Il linguaggio scientifico dei Presocratici
analizzato con l’ideografia di Peano
Preambolo
La lingua naturale è uno strumento essenziale
per risolvere i problemi che l’uomo deve affrontare nel suo vivere sociale.
Senza di essa non potrebbero esistere nè scienza, nè poesia, nè rapporti
sociali e nemmeno chiacchiere inutili; in una parola, non potrebbe esistere la società. Ma proprio per tale ragione
le lingue naturali, attraverso il loro lungo e contorto sviluppo nel corso
della storia delle singole comunità linguistiche, vanno accumulando ambiguità,
ridondanze, contraddizioni, paradossi.
Da ciò la necessità di creare gerghi
particolari per determinate attività che a loro volta ed alla lunga
contribuiscono ad aumentare la confusione nella lingua comune; e non a caso fin
da tempi remoti si tramanda il mito della torre di Babele!
Un particolare gergo, creatosi all’interno di
una qualche comunità, può assolvere il compito per cui s’è formato solo finché
resta circoscritto a quella comunità ed allo scopo per cui è nato. Ma così
facendo si chiude inesorabilmente all’interno di se stesso e muore con il
cambiare delle condizioni al contorno relative alle attività per il cui scopo
il gergo si era venuto formando; condizioni al contorno che a loro volta si
vanno modificando anche per effetto dello stesso sviluppo sia dell’attività che
dello stesso gergo.
La riprova di ciò è il fatto che tutti i
tentativi di creare una lingua universale, come l’esperanto o il latino sine
flessione di Peano, ecc., sono miseramente, ma necessariamente, falliti.
Qualche volta il gergo resiste solo perché si
è venuto trasformando in un coacervo di dogmi che, pur avendo perso ogni
significato reale, hanno strutturato in qualche modo la comunità che lo usa;
trasformandola alla fine in una setta che continua a scambiarsi messaggi che
ormai risultano incomprensibili ai suoi stessi membri; per cui il gergo assume
la sola funzione di mantenere i rapporti gerarchici che si sono stabiliti
all’interno di essa.
Anche nella matematica e nella logica, la cui
essenza proprio consiste nella corretta manipolazione di simboli, si è
verificato il fenomeno prima considerato e nel corso della loro storia è
stato necessario rivoluzionare tutto per conseguire reali progressi; per cui,
come giustamente notava il Peano, la storia della matematica e quella della
logica praticamente coincidono con la storia dei loro simboli.
Ma non necessariamente il cambiamento è
dovuto all’esigenza di progredire perché spesso gli interessi costituiti di
determinati settori della società impongono il cambiamento proprio allo scopo
di impedire una rivoluzione. E non è mai stato facile distinguere la
rivoluzione dalla reazione; anche se ognuno ritiene di essere in grado di
farlo; anche se poi scopre che la sua particolare bipartizione è diversa da
quella degli altri; ma la cosa, in genere, non lo preoccupa minimamente perché
è sempre pronto a ritenere che gli altri o sono in malafede o sono dei semplici
imbecilli.1
Solo a poche persone è riservata la capacità
di distinguere senza farsi distogliere da pregiudizi di parte.
Uno dei rari esempi tra questi è
l’aristocratico Tomasi di Lampedusa il quale fa dire, durante l’avanzare della
classe borghese, a uno dei suoi aristocratici personaggi che bisognava cambiare
qualche cosa perché tutto potesse rimanere come prima!
***
Poiché il fenomeno di cui stiamo parlando,
cioè l’instabilità dei gerghi, è, al contrario, estremamente stabile,
necessariamente deve esistere un meccanismo sottostante che lo regola (per
evitare equivoci chiariamo che il termine “instabilità” viene qui usato nel
senso tecnico della teoria matematica dei sistemi complessi e cioè nel senso di
una situazione che per un certo tempo si muove così lentamente da apparire
praticamente ferma finché non incontra un punto di “catastrofe” che ne cambia
radicalmente l’aspetto qualitativo).
In generale, per scoprire un meccanismo,
bisogna prima ridurre il fenomeno ai suoi elementi fondamentali ed alle forze
che li sospingono. Per tale ragione, in modo nè esaustivo nè definitivo,
distingueremo quattro aspetti del linguaggio e due forze contrastanti alle
quali però va sempre aggiunto il principio generale dell’entropia.
Il primo aspetto è rappresentato dal
linguaggio “pratico”; questo serve,
in modo (più o meno) razionale, a risolvere tutti i problemi quotidiani e di
routine. Il suo fondamento è costituito precipuamente dalla regola del provare
e riprovare empiricamente cercando di correggere gli errori con la metodologia
del caso per caso.
La forza che lo spinge è la “necessità della sopravvivenza”.
Ed è la stessa forza che anche lo spinge a
creare un linguaggio più sintetico ma più potente, svincolato dall’empiria e
dal caso per caso. Proprio per questa ragione esso dev’essere astratto e
generale e tuttavia estremamente preciso e quindi capace di affrontare
situazioni nuove, mai prima sperimentate. Questo costituisce il secondo aspetto
e cioè il linguaggio “scientifico”.
Tale forza in avanti automaticamente crea la
sua controreazione (la “necessità del progresso”):
infatti l’estrema precisione del linguaggio scientifico crea una specie di
prigione che impedisce qualsiasi evoluzione. A ciò contribuiscono le Vestali
che presto o tardi, magari proprio quando esso ha perduto ogni sua funzione, si
costituiscono a custodi delle regole del linguaggio che perciò da funzionali
diventano ferree. Per uscire fuori dalla prigione occorre volare via spaziando
con estrema audacia nel regno dell’ignoto o comunque del non ancora ben noto.
