Peano e la filosofia
Giuseppe Boscarino
Nell’Avvertenza
del traduttore a I Principi della Matematica di Bertrand
Russell1, scritta nel 1950 da
L. Geymonat, leggiamo in riferimento alla stessa opera:
“Ritengo che anche in Italia l’opera
susciterà un profondo interesse. In primo luogo, perché ....
In secondo luogo, perchè l’opera di
Russell, legando le proprie indagini a
quelle di Giuseppe Peano e dei suoi discepoli, viene molto opportunamente a ricordarci il
contributo di prim’ordine portato a questo genere oggi tanto vivo di studi da
una scuola italiana, su cui la filosofia ufficiale, imperante nelle nostre
università, cercò per decenni di stendere il più completo silenzio.”
E
qui pone una nota a piè di pagina che continua:
“Sarà utile ricordare, a questo proposito,
quanto il Russell scrisse nelle pagine autobiografiche, con le quali ha inizio
l’opera citata nella nota precedente2:
«L’anno più importante della mia vita intellettuale fu il 1900, e
l’evento più importante di tale anno fu la mia partecipazione al Congresso
internazionale di filosofia a Parigi . Ivi mi colpì il fatto che in
tutte le discussioni il Peano e i suoi discepoli possedevano una precisione che
gli altri non avevano. Chiesi perciò al Peano di darmi le sue opere, cosa che
egli fece. Non appena mi fui reso padrone del suo simbolismo, vidi che esso
ampliava il campo della precisione della matematica, si da fargli raggiungere
regioni rimaste fin allora dominio dell’indeterminatezza filosofica».”
Ho
trovato, quindi, assolutamente sorprendente il contributo di Corrado Mangione,
nella conosciutissima opera a cura dello stesso Geymonat3, su La
logica nel ventesimo secolo dove, nella sezione sui primi venti anni del
secolo, dopo avere dedicato dodici pagine a Russell, altrettante a Hilbert e
Zermelo, sei a Brouwer, si dedicano solamente pochissime righe (e in coda!) a La scuola italiana. Ma leggiamo:
“…il suo [della logica
italiana] declino inizierà
paradossalmente proprio con Peano, con
la sua «sordità» [le virgolette sono tutte del Mangione!], immediatamente ereditata dai suoi «scolari»,
verso una collocazione più generale dell’enorme problematica che lui stesso
aveva contribuito a sollevare nel mondo. E ciò sembra dovuto alla sua tendenza a «chiudere» un
sistema, una ricerca, un’impresa, se necessario forzatamente, invece di
spingersi fino alle estreme conseguenze «sperimentali» [che significa?!] di nuovi tentativi, principi, metodi: è
forse un malinteso senso di «onestà intellettuale» che lo porta a escludere dai suoi
discorsi ogni considerazione che non sia, come lui stesso dice, di «stretta
pertinenza matematica».”
E,
così continuando, il Mangione si scaglia sempre più astiosamente contro «i suoi scolari» rei di «accademismo» di piaggeria verso il
«maestro», ecc. Ma il nemico principale di Mangione sembra essere il
Burali-Forti che osò “risparmiarsi
l’enorme [!] fatica di stabilire un
sistema completo di proposizioni primitive; ...” e, per di più, il predetto
Burali-Forti ebbe la tracotanza di scrivere: “E a proposito di merce estera , conviene far notare come, specialmente dagli italiani (!), si citi e si usi il caotico e impreciso sistema geometrico dell’Hilbert, quasi non esistessero i
sistemi semplici, chiari e precisi (ma sono italiani!) e ben superiori a quello
dell’Hilbert, di M. Pieri.”
A
questo punto ci sembra che il lettore venga spinto a gridare: Sacrilegio!
Sacrilegio! si osa inveire contro la “caoticità e imprecisione” di Hilbert e
dei suoi corifei!
Ma
vediamo di capire, molto più pacatamente, cosa è successo.
Nonostante
gli elogi che, nei suoi scritti, in ogni occasione Russell rivolga a Peano,
attribuendogli il merito di avere introdotto nuove e feconde idee nel campo
della logica e della teoria della deduzione matematica, di fatto, usa i simboli
di Peano con un valore semantico, e talvolta anche formale, totalmente diverso
dal Peano. La ragione è dovuta alle contrastanti metafisiche dei due
personaggi. (Vedi anche l’articolo di Notarrigo in questo stesso numero di Mondotre Quaderni, al quale ci
permettiamo di rimandare per la nomenclatura tecnica).
Si
cita spesso il fatto che, in più di un’occasione, il Peano quasi si dilettasse a
dire che egli non si occupava di filosofia4
e si rifiutava di commentare le, a nostro giudizio, esilaranti
speculazioni metafisiche che gli altri, a partire dai suoi simboli e dalle sue
idee, andavano almanaccando. Ma, a guardare le cose a fondo, dai suoi scritti
emerge, chiaramente, una ben definita filosofia e, anzi, tutta la sua opera è
preminentemente filosofica!
Onde
la più probabile deduzione che si può tirare dal suo apparente disimpegno dalla
filosofia è che egli giudicava come semplici chiacchiere inutili e senza senso
tutto quello che ai suoi tempi si veniva ribattezzando con il nome di filosofia
della matematica.5
La
prima differenza fondamentale tra Peano e Russell si trova nel senso che
bisogna attribuire al termine proposizione.
Per Peano esso significa semplicemente una formula del tipo x Î a con x un individuo e a una classe; per lui la logica si
occupa solo di proposizioni in cui x è una variabile reale e, cioè, si
occupa solo delle proposizioni
condizionali6 che Russell,
invece, ribattezza funzioni
proposizionali per lasciare il nome di proposizioni
a quelle cose che, invece, Peano esclude dal dominio della logica in quanto
affermazioni delle varie scienze particolari o del linguaggio comune, qualche
volta senza significato, per le quali Russell si inventa un assolutamente
inutile calcolo proposizionale che
assumerà, in seguito, un rilievo enorme nelle chiacchiere inutili sui
fondamenti della matematica, al di là delle stesse intenzioni del Russell, dopo
di avere ricevuto un’altra e più deleteria variazione semantica (del resto
implicita nell’approccio russelliano) per cui la proposizione viene identificata, tout court, con il suo valore di verità!
Lo
slittamento semantico che Russell opera rispetto a Peano lo porta (imitato
dall’Hilbert e da tutti gli altri logici posteriori) a cambiare il significato
formale del termimie implicazione che,
da relazione che era in Peano,
diventa un’operazione;
con la divertente conseguenza che ora diventa un problema di logica il
sapere che è sempre vero, p.es., che Napoleone è morto a Sant’Elena implica che la statua della libertà si
trova a New York! e il considerare altrettali simili scemenze di cui abbondano
i raffinatissimi libri di logica (?)
moderni.7
A
prima vista la cosa risulta davvero sorprendente, ma quando si capisce che
Russell intende dire che o non è vera la prima proposizione o è vera la seconda
o non è vera la prima ed è vera la seconda si capisce che la cosa è di una tale
banalità che uno è costretto a chiedersi degli scopi reconditi per cui si è
voluto cambiare il significato del termine implicazione.
Da
tale balordaggine, che ci fa tornare di alcuni millenni indietro al megarico
Filone, e da altre conseguenti, ne viene la necessità di distinguere l’implicazione in materiale e formale, di distinguere l’implicazione dalla
deduziomìe, e, per i successori di Russell, di inventarne molte altre: implicazione rigida o stretta,
L-implicazione, ecc., così reinventando le scolastiche logiche modali e inventando,
nuove di zecca, logiche
intuizionistiche, logiche a più valori, logiche libere ed altre diavolerie
del genere il cui uso pratico è assolutamente nullo se si esclude la carriera
accademica dei loro cultori. Per cui non ci resta altro che tornare, anche noi,
indietro nel tempo ed esclamare con Callimaco: “Persino i corvi sui tetti gracchiano intorno alla natura dei
condizionali”.
Nonostante
Russell confessi, nell’introduzione alla seconda edizione della predetta opera,
di avere modificato molte delle opinioni espresse nella sua prima edizione
riafferma invece che «la matematica e la logica siano identiche” e d’altra parte “la logica invero mira all’indipendenza dal fatto empirico” per cui
“in pratica, è possibile una gran parte
della matematica senza dare per ammessa l’esistenza di alcunché.”
A
questo punto non si capisce più la critica che, alcune pagine prima, aveva
rivolto all’interpretazione formalistica della matematica di Hilbert!
Rimprovera ai formalisti di avere dimenticato che “i numeri sono necessari non soltanto per fare le somme ma per contare”
ed, in seguito, se ne dimentica anch’egli e, per dar loro significato,
trasforma i numeri in insiemi di insiemi e li pone nel mondo iperuraneo sulla
scia di Frege, Dedekind e di Cantor. A tale concezione dei numeri si oppone
polemicamente Burali-Forti.8 Ma
Peano non se ne preoccupa, non volendosi occupare di chiacchiere inutili.
Nell’articolo
Sul concetto di numero (0S-III) Peano
taglia alle radici le presunte basi logiche su cui Dedekind pretendeva di
fondare i numeri e riformula la teoria dei numeri già data in Arhitmetices principia, nova methodo
exposita.
I
presupposti filosofici da cui Peano muove sono i seguenti: “Dal lato teorico, per decidere la questione della definizione, occorre
sia detto prima di quali idee ci possiamo servire. Qui si presuppongono note le
sole idee rappresentate dai segni ∩
(e), U (o), - (non), Î (è),
ecc., di cui si è trattato nella nota
precedente. E allora il numero non si può definire, poiché è evidente che
comunque si combinino fra loro quelle idee non si potrà mai avere una
espressione equivalente a numero. Però se il numero non si può definire, si
possono enunciare quelle proprietà da cui derivano come conseguenza tutte le
innumerevoli e ben note proprietà dei nunmeri.”
L’assiomatizzazione
di Peano non è in contrasto con quella di Dedekind dal momento che da entrambe
si deducono le note proprietà dei numeri; solo che “Fra quanto precede, e quanto dice il Dedekind, vi ha una
contraddizione apparente, che conviene subito rilevare. Qui non si definisce
il numero ma se ne enunciano le proprietà fondamentali.
Invece il Dedekind definisce il numero, e precisanmente chiama numero ciò che
soddisfa alle condizioni predette. Evidentemente le due cose coincidono.”
Per Peano non c’è niente da cambiare all’impostazione di Eudosso, Euclide ed Archimede, se non tradurne l’opera in linguaggio ideografico. I numeri, interi o reali che siano, sono il risultato di operazioni fisiche e non logiche; e, precisamente, il risultato dell’operazione di misura delle grandezze fisiche, tra cui il contare è un’operazione preliminare.
I
numeri sono rapporti tra grandezze e non ha alcun senso, p.es., sommare il numero di metri della lunghezza di un
asta di ferro al numero di
kilogramnmi della sua massa.9 La
matematica non è certamente una serie di operazioni tra simboli senza
significato, come per i formalisti, e non è così staccata dal mondo empirico
come vorrebbe Russell.
