Pre-print a cura dell’autore. Originale pubblicato su:

Atti del XIII Congresso Nazionale di Storia della Fisica

a cura di A. Rossi, pp. 371 – 382, Conte (LE), 1995

 

MODELLO DI RIGHI PER L’INTERPRETAZIONE DEGLI

ESPERIMENTI DEL TIPO MICHELSON-MORLEY

 

Pietro Di Mauro *

 

Unità di Catania del Gruppo Nazionale di Storia della Fisica

 

 

Nel 1878 Maxwell1 suggeriva la possibilità di rilevare, mediante un esperimento ottico terrestre, un eventuale moto della terra relativamente all’etere, anche se nutriva dubbi sulla sua pratica attuazione.

L’idea veniva ripresa nel 1881 da Michelson2 e dallo stesso resa ope­rativa, sfruttando un interferometro molto sensibile che aveva messo a punto precedentemente. L’esperimento veniva ripetuto insieme a Morley nel 18873.

L’apparato di Michelson e Morley consiste di due aste rigide, fissate perpendicolarmente OS1 e OS2 . Nel punto di incontro O vi è sistemata una lastra semitrasparente L inclinata rispetto all’asse x di 45°. Una sorgente emette un fascio di luce parallela all’asse x. Sulle due aste, a uguale distanza d da O, sono posti due specchi S1 e S2. Lungo l’asse x, tra O e S1, vi è la lamina “compensatrice” di vetro V dello stesso spes­sore di L, in modo da rendere uguali, nel caso stazionario, i due cam­mini d1 e d2. Inoltre lungo l’asse y, dal lato opposto a S2 viene posto un rilevatore R (telescopio) per poter osservare le frange d’interferenza che si formano sulla lastra L.

 

 

L’apparato, solidale con la terra, si suppone in moto traslatorio uniforme con velocità v che, in generale, forma con x un angolo δ.

Il fascio di luce emesso nella direzione x si scinde in due nella lastra L. Il fascio riflesso proseguirà verso S2; quello trasmesso verso S1. I due fasci si rifletteranno sugli specchi per ricongiungersi sulla lastra L e la loro sovrapposizione sarà rilevata in R.

Il tempo impiegato dalla luce per percorrere la distanza d, in andata e ritorno, è dato dalla formula:

 

 

Per i due percorsi si ha un diverso tempo di percorrenza e quindi una differenza di fase. La rotazione dell’apparato dovrebbe causare uno spostamento delle frange d’interferenza corrispondente ad un cambia­mento di fase dato da:

 

 

essendo λ la lunghezza d’onda della luce usata e i l’intervallo tra le frange.

Inoltre per questo modello di Michelson e Morley quando  δ=0, sen φ2 = β, essendo φ2 l’angolo di aberrazione per il raggio che si riflette su S2. Si considera pure che i raggi del fascio vengano riflessi seguen­do le usuali leggi della riflessione.

 

 

L’articolo di Michelson e Morley del 1887 si chiude con un supple­mento nel quale gli autori rilevano di aver trascurato nella loro teoria e, pertanto, nell’interpretazione dei dati, un termine di secondo grado per l’angolo di aberrazione φ2. E sviluppano un’approssimazione migliore per valutare la dipendenza dell’angolo φ2 da β. Infatti trovano che la riflessione di un’onda piana su di uno specchio in moto è equivalente, in base al principio di Huygens, alla riflessione su uno specchio fisso inclinato rispetto al primo di un certo angolo α2, tale che: φ2 = 2 α2 = β+½β2 .

Ma, inspiegabilmente, ritengono di non applicare tale correzione ai risultati ottenuti, ritenendo di poter trascurare il termine di secondo ordine nello sviluppo in serie del parametro di aberrazione.

 

 

Sutherland4 nel 1898, Hicks5 nel 1902 e soprattutto Righi6 a partire dal 1918, hanno fatto notare che si arriva a previsioni diverse se si include nella teoria il termine di secondo grado.

Righi dedica all’argomento quattro articoli, pubblicati su Nuovo Cimento dal 1918 al 1921, che noi abbiamo ripreso, semplificando alcune procedure utilizzate da Righi.

Si arriva a queste conclusioni.