E così si viene a creare il linguaggio “poetico”, terzo degli aspetti
sopramenzionati.
Dallo scontro di queste due forze uguali e
contrarie si genera il quarto aspetto del linguaggio e cioè quello delle “chiacchiere inutili”.
Queste non contribuiscono menomamente al
progresso ma lo ostacolano; e non contribuiscono alla sua precisione ma ne
aumentano la confusione e servono solo ad erigere la torre di Babele.
La causa di ciò è il principio generale dell’“entropia”: la necessità della precisione, insieme ai veri scienziati, tende a produrre il
fenomeno negativo delle Vestali o falsi
scienziati; d’altronde, la necessità
del progresso porta seco, insieme ai veri
poeti, gli istrioni o falsi poeti.
Vestali ed istrioni vengono, spesso a loro
insaputa, rimescolati ed usati dalla necessità della pratica che, nel frattempo trasformatasi in interessi costituiti, sfruttando le spinte contrastanti dei
microinteressi individuali o corporativi diventa la sola legge imperante.
E, allo stesso modo di come si verifica in
termodinamica statistica, la legge del caso trasforma un sistema deterministico
ma reversibile in un sistema ancora deterministico ma apparentemente casuale ed
irreversibile. Venendosi così a confermare il principio generale dell’entropia
secondo il quale i sistemi isolati devono marciare inesorabilmente dall’ordine
verso il disordine.
E tuttavia le chiacchiere inutili hanno una grande funzione sociale in quanto,
anche se “in sé” non significano niente, servono ad unire i simili con i simili;
creando così le varie chiese, o corporazioni, o consorterie.
Attraverso queste, molte “CHIACCHIERE
INUTILI” vengono pomposamente ribattezzate “LA SCIENZA” e “LA POESIA”.
Di tanto in tanto, tuttavia, emergono i geni che, rifacendosi alle conquiste del
pensiero passato, ma ormai sepolto dalle infinite diatribe tra falsi scienziati
e falsi poeti (cumulativamente li chiameremo falsi profeti!), tendono a
procurare qualche avanzamento; ed in minima parte vi riescono lasciando la loro
traccia; anche se, subito dopo, i falsi profeti tendono ad annebbiare tutto di
nuovo (magari abusando del nome degli stessi geni che vengono trasformati, ormai che sono morti e non possono
più reagire, in santoni)
proclamando il “nuovo” verbo, che ormai falsato, non si riesce più a
distinguere da quello “vecchio” che preesisteva al genio; e, arrogandosi il
diritto di diffondere questo “nuovo” vangelo e distribuendosi le cariche di
vescovi e di papi, giudicano inappellabilmente di chi tra i fedeli sia un
ortodosso o un eretico.
Per tale scopo i falsi profeti hanno la
necessità di forgiarsi la teoria delle PULCI (cioè del “Progresso Universale
Lineare Continuo Infinito”); quando, al contrario, la storia rivela un caotico
succedersi di avanzate e retrocessioni che spesso rasentano di nuovo lo zero
assoluto! Ma la teoria del progresso ininterrotto è molto comoda e difficile da
abbandonare; con tale teoria viene permesso infatti ad un moderno, anche se imbecille, di avere sempre ragione su di un antico, anche se un genio; allo stesso
modo dei grandi che pretendono di avere sempre ragione sui bambini, nonostante
la sequenza temporale è, nel nostro caso, invertita.
Notiamo che l’apparizione dei geni non contraddice l’analogia
termodinamica in quanto quest’ultima scienza prevede anche situazioni lontane
dall’equilibrio in cui la riduzione del contenuto entropico del sistema si
ottiene a spese di sorgenti esterne o sfruttando riserve precedentemente
accumulate in una parte di un sistema più ampio (pensiamo alle riserve di
combustibili della terra come sistema più ampio della biosfera).
Nel caso del linguaggio scientifico l’esterno è rappresentato dai contatti
con altre culture e le riserve si
trovano nascoste nelle biblioteche sotto forma di libri che nessuno ha mai
letto perché non servono al paradigma dominante
e di tanto in tanto anzi si provvede con qualche incendio ad arrestare
l’incombente pericolo della scienza (questa volta scritta in minuscolo!) che
farebbe sgonfiare tutti i palloni che a forza erano stati gonfiati.
Si dice che il califfo Omar, ritenuto
l’ennesimo incendiario della biblioteca di Alessandria, abbia detto per
spiegare (naturalmente non per giustificare!) il suo operato: Se i vostri libri
dicono le stesse cose che dico io allora sono inutili; se dicono cose diverse
allora sono dannosi.
***
Nelle discussioni sulla scienza e quindi sul
suo linguaggio si sono fatte molte chiacchiere, data la sua enorme rilevanza
sociale. Ai nostri fini menzioneremo solo due problemi sui quali lungamente si
è dibattuto.
Il primo riguarda la nascita della scienza,
il secondo la sua evoluzione. Per entrambi si sono sostenute tesi contrapposte.
Nasce la scienza dalle esigenze pratiche e dal perfezionamento del lavoro
tecnico o non piuttosto dalle religioni e dai miti?
La prima tesi viene prevalentemente sostenuta
da coloro che si mettono in posizione critica nei confronti del sistema; per
costoro gli attori del processo di creazione della scienza sono ovviamente i
lavoratori; da questi si formano i tecnici e da questi, a loro volta, emergono
gli scienziati. La formazione dei sacerdoti o bramini della scienza sono un
fatto involutivo dovuto a cause sociali esterne. I sostenitori di tale tesi
tendono a rispondere al problema dell’evoluzione della scienza ricorrendo a
cause “esterne” e cioè alla struttura sociale.
