A. Pitrolino, I giusti comportamenti ecocompatibili, su Paesi etnei oggi, Nov. 2004, Gravina di Catania, pag. 14 TORNA
18 G. Boscarino Razionalismo e progresso etico-scientifico. Fatti, valori e teorie in G. Boscarino La natura della cosa. Verità, scienza, etica e progresso Ed. La Scuola Italica, 2002 TORNA
19 ibidem, pag. 54 e seg. TORNA
20 J. Mander, Four Arguments for the Elimination of Television, William Morrow and Co., Inc. New York, 1977, in edizione italiana Quattro argomenti per eliminare la televisione, Dedalo, 1982 TORNA
21 In coda al suo libro l’autore stesso riassume, in relazione al mezzo tecnologico, queste trentatré eterogenee tendenze intrinseche:
1) La guerra è «televisione migliore» che non la pace; è ricca di
momenti salienti, contiene azione e risolutezza, e scatena un’emozione
potente: la paura. La pace è amorfa e ovvia. Le emozioni che le sono connesse
sono sottili, personali ed interiori; queste sono molto più difficili a
tradursi televisivamente.
2) La violenza è «televisione migliore» che non la non-violenza.
3) Quando c’è da scegliere tra eventi oggettivi (avvenimenti, dati)
ed informazione soggettiva (prospettive, pensieri, sentimenti), gli eventi
oggettivi saranno scelti: è più probabile che assumano forma visiva.
4) Le auto (e moltissimi prodotti) in televisione vanno bene, e
comportano una minor perdita d’informazione di qualsiasi altra cosa vivente, a
parte le facce umane. Più piccola è una pianta o una creatura, o più complessa
si presenta un’immagine, più difficile è trasmetterla e meno probabile che
venga scelta. Le auto, come moltissime forme urbane, offrono un messaggio
pulito, diretto, senza complicazioni. Comunicano la loro essenza più
efficacemente di quanto possano le piante. Siamo destinati ad avere in
televisione più immagini di auto e di forme urbane che non ambienti e creature
naturali.
5) Religioni con capi carismatici come Billy Graham, Gesù Cristo,
rev. Moon, Maharishi o L. Ron Hubbard in televisione sono manovrabili molto più
semplicemente delle religioni prive di capi o naturaliste come il Buddismo Zen,
la Scienza Cristiana, gli Amerindi, o il druidismo o, per quel che importa
ciò, l’ateismo. Gli dei unici, onnipossenti o le individuali figure simili a
dio sono più facili a descriversi poiché hanno caratteristiche molto
chiaramente definite. Le religioni naturaliste dipendono da una gestalt di
sentimento umano e scambi percettivi con il pianeta: per essere presenti in
televisione avrebbero bisogno di essere semplificate troppo, sì da perdere
ogni senso.
6) Movimenti politici con singoli capi carismatici sono anch’essi
più rispondenti alle esigenze televisive più efficaci. Quando un movimento è
privo d’un capo o di un polo d’attrazione, la televisione ha bisogno di crearne
uno. È più semplice trasmettere Mao che non il comunismo cinese. Chévez è
televisivamente preferibile ai contadini; Steinem è preferibile alle donne;
Graham al cristianesimo; Erhard funziona meglio del «movimento potenziale
umano»; Hitler è più facilmente presentabile in TV del fascismo; Nader è più
gestibile del consumismo; Nixon va meglio che non la corruzione.
7) L’uno è più facile dei molti. La personalità o il simbolo è più
facile della filosofia. La filosofia richiede profondità, tempo, sviluppo e, in
alcuni casi, informazione sensoriale. Ciò resta vero a condizione che i molti
non vengano riprodotti in copie l’uno dell’altro; in tal caso l’uno è lo stesso
dei molti.
8) Per le stesse ragioni la gerarchia è più facile soggetto che non
la democrazia o la collettività. La prima è focalizzata e ha una forma
specifica: capi e seguaci. È necessario intervistare solo i capi. Le forme
democratiche o comunitarie implicano procedimenti fiume con il potere che si
sposta di continuo. I telecronisti non hanno tempo per intervistare tutti.
9) La superficialità è più facile della profondità.
10) Soggetti brevi con il principio e la fine sono più semplici a
trasmettersi dell’informazione estesa e con molte sfaccettature. La conclusione
è più semplice dell’elaborazione.
11) L’informazione verbale si trasmette più facilmente di quella
sensoriale poiché la televisione può inviare parole con scarsa perdita
d’informazione. L’informazione sensoriale è più facile a trasmettersi di
quella intuitiva se la prima è ristretta ai due sensi operativi della
televisione. L’informazione intuitiva, che non ha affatto forma, può
difficilmente esser inviata o ricevuta.
12) Sentimenti in conflitto, e la loro incarnazione in azioni, funzionano
meglio in televisione dei sentimenti di concordia e del loro incarnarsi nella
quiete e nell’unità. Il conflitto è estroversione la concordia introversione, e
perciò il primo è più visibile del secondo.
13) Il desiderio è «televisione migliore» che non il senso di soddisfazione.
Effervescenza ed angoscia funzionano meglio della tranquillità. D’altro canto
la rabbia va ancora meglio dell’angoscia. La gelosia è preferibile
all’accettazione. Tutto ciò funziona più facilmente dell’amore. L’amore
passionale è più comunicabile dell’amore fraterno e sororale.