Nel caso dell’esperienza ideale, quando si suppongono gli specchi perfettamente ortogonali ai bracci dell’interferometro non si deve osservare nessuno spostamento di frange quando si ruota di 90°.

Infatti l’onda, che si riflette su S1, e l’onda, che si riflette su S2, non escono dall’apparecchio né sovrapposte né parallele. Esse sono incli­nate di un angolo uguale a circa β2. Ruotando l’apparato di 90° le onde scambiano la loro reciproca posizione, lasciando invariato il fenomeno d’interferenza.

Righi afferma: “evidentemente se questo si fosse saputo prima del 1887, non si sarebbe forse ideata l’esperienza di Michelson, per cui sarebbe probabilmente mancata l’occasione di pensare alla relatività e alla contrazione”.

Ma l’esperienza di Michelson e Morley, stando ai precisi termi­ni in cui viene immaginata, si mostra non utilmente effettuabile. Se gli specchi sono perfettamente ortogonali ai bracci dell’interferometro apparirà nell’oculare un chiarore sensibilmente uniforme. Infatti l’intervallo fra due frange nere successive è dato da:

 

,

 

che nel caso di δ = 0,  λ = 5∙107 m  e  β = 10-4 ci dà i = 50 m !

Le frange d’interferenza sono talmente distanti fra loro che l’espe­rienza pura è irrealizzabile, rendendo molto difficile la constatazione di un loro eventuale piccolo spostamento.

Ciò ha costretto gli sperimentatori, come da loro esplicitamente affermato, a spostare angolarmente almeno uno degli specchi, o quanto meno a non curarsi di regolarli come la teoria suppone.

Basta uno spostamento angolare μ di 4” per rendere le frange d’in­terferenza distanti fra loro di circa 1 cm.

 

Le frange di interferenza viste nell’interferometro

 

Con lo spostamento angolare di almeno uno degli specchi è prevedi­bile uno spostamento delle frange. Infatti, in queste condizioni, ruotan­do l’apparato di 90° non succede più che le due onde scambiano reci­procamente la loro posizione. Svanisce, cioè, la compensazione tra l’ef­fetto prodotto dalla rotazione sul ritardo delle onde e sulla loro inclina­zione. Si ha:

 

,

 

i e i′ sono le larghezze di una frange prima e dopo la rotazione di 90°.

(Per lo spostamento angolare di prima, 4”, si avrebbe uno sposta­mento di circa un millesimo della distanza d).

Nell’aprile del 1881 Michelson condusse il suo primo esperimento all’osservatorio astrofisico di Potsdam. Il risultato sperimentale mostra­va uno spostamento massimo di 0,015 della larghezza di una frange, mentre egli, ponendo l’angolo φ2 di aberrazione uguale a zero, si aspet­tava 0,08. L’errore fu rilevato dal Potier e in seguito da Lorentz. Col modello “ufficiale” doveva aspettarsi uno spostamento di 0,04 essendo d = l,2 m.

L’esperimento di Potsdam era, comunque, inficiato dalle vibrazioni prodotte dalla rotazione dell’apparato e da tutte le altre a cui era sogget­to lo strumento, essendo estremamente sensibile anche alle vibrazioni provenienti dal traffico cittadino (solo la notte e con grande difficoltà si potevano effettuare le misure).

Per queste ragioni, Michelson decise di ripetere l’esperimento con la collaborazione di Morley a Cleveland.

L’apparato fu montato su una pesante pietra sospesa su mercurio e fu aumentato, mediante ripetute riflessioni, il cammino della luce di circa 10 volte il precedente valore.

Inoltre l’apparato fu coperto con una scatola di legno allo scopo di ridurre le correnti d’aria e le fluttuazioni di temperatura. Esso, infatti, era molto sensibile alle lievi differenze di temperatura tra i due bracci, causate dal riscaldamento dovuto al movimento di rotazione che biso­gnava operare per eseguire le misure nella direzione ortogonale; da una stima, effettuata dagli autori, risultava che una differenza di temperatu­ra fra i due bracci pari a un centesimo di grado poteva provocare uno spostamento delle frange tre volte più grande di quello previsto per effetto della rotazione di 90° rispetto alla direzione del moto orbitale della terra.

 

 

Graficamente i risultati sono mostrati nella figura seguente dalle linee spezzate a tratto pieno comparate con quelle previste dal loro modello.