Da
questo errore lo stesso Russell si ravvede per cadere dalla padella
dell’idealismo nella brace dell’empirismno10:
“Oggi, ciò che ho esposto
riguardo ai teoremi di esistenza ... non
mi sembra più sostenibile: salvo qualche eccezione, tali teoremi di esistenza
sono, direi adesso, esempi di proposizioni che possono essere enunciate in
termini logici, ma possono essere
verificate o falsificate soltanto
dall’evidenza empirica” e spiega, riferendosi ai simboli «o», «e», «non»,
…, «0», «1», «2» ..., “neppure il più
ardente seguace di Platone può supporre che si trovi su in cielo l’«o» perfetto, e che gli «o» qui sulla terra siano copie imperfette dell’archetipo celeste.
Ma nel caso dei imumeri la cosa è meno ovvia .... Al tempo in cui scrivevo i Principi, dividevo con Frege la credenza nella realtà platonica dei numeri, i quali, nella mia
immaginazione, popolavano il regno senza tempo dell’essere. Era una fede
consolan te, che in seguito abbandonai con rimpianto.”.
Al
contrario, in Peano non c’è alcun rimpianto
e non c’è questa schizofrenica oscillazione tra il mondo iperuraneo e il
mondo della piatta empiria: a partire da opportune idealizzazioni delle operazioni fisiche11, Peano formula un certo numero di
assiomi per descriverle usando le regole elementari della logica le quali, a
loro volta, non sono altro che i processi elementari del pensiero, quando
vengano depurati dalle ambiguità connesse all’uso della lingua naturale. Tali
assiomi devono essere pochissimi e chiari12.
E
perciò riformula nella sua ideografia molti
dei libri di Euclide e dà mano, con i suoi collaboratori, a
quell’impareggiabile monumento che è il Formulano
Mathematico13 dove,
senza inutili fronzoli, è registrata tutta la matematica nota fino ai suoi
tempi; aggiungendovi molti nuovi e fecondi rami che, successivamente, riappaiono
nella matematica moderna sotto il nome di tale o tal altro matematico, quasi
sempre «straniero». Certo il formulano è difficile da leggere! Ma questo non è
nè una buona nè la sola ragione per cui sembra che nessuno l’abbia mai letto
dal momento che si verifica, ormai, che tutta la cosiddetta “nuova” matematica debba necessariamente
riceversi di rimando dall’estero!
Ma
vediamo qual’è l’implicito significato della variazione semantica che si fa
subire al termine proposizione: con Peano,
finalmente, la logica si affranca dalla pesante cappa dell’aristotelismo
strisciante,14 si separa
nettamnente il linguaggio scientifico dal linguaggio comune e si chiarisce, in
modo inequivoco, il significato dei termini elementari della logica e della
matematica. Per Peano non è la matematizzazione della logica che conta, almeno
finché la matematizzazione la si voglia intendere come puro gioco simbolico e
non come strumento di chiarimento concettuale. Per Russell, al contrario, il
linguaggio della logica non è altro che il linguaggio naturale rivestito di
nuovi orpelli simbolici e deduttivi e, nello stesso tempo in cui dichiara di
volere ridurre la matematica alla logica, separa nettamente il dominio delle
due scienze, assegnando all’una il regno delle intensioni e all’altra
il regno delle estensioni, come
vedremo.
Ed
ecco, per Russell, la necessità di compiere il successivo passo e di
distinguere, naturalmente con la sola forza del puro pensiero astratto, i predicati
dalle classi ridotte a mera estensione dei precedenti e arrivando,
naturalmente, ai famosi insolubili paradossi. Questo porterà i successori ad
inventarsi una miriade, altrettanto divertente, di calcoli dei predicati di
qualunque ordine che preludono agli altrettanto insolubili problemi
dell’infinito, nel tentativo di giustificare gli allucinanti enti astratti con
i quali Cantor ha popolato il mondo iperuraneo,15 per cui ancor meglio che nel mondo delle meraviglie
di Alice si possono sommare e moltiplicare quantità
(?) che, miracolosamente, restano sempre uguali a se stesse, lasciando il
dilemma ai comuni mortali di cercare di capire come mai il prodotto di due
numeri transfiniti si comporti in modo diverso da quello tra numeri naturali,
mentre l’operazione di elevamento a potenza si debba continuare a comportare
allo stesso modo dei numeri naturali (À´À=À , ma 2À
> À). La banale spiegazione che
se ne dà è che tali straordinarie proprietà non contraddicono i postulati! Ma
che significano i postulati? A quali enti concreti si adattano? A queste
domande si risponde, come nel dizionario in appendice al “1984” di Orwell, e
cioè, cambiando il significato dell’aggettivo “concreto” e dando realtà al
mondo iperuraneo; e ciò, si badi bene!, in nome del più forsennato empirismo.
Grandi
matematici, come Gauss e altri, avevano protestato contro la barbarie di certe
interpretazioni dei termini infinito e
infinitesimo, ma il nuovo credo
filosofico avanzava a grandi passi e non poteva essere più fermato. Ecco perchè
nessuno più si ricorda di Peano: la sua ideografia
poteva arrestarne la marcia. Al massimo si potevano usare i suoi simboli,
“depurati” dai loro precisi significati e avendone attribuiti ad essi, invece,
moltissimi altri tra loro contrastanti; di modo che, alla fine, al di là dei
simboli, restavano solo i simboli!
Burali-Forti
si scagliava contro il calcolo delle
relazioni di Russell16;
ma, tutto sommato, esso altro non era che una variazione semantica del calcolo delle classi e, quindi, dal
punto di vista filosofico, avevano entrambi lo stesso difetto, connesso con la
loro interpretazione estensionale, di complicare inutilmente le cose. Ma, come
ognun sa, complicare le cose serve a non far capire agli altri, di modo che la scienza (?) potrà continuare a essere
impartita dalle autorità costituite. Ci viene in mente il “Galileo” di B.
Brecht!
In
quasi tutti i libri che si occupano di queste problematiche (ovviamnente solo
in quelle che si ricordano di menzionare Peano e, in vero, non sono molte) si
mettono in evidenza le critiche che Russell ha rivolto a Peano su certi punti
particolari ma mai quelle che Peano ha rivolto a Russell (la cosa non può
sorprendere visto che nessuno degli scrittori di tali libri sembra avere
studiato o, addirittura, nemmeno letto le opere di Peano e della sua scuola,
mostrandone solo una conoscenza indiretta attraverso la lettura dei “critici”).
Per di più, si riportano le critiche espresse da Russell nella sua precedente opera
senza notare che lo stesso Russell, senza che il più delle volte ne faccia
menzione, nella sua successiva opera (scritta in collaborazione con Whitehead)
se li rimangia quasi tutte, costretto dal compito di far proseguire formalmente
il suo simbolismo.
Mi
piace, qui, rovesciare l’andazzo. La cosa non è facile visto che Peano, a
differenza degli altri, non era polemico per natura, essendo fiducioso che
bastasse seguire i suoi simboli per convincersi delle sue ragioni (ma chi
poteva avere tale pazienza specialmente se era interessato solo alle frasi
altisonanti!). Tuttavia, alcuni spunti fondamentali li possiamo ritrovare nella
sua recensione, scritta in latino sine flessione, ai Principia Mathematica.17
Egli
nota, intanto, che “gli autori adottano
in parte i simboli del Formulario Mathematico. In ogni caso, ne cambiano la
forma e il significato;
introducendo molti simboli nuovi. La ragione risiede nel diverso scopo che il
simbolismo si propone nel Formulario rispetto a quello del libro degli Autori”.
Poi prosegue differenziando nettamente le due filosofie che stanno alla
base della diversità: “Nel Formulario, la
logica matematica viene adoperata esclusivamente come strumento per esprimere e trattare le proposizioni
della matematica usuale; e non è fine a se stessa; essa viene spiegata
in 16 pagine; un’ora di studio è sufficiente per sapere tutto quello che è necessario per applicare la nuova scienza della logica alla
matenmatica. Il libro dei nostri Autori tratta
la logica matematica come scienza a se e le sue applicazioni alla teoria dei
numeri transfiniti di vario ordine; ciò esige un simbolisnmo molto più ampio.” (Sull’utilità
di tale ampliamento non si pronuncia!).
Quindi
nota che tutto il simbolismo degli autori riguardante le relazioni è riducibile banalmente al suo con l’introduziomìe delle classi di diadi; e, allo scopo,
introduce il simbolo che universalmente oggi si usa per esprimere il prodotto
cartesiano.
Egli
nota che la distinzione tra proposizioni primitive e derivate (distinzione per
la prima volta fatta dal Peano!, ma che egli evita di ricordare) viene usata in
modo rigido dagli Autori mentre nel formulario non si fa nessuna particolare
scelta, essendo la scelta assolutamente arbitraria, come in altre opere del
Peano viene esplicitamente detto, e mostra, concretamente, che tutti gli
assiomi degli Autori, peraltro espressi promiscuamente con simboli e con parole
del linguaggio comune, quando espresse interamente in simboli sono proposizioni
già elencate nel Formulario. [Da ciò
banalmente discende che è illusorio stabilire
un sistema completo di proposizioni primitive, come invece, abbiamo visto,
pretenderebbe il Mangione.] Fa vedere che il concetto di funzione proposizionale introdotto dagli Autori è completamente
inutile tanto che nel Formulario se
ne può fare benissimo a meno.18 Ne
discende che non si capisce a che possa servire un calcolo dei predicati.
E,
allo stesso modo, è inutile il segno ├ “ ‘signo de assertione’ que es implicito in numero de
propositione” (vedi rifer. a nota13).
In
buona sostanza, a parte i complimenti di prammatica, mostra, concretamente ma
senza esplicitamente affermarlo, che nel libro recensito o non c’è niente di
nuovo o addirittura c’è un peggioramento rispetto al Formulario. Rendendo, così, in modo urbano, la pariglia al
precedentemente citato libro del Russell dove, nel comnplimentare il Peano, ad
ogni passo, se ne andavano cambiando gli scopi e le intenzioni e, spesso, anche
i significati.
L’altro
considerevole, ma conseguente, spostamento semantico che Russell opera rispetto
al Peano si ha sul termine classe. Per
Peano il termine è primitivo e quindi
non definibile a partire da altri termini più elementari. Se ne potrebbe dare una
definizione reale (o meglio descrizione, ma notiamo che questo
ultimo termine ha un significato tutt’affatto diverso dallo stesso termine del
Russell) per mezzo del linguaggio comune; ma egli non si preoccupa di farlo,
forse, nella convinzmone che l’uso che di esso ne verrà fatto nell’ideografia
ne chiarirà in modo non ambiguo il significato; per questa ragione, in ogni
proposizione simbolica stabilisce esplicitamente quali simboli stanno a
rappresentare classi.
Ma,
al solito, qui fornisce un’altra prova del suo sconfinato ottimismo
sull’intelligenza umana, non tenendo conto dell’effetto deleterio che secoli di
chiacchiere inutili hanno provocato nel modo di ragionare dei logici 19!
Seguendo
le sue opere di logica, a partire dalla primna del 1888, è fin troppo chiaro
che per lui il termine classe è
sinonimo di concetto; come poi espressamente dirà nelle opere posteriori20, anche se ancora in
modo, forse, non perfettamente conscio.