La seconda tesi viene sostenuta
principalmente dagli apologeti del sistema; naturalmente per costoro la scienza
nasce dal mito e dalla religione; gli attori del processo sono i sacerdoti che
hanno il tempo sufficiente per occuparsi di cose che vanno oltre le necessità
immediate. Il problema dell’evoluzione della scienza viene quindi risolto
ricorrendo alla dinamica “interna” della scienza che trascende i mutamenti
delle strutture sociali. Se una società viene distrutta o si autodistrugge, la
scienza, come anima immortale, si trasferisce altrove e continua a crescere
indisturbata.
Ma non sono solo questi ultimi a sostenere
quella che abbiamo chiamato la teoria delle PULCI, anche i primi la sostengono.
Entrambi per sostenerla sono costretti a mutilare la scienza: i primi,
identificando praticamente la scienza con la tecnica, guardano all’accumularsi
delle conoscenze tecniche e trascurano quasi totalmente, almeno nei fatti, gli
elementi teorici che sotto il nome di ideologia
vengono semplicemente derisi; spesso buttando via il bambino insieme
all’acqua sporca. Stranamente, poi, l’identificazione della scienza con la
tecnica viene invece diffusa tra le masse proprio dai detentori del potere
economico dopo averne operato solo una piccola, ma non neutrale e non senza
conseguenze, sostituzione: il lavoro viene sostituito con la grande industria
come motore delle conoscenze scientifiche.
Gli apologeti del sistema, invece, per
mutilare la scienza sono costretti a mutilare la storia, classificando come
barbari ed incolti tutti i popoli che non stanno dentro il paradigma,
inventandosi capziose provenienze culturali; come p. es. gli “europei” hanno
fatto con la cultura greca: tagliando completamente fuori tutte le filosofie
medioevali da cui più propriamente la nostra cultura immediatamente deriva e
gettando un diretto ma impossibile ponte verso la scienza greca.
La nostra idea è che entrambe queste tesi
siano parziali e adialettiche.
Come si verifica in tutti i sistemi
complessi, e la cosa ha una spiegazione matematica, si hanno consecutivi rami
evolutivi, qualitativamente diversi, e intervallati da punti di diramazione
con caratteristiche catastrofiche tali da annullare quasi tutto quello a cui
precedentemente si era dato il nome di scienza. In ogni punto di diramazione
si aprono altri rami possibili, che il futuro potrebbe in teoria percorrere,
diversi tra loro dal punto di vista qualitativo; l’imboccare l’uno o l’altro
ramo dipende da fattori “esterni” quasi esclusivamente di natura economica e
sociale.
A partire da tale punto di instabilità,
superata la fase iniziale, in cui ogni volta si riparte praticamnente da zero,
il sistema socio-economico-culturale si stabilizza; anche sviluppando
meccanismi di autoprotezione, e procede con un’inflessibile logica “interna”
fino a che le forze entropiche non lo distruggeranno di nuovo quando si sarà
raggiunto il prossimo pulito di diramazione.
In questo scritto vogliamo, in un primo
momento, descrivere l’evoluzione del linguaggio scientifico tra due successivi
punti catastrofici e per concretezza il materiale empirico lo prenderemo dalla
storia dell’evoluzione del pensiero scientifico nato, quasi contemporaneamente,
nella Ionia e nell’Italia di alcuni millenni fà. Questo per due ragioni: l’una
è che tale periodo storico è abbastanza lontano nel tempo, riducendo così la
probabilità (anche se non la possibilità!) di lasciarci coinvolgere
completamente nelle passioni ideologiche; l’altra ragione è che questo periodo
della storia della cultura è sufficientemente documentato per poterne azzardare
una descrizione teorica.
Per fare questo, senza incorrere nel sempre
presente pericolo delle chiacchiere
inutili sarà prima necessario costruirsi gli strumenti adatti.
Anche se tali strumenti sono stati usati,
spesso con grande maestria, fin dai tempi di Pitagora e, molto probabilmente
anche prima, il loro perfezionamento e la riflessione su di essi è opera molto
recente e quasi esclusivamente dovuta a Peano ed alla sua scuola.
A tal riguardo potrebbe apparire strano il
fatto che tale scuola sia oggi quasi completamente dimenticata ed al suo posto
si sia affermata una sua derivazione distorta ed assurda (come andremo notando
nel seguito) iniziata dal Russell; ma alla luce delle considerazioni precedenti
il fatto, più che strano, appare invece assolutamente naturale e difficilmente
si sarebbe potuto immaginare il contrario (vedi in proposito l’articolo di
Boscarino in questo stesso numero dei Quaderni che sarà indicato nel seguito
colla sigla PF).
Dal momento che, oggi, l’ideografia di Peano
è praticamente sconosciuta ed i simboli da lui inventati vengono usati con
significati del tutto diversi o, comunque, distorti e poiché essa avrà un ruolo
fondamentale per sviluppare il nostro discorso, questa sezione ad essa dedicata
assumerà, necessariamente, una forma piuttosto didascalica.
Dal punto di vista filosofico, i contributi
fondamentali di Peano alla scienza della logica (non considerando i molti ed
importantissimi contributi da lui apportati dal punto di vista più
specificatamente tecnico) sono due: la distinzione tra i diversi significati
che si nascondono sotto l’unico termine rappresentato nella lingua comune dal
verbo “essere” ed il chiarimento
concettuale dei termini fondamentali e del significato di quello che oggi si
chiama un “sistema deduttivo”.