 

 

Lo spostamento misurato non è più grande di 0,01 della distanza tra le frange. “E ciò - scrive Miller nel suo articolo riassuntivo del 1933 - è assolutamente diverso dall’effetto nullo che ora così spesso gli viene attribuito da coloro che scrivono di relatività”. Con questo risultato la velocità orbitale della terra risulta al massimo di 1/4 dei 30 km/s ipotiz­zati.

 

Fra il 1902 e il 1905, sempre a Cleveland, Morley, insieme a Miller7, rifece l’esperimento utilizzando un interferometro montato su una base di legno, con d = 32 m. Essi trovarono uno spostamento al massimo di  0,015.

 

 

L’interferometro di Morley-Miller per la rilevazione dello spostamento nell’etere uti­lizzato per controllare l’ipotesi di Lorentz-FitzGerald, 1904

 

Successivamente Miller8 rifece l’esperimento, tra il 1921 e il 1926, a Cleveland e sul monte Wilson. Tuttavia lo scopo di questi esperimen­ti era cambiato totalmente.

Infatti egli intraprese una lunghissima serie di misure con lo scopo di mettere in evidenza una qualche sistematicità o periodicità, atta a rilevare il moto relativo all’etere cosmico, senza presupporre che esso fosse in quiete rispetto al sistema delle stelle fisse e senza fare alcuna ipotesi sul suo valore assoluto o sulla sua direzione nello spazio.

Naturalmente, per far ciò occorreva fare delle misure periodicamen­te, in modo da poter sottrarre il moto di rotazione della terra e il suo moto di rivoluzione, e così sperare di isolare il moto del sistema solare, sul quale ben poco si sapeva sia riguardo alla sua intensità, sia riguardo alla sua direzione, a parte il fatto che si notava un avvicinamento verso la costellazione di Ercole.

 

 

La velocità e gli azimuth dello spostamento nell’etere per i quattro periodi di osser­vazione, rilevati in rapporto al tempo siderale.

 

 

Osservazioni singole e curve di media per l’effetto dello spostamento nell’etere a

MountWilson nel 1925-1926.

 

Egli, dall’analisi statistica di tutti i risultati sperimentali, individua il punto dello spazio verso cui si dirige il sistema solare e, approssimati­vamente, anche il valore assoluto della sua velocità. Egli trova uno spostamento massimo compreso fra 0,015 e 0,08, confermando così, come si evince dalla figura, i risultati degli esperimenti precedenti.

 

 

Chiaramente questa conclusione veniva ad essere, ora, in accordo con l’ipotesi di un moto assoluto nello spazio, indipendentemente dal­l’esistenza o meno dell’etere, e in assoluto contrasto con le previsioni della teoria della relatività e con la contrazione o l’allungamento di tempi e distanze.

Questo era, ovviamente, molto inquietante e la soluzione veniva tro­vata, per un lungo periodo, nel reciproco ignorarsi dei sostenitori delle tesi opposte, finché neI 1955 uscì un articolo di Shankland ed altri9 dove, a distanza di più di vent’ anni, si riprendevano i dati di Miller per una nuova analisi statistica.

Ma mentre nell’abstract, il quale è certamente letto da molte più persone, affermano che gli spostamenti sono dovuti in parte a fluttua­zioni statistiche e in parte vengono attribuiti alle locali condizioni di temperatura, nel corso dell’articolo asseriscono esattamente il contra­rio: le fluttuazioni statistiche da sole non sono sufficienti a spiegare gli spostamenti osservati da Miller e che non si può stabilire una correla­zione quantitativa diretta e generale fra le osservazioni fatte e le condi­zioni termiche, affermando, candidamente, che “questa mancanza sta nell’intrinseca inadeguatezza dei dati sulle temperature disponibili”. Come dire che, non avendo sufficienti dati per provare le ipotesi, per ciò stesso la nostra ipotesi risulta dimostrata!

Si resta, quindi, sorpresi dal fatto che vengono praticamente cancel­lati una serie di dati, raccolti con grande sforzo, passione e intelligenza durante lunghissimi anni, da un poco convincente “dictat” asserito vent’anni dopo sulla base di nessuna evidenza!