La
piena coscienza di questo significato del termine classe emergerà
esplicitamente in seguito alle critiche di Frege21; questi, erroneamente, aveva creduto di
interpretare il termine classe di
Peano come riferentesi all’estensione del concetto. Nel lavoro del 1897 Peano
chiarisce definitivamnente la sua interpretazione del termine classe introducendo esplicitamente, in
contrapposizione, il concetto di estensione di una classe.22
Al
contrario per Russell, sulla base della assurda credenza che la matematica si
occupi solo di estensioni,23 procede
a definire le classi come “completamente determinate quando se ne
conoscano i loro membri, cioè non ci possono essere due classi differenti che
hanno gli stessi membri.”24 L’esempio
portato da Frege, riferentesi alla stella
de1 mattino che ha la stessa estensiomie della stella della sera, avrebbe dovuto essere sottoposto a Russell e non
a Peano!
Ma
il concetto che Russell ha di estensione e
di intensione è, in effetti, molto
vago, instabile e indefinibile. In un primo momemmto dice:25
“Nei trattati di logica si era soliti
distinguere due punti di vista, quello dell’estensione e quello
dell’intensione. Il secondo venne
considerato più fondamentale dai
filosofi, mentre si ritenne [dai
filosofi?] che i matematici operassero
specialmente col primo. Il Couturat, nel suo
pregevole lavoro su Leibniz, dichiara
recisamente che la logica simbolica può venire costruita
soltanto a partire dal punto di vista dell’estensione; e se effettivamente vi
fossero solo questi due punti di vista, la sua affermazione
sarebbe giustificata. Ma il fatto è che tra la pura intensione e la pura estensione esistono posizioni
intermedie [?!], ed è appunto in
queste regioni intermedie che
trova il suo regno la logica simbolica.”
[Chi
fosse giustamente curioso di sapere che cosa siano tali posizioni intermedie
dovrà aspettare per un tempo indefinito!]
“È essenziale che le classi
che prendiamo in considerazione siano composte di termini, e non siano
predicati o concetti; una classe infatti
deve essere definita dandone i termini, mentre vi saranno in generale
molti predicati che si uniscono ai termini dati e non ad altri. Né si può, come è ovvio [?!],
definire intensionalmente una classe come la classe dei predicati che si uniscono ai termini in
questione e a nessun altro: questo infatti implicherebbe
un circolo vizioso; il punto di vista dell’estensione non può quindi a un certo punto venire evitato. D’altra parte se noi ammettessimo
puramente l’estensione, la nostra classe risulterebbe definita soltanto
dall’enumerazione dei suoi termini, e questo metodo non ci permetterebbe di
trattare, come fa la logica simbolica, delle classi infinite. Occorre dunque,
in generale, considerare le nostre
classi come oggetti denotati da concetti; e, circoscritto in
questi limiti, il punto di vista dell’intensione risulta essenziale.”
Sembra di seguire il volo di un pesante aereo, sovraccarico, che non sa dove atterrare in un terreno accidentato! Ma, la cosa più divertente è che il carico pesante e gli accidenti del terreno se li è creati lui stesso!
Peano
avrebbe commentato con le stesse parole con cui ha commentato l’opera di Frege,26 (forse in relazione
all’altrettanto confusa distinzione fregeiana tra senso e significato, la
quale, da qualcuno di buon cuore, si è voluta identificare con intensione ed estensione; quando, a ben vedere, i termini fregeiani appaiono
molto più confusi sia nel senso che nel significato, qualunque cosa possano
significare tali due termini!):
“Questo libro deve aver costato al suo Autore
grande lavoro. La sua lettura è pure assai faticosa. Certe distinzioni sono difficili ad afferrarsi, poiché spesso due
termini tedeschi [nel nostro caso bisognerebbe intendere: inglesi], fra cui
l’A. fa differenza, hanno nei dizionari per corrispondente lo stesso termine
italiano. Sarebbe ora desiderabile che l’A, applicasse la sua ideografia a trattare molte parti della
Matematica. Allora le formule che presentano ancora qui alcume oscurità, si
dovranno meglio precisare con opportune notazioni. Queste notazioni stesse, che
ora sono assai complicate, verrebbero semplificandosi. Ne verrà così che le
varie ideografie che si possono progettare, ove siano egualmente atte a
rappresentare tutte le proposizioni, devono finire a coincidere fra loro,
salvo al più la forma dei segni adottati.”
Come
al solito, Peano scrive in modo cortese ma estremamente chiaro!
Ma
continuiamo con la citazione di Russell27:
“La migliore trattazione formale
che esista delle classi è quella di Peano. In essa, però, sono trascurate molte
distinzioni di grande importanza filosofica. Il Peano, io credo non del tutto consapevolmen te, identifica la classe col
concetto-classe [cos’è?!]; ... . Per
lui «2 è un numero» è una proposizione
in cui si dice che un termine appartiene alla classe numero” [guarda che
stranezza!].
Dopo
altri inspiegabili fraintendimenti dell’opera del Peano, conclude: certe conseguenze
“impediscono di accettare filosoficamente
certe asserzioni del formalismo del Peano. La prima conseguenza è: che non
esiste affatto una classe-nulla,”
[non
si capisce perché il Russell pretenda l’esistenza di una tale classe che è una
contraddizione in termini, in base al suo personale significato del termine classe!],
“benché vi siano concetti-classe nulli.”
[Peano
avrebbe detto, più precisamente, che esistono concetti senza estensione].
“La seconda è: che una classe, che abbia
soltanto un unico termine, deve essere identificata
[da dove proviene tale necessità?!], contrariamente
all’uso del Peano, con quest’unico ternmine.”
[Si
sono cambiate le carte in tavola, sembra il gioco del tre oro e tre oro.]
“Io, tuttavia, non proporrei di alterare la
sua maniera di procedere o la sua notazione in conseguenza di qualcuno di
questi due punti”
[bontà
sua!, in caso contrario (osserviamo noi) si cadrebbe, ovviamente, in
inestricabili contraddizioni che si possono superare solo con i giochi di
parole! ma i successori di Russell non hanno avuto tali remore, con
conseguenze disastrose; per cui, nelle più rinomate assiomatizzazioni (?) della teoria degli insiemi, si può avere
tranquillamente (naturalmente finché non si ponga la fatidica domanda: che
significa?!) a Î b
e, meraviglia delle meraviglie, nello stesso tempo e con lo stesso significato dei simboli (ma ne hanno qualcuno?!) b Î a);]
“piuttosto considererei tali fatti come prove
che la logica simbolica dovrebbe, per quel che riguarda la notazione, riferirsi ai
concetti-classe piuttosto che alle classi.”
Quindi,
il discorso di Russell è confuso ma gli intendimenti sono chiari: l’intensione
è materia della logica di cui fanno parte i numeri, soprattutto quelli
transfiniti che sono il pane quotidiano della filosofia della matematica;
l’estensiomìe è roba per la matematica che, così, si
riduce a volgare applicazione delle ardite speculazioni filosofiche dei logici!
E così si è ristabilita la distinzione platonica tra scienze aristocratiche e
arti meccaniche che era stata travolta da Galilei e Newton i quali si reggevano
sulle spalle possenti di un gigante come Archimnede28; ma c’è chi va cianciando di un presunto
platonismo di Galileo!
Ma,
per finire sulla confusione russelliana intorno ad estensioni ed intensioni,
riportiamo alcune perle da un’opera divulgativa,29 che riporta, in modo più terra terra, certe astruse
considerazioni dei Pricipia:
“Non possiamo prendere le
classi nel puro senso estensivo,30 semplicemente come mucchi o agglomerati. Se tentassinmo di farlo,
troveremmo incomprenisibile come possa esistere una classe come la
classe-nulla, che non ha membri affatto e non può essere considerata un
«un mucchio»; troveremmo anche difficilissimo capire come una classe di un solo
membro non sia identica a quel membro stesso.”
[notiamo che ciò che qui ora si dice è esattamente il contrario di quello
che Russell aveva scritto prima!].
Continuando
sullo stesso tono, esclude che le classi si possano identificare con i mucchi o
con le funzioni enunciative, per cui “diventa
assai difficile capire cosa mai possano essere, se non delle finzioni
simboliche” (sic!). Ma adesso viene il bello!:
“Ma nel rifiuto di affermare che esistono le
classi, non si veda l’asserzione dogmatica che non ce n’è alcuna” [?!]. E così continua con asserzioni che si possono
mettere in corrispondenza biunivoca con le oscillazioni di un pendolo, finché
non arriviamo agli esempi che dovrebbero spiegare la distinzione tra estensione
ed intensione: “Una frase che implica una
funzione Φ(x) la chiameremo una funzione «estensiva» della fusmzione
Φ (x), se è del tipo «tutti gli uomini sono mortali», cioè se il suo
valore-verità resta invariato per la sostituzione d’una funzione formalmente
equivalente; e quando una
funzione d’una funzione non è estensiva, la chiameremo «intensiva»: per cui «credo che tutti gli uomini siano immortali» è una funzione
intensiva di « x è un essere umano» o
di « x è immortale».”
Il meno che si possa dire è che la distinzione è semplicemente incomprensibile oltre che assolutamente contraria a tutta la tradizione, il quale ultimo fatto potrebbe anche risultare positivo se giustificato!
Ma
non ci sono dubbi che egli stesso non sia molto convinto delle sue
affermazioni; infatti, qualche pagina dopo dice che le sue distinzioni non si
applicano “al mondo reale”, ma poco
male! perché subito si consola dicendo: “Ma,
se è così, questo è un caso, un fatto riguardante il mondo in cui ci capita di
trovarci. La logica pura, e
la matematica pura (che sono la stessa cosa), aspirano a esser vere, secondo
la fraseologia leibniziana, in tutti i mondi possibili, non soltanto in questo
complicato pasticcio di mondo in cui il caso ci ha imprigionati. Il logico
dovrebbe conservare una certa signorilità: non deve accondiscendere a dedurre i suoi argomenti soltanto da ciò che vede intorno a sé.”
Quindi
ne dobbiamo dedurre che è signorile parlare
del sesso degli angeli! Certamente Peano, data la sua origine contadina, non
poteva pensare allo stesso modo! Ma per Russell, come per Platone, i plebei si
occupino del mondo empirico secondo i canoni interpretativi dell’empirismo foggiati dai signori, ai
quali soli compete di occuparsi di astrazioni, le quali son tanto più signorili
quanto più lontane dalla realtà!
I numeri
Da
quammto abbiamo detto, è ormai chiaro che tutti gli spostamenti semantici
operati dal Russell nei confronti del Peano erano tutti finalizzati a far
accettare i numeri transfiniti tra gli oggetti della matematica. (Naturalmente,
questa è solo una testa di ponte. Infatti:
“…Qui i numeri 1 e 2 sono completamente scomparsi, e
un’analisi consimile può applicarsi a
qualunque proposizione aritmetica. A
questo punto del processo, il Whiitehead mi
persuase ad abbandonare i punti dello
spazio, gli istanti del tempo e le particelle di materia, sostituendo ad essi costruzioni logiche composte di eventi.” (In I Principi ... , p. 21). Ma, dal
momemmto che oggetti non sono, in nessun possibile significato del termine oggetto (se oggetti sono, lo sono della
metalogica, ma non certo dell’aritmetica e tanto meno di questo mondo al quale
l’aritmetica si riferisce; è senza senso pensare che si possano riferire a tutti i mondi possibili i quali ultimi
noi non conosciamo e non possiamo conoscere; e ciò per definizione stessa di conoscere, in quanto ogni cosa che
conosceremo di nuovo farà, automaticamente, parte di questo mondo, dato che
conoscere non significa almanaccare sul sesso degli angeli!), bisognava far
diventare non-oggetti gli altri
numeri e trasformarli tutti in classi di classi, cioè (nell’interpretazione
russelliana del termine classe e con il suo vocabolario):31
“Il numero di una classe è la classe di tutte
le classi simili ad essa.” Tuttavia egli si rende conto dell’assurdità
di tale definizione, infatti, alcune righe prima di tale strabiliante
definizione scrive:
“Naturalmente la classe delle coppie (per
fare un esempio) è qualcosa di diverso dal numero 2. Però, mentre non abbiamo dubbi intorno alla classe delle
coppie, che è un’entità precisa e non difficile da definire, il numero 2 è un’entità metafisica di cui non saremo mai
sicuri se esiste realmente e se l’abbiamo individuata. Quindi è più prudente
accontentarci della classe delle coppie, di cui siamo sicuri, anziché inseguire
un problematico numero 2 che resterà sempre nel vago.”