Cercheremo di capire, in questa sezione,
l’essenza di tali contributi straordinari ed estremamente fecondi.
Consideriamo le seguenti “proposizioni” della lingua italiana:
1) Mongibello è l’Etna.
2) Il mais è granoturco.
3) L’Etna è il vulcano pitì alto.
4) Socrate è mortale.
5) Socrate è un uomo.
6) Aristotele è un uomo.
7) L’uomo è mortale.
8) Il cane è un animale.
9) Qualcosa é mortale.
10) Qualcuno é mortale.
Secondo la logica grammaticale, le dieci
proposizioni sono tutte della forma: soggetto,
copula, predicato.
Al contrario, i loro “significati reali” (cioè quello che effettivamente significano,
indipendentemente dalla forma nella quale sono state espresse) sono tutti
diversi.
Tuttavia, dal punto di vista della “logica”, alcune hanno “significato formale” (cioè la forma
logica in cui sono espresse, indipendentemente dal loro, eventuale, significato reale) identico ed altre, invece,
diverso:
Nella 1), i “termini” a sinistra e a destra della copula sono entramnbi degli “individui” 2
Nella lingua italiana gli individui sono, generalmente,
rappresentati da nomi propri (propri ad un solo e ben determinato individuo).
Nella 2), i “termini” a sinistra e a destra della copula sono entrambi delle “proprietà”.
Nella lingua italiana le proprietà sono, generalmente, rappresentate da nomi comuni (comuni
a più individui).
E, tuttavia, le 1) e 2) hanno qualcosa in
comune che li distingue formalmente dalle altre. Infatti, in entrambe, si
intende dire che i due termini a
sinistra e a destra della copula, anche se diversi tra loro, hanno “identico” significato (reale); in altre parole,
sono due nomi diversi per la stessa cosa; il che implica che l’un termine si può sostituire all’altro, e
viceversa, in ogni contesto in cui compaiano; purché detti termini intendano
riferirsi ai loro significati e non ai “segni” stessi.
Per esempio, se dico “mais ha quattro lettere” non posso sostituire al termine “mais”
il termine “granoturco”. E
non posso sostituire “mais” a “granoturco” nella proposizione:
“granoturco è una parola composta dalle due parole grano e
turco”.
Possiamo convenire di scrivere, al posto
della copula, il “segno” “ =”
e così le 1) e 2) diventano:
Mongibello = Etna
mais = granoturco
secondo lo “schema di proposizione”:
(F1) a
= b,
da leggere: “a” è identico a “b”;
ovvero “a” significa “b”; dove “a” e “b” sono due “simboli” che
rappresentano due termini generici. Cioè termini dotati di un significato (e di
uno solo) ma che non ci interessa di sapere perché noi siamo interessati solo
alla relazione che li lega, denotata dal segno “=”.
Nelle 3), 4), 5), 6), invece, a sinistra ci
sta un individuo e a destra una proprietà. Questo basterebbe a dirci che
la copula, in questo caso, non può significare l’identità dei due termini. Di
fatto, in queste proposizioni, si vuole intendere che a sinistra della copula
ci sta un individuo che ha la proprietà nominata a destra.
Converremo, in questo caso, di indicare la
copula semplicemente con il segno “Δ e scrivere:
Etna Î vulcano più
alto
Socrate Î mortale
Socrate Î uomo
Aristotele Î uomo.
Secondo lo schema:
(F2) a
Î b,
da leggere: “a” è un “b”’ ovvero: l’individuo “a” ha la proprietà “b”.
Nelle 7) e 8), a sinistra e a destra della
copula ci sono due proprietà, come nella 2), ma i due termini non sono
reciprocamente sostituibili in quanto il primo esprime un concetto che è parte
del secondo; o, in altre parole, la prima proprietà implica la seconda ma non
viceversa.
Per quest’altro significato del verbo essere,
useremno il segno “É” secondo
lo schema:
(F3) a
É b,
che leggeremo: la proprietà “a”
implica la proprietà “b”, ovvero la
proprietà “a” include la proprietà “b” o, ancora: gli individui che hanno la proprietà “a” sono inclusi tra gli individui
che hanno la proprietà “b”.3
Infine, nelle 9) e 10), a sinistra della
copula ci sono degli individui e a destra delle proprietà, come nelle 3), 4),
5) e 6), ma l’individuo non è rappresentato da un nome proprio ma da un pronome
indefinito che, quindi, indica un individuo generico e le proposizioni, più che
asserire qualcosa sugli individui, asseriscono qualcosa sulle proprietà stesse.
In particolare, con la 9) si asserisce che la
proprietà “mortale” non è una
proprietà assurda, cioè senza individui che la possano avere; ma, al contrario,
non è affatto impossibile l’esistenza di individui che hanno la proprietà di
essere mortali.
Con la 10) si vuole dire la stessa cosa, solo
che, nell’accezione comune, il termine “qualcuno”,
a differenza di “qualcosa”, vuole
indicare un “uomo”; per cui la 10) si
potrebbe esprimere con, “qualcosa è uomo
e mortale”. Se indichiamno con il segno “∩” la congiunzione “e”, si può formare la “proprietà composta”: uomo ∩ mortale e la 10) si riconduce allo schema 9) che possiamo simbolizzare con:
(F4) $ a ,
dove “a” rappresenta una
proprietà (eventualmente, anche composta),
ed il segno “$” indica che possono esistere individui che hanno
tale proprietà.
La (F4)
si può leggere: vi sono degli “a” o,
anche, vi è almeno un «a», ecc.