14) La competizione è intrinsecamente più televisibile della cooperazione
poiché implica dramma, vittorie, ambizioni e sconfitte. La cooperazione non
propone conflitti e diventa noiosa.
15) Il materialismo, l’attitudine ad acquisire e l’ambizione, tutte
attitudini fortemente focalizzate, funzionano meglio della spiritualità, della
rinuncia, della disponibilità, della remissività. Il mezzo televisivo non può
avere a che fare con l’ambiguità, la sottigliezza, e la diversità.
16) Si comunica più facilmente il fare che l’essere. L’attività sarà sempre
preferita alla non attività.
17) Quando l’interesse è rivolto ai popoli primitivi, eventi oggettivi
come la caccia, la costruzione di abitazioni, la guerra o la danza sono più
facili a trasmettersi in televisione dei particolari soggettivi di qualità di
esperienze, modi di pensare, percezioni alternative. Il secondo gruppo di
aspetti vien lasciato perdere a favore del primo gruppo.
18) È più facile portare in televisione il fragoroso che non il
flebile. Il vicino è più facile del distante. Il troppo grande è più difficile
del medio. Lo stretto va meglio dell’ampio.
19) L’informazione lineare in televisione funziona meglio di quella
che venga come matrice o abbia dimensione. Il singolare è più comprensibile
dell’eclettico. L’univoco è più facile dell’ambiguo.
20) Ciò che non muta va meglio di ciò che si evolve; lo statico è
preferito al fluido.
21) Il bizzarro riceve sempre maggiore attenzione in televisione di
ciò che sia consueto.
22) Sono considerati «televisione migliore» i fatti concernenti la luna
che non la poesia riguardante la luna. Qualsiasi fatto funziona meglio di
qualsiasi poesia.
23) L’albero è più facile a comunicarsi del paesaggio. L’autobus della
strada. La strada del sentiero della foresta. Il fiume della montagna. Il fiore
del campo. La strada del fiume.
24) Lo specifico è sempre più facile del generale.
25) L’espressione è più facile del sentimento, e così in televisione
riesce meglio il pianto che non la tristezza. Il verbale va sempre meglio del
non verbale.
26) Le aspirazioni della gente negra per l’occupazione, gli alloggi,
l’integrazione fanno migliore televisione perché sono desideri oggettivi;
vanno meglio della stessa cultura negra, che è invece soggettiva, poliedrica,
sensoriale.
27) Il rapporto tra affari e paesaggi naturali intesi come risorse è
più facilmente presentabile del rapporto tra indiani e la natura come fonte
dell’essere.
28) Il rapporto della pubblicità con la vita come consumo è più facile
a rendersi in televisione del rapporto spiritualista con la vita come espressione.
29) La conoscenza che uno scienziato esperto in missilistica ha dello spazio e del cosmo può essere filtrata e tradotta televisivamente; quella che il mistico ha dello spazio e del cosmo sentito come creatura o potenza non può essere filtrato e tradotto.
30) La quantità è più facile della qualità.
31) La callistenica è più facile dello yoga, perché se ne possono
copiare i movimenti; lo yoga ha bisogno d’essere sentito.
32) Il finito è più facile dell’infinito.
33) La morte è più facile della vita. È specifica, focalizzata, evidenziata, fissata, risoluta, ed ha un significato indipendentemente dal contesto. La vita, da parte sua, è fluida, ambigua, si sviluppa, è complessa, a più livelli, sensuale, intuitiva. Buttar giù sequoie televisivamente rende di più del cercare di comunicarne l’aura e la potenza. In televizione la conta dei cadaveri dei vietnamiti uccisi rende meglio degli apprezzamenti sulla vita vietnamita o delle complessità della lotta politica vietnamita. TORNA
22 J. Mander, op. cit., pag. 321 e segg. TORNA
G. Boscarino, Tradizioni di pensiero. La tradizione filosofica italica della scienza e della realtà, La Scuola italica, Sortino, 1999
G. Boscarino, S. Notarrigo, La meccanica quantistica: Scienza o Filosofia?, Laboratorio, Siracusa, 1997
G. Boscarino, Sul significato di elemento nella scienza di tradizione italica, il problema dell’oggettività fisica (e/o significato fisico) e la meccanica quantistica, comunicazione al Convegno di Cesena del 4-8/10/2004 “I fondamenti della Meccanica quantistica. Analisi storica e problemi aperti”
B. Colonna, Dizionario etimologico della lingua italiana, GTE Newton, 1997, Roma
N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, TEA Utet, 1971
G. Amata, S. Notarrigo, Energia e Ambiente, una ridefinizione della teoria economica, C.U.E.C.M., Catania, 1987
A. Pagano, Conferenza su Crisi energetiche e sviluppo economico compatibile, Acireale 27/03/2004
J. Mander, Four Arguments for the Elimination of Television, William Morrow and Co., Inc. New York, 1977, in edizione italiana Quattro argomenti per eliminare la televisione, Dedalo, 1982
I. Jarvie S. Pralog, Popper e la società aperta 50 anni dopo, Armando editore, Roma, 2000