Naturalmente,
per un contadino la cosa più sicura è che ha 2 mani per zappare, 2 occhi per
vedere, 2 piedi per camminare, ecc., e non si cura di pensare astrattamente
alla classe di tutte le classi che hanno 2 membri; e gli parrebbe, in ogni
caso, che per rifletter su quella classe debba avere già un’idea di cosa
significhi 2! Ma, ovviamente, per i signori le cose
vanno diversamente,
perché a loro non servono le mani, gli occhi e i piedi, bastando loro solo la classe delle lettere dell’alfabeto per
scrivere cose sempre più strabilianti!
Infatti,
Russell continua: “A prezzo d’una piccola
bizzaria d’espressione, questa definizione è certamente definitiva
e inattaccabile; e non è difficile dimostrare che i numeri così definiti hanno
tutte le proprietà che cerchiamo [certamente è un plurale maiestatis!] nei numeri.
Ma
questo è solo un primo passo verso la meta! In un capitolo precedente
dell’opera da cui stiamo citando,32 Russell
ha spiegato che nella teoria dei numeri interi di Peano valgono le regole che: “1) Zero è un nunmero. 2) Il successore
d’ogni numero è un numero. 3) Non esistono due
numeri con lo stesso successore. 4) Zero
non è il successore d’alcun numero. 5) Ogni proprietà di cui gode lo zero, e
anche il successore di ciascun numero che gode di quella proprietà, appartiene a tutti i numeri.
L’ultimo di questi cinque postulati è il principio dell’induzione matematica.”
Quest’ultimo
dà a Russell un fastidio enorme perchè impedisce di introdurre i numeri
transfiniti. È chiaro che, comunque si cambi la definizione di numero, finchè
resta la regola 5) non è possibile introdurre alcunché che si possa comportare
come i numeri (?) di Cantor. È
difficile, d’altra parte, fare a meno di esso! Ma si può tentare di
screditarlo, nel senso che si può tentare di
inculcare l’opinione che siamo costretti a mangiare la minestra anche se
è brutta e schifosa! E così se ne comincia a parlare in modo ambiguo dando
l’impressione che, alla fin fine non è molto diverso dal vituperato principio
d’induzione che viene propugnato, proprio dagli eunpiristi, come il principio
costitutivo delle scienze empiriche. Certo Russell non arriva a tanto ma molti,
meno accorti, la confusione l’hanno fatta e la fanno!
Ma
questa pseudo-critica non funziona, perché basata su di una confusione
linguistica. Per altro, il valente collaboratore di Peano, M. Pieri, dimostra
che, volendo, si può fare a meno del quinto assioma riformulando
convenientemente i primi quattro.33
Si
obbietta che la definizione dei numeri di Peano non è una definizione nominale. (Questa questione è molto importaumte, dal
punto di vista filosofico, per cui ce ne occuperemo, in dettaglio, in seguito.)
Ma anche questa, a parte il fatto che è una pseudo-critica, non può inficiare
la necessità del quinto assioma o di un suo equivalente.
Per
cui, alla fine, Russell riduce il principio d’induzione matematica a una
semplice definizione; e, d’ora in poi, avremo i numeri induttivi e i numeri
non-induttivi; tanto, a dire di Russell: “è solo questione di parole. Purchè l’impiego che facciamo delle parole
sia coerente, poco importa come le definiamo” 34 infatti aveva prima dato le definizioni seguenti:35 “Una classe o un numero cardinale finiti sono induttivi. Una classe o
un numero cardinale infiniti non sono induttivi.”
Ma.,
riprendiamo per un momento il problema delle definizioni.
Peano
ha insistito molto su tale questione e, nonostante alcuni dei suoi collaboratori
la pensassero diversamente36,
non cambiò mai opinione.
Nel
1889 scriveva:37
“Per definizione si intende una proposizione
della forma x = a, ovvero
α É . x = a
ove a è un aggregato di segni
avente senso già noto, x è il segno, o gruppo di segni, che si vuol definire, ed α è l’ipotesi
sotto la quale si dà la definizione. Dire che, dati certi enti, si può definire
un nuovo ente x, significa che cogli enti dati si può formare
un’espressione a in guisa che si abbia l’eguaglianza x = a.”
“È chiaro che non
tutti gli enti si possono definire; ma è importante in ogni scienza di
ridurre al minimo numero gli enti non definiti. Di questi si enunceranno solo
le proprietà. La riduzione degli enti non definiti al minimo numero presenta
alcuna volta dell’arbitrario;….”
“Se in una scienza sonvi enti non definiti ed
altri definiti, tutte le proposizioni di quella scienza esprimono proprietà dei
soli enti non definiti.”
NeI
1891 scrive:38
“Le idee che compaiono in una scienza si distinguono in primitive e derivate, secondo ché non si possono
definire o si possono definire.”
E
nella nota aggiunge che le definizioni, intese in questo senso, sono puramente nominali; esse esprimono sempre la
convenzione di dare un nome breve ad una espressione più lunga; nella
matematica sono puramente nominali tutte quelle definizioni che non si
riferiscono a parole che non trovansi nel linguaggio volgare o se vi
appartengono sono presi in un significato ben preciso e determinato. Non
soddisfano, invece, alle condizioni precedenti le definizioni che si danno
ordinariamente di numero, unità, punto,
retta e così via, che sono da considerarsi a preferenza come schiarimenti.
Poi
continua:
“La questione «Un dato ente si può definire?»
non ammette risposta assoluta. Si può solo rispondere quando la domanda sia
enunciata sotto la forma «Dati gli enti a, b ... si può definire
l’ente x?»”
E
nella nota aggiunge che è arbitraria la scelta fra enti primitivi e derivati e
solo ragioni di semplicità (ottimisticamente Peano non considera le ragioni
metafisiche!) ci fanno propendere per una data scelta.
Nel
1894,39 dopo avere ripetuto
affermazioni simili a quelle di cui sopra, aggiunge che ci sono delle idee che
si ottengono per astrazione, le quali arricchiscono incessantemente le scienze
matematiche, che non si possono mettere sotto la forma x = a. In tal
caso si ricorre a quelle che successivamente chiamerà definizioni per astrazione: Sia u
un oggetto; per astrazione uno deduce un nuovo oggetto Φu; non si può scrivere Φu
= espressione nota perché Φu è un oggetto di natura diversa
da quello precedentemente considerato, in tal caso, si definisce l’uguaglianza
tra oggetti, ponendo hu,v . É :
Φu = Φv . = . pu,v per definizione; con hu,v un’ipotesi
sugli oggetti u e v ; Φu = Φv l’uguaglianza da
definire e pu,v una
relazione nota tra u e v. Spesso il segno di funzione Φ è già noto, se non lo fosse, si
può introdurre il nuovo oggetto Φu
come definito soltanto dalla relazione di eguaglianza così definita. L’esempio
classico è la definizione di rapporto
(λόγος) di due grandezze che Euclide dà nel V
libro, questa è un’idea non menzionata prima, tuttavia si definisce
l’uguaglianza di due rapporti dopo qualche spiegazione preliminare del concetto
non definito, e non definibile, in quanto fa riferimento a operazioni fisiche
cne, in quanto tali, non possono avere una definizione nominale.
Sulla
questione delle definizioni Peano ritorna in seguito con scritti specificamente
dedicati a essa.40
In
relazione alla definizione dei numeri fa notare41 che il numero cardinale o potenza nella definizione
di Cantor e così pure i numeri reali nella definizione di Dedekind sono
definizioni per astrazione; possono diventare definizioni nominali se invece di
definire l’uguaglianza Φ x = Φ y, si pone Φ x = classe degli y
tali che Φ x = Φ y. A
questo modo di operare, di cui se ne fa uso costante da parte di Russell e
Whitehead (che tuttavia ci sembra un semplice escamotage), Peano dice che non
si può muovere obiezione logica, ma solo pratica. Ma Pieri42 mette in evidenza diverse obiezioni logiche e, a
nostro giudizio, essenziali.
Nell’ultimo
scritto che Peano ha dedicato al problema delle definizioni (vedi rif.40),
che egli sentiva come la chiave di volta per l’interpretazione del significato
da dare ai termini logica e matematica, fa notare che la tradizione
scolastica, basata sulle regole già date da Aristotele, è carente e, spesso,
non applicabile per le scienze formali, nota la confusione che i traduttori
operano nei confronti dei testi di Euclide (lo stesso potremmo dire per quelli
di Archimede) scambiando ορος
che significa termine con definizione.
Infine,
in relazione alle critiche di Hobbes alla concezione (già di Pascal e di
Leibniz) che le definizioni sono arbitrarie (scriveva infatti Hobbes: “se
le definizioni sono arbitrarie, tutta la matematica, che si basa sulle definizioni, è una scienza arbitraria”), dice: “Ma, supposte le definizioni arbitrarie,
risulta solo arbitraria la forma della matematica,
non il contenuto dei teoremi. Anche nella forma noi
dobbiamo seguire l’uso del linguaggio comune e matematico, astenendoci
dal fabbricare nuovi nomi, o dare nuovi significati alle parole note, senza necessità. Se ad una
parola del linguaggio si dà
un significato molto diverso, come differenziale, integrale, vettore, essa figura come una parola nuova, e non c’è pericolo di confusione. Ma se ad una parola si dà un significato poco diverso, il pericolo di confusione
è continuo.”
Ecco
esplicita la filosofia di Peano: l’appello al linguaggio della precisione e dei
termini dotati di significato! In pratica ha riaperto la strada dei geni:
Eudosso, Euclide, Archimede, Galileo, Newton, ecc. Altro che tendenza a «chiudere» un sistema, una
ricerca, un’impresa, se necessario forzatamente ... Ma forse il Mangione ha
ragione, infatti, Peano ha tentato di «chiudere» miei confronti del linguaggio
della confusione e delle parole roboanti e prive di significato! Ma su questo
fronte ha perso la battaglia come, del resto, tutti i geni che l’hanno
preceduto!
Per
finire, voglio osservare che nell’ultimo scritto che abbiamo citato (vedi rif.40),
Peano, a proposito delle varie forme grammaticali che le definizioni della
matematica possono assumere nei diversi autori, dice: “Keplero a. 1605, Cavalieri a. 1639, Wallis a. 1655, usarono la frase
«le ordinate», «tutte le
ordismate», per indicare ciò che oggi si chiama «integrale dell’ordinata»; cioè l’idea complessa di integrale era espressa dalla
desinenza del plurale, e non la si definiva. Anche in Euclide (e nella versione
del Vacca) il plurale indica la somma.”