Le (F1), (F2), (F3), (F4) individuano quattro significati diversi del verbo
essere che è necessario distinguere formalmente in un sistema deduttivo per evitare conclusioni assurde a partire da
determinate premesse.
Può essere talvolta utile esprimere anche le (F1),
(F3), (F4) sotto la forma della (F2), cioe: soggetto, copula, predicato.
Ciò si può ottenere stipulando opportune
convenzioni:
Se conveniamo di indicare con il segno “ι” la proprietà di essere “identico a” qualcosa, allora formalmente le (F1) ed (F2) si possono esprimere con la “formula”:
(F1’) a
Î ι b,
che si può leggere: “a” è
identico a “b” (cioè, “a” ha la
proprietà di essere identico a “b”).
Intendendo, quindi, che i termini logici “=” e “Î ι ” hanno lo stesso
significato. Cioè il segno “=” è un’abbreviazione dei due segni accostati “Δ e “ι ”.
Cioè:
(A1) = .=. Î ι
Notiamo che nella (A1) i due segni “ = ” e “.
= .” hanno lo stesso significato reale ma un diverso significato formale, in quanto il primo
appartiene al linguaggio simbolico che si ha intenzione di costruire (“linguaggio
oggetto”); mentre il secondo appartiene al
linguaggio che, necessariamente, dobbiamo usare per costruire il primo (“metalinguaggio”).
Se conveniamo di indicare con il segno “ á ” la proprietà di implicare la proprietà “b” (quindi “ áb ” è
una “proprietà di proprietà”)
, possiamo scrivere:4
(F3’) a
Î áb .
Si può, quindi, asserire:
(A2) É .=. Î á .
Nella (F3’),
la proprietà “a” assume la funzione
logica di “individuo” rispetto alla
proprietà di secondo livello “ áb ” .
Quindi se ne deduce che i concetti di individuo e di proprietà, tranne casi particolari, hanno valore relativo e non
assoluto; cioè se un termine ha il ruolo di proprietà
in una determinata proposizione essa può assumere il ruolo di individuo in un’altra, come in: Socrate Î mortale e mortale Î proprietà.
Anche la (F4)
può essere messa nella forma (F2); per
far ciò conviene introdurre la “proprietà
assurda” che non può essere posseduta da alcun individuo e rappresentata
dal segno “Ù”.
Con l’uso di tale segno si può esprimere
l’idea che una data proprietà “a” è
assurda o contraddittoria scrivendo:
(F5) a = Ù
che per la decoposizione dell’identità si può scrivere:
(F6) a
Î ι Ù
che si può anche leggere: non
possono esistere individui che possiedono la proprietà “a”.
Se conveniamo di usare il segno “ ~ ”
per negare una proprietà, cioè per indicare la proprietà complementare della
proprietà data, (nel nostro caso, la “ι Ù”, cioè la proprietà di essere identica alla proprietà assurda) potremo scrivere:
(A3) $ a .=. a Î ~ ι
Ù .
cioè: dire che vi sono degli “a”
è la stessa cosa che dire che la proprietà “a” non è identica alla proprietà
assurda.
È importante
notare che l’idea di “esistenza” in
logica coincide con l’idea di “esistenza
possibile”. Altri significati del termine sono propri delle scienze
empiriche e devono essere descritti e menzionati esplicitamente come
particolari proprietà di determinati individui.
Notiamo, ancora, che la distinzione tra i
significati del verbo essere espressi
dai due termini logici “Δ e “É” è di estrema importanza;
in quanto, oltre ai diversi significati reali, i due segni hanno proprietà
formali molto diverse tra loro.
Infatti consideriamo le due proposizioni seguenti:
0a) Socrate è mortale,
0b) gli italiani sono dotti.
Il verbo essere nelle due frasi precedenti ha
un significato logico diverso come si
può subito mostrare.
Notiamo prima che, tra gli innumerevoli
altri, ci sono due modi diversi per negare le due frasi:
1a) non vero che Socrate è
mortale,
2a) Socrate è immortale (= non mortale);
1b) non vero che gli italiani
sono dotti,
2b) gli italiani sono ignoranti (= non dotti).
Le proposizioni
1a) e 2a) hanno ovviamente lo stesso significato
(a meno che non si cambi il significato di immortale riferendosi, come spesso si usa, non all’uomo ma alla sua
opera od al suo nome); mentre, altrettanto ovviamente, le 1b) e 2b) hanno significato diverso.
La 1b) ci dice che possono esserci degli
italiani che sono ignoranti ma non nega che ci possano essere degli italiani
dotti; la 2b) invece nega esplicitamuente anche questa seconda possibilità.
Spesso per evitare ambiguità si preferisce dire al posto della 1b): non vero che tutti gli italiani sono
ignoranti.
Tutto questo ci fa vedere che il verbo essere, nei due casi 0a) e 0b), assume significato diverso; infatti non è
possibile pensare che ammesso, per ipotesi assurda, che abbia lo stesso significato si debba comportare in modo
diverso quando le due proposizioni vengano
sottoposte alle stesse possibili operazioni
di negazione.
Esprimeremo le frasi precedenti in modo più
preciso con:
0a’) Socrate Î mortale,
0b’) italiano É dotto,
1a’) Socrate ~
Î mortale,
2a’) Socrate Î ~ mortale,
1b’) italiano ~ É dotto,
2b’) italiano É ~ dotto.
Abbiamo abbreviato con i segni “~ Δ
e “~ É” la negazione delle relazioni5 “Δ e
“ É” rispettivamente (il che
equivale a negare le proposizioni stesse
nella loro globalità); e con i segni “Î ~” e “É ~” la negazione dei soli
termini di destra della proposizione, cioè
mortale e dotto rispettivamente.