Miller è oggi ricordato come esperto di acustica musicale e scusato, quasi, per i suoi esperimenti sul moto della terra rispetto all’etere.

Lo spostamento angolare μ in quasi tutti gli esperimenti si può valu­tare tra -4” e +4”, come afferma Miller nel suo articolo del 1933.

Abbiamo calcolato μ per gli esperimenti prima citati trovando un sostanziale accordo con l’affermazione di Miller: con uno spostamento angolare massimo di 4” di un solo specchio si possono ritrovare, con il modello di Righi, tutti i risultati sperimentali raccolti per lo spostamen­to medio delle frange d’interferenza.

Riportiamo, per gli esperimenti considerati, i risultati trovati.

 

- Michelson, 1881:                         Δ = 0,015 · i               con d = l,2 m,    μ = +/-  2,7”

-Michelson-Morley, 1887:               Δ = 0,0l · i                  con d = 11 m,    μ = +/-  4,02”

- Morley-Miller, 1902-1904:            Δ = 0,0 15 · i              con d = 32 m,    μ = +/-  4,07”

- Miller, 1921-1923, 1924-1926:       0,015 < Δ < 0,08 · i     con d = 32 m,    |±3,84”|< μ < |=±4,07”|

 

In conclusione, ci si accorge che già con il modello un po’ più raffi­nato di Righi si arriva a previsioni diverse da quelle fatte da Michelson e Morley e che si accordano meglio con i risultati sperimentali via via trovati.

Tuttavia riteniamo che anche nel modello testé presentato le appros­simazioni fatte lascino più di un dubbio.

Si continua a parlare di onde piane estese e poi ragionare in termini di raggi che, come particelle puntiformi, non hanno estensione.

Si suppone che gli specchi S1 e S2, la lamina semitrasparente L e la lamina trasparente “compensatrice” V abbiano spessore trascurabile, (il che poi non è vero neppure per gli stessi autori tant’è che introducono appunto la lamina compensatrice!) che le loro superfici siano infinite in modo da poter trascurare gli effetti ai bordi. Mentre sappiamo, per esempio, che la lastra semitrasparente e quella compensatrice, nell’e­sperimento del 1887, erano di 1,25 cm di spessore e la loro superficie misurava 5 x 7,5 cm2; S1 e S2 erano rotondi di 5 cm di diametro, nulla si sa sul loro spessore. E negli altri esperimenti queste misure furono aumentate.

Dopo l’analisi dei modelli e degli esperimenti del tipo Michelson e Morley, l’unica conclusione che si può serenamente tirare è che, allo stato in cui furono lasciati, con uguale probabilità oggi si può asserire che il moto assoluto, nel senso newtoniano del termine, esista o che non esista! e ciò indipendentemente dall’esistenza o meno dell’etere e indipendentemente dalla validità o meno delle ipotesi relativistiche.

E forse l’esperimento, così come è stato progettato, per le molte approssimazioni da farsi, con un così delicato strumento, non potrà mai decidere sulla questione.

 

NOTE

* Alla presente ricerca hanno collaborato: G. Boscarino, P. Di Mauro, R. Fonte, S. Notarrigo, A. Pagano.   TORNA

1 J. C. Maxwell, Encyclopaedia Britannica, 9th edn., Vol. 8, 1878. Reprinted in “The Scientific Papers of James Clerk Maxwell”, Vol. 2, p. 763, Dover, New York.   TORNA

2 A. A. Michelson, Am. Journ. Sci., 22, 120 (1881).   TORNA

3 A. A. Michelson, E. W. Morley, Phil. Mag., 24, 449 (1887).   TORNA

4 W. Sutherland, Phil. Mag., 45, 23 (1898).   TORNA

5 W. M. Hicks, Phil. Mag., 9, 9 (1902).   TORNA

6 A. Righi, Nuovo Cimento, XVI, 213 (1918), XVIII, 91(1919), XIX, 141 (1920), XXI, 187 (1921).   TORNA

7 E. W. Morley, D. C. Miller, Phil. Mag.. 9, 680 (1905).   TORNA

8 D. C. Miller, Rev. Mod. Phys., 5, 203 (1903).   TORNA

9 R. S. Shankland, S. W. McCuskey, F. C. Leone, G. Kuenti, Rev. Mod. Phys., 27, 167 (1955).   TORNA