Tali
affermazioni, anche se vere e, in fondo, ovvie secondo la filosofia del Peano,
risultano addirittura strepitose alla luce di tutte le chiacchiere vuote che
per secoli si sono fatte e si continuano a fare sui famosi indivisibili di Cavalieri. Quindi ci pare opportuno occuparcene un
po’, per mostrare concretamente come, con l’uso dell’ideografia di Peano, si
possano capire anche gli autori antichi, dando loro il giusto merito che a loro
spetta.
Gli indivisi bili di Cavalieri
alla luce dell’insegnamento di Peano
L’opera
di Bonaventura Cavalieri è stata spesso qualificata come oscura, o ambigua, o con
altri vari appellativi più o meno similari.43 Tuttavia, l’impressione che si riceve nel leggere
la maggior parte dei commentatori, vecchi e nuovi, è che le oscurità e le ambiguità del loro linguaggio non siano affatto minori di quelle
del Cavalieri. Non c’è dubbio che il linguaggio del Cavalieri non è, e d’altra
parte non poteva essere, il più preciso linguaggio che oggi potrebbe essere
usato dopo i chiarimenti concettuali fornitici dal Peano; ma sembra che nemmeno
gli attuali commentatori di Cavalieri se ne vogliano servire; forse
nell’illusione che si possano chiarire le sottili distinzioni concettuali (la
confusione delle quali ha dato origine alla polemica Guldino-Cavalieri) con il
linguaggio ordinario che, per sua natura e costruzione, è oscuro e ambiguo quando
lo si voglia usare per parlare di matematica.
Quando,
diversamente, si volesse esaminare la questione con l’uso degli appropriati
strumenti di cui oggi potremmo disporre, l’opera del Cavalieri ci apparirebbe
in una luce molto diversa e, a nostro giudizio, molto più grandiosa e
precorritrice. Val la pena, qui, ricordare il detto di Marx che solo attraverso
lo studio dell’uomo si può capire la scimmia.44 Con gli appropriati strumenti, si scoprirebbe che
la polemica Guldino-Cavalieri era la stessa di quella tra Zenone di Elea e i
filosofi a lui contemporanei.45Dal
momento che anche recentissimi scrittori46
più che chiarire ingarbugliano vieppiù la matassa, non apparirà peregrino
il presente nostro tentativo di portare qualche lume sulla questione, senza,
ovviamente, aver timore di usare i moderni strumenti, per evitare l’inutile
tentativo di chiarire un linguaggio certamente ambiguo con un altro ancora più
oscuro. Per cui e necessario, preliminarmente, richiamare il significato di
alcuni simboli, che oggi dovrebbero costituire il primo capitolo di qualunque
testo di matematica.
Il
merito di avere chiarito la distinzione tra i concetti di essere una parte di ed essere
un membro di spetta a Peano il quale introduce il simbolo É
per il primo ed il simbolo Î per il secondo, per cui leggeremo
x É y
= (x è una parte di y)
e
x Î y
= (x è membro di y).
I due simnboli (e
quindi i due corrispettivi concetti) hanno proprietà formali assolutamente
diverse.47 Riteniamo che tutte
le incomprensioni dell’opera del Cavalieri risiedono nel non tenere conto di
queste e di altre altrettanto banali distinzioni. Da ora in poi, per non
incorrere nelle solite ambiguità, useremo il linguaggio dei simboli e lo
applicheremo alla geometria.
Se
x è un punto membro di una retta R, scriveremo
x Î R; se,
invece, y è un segmento parte della
retta, scriveremo y É R. Per
quanto detto, x e y stanno in relazione diversa con R. In particolare, mentre ha senso
parlare della lunghezza di un segmento, non ha assolutamente senso parlare
della lunghezza di un punto e non, come qualcuno potrebbe pensare, in quanto il
punto ha lunghezza zero (che, del resto, sarebbe un’affermazione errata) ma per
la ragione più forte che non è definita la lunghezza di un punto, per cui
risulta assolutamente privo di senso il chiedersi quanto è lungo un punto!
Naturalmente per capire il significato del non significato della lunghezza di
un punto bisogna ancora formalizzare e, convenientemente simbolizzare.
Ovviamente non inventeremo niente di nuovo che, già, non si possa leggere in un
testo di matematica. Ma è importante ricordare che gli enti della matematica
hanno solo significato astratto e formale, il valore semantico o, come altri
dice, il significato reale, o effettivo, o vero, o intuitivo, o altro
aggettivo dipendente dalla particolare metafisica del parlante o scrivente non
ci aiutano, anche perché non è facile definire il misterioso termine di significato che usualmente viene reso
con lunghissimi giri di parole che non convingono né l’ascoltatore (o lettore)
né, tantomeno, lo stesso parlante (o scrivente).
Formalmente,
il concetto di lunghezza viene codificato all’interno di quella che si chiama
la teoria delle grandezze o, come
oggi si preferisce dire della misura: se
abbiamo una classe di individui (nel caso particolare i punti di una retta),
possiamo considerare tutte le classi di punti che stanno nella relazione É
con la classe data (sottoclassi che,
nel caso particolare, sono tutti i segmenti, le semirette e la retta stessa)
comprendendo in questa famiglia anche quelle particolarissime sottoclassi con
un solo membro rappresentati da quei particolarissimi segmenti in cui l’estremo
destro coincide con l’estremo sinistro (il Peano chiama tali sottoclassi elementi, oggi si usano chiamare, con
significato estensionale, singleton, dal
momento che il temine elemento è
diventato sinonimo di individuo o membro;
per non aumentare la confusione linguistica, ci adatteremo all’uso
corrente, purché si tenga presente il nostro uso intensionale; infatti, l’idea di segmento, anche se esso è
degenere, non è la stessa cosa dell’individuo
punto, né tanto meno del concetto di
punto); possiamo completare la famiglia aggiungendo tutte le sottoclassi che si
possono formare continuando ripetutamente con le tre operazioni di riunione U, intersezione ∩,
e complementazione ¬
effettuate sulle sottoclassi già incluse precedentemente nella famiglia e
niente ci proibisce di aggiungere una sottoclasse a cui non appartiene alcun
punto (classe nulla).
Se
P è la classe di partenza ed F è la famiglia che abbiamo costruito a
partire dagli x É P, per cui risulta anche x Î F, possiamo assegnare un numero reale
positivo a ciascun x Î F che
chiameremo la grandezza o misura di x. Nel caso particolare della retta, fra
tutte le possibili misure che siamo
liberi di scegliere, a seconda dei nostri scopi, faremo la seguente scelta:
immaginiamo che i punti della nostra retta possano mettersi in corrispondenza
biunivoca con i numeri reali e che abbia senso, per ogni possibile coppia dei
nostri punti, dire quale dei due preceda l’altro; in tal caso possiamo far
corrispondere ad ogni punto A un
numero reale a e, dati due punti A e B,
ad essi corrispondano i due numeri a e
b in modo tale che se A precede
B, si abbia a < b; allora, come misura del segmento AB, possiamo prendere il numero reale positivo b - a e, tale misura, la chiameremo la lunghezza
del segmento AB.
Con
tali convenzioni linguistiche, ha senso parlare della lunghezza di qualsiasi
segmento, compresi i singleton che, ovviamente, hanno lunghezza zero come, del
resto, la classe nulla ovvero il segmento senza punti, anche se di impossibile
immaginazione. Perché, così facendo, non andremo mai incontro a contraddizioni;
cosa che avverrebbe, invece, se volessimo parlare della lunghezza di un punto.
È
bene, subito, avvertire che, con queste convenzioni, ogni singolo pensante
viene lasciato libero di almanaccare se punti, segmenti, rette, lunghezze, ecc.
esistano o meno, esistano realmente o meno, sìano comode finzioni o meno, ecc.
Tuttavia, dobbiamo amiche ricordare che, nella nostra esperienza concreta,
siamo disposti a scommettere che esistono degli enti, come lo spigolo di un
tavolo o l’intersezione di due di tali spigoli che si comportano,
approssimativamente (per un nostro atto, conscio od incoscio, di idealizzazione), rispettivamente, come i
nostri segmenti e i nostri punti, così come formalmente sono stati introdotti.
Bisogna
anche ricordare, per evitare ogni malinteso, che, nella pratica della fisica
sperimentale, il concetto di lunghezza si
introduce in ben altro modo e, come oggi si dice, operativamente o operazionalmente
e cioè, assegnando le operazioni concrete con cui essa può venire misurata
nelle varie situazioni sperimentali come, p.es., per confronto con un assegnato
campione concreto di lunghezza. La corrispondenza tra la lunghezza definita in
modo astratto e questa definita in
modo concreto è materia di verifica
sperimentale nelle varie situazioni fattuali.
Dopo
queste precisazioni, possiamo tornare al nostro argomento e chiederci: quale
significato formale dobbiamo dare alla parola indivisibili? Se li identifichiamo con i punti, l’unica asserzione
che su di essi possiamo fare è quella di asserire che sono membri della retta: A Î R. Se
l’identifichiamo con i segmenti degeneri per i quali l’estremo superiore
coincide con l’estremo inferiore (singleton),
possiamo asserire AA É R (nel simbolismo di Peano si potrebbe
scrivere ιA invece
di AA), AA Î F, A Î AA e,
possiamo anche scrivere, A Î R É U AA = R cioè: la riunione di tutti i singleton della retta esaurisce la
retta stessa.
Se,
ancora, identifichiamo gli indivisibili con
le lunghezze dei singleton, possiamo sommare assieme tali indivisibili dato
che la lunghezza è un numero e scrivere Σ lAA; resta da sapere se la somma di tanti zeri possa
fare un numero diverso da zero. Per la definizione di somma fra numeri, una
serie finita di zeri fa zero. Per una serie infinita ma numerabile (cioè che si
possa mettere in corrispondenza biunivoca con la serie dei numeri interi)
bisognerà prima dare un’opportuna definizione di somma di una serie infinita
(ovviamente in modo che tale definizione possa coincidere con quella usuale per
una serie finita); come usualmente essa si definisce, tale somma fa zero, se
tutti i termini della serie sono zeri. Ma, nel nostro caso, la serie da sommare
ha un numero infinito non numerabile di termini (infatti è in corrispondenza
biunivoca con la serie dei numeri reali); in tal caso, niente possiamo affermare
sul valore numerico della sua somma anche se tutti i suoi termini sono nulli.
Vediamo, tuttavia, quali ragionevoli ipotesi possiamo fare o, per meglio dire,
quali convenzioni non contraddittorie possiamo stipulare ma che tuttavia
abbiano un’immediata corrispondenza con le nostre esperienze.
Ma,
prima, osserviamo che tutti e tre i significati, sopra prospettati, per il
termine indivisibili sono compatibili
col significato etimologico del termime stesso; imfatti, il punto non si può
dividere per mancanza di definizione dell’operazione, il singleton non si può
dividere (se con tale operazione intendiamo quella di separare l’insieme nelle
sue diversi parti) perché non ha parti, dato che vi è un solo punto che vi
appartiene (questo ci ricorda della descrizione di punto di Euclide come
quell’ente che non ha parti), ha lunghezza del singleton potrebbe essere divisa
ma, essendo zero, resterebbe zero qualunque sia il numero per il quale la
dividiamo.