Si può quindi scrivere in modo generale ed
astratto, cioè formale:
~ Î .=. Î ~
Cioè:
i segni “ ~ Î ” e
“ Î ~ ” hanno lo stesso significato.
E, d’altra parte:
~ ( ~ É .=. É ~ ) .
Le parentesi servono solo ad indicare che il
primo “~” si riferisce a tutta la proposizione,
compresa tra le due parentesi, retta da
“.=. ” .
Si può evitare l’uso delle parentesi
scrivendo:
~ É . ~ =. É ~ ;
o, più semplicemente, abbreviando:
“ ~ = ” con il segno “¹” :
~ É . ¹ . É ~ .
Cioè le ultime tre, con segni diversi, dicono
tutte che:
non è vero che “ ~ É” e “ É ~ ” hanno
lo stesso significato
o equivalentemente:
“ ~ É” .non significa. “ É ~ ” .
Può risultare utile fare anche le
abbreviazioni “Ï” al posto di “ ~ Î ” e “” al posto di “~ É” scrivendo:
Ï .=. ~ Î .=. Î ~
ed invece si avra:
.=. ~ É . ¹
. É ~
In matematica si dice brevemente che la coppia di segni “~” e “Δ gode della proprietà commutativa mentre per la
coppia “~” e “ É” tale proprietà non vale.
Un’altra importante diversità formale tra i
segni “Δ e “É” si può notare dai seguenti
esempi:
dalle asserzioni
“l’uomo è mortale”
e
“ogni mortale è un essere vivente”
segue necessariamente l’asserzione:
“l’uomo é un essere vivente”
(sillogismo).
O, detto in modo più preciso:
“uomo É
mortale” e “mortale É
essere vivente” implicano: “uomo É essere
vivente”.
O, in simboli: “(a É b) ∩ (b É c ) .É. (a É c)” ;
L’uso di “É” tra proposizioni,
col significato di implica (come
quello che nell’ultima formula sta tra i due punti), invece che tra proprietà, sarà chiarito in seguito.
I matematici dicono che la relazione “É” gode della proprietà transitiva. Proprietà che
invece non vale per la relazione “Δ; infatti da “Socrate è mortale” e “mortale è una proprietà” non segue che “Socrate é una proprietà” o in scrittura
più precisa: da “Socrate Î mortale”
e “mortale Î proprietà”
non segue “Socrate Î proprietà”.
Ancora, banalmente: mentre “É” gode della proprietà riflessiva, p.es.: “uomo É uomo”; non avrebbe alcun senso dire
“uomo Î uomo” o “Socrate Î Socrate”;
tuttavia potrebbe avere senso dire: “un
uomoÎ uomo”: perché con il termine “un uomo” si
vuole intendere un individuo generico
del concetto di “uomo”, cioè, che ha
la proprietà di essere “uomo”.
***
In un “sistema
deduttivo” si deve distinguere tra “termini
primitivi” di cui già se ne suppone noto il “significato reale”, e “termini
derivati” di cui, invece, se ne dà una “definizione
nominale”, a partire dai termini
primitivi, mediante l’uso dei vari “termini
logici”.
Una definizione
nominale non dice niente sui significati
reali dei termini definiti, almeno direttamente. Essa si riferisce solo ai
nomi.
La forma più usuale è:
(F7) a
. = . b,
dove “a” è il nuovo termine
(o complesso di termini) da definire e “b” è il complesso di termini, di
significato già noto, che danno il “significato
formale” di “a” e,
indirettamente, anche il suo significato
reale a partire da quello proprio di “b”.
Un esempio è:
pentagono . =. poligono con cinque angoli.
Dove si suppone noto il significato reale di
tutti i termini a destra dell’identità e si intende introdurre il nuovo termine
“pentagono” come semplice abbreviazione
dei termini a destra di “ . = . ” .
Il “significato
reale” dei termini primitivi (o all’occorrenza, come ulteriore
schiarimento, anche di quelli derivati) si può dare solo mediante una “descrizione”, eventualmente corredata
da opportuni esempi.
Anche se è praticamente impossibile
circoscrivere il significato di un termine, mediante una descrizione, in modo da ridurre a zero ogni ambiguità, tuttavia,
nella pratica scientifica, si riesce a ridurre le ambiguità a limiti più che
soddisfacenti.
Del resto, in modo del tutto spontaneo,
quando un linguaggio scientifico si viene formando, i suoi utenti, anche se
nel parlare comune attribuiscono significati diversi ai singoli termini,
devono, all’interno del contesto della loro formalizzazione mettersi necessariamente
d’accordo per restringerne il significato al loro nucleo comune; fermo restando
che fuori dal contesto ognuno può dare ad essi il significato che più gli
aggrada purché non affermi in questo caso di fare affermazioni scientifiche.
Senza che per questo si debba svalutare il
linguaggio non scientifico; e questo non solo perché, come già detto nel Preambolo, si annullerebbe il valore
della poesia la quale si basa essenzialmente sull’ambiguità dei termini (il cui
scopo è quello di suggerire, attraverso i canali dell’emotività, significati
pregnanti sul piano esistenziale) ma anche perché il linguaggio scientifico è
troppo restrittivo e, usato indiscriminatamente, verrebbe a costituire una
prigione e si trasformerebbe nel contrario della scienza stessa impedendo
qualsiasi reale progresso scientifico. Una parola di moda che comprende anche
questo fenomeno di sociologia della scienza è “paradigma”.