Nella
teoria della misura si scrive la
formula:
(*) μ (Ui xi)
= Σi μ (xi)
essendo μ,
la misura definita sulla famiglia F di
cui le classi xi sono membri; Ui xi,
la riunione di tutte le xi quando si suppone che due xi
Î F (qualsiasi) non abbiano punti in
comune; Σi μ
(xi) la
somma delle singole misure delle xi estesa a tutti gli indici
i Î I, essendo
I un insieme finito o infinito
numerabile.
Naturalmente,
per una classe I non numerabile (come
nel caso che gli xi siano i singleton relativi ai punti di
un dato segmento di lunghezza finita, la formula (*) non si può scrivere,
perchè il secondo membro dell’uguaglianza non ha significato, per quanto detto
precedentemente.
Consideriamo
due possibili ipotesi:
a)
Supponiamo di definire, opportunamente, la somma di una serie infinita non
nummmmerabile in modo tale che una somma di infiniti zeri dia come risultato
zero anche nel caso che i termini della serie siano, appunto, non numerabili. In
tal caso l’eguaglianza (*)
non sarebbe valida: a sinistra avremmo un numero diverso da zero e a destra, invece, zero!
b)
Supponiamo, invece, di definire la somma di una serie non numerabile per mezzo
della (*).
In tal caso la (*) sarebbe sempre vera per definizione.
Naturalmente, occorrerà limitare la classe delle possibili serie in modo da
evitare contraddizioni. Dopotutto, quando si dice che la lunghezza del
particolare segmento AA è zero, si
vuole solo intendere che tale lunghezza è un limite inferiore, non negativo,
per la lunghezza dei segmenti AB.
Le
definizioni precedenti, comunque, possono facilmente estendersi a spazi con più
di una dimensione; in tal caso, si parlerà di aree o di volumi (o anche di
ipervolumi) invece che di lunghezze. Del resto questo viene, usualmente, fatto
con altri linguaggi (integrazione di Riemann, di Lebesgue, ecc.) e come,
giustamente, notava il Peano, il parlare di infinitesimi costanti o variabili,
potenziali o attuali è solo materia di metafisica, i simboli che, di solito,
vengono usati non sono in grado di distinguere tali sottigliezze linguistiche,
difficilmente formalizzabili, anche se, fatte certe ipotesi, si può dimostrare
che non possono esistere infinitesimi costanti.48
Ora
siamo in grado di riprendere la polemica Guldino-Cavalieri. Da una lettura
attenta delle ragioni dell’uno e dell’altro emerge che il Guldino (consciamente
o incosciamente) pensava a una soluzione di tipo a), mentre il Cavalieri (anche
in questo caso, non si può dire se consciamente o incosciamente, dato che la
sua prosa è molto circospetta come c’era da attendersi, dovendo scrivere per un
ambiente piuttosto ostile ad ogni innovazione di metodo o di linguaggio!)
pensava a una soluzione di tipo b). Chi aveva ragione?49
La
matematica successiva, come sappiamo, è andata per altre vie e non si è curata
di esplorare nessuna delle due possibilità. Ma, nonostante le vie diverse (più
rigorose?!), ha giustificato tutti i risultati trovati da Cavalieri; anzi, se
si vuole accettare l’opinione del Peano, di cui sopra abbiamo detto, i nuovi
metodi e i nuovi linguaggi non sono distinguibili, formalmente, da quelli del
Cavalieri, aggiungiamo che la stessa introduzione delle analisi non standard ci
ha solo detto che si può coerentemente parlare anche di numeri non-archimedei,
cosa che, in fondo, non aveva bisogno di alcuna giustificazione in quanto degli
esempi precisi erano già stati dati dal Peano50(si pensi anche alla misura degli angoli curvilinei
del matematico Giuseppe Veronese). Ancora una volta la gente crede che il
concetto di dimostrazione in matematica coincida con l’uso delle tecniche più
di moda del momento!
Un’ultima
cosa vogliamo aggiungere ed è che il linguaggio di Cavalieri precorre la legittimazione
cantoriana degli insiemi di qualunque cardinalità, anche se invece, per quanto
riguarda l’uso dei suoi metodi per confrontare aree e volumi di qualunque
figura geometrica, la primogenitura deve farsi risalire ad Archimede con il suo
metodo meccanico, rispetto al quale
il cosiddetto metodo di esaustione di
Eudosso, con il quale Archimede dimostrava i teoremi che aveva già ottenuto col
primo, altro non era che la vernice per le Vestali del suo tenmpo.
Allora,
il problema non è quello di fare a meno del rigore, come sembra sostenere
Giorello (vedi rifer. a nota46), ma quello di dare una definizione
più confacente di rigore; ma la definizione, naturalmente, non può essere tale
per cui risulti più rigoroso solo quello che si conforma al paradigma corrente.51
Ma,
ora, stiamo sconfinando nel campo della sociologia della scienza; e, mentre ci
siamo, val la pena ricordare che, indipendentemente da qualunque definizione di
rigore, la scienza può solo progredire solo se le nuove idee che possono
dimostrarsi utili, invece di rigettarle, si cerchi di “rigorizzarle” sia pure con le tecniche di moda. Se tali tecniche
non ci riescono e le idee sono buone allora vorrà dire che le tecniche correnti
non sono adeguate e non mai che le nuove idee sono senza senso. Questo, alla
fine, la storia lo realizza dopo giri e rigiri abbastanza tortuosi e casuali
ma, ovviamente, il processo si potrebbe far diventare di gran lunga più rapido
e sicuro riducendo le chiacchiere vuote ed aumentando la precisione del
linguaggio.
E
questa è la semplice filosofia che Peano ha tentato di far accettare, anche
nelle discussioni filosofiche!
Purtroppo,
sembra che avessero ragione due collaboratori52 di Peano a citare una frase del Murri: “C’è una quantità di gente la quale gode nel
credere l’incredibile, anzi si sente felice solo quando non riesce a capire nulla di quello che crede.”
_______________________
Note
1 B. Russell, I Principi
della Matematica, Longanesi, 1963.
TORNA
2 Si riferisce a The
Philosophy of Bertrand Russell edito a cura di P. A. Schilpp, Library of
Living Philosophers; Evaston, Illinois, 1946.
TORNA
3 L. Geymonat, Storia del
Pensiero Filosofico e Scientifico, Garzanti, 1972, VI, p. 469. TORNA
4 Si legga, invece, quanto scrive il Peano nell’articolo Sui fondamenti dell’analisi (OS-III p.
273-274) (indicheremo con le sigle OS-I, OS-II, OS-III, rispettivamente i tre
volumi delle Opere Scelte di G.
Peano, a cura di U. Cassina, Edizioni Cremonese, Roma, 1958): “I principii di matematica si studiano nelle
scuole elementari. Nelle università, vari corsi di analisi cominciano colla
definizione delle varie specie di numeri. Nei trattati di calcolo, che una
volta cominciavano colle derivate, si è sentito il bisogno di premettere la
teoria dei limiti, poi quella degli irrazionali, poi le definizioni di tutte le
specie di numeri. E finalmente laureati, e liberi di studiare ciò che si vuole,
e dovendo insegnare agli altri, ci accorgiamo di avere sui fondamenti della
matematica, idee confuse. Quindi si cercano con avidità i libri che trattano di
questi soggetti. Ogni anno se ne pubblicano dei nuovi, che gettano nuova luce
sulle questioni controverse, ma anche nuova oscurità in quelle ritenute
chiarissime. ... Lo studio di queste
questioni filosofico-didattiche è innanzitutto una soddisfazione
della mente umana, alla continua ricerca della verità. ... Le persone, che ai piaceri della filosofia
preferiscono piaceri più materiali, scartano questi studi ...”.
TORNA
5 Si veda ad esempio quanto il Peano scrive nel suo articolo Sugli ordini degli infiniti (OS-I p.
362) a proposito della questione, che tanto appassionava i filosofi della
matematica di quei tempi sugli infiniti attuale e potenziale, e che ancora oggi
suscita tante inutili discussioni, come accenneremo più avanti. Da tale
articolo si può facilmente desumere che non è che Peano non si occupasse di
filosofia, ma che la sua filosofia era molto scomoda per certa filosofia di
molti commentatori, i quali o non l’hanno nemmeno letto o ne stravolgono gli
intendimenti, stendendo un velo di silenzio sulla sua battaglia condotta su più
fronti, sia, e soprattutto, su quello filosofico che sul piano linguistico,
logico, epistemologico, matematico, pedagogico, civile, ecc. : “E si vede che la differenza fra gli
infiniti attuali o costanti e quelli potenziali o variabili, questione che ha
tanto appassionato e ancora appassiona i filosofi matematici, sia una questione
di puro linguaggio. La funzione per x tendente a
infinito è un infinitesimo variabile; il suo fine
è un infinitesimo costante.” Il fine di
una funzione è definito da Peano per astrazione. TORNA
6 “Les P catégoriques ne sont pas l’object du calcul logique” (OS-II p. 314). TORNA
7 “Mi sono arrestato
lungamente sul segno É, e sugli indici relativi, perché havvi divergenza fra l’uso che il signor Frege ed io facciamo dei miei simboli. Invero il segno É è da
noi essenzialmente posto fra proposizioni contenenti lettere variabili. Invece il signor Frege porta come esempi del segno É le proposizioni: 22 = 4 . É. 3 + 7 = 10,
2 > 3 . É . 72 = 0, ove il segno É trovasi fra proposizioni non contenenti lettere variabili” (OS-II,
p. 207). “En
général, lorsqu’on dit a É b on
n’affirme ni la vérité de a, ni celle de b, mais seulement une relation, É, entre a e b ... Bien que cela soit trés simple,
il est curieux de noter combien d’homme se trompent sur la signification
des propositions conditionnelles.” (OS-II p. 139).
TORNA
8 “Il Russell, notati
alcuni difetti logici della definizione per astrazione (più che altro questione, non precisata, di esistenza), crede rimediare ponendo
sistematicamente x Î u : f x . º h x. In tal modo i difetti
della definizione per astrazione sono tolti, ma ne compariscono di altri e così
gravi che, in mancanza di meglio, sarebbe preferibile, o non definire affatto, o
servirsi della pseudo-definizione per astrazione. ... N0
risulta Cls’Cls’Cls, cioè ogni suo elemento è Cls’Cls. ... Così tanto
gli N0 ordinali, quanto i cardinali, non sono semplici, ma ognuno di
essi è una classe i cui elementi sono pure classi tutte simili tra loro. Se per
gli N0, che per i primi si presentano alla mente, si ha una tale
enorme complicazione, figuriamoci per il resto! Il razionale a/b è una classe
di coppie. Ma questo è nulla, perché tenuto conto della definizione di N0,
risulta che a/b è classe i cui elementi sono coppie, e gli elementi di tali
coppie sono classi di classi, vale a dire R0 è classe i cui elementi
sono classi di coppie e gli elementi di tali coppie sono classi di classi. E
figuriamoci poi Qo ogni cui elemento è una Cls’Cls’Ro ... E tutto questo, che è già molto, non basta. Il razionale a/1 deve essere identico all’intero a. Ma dalla definizione per classi ciò
non risulta. Nulla di male: si identifica a/1 ad a, per
quanto a/1 sia classe di coppie avente per elementi
delle classi di classi, mentre a, molto più modesto, si accontenta di essere
una classe di classi. È straordinaria la disinvoltura con la quale si fanno in
altri campi identificazioni di enti assolutamente diversi. Che nel campo
pseudo-scientifico sia comodo far
uso di forme ingarbugliate — perché ormai è noto che un libro è tanto più
apprezzato quanto meno è intellegibile —, sta bene. Ma non è lecito portare nella scuola tali forme, nella scuola
dove tutto deve essere semplice e chiaro, se si vuole realmente disfare la
bestia per fare l’uomo ragionevole, e
non viceversa. Pure le definizioni per
classi, non usate altro che
raramente nel campo scientifico, hanno
trovato largo favore nel campo didattico, Basta comprendere che tale campo ha bisogno di una profonda aratura, di una riforma
organica.” (C. Burali-Forti, Logica
Matematica, Milano, 1929, p. 355-58.) TORNA
9 In OS-III, p. 424, leggiamo: “«Essendo a una grandezza, e b una grandezza omogenea con a, allora
b/a indica quella quantità
numerica, per cui moltiplicando a si ha b ».” E
nella pagina successiva: “Non si può
parlare della «misura di a »,
come non ha senso «il valore della
frazione il cui numeratore è a ».
E non ha senso assoluto «l’unità di
misura»; ogni lunghezza si può assumere come unità di misura delle lunghezze; ...
. Sono parimenti vacui i numerosi
sinonimi «valore di una grandezza è la sua misura», «lunghezza di un
segmento è la sua misura». Dire
che «la lunghezza di questa parete è 5»
significa nulla, se non si aggiunge metri o passi o altra lunghezza. Nessuno
dirà che l’area di questa camera è 20, come insegnasi nelle
nostre scuole.” TORNA
10 B.Russell, op. cit., p.
17-19. TORNA
11 Scrive Peano: “Un
trattato di geometria potrebbe cominciare con parole come le seguenti: ‘Il
punto si segna dagli agrimensori, sul terreno, con una palma o
con una pietra (termine). Sulla carta, sul legno, con un segno fatto con un
corpo terminato in punta. In agrimensura si verifica che un punto c giace fra a
e b, quando una persona, posta in a vede che l’oggetto c copre b. Dai
disegnatori, fabbri, ... per
riconoscere questa relazione fra i tre punti si adopera lo strumento detto
rigo; alcuna volta si usa una corda ben tesa. Premessi questi od altri
consimili schiarimenti, od anche soppressili del tutto, bisognerà
determinare le proprietà dell’ente non definito p, e della
relazione c Î ab, mediante assiomi, o
postulati. L’osservazione più elementare ci indica una lunga serie di proprietà
di questi enti; a noi non resta che a raccogliere queste cognizioni comuni,
ordinarle, ed enunciare come postulati quelle sole che non si possono dedurre
da altre più semplici.” (OS-III p. 119). E più oltre: “L’analisi
del concetto di moto e la determinazione dei postulati fondamentali, si può
fare seguendo la solita via. Si scrivano tutte le proprietà che risultano
dall’osservazione del moto fisico. Si scindano queste proposizioni in tante
affermazioni semplici; e poi si
esamini quali di queste affermazioni sono già implicitamente contenute nelle
rimanenti. Procedendo avanti in questo esame, finché sarà possibile, troveremo
un gruppo di proposizioni esprimenti verità irriduttibili tra loro, e che
costituiscono i postulati del moto.”, (ibidem, p. 142) TORNA
12 “I simboli sono tutto ciò
che si possa immaginare di più rigoroso ad un tempo, e di più
semplice chiaro e facile per gli alunni ... . Per riconoscere se una teoria sia esatta, occorre la logica naturale. I
suoi metodi, studiati e classificati, in quanto si riferiscono alla matematica,
costituiscono la logica-matematica.” in OS-III, p. 278. Per quanto riguarda
il procedimento di idealizzazione si
veda il bellissimo articolo di uno dei più illustri collaboratori di Peano: G.
Vailati, Il Metodo Deduttivo come
Strumento di Ricerca., (Lettura d’introduzione al corso sulla Storia della
Meccanica tenuto all’Università di Torino, l’anno 1897-98), in Scritti di G. Vailati (1863-1929), p.
118, Firenze, 1911. TORNA
13 G. Peano, Formulano
Mathematico, a cura di U. Cassina, Edizioni Cremonese, Roma, 1960. TORNA
14 “È noto che la Logica
scolastica non è di sensibile utilità nelle dimostrazioni matematiche; poiché
in queste mai si menzionano le classificazioni e regole del sillogismo, e
d’altra parte vi si fa uso di ragionamenti, del tutto convincenti, ma non
riduttibili alle forme considerate in Logica. Per questa ragione alcuni
matematici, fra cui Cartesio, proclamano essere l’evidenza l’unico criterio per
riconoscere l’esattezza d’un ragionamento. Ma questo principio lascia alla sua
volta a desiderare. Una dimostrazione può essere più
o nieno evidente; essere evidente per
una persona, dubbia per un’altra; e ad
ognuno sarà successo di trovare insufficienti delle dimostrazioni già ritenute
esatte. Esso poi lascia tanto più a
desiderare nelle nostre ricerche, le
quali si riferiscono a proposizioni, cui si è tanto abituati, che
possono parere a molti pressoché evidenti. Però questa questione è suscettibile
di soluzione del tutto soddisfacente. Invero, ridotto, come qui si è fatto, le
proposizioni in formule analoghe alle equazioni algebriche, allora, esaminando
le comuni dimostrazioni si scorge che esse consistono in trasformazioni di
proposizioni e gruppi di proposizioni, aventi massima analogia colle
trasformazioni delle equazioni algebriche simultanee. Queste trasformazioni, o
identità logiche, di cui facciamo continuamente uso nei nostri ragionamenti, si
possono enunciare e studiare.” (OS-II p. 81). TORNA
15 Scrive Peano: “infatti
noi non scegliamo i nostri postulati arbitrariamente, ma per essi assumiamo
proposizioni semplicissime, scritte in ogni trattato di Aritmetica o di
Geometria. La nostra analisi dei
principi di tali scienze
consiste nel ridurne al numero minimo, necessario e sufficiente le comuni
affermazioni. Tale sistema di postulati per l’Aritmetica e la Geometria viene
soddisfatto dalle idee che di numero o di punto ha ogni cultore di Aritmetica o di Geometria. Nos cogita numero, ergo numero es. Dimostrazioni di autoconsistenza di un
dato sistema di postulati possono risultare utili solo nel caso di postulati
del tutto ipotetici che non corrispondono a nessun fatto reale.” Nostra
traduzione dal latino sine flessione di Peano in Super Theorema de Cantor-Bernstein et Additione p. 337 di 0S-I; e
più avanti nella Addittone: “Tutte le
volte che in matematica appaiono delle antinomie, dopo qualche discussione, si
scopre che c’è, alla base, un errore nel ragionamento ... . Nella discussione odierna, antinomie si
ritrovano nella teoria dei numeri transfiniti .... Tutte le antinomie, antiche e recenti, dipendono dalla considerazione
dell’«infinito».” E non vale ricorrere al molto dubbio principio di Zermelo
basato su un’ipotetica ragione di evidenza, perché “l’evidenza è un fatto soggettivo e non è oggetto della matematica”. Se
noi non riusciamo a dimostrare una proposizione senza
ricorso al principio di Zermelo, “la
dimostrazione non è valida secondo la comune accezione del vocabolo
«dimostrazione» come p.es. la proposizione
di Borel secondo la quale se si ha una classe infinita allora deve esistere in essa una classe numerabile.” TORNA
16 “Noi abbiamo definito le
relazioni in generale mediante gli enti logici e gli operatori. Il Russell
parte invece dal concetto di relazione come primitivo e con questo ritiene di
poter fabbricare tutto l’algoritmo logico. Non abbiamo voluto seguire tale via,
anche perché il concetto di operatore è più semplice e più comune di quello,
generale, di relazione. Pare che la preferenza che si dà alle relazioni sia
dovuta al ritenere che, facendo uso delle relazioni le classi definite mediante
queste hanno esistenza effettiva. Ora è chiaro che tale esistenza delle classi
non può risultare se non è provata a priori l’esistenza delle relazioni
adoperate. Allora se le relazioni esistono, per dimostrata esistenza e per
significato ben precisato dell’esistere, esistono pure gli operatori che
possono essere dedotti (sebbene sotto forma complicata) dalle relazioni. Se,
cioè, seguendo Russell, si può dimostrare l’ezistenza delle relazioni, la
stessa dimostrazione con lievi cambiamenti di forma, deve servire per
dimostrare l’esistenza degli operatori. Dunque tanto vale assumere prima gli
operatori, e poi le relazioni, visto che queste sono più complesse e meno
comuni di quelli; tanto più che non vi è affatto bisogno di assumere gli
operatori come enti primitivi. Le interminabili e vuote disquisizioni che si
sono fatte in proposito, provengono dal fatto che, parlando di esistenza, non
si è pensato a precisare che cosa
significhi esiste! D’altra parte vista la forma complessa della definizione di
relazione mediante gli operatori, si comprende facilmente quali acrobatismi
logici sono necessari per giungere agli operatori partendo dalle relazioni. Il
proporre, sul serio, di fare a meno degli operatori, può essere chiamata una
ingenuità, perché rinunciare agli operatori è come distruggere gran parte di
quell’algoritmo algebrico e geometrico che si è dimostrato di notevole potenza.
Quindi non si potrà mai abbastanza porre in guardia il lettore
contro i tentativi insistenti, e degni di miglior causa, fatti in Italia,
specialmente nel campo didattico (!) per introdurre i metodi sopra indicati. E
ben vero che questi metodi per la loro mole e poca chiarezza si
prestano mirabilmente alle vuote discussioni (didattiche specialmente); ma se
questa è una buona ragione per adoperarli nel campo scientifico è, certamente, una pessima ragione per introdurli nelle scuole. (Cfr. C. Burali-Forti,
op. cit., p. 226-28). TORNA
17 G. Peano, Recensione:
A. N. Whitehead and B. Russell, Principia Mathematica, 0S-II, pag.
389. TORNA
18 Scrive
altrove il Peano: “Appellons pour un istant, propriété, l’ensemble du signe Î et
d’une classe. On passe de la convention dont nous faisons usage á la convention
nouvelle, en considerant comme un signe simple le Î suivi du nom d’une classe. On passe de la nouvelle
convention á la primitive, en convenant que ‘tout nom d’une propriété commence
par un signe Î’. Dans le langage ordinaire on a aussi les deux formes
‘Pierre est écrivant’ et ‘Pierre écrit’. La remarque que nous venons de faire
est important; car si au lieu des K nous parlons des ‘propriété’, on supprime
le signe Î et l’on réduit le nombre des idées primitives. Mais il n’y a
pas d’avantage pratique dans cette
substitution.” (OS-II p. 241-42). TORNA
19 «Si vede da questa breve
discussione quanto sia difficile in questioni così delicate, anche ad un
accurato scrittore, evitare ogni pericolo di ambiguità, ove si proceda col
linguaggio comune. Onde vincere questa difficoltà occorre analizzare ogni
proposizione, e fissare completamente il valore dei termini di cui ci serviamo.