Si può quindi dire che il linguaggio
scientifico serve per capire ed il linguaggio poetico serve per progredire; ma,
dialetticamente, non si può progredire senza prima avere capito e non si può
capire senza tentare di progredire. Ecco perché i veri scienziati sono anche in
parte poeti ed i veri poeti sono anche in parte scienziati. Non a caso i grandi
scienziati del nostro lontano passato scrivevano la loro scienza in versi
poetici come Parmenide ed Empedocle, per citare solo quelli di cui ci sono
pervenuti ampi frammenti.
***
Dopo che si siano definiti i vari termini e
se ne sia ristretto il significato in modo da ridurre le ambiguità al minimo
possibile, è bene, anche se non strettamente necessario, inventare per essi dei
simboli adatti creando così un”’ideografia”
cioè una corrispondenza biunivoca tra l’idea
che si vuole rappresentare ed il segno
introdotto.
Il procedimento che abbiamo descritto per
restringere il significato dei termini del discorso costituisce, appunto, la descrizione del termine. Esso è l’unico
modo possibile per assegnare al termine un significato
reale (nel seguito, spesso, lo indicheremo semplicemnente con significato) in quanto distinto
dall’eventuale suo significato formale (nel
seguito, spesso, indicheremo quest’ultimo semplicemente con definizione). Appunto per questo,
spesso, la descrizione viene anche
chiamata definizione reale del termine,
da distinguersi dalla definizione
nominale che fa astrazione dal significato
reale e ne dà invece il significato
formale (vedi PF).
Poiché il segno, che viene formalmente
introdotto per designare il termine, di cui se ne sia già data la descrizione, è in generale diverso dai
più o meno corrispondenti termini del linguaggio comune sarà più facile evitare
gli usuali slittamenti semantici che conducono a paralogismi ed a paradossi. Ed
è per la stessa ragione che la corrispondenza tra idee e segni deve essere
biunivoca (cioè ad ogni segno deve corrispondere un solo termine e viceversa);
per cui nel linguaggio veramente scientifico non dovrebbero ammettersi nè omonimi né sinonimi; a meno di utili e non ambigue eccezioni, come quando —
per quanto riguarda i sinonimi —possa risultare utile l’introduzione di un
nuovo segno che stia come semplice abbreviazione di una più lunga sequenza di
segni precedentementi introdotti, in tal caso si parla appunto di definizione nominale; come nell’esempio
citato: “pentagono = poligono con cinque angoli” o per quanto riguarda gli
omonimi — l’assegnare lo stesso segno a relazioni ed operazioni che siano
correlate da una corrispondenza tra insiemi diversi di oggetti (cioè nei casi
in cui i matematici parlano di isomorfismo
o, più generalmente, di omomorfismo),
finché non sorgano pericoli di ambiguità.
Anche una macchina, che sia in grado di
riconoscere i segni che corrispondono alle lettere dell’alfabeto, può essere in
grado di sostituire alla parola “pentagono”
tutte le parole che lo definiscono (che stanno a destra del segno “=”) e
viceversa; e ciò anche se non conosce menomamente il significato reale delle parole che tratta. Del resto è proprio per
questo che un computer riesce a fare tutte quelle belle cose che tutti sanno, nonostante
non capisca niente dei significati reali delle “parole” che elabora! Tuttavia tale “macchina” funziona molto meglio di qualsiasi uomo per quanto
riguarda i significati formali appunto perché non è condizionato dai
significati reali e bada solo alle regole di trasformazione che sono state
memorizzate una volta per tutte nel suo programma e per di più è di gran lunga
più veloce!
Il linguaggio del calcolatore, quello della
logica formale e della matematica hanno questo in comune, cioè quello di realizzare
il sogno di Leibniz attuato compiutamente dal Peano, di poter decidere ogni
diatriba semplicemente dicendo “calculemus”
e procedendo formalmente alle necessarie logiche deduzioni a partire dalle
definizioni formali (cioè nominali) date
e dagli assiomi anch’essi formalizzati ed esplicitamente presupposti.6
Tuttavia non è da pensare che il calcolatore
possa fare della matematica o stabilire gli assiomi della logica; non foss’altro
perché non ne capisce i significati reali; esso può solo effettuare dei
calcoli, una volta che il matematico e/o il logico gli abbiano fornito
definizioni, assiomi e regole di trasformazione; ed è per questo che non
sbaglia! (naturalmente limitatamente al suo compito abbastanza ristretto che,
per l’appunto, consiste in quello di “calcolare”
o, più generalmente, di “elaborare”).
Il matematico ed il logico invece possono
sbagliare perché non è facile individuare tali inputs per il calcolatore non essendo
facile liberarsi da pregiudizi metafisici o di ogni altra natura; a parte
l’osservazione banale che quello dei logici e dei matematici è (o almeno
dovrebbe essere) un lavoro creativo e non di semplice elaborazione. Ne consegue
che il calcolatore può fare quasi tutto, anche dimostrare teoremi, ma non può
sostituire il matematico; e può fare
financo le poesie ma non certamente potrà fare mai il poeta! Naturalmente finché non si voglia ridefinire il ruolo di
matematici e poeti come spesso avviene e ciò capita, e non di rado, anche a
tali medesimi attori come si desume leggendo certe loro enunciazioni o
guardando a certe loro pratiche.