Così facendo si arriva necessariamente (sottolineatura nostra) o alle
notazioni logiche, che qui uso, o a un sistema equivalente.” (OS-II-p.85). TORNA
20 “On peut regarder le signe K comme une abréviation du mot «classe». Mais il correspond aussi aux
mots
«ensemble, idée générale, nom commun, ... conceptus, ... terminus, ...
o νομα, o
ρος (Aristote), Begriff, Menge, ..., term, conception, ... »; et il n’a pas toutes le significations de ces mot.
Car le signe K est un symbole ayant une
signification constante. On rencontre ce signe
presque exclusivement dans les formules de Logique.”, (OS-II, p.240); ma già nella
sua prima opera di logica aveva stabilito un isomorfisrno tra classi e
proposizioni che asseriscono le proprietà che definiscono le classi stesse,
introducendo il simbolo x :
α che fa passare univocamente dalla proposizione α alla “classe formata da tutti gli enti per cui essa è vera”, (OS-II, p.
8). Nelle opere posteriori il simbolo assumerà la forma x '. Nel Dizionario di Matematica, (OS-II, p. 381), alla voce Proprietà,
leggiamo: “Sia a una classe; «l’essere un a» suolsi chiamare una
proprietà. Sicché la differenza fra proprietà e classe è puramente
grammaticale. «a è proprietà caratteristica di b»
vale «a = b»”. TORNA
21 Vedi OS-II, p. 288-294.
TORNA
22 Finché ci si occupa di matematica, dal momento che le classi
sono ormai qui divenute forme ideali che
provengono dal processo di idealizzazione compiuto sugli oggetti
concreti e che, quindi, sono ormai definite esclusivamente mediante le
proprietà astratte che obbediscono agli assiomi formalmente assunti, non è più
rilevante la distinzione tra intenzione ed estensione in quanto vale la
proposizione (vedi p. 222 di OS-II) “P
16. a, b Î K. É: a =
b.= .a É b.b Ì a.”, data
da Peano come definizione. Ma quando si tirano fuori esempi di classi
empiricamente definite (come quelli di Frege riferiti alle stelle del mattino o
della sera) allora la distinzione diventa estremamente importante e (nella nota
P80 a p. 258 di OS-II) Peano scrive in relazione alla “P85 a, b Î K.a = b. É .a É b.”, “La P85 est une partie de
la P16. «Si a et b sont des classes, et a = b, alors a É b ». En
effet, soit x un a; la classe a a la proprieté de contenir x; donc, par la definition de l’égalité, la classe b aura aussi la même
proprieté, c’est-a-dire x Î b. Donc, de x Î a on déduit
x Î b, que se transforme dans la Thése.”
“On
déduit en conséquense: a, b Î K.a = b. É .a É b.b É a mais nous ne pouvons pas
démontrer la proposition inverse a, b, Î K.a É b.b É a. É .a = b. ”
“Cette
proprieté est une convention, ou une limitation de la signification du symbole K. Dans une classe nous considérons
seulement la proprieté de contenir des individus, et de ne pas contenir
d’autres individus. Deux classes sont identiques lorsqu’elles contiennent les
mêmes individus. Les propriété que plusiers Logicien attribuent aux idées, d’étre simples ou composées, positives ou négatives, ... ne sont pas des propriétés des classes, mais
bien des mots, ou des symboles par lesquels on le représent. À la
place de cette convention on peut introduire l’«extension» d’une classe, par la
définition:
a, b Î K . É : ext a = ext
b. = . a É b. b É a. Df.
Cette
Df remplacera la P16.” TORNA
23 “... mathematics
is always concerned with extensions rather than intensions.” , A. N.
Whitehead, B. Russell, Principia
Mathematica, Cambridge, 1910, p. 8.
TORNA
24 Ibidem, p. 26. Il
che, come si è visto nella nota 22, in matematica non porta conseguenze in
quanto si
può porre: a = b.
= . Ext a = Ext b, ma quando poi, da Russell e
dagli altri, si applica l’uguaglianza agli oggetti empirici le conseguenze sono
filosoficamente disastrose. TORNA
25 I Principi della
Matematioz, op. cit., p. 119 e sg.
TORNA
26 Vedi OS-II, p. 195. TORNA
27 Vedi cit. in nota 25, p. 121. TORNA
28 Vedi gli articoli su Archimede di Boscarino, Maugeri, Notarrigo
in Mondotre, n. 4-5, dicembre,
1988. TORNA
29 B. Russell, Introduzione
alla Filosofia Matematica, Longanesi, 1962, p. 292. TORNA
30 Il traduttore usa qui gli aggettivi: estensivo ed intensivo nel
senso in cui altri usano estensionale ed
intensionale. Sarebbe da preferire
questa seconda dizione per evitare confusioni con il significato abituale dei
primi due termini nel linguaggio comune.
TORNA
31 Ibidem, p. 40. TORNA
32 Ibidem, p 20 TORNA
33 M. Pieri, Sopra gli
Assiomi Aritmetici., Atti dell’Accademia Gioenia di Catania, II, 2, Genn.,
1908 -riportato in Opere di M. Pieri sui
Fondamenti della Matematica, Edizioni Cremonese, 1980. Gli assiomi di Pieri
sono: I) Esiste almeno un numero. II) Il susseguente di un numero è un numero. III) Due numeri, nessuno dei quali
sia susseguente di un numero, sono
sempre uguali fra loro. IV) In
qualsivoglia classe non illusoria di numeri esiste almeno un numero, che non è
susseguente di alcun numero della classe.
TORNA
34 Queste parole sono scritte
da Russell (ibidem, p. 248) per
superare la critica di Lewis contro la sua assurda definizione di implicazione, alla quale abbiamo già
accennato. Ma le parole spesso sono pietre! Si potrebbero ricordare le parole
spiritose di Boltzmann con le quali si prendevano in giro gli empiristi dicendo
che alla fine possiamo dare una definizione di esistenza tale da negare la
nostra stessa esistenza. Ma la questione è importante per limitarsi a riderci
sopra: pensiamo che sia legittimo cambiare un termine impreciso con uno
migliore; ma, nello stesso tempo, pensiamo che sia un delitto usare lo
stesso termine, che tradizionalmente avesse un preciso significato, attribuendogliene un altro totalmente diverso
e, per giunta, ambiguo. Chi fa questo, certamente, non può avere intendimenti scientifici! TORNA
35 Ibidem, p. 149. TORNA
36 Vedi in particolare C. Burali-Forti, Logica Matematica, Hoepli, 1919, p. 298 e sg. TORNA
37 OS-II, p. 77, 78. TORNA
38 OS-II, p. 102. TORNA
39 Ibidem, p. 166 e sg. TORNA
40 Les définitions
mathématiques, OS-II, p. 362, Le
definizioni per astrazione, OS-II, p. 402 e, per ultimo, Le definizioni in matematica, OS-II, p.
423. TORNA
41 OS-II, p. 404-408. TORNA
42 M. Pieri, Sopra una
definizione aritmetica degli irrazionali, Atti dell’Accademia Gioenia di
Catania, 87, Genn. 1906 - riportato in Opere
di M. Pieri ..., op. cit. - Qui si fa notare che i segmenti numerici
interpretati come classi (estensionalmente intese) e fatti coincidere con i
numeri non permettono di scrivere l’uguaglianza ; “visto che
l’operazione non
trasforma il segmento dei razionali minori di 4 nel segmento dei razionali
minori 2.” TORNA
43 Per esempio in G. Loria, Storia
delle matematiche, Milano, 1950, p. 425, leggiamo: “La Geometria degli indivisibili passa, e non a torto, per una delle opere più profonde ed oscure che annoveri la letteratura matematica.”, si vedano anche: E.
Giusti, Bonaventura Cavalieri and the
Theory of Indivisibles nella ristampa dell’opera del Cavalieri Exercitationes Geometrica Sex., Edizione
Cremonese, p. 39 e il saggio di A.Koiré, Bonaventura
Cavalieri et la Géometrie des continues nel volume Etudes d’histoire de la pensée scientifique, Paris, 1966, p.335-345. TORNA
44 K. Marx, Per la critica
dell’economia politica, Editori Riuniti, 1969, p. 193. TORNA
45 Si veda su questo: A. Grunbaum, The Resolution of Zeno’s Metrical Paradox of Extension for the Mathematical
Continua of Space and Time., Reidel, 1973, p. 158-176 e anche M. Jammer, Zeno’s Paradoxes Today., in L’infinito nella scienza, Istituto
Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1987, p. 81-96. TORNA
46 Vedi G. Giorello, Lo
spettro e il libertino., Mondadori, 1985, p. 144-156 e G. Giorello, M.
Parucca, Strains of Imagination: una nota
su metafisica e scoperta matematica., in Rivista di Storia della Scienza,
(Edizioni Theoria), voI. I, n.2, luglio 1984, p. 279-305. TORNA
47 Vedi l’articolo di Notarrigo in questo numero dei
Quaderni. TORNA
48 OS-III, p. 110 TORNA
49 La polemica Guldino-Cavalieri allora non è solo espressione
dello scontro tra rigore e creatività, ma una semplice questione nominalistica
per decidere a quali operazioni formali affibiare il termine somma con possibili risvolti
metafisici. TORNA
50 Vedi 0S-I p. 359. TORNA
51 “Il simbolismo del
Calcolo infinitesimale è una continuazione dell’algebrico. Qui la storia è più
sicura. Archimede misurò l’area di alcune
figure, ricorrendo ad una forma di ragionamento detto «metodo di esaustione». Keplero nel 1605,
Cavalieri nel 1639, Wallis nel 1665, ecc., dissero che l’area descritta
dall’ordinata di una curva è la somma di tutte le ordinate. Leibniz abbreviò la
parola somma nell’iniziale S,
che Bernoulli chiamò integrale, e che ora
ha la forma di una S allungata.” “L’esprimere l’area incognita mediante la
somma di infinite ordinate, somma che non è definita, pare esprimere l’oscuro
pel più oscuro. Ma in realtà questa
somma o integrale ha le
proprietà fondamentali della somma ordinaria, il che facilita molto i calcoli.
Le ordinate, la cui somma è l’area, sono gli indivisibili di Cavalieri, gli
infinitesimi di Leibniz. La maggior parte dei geometri di quel tempo
rifiutarono i nuovi metodi; dissero che con essi non si trovavano che risultati
già noti, e ciò era vero fino a un
certo punto; dissero che i
risultati ottenuti si potevano pure trovare coi metodi antichi, e lo provarono
rifacendo le dimostrazioni col linguaggio di Archimede, il che è sempre
possibile.” [qui bisogna, però, ricordare che Archimede oltre al metodo di
esaustione aveva usato anche il metodo meccanico, come si è scoperto solo molto
più tardi (vedi rif.28)] “Poi si
stancarono, e il mondo adottò il nuovo simbolismo, che è
molto più comodo.” vedi OS-III p. 391. Si, è vero, quelli si stancarono ma
le chiacchiere inutili continuano! TORNA
52 C. Burali-Forti
e T. Boggio, Espaces courbes. Critique de
la relativité, Sten Editrice, Torino, 1924, p. VIII, la citazione è tratta
da A. Murri, Lezioni di Clinica Medica., Bologna,
1906, p. 38. TORNA