***
Esempi di definizioni
reali sono appunto quelli che abbiamo dato “descrivendo” il termine definizione
nominale e quelli che andremo facendo per descrivere il termine stesso di definizione reale. In modo più formale,
possiamo “descriverle” così:
Supponiamo di voler descrivere un termimie che chiameremo “x”,
supponiamo che “a”, “b”, “c”, “d”, “e”,
“f”, ecc., siano delle proprietà di
cui, anche se in modo non privo di ambiguità, ne conosciamo già il significato;
allora cominciamo a precisare che: “x” e un “a” o un “b” ed è anche un “c” ma può essere anche un “d” o un “e” ma non è un “f”. E
così seguitando, in modo più o meno analogo, usando le particelle “é un”, “e”, “o”, “non”, ... , o altre
particelle che abbiano la stessa funzione, cioè quella di connettivi operanti
tra le varie proprietà di partenza; e
adducendo, eventualmente, opportuni esempi.
Ma già possiamo notare che le particelle: “è
un”, “ed”, “o”, “ma”, “non” ecc.
sono anch’esse dotate di una notevole dose di ambiguità. Infatti, quando usiamo
la disgiunzione “o” inserita tra le proprietà “d” ed “e”, la dobbiamo intendere in senso inclusivo o in senso esclusivo?
o, in altre parole, intendiamo riferirci ad una qualunque delle tre
possibilità, per “x”, di essere: un “d”
senza essere un “e”, un “e” senza essere un “d” o, anche, un “d” e
nello stesso tempo pure un “e”? oppure
vogliamo escludere l’ultima possibilità cioè che “x” possa avere
entramnbe le proprietà “d” ed “e” insieme?
E la stessa congiunzione “e” (o “ed”)
che significa?
Spesso nella lingua comune la si usa col
sigmiificato della “o” inclusiva, come
quando al botteghino del teatro incontriamo un cartello con su scritto: Riduzione per militari e studenti.
Certamente si vuole dire che per avere la riduzione bisogna essere o militari o studenti o entrambe le cose; e non certo che bisogna essere contemporaneamente sia militari che studenti, cioè studenti che fanno il militare o militari che sono studenti.
Dell’ambiguità di “ è un ”
abbiamo già detto.
Allora per evitare ambiguità scriveremo un
segno speciale per ogni possibile significato, evitando i pericoli
dell’omonimia; p.es:
“U” per la disgiunzione
inclusiva,
“∩” per la congiunzione,
“~”
per la negazione, ecc.
Poi, potremmo scoprire che i segni introdotti non sono tutti
indipendenti e che alcuni di essi si possono definire, questa volta nominalmente, come combinazioni degli
altri; p.es. la disgiunzione esclusiva si
può rendere con la formula: “(d ∩ ~ e) U (~
d ∩ e)”; cioè: “d” e non “e” o non “d” ed “e”. Risparmiandoci,
in questo modo, l’introduzione di un nuovo segno.
(Per ragioni puramente estetiche nella presentazione grafica delle formule
scriveremo qualche volta, “” al
posto di “~a”; per cui la
formula precedente diventa “
”).
Daremo ora alcuni significati reali di termini che useremo in seguito; altri (spesso
in nota) li daremo al momento opportuno, a meno che non emergano chiaramente
dal contesto. Ovviamente, assumeremo noti (almeno approssimativamente) i
significati delle parole che useremo per “descriverli”.
Il risultato finale potrebbe risultare diverso da quello a cui siamo
abituati. Ma poco male, se abbiamo guadagnato in precisione potremo
sopportarne il sacrificio. Naturalmente, se è alla precisione che siamo
interessati! Ma purtroppo senza precisione semantica non si può “dedurre” un bel niente ma si potrà fare
solamente una gran confusione.
Chiameremo “segno” un singolo atto della percezione sensibile,
indipendentemente dal fatto che tale atto abbia per noi umi significato o meno;
quindi anche uno scarabocchio o un rumore qualsiasi sarà per noi un “segno”. (Nel dizionario tale
significato è incluso tra i possibili ma non è il solo e nemmeno quello
originario o etimologico).
Chiameremo “termine” un segno che
invece abbia per noi un significato ben definito come: Socrate, uomo, animale,
“u”, ecc. Quindi, secondo le superiori descrizioni, tutti i “termini” sono “segni”, ma non tutti i “segni” sono “termini”.
Chiameremo “simbolo” un segno dotato sì di significato ma non
fissato; cioè si suppone che il segno abbia
un significato ma non ci interessa di conoscerlo. Come nell’operazione formale “d
U e” in cui si suppone che i simboli “d” ed “e” abbiano un significato ma non ci interessa di conoscerlo perché
noi siamo interessati, invece, solo alla loro relazione formale individuata dal
termine “U”.
Spesso si indicano con i segni “costante” e “variabile”
i significati che noi invece abbiamo attribuito ai segni “termine” e “simbolo”. Noi
lo eviteremo perché si sono dimostrati ambigui. Non siamo sicuri che la nostra scelta
potrà risultare migliore ma, al momento, la giudichiamo tale. Sarebbe bene
inventare dei segni del tutto nuovi e convenzionali, ma quasi sempre, come già
adombrato nel Preambolo, una
precisione eccessiva riduce la facilità di comprensione immediata e questo,
alla fine, potrebbe provocare l’effetto opposto.
Per tutti i termini che abbiamo descritto,
comunque, la confusione è, attualmente, massima anche nel linguaggio della
logica, per non parlare degli altri linguaggi scientifici; quindi non c’è soverchio
pericolo nell’usare un nome con un significato particolare, purché
convenientemente “descritto”.
Useremo il termine “proprieta” come sinonimo di “predicato”,
di “nome comune”, di “attributo”, di “aggettivo”, ecc.
Useremo, invece, il termine “individuo” come sinonimo di “cosa”, di “oggetto”, di “nome proprio”,
ecc.
Naturalmente con l’intesa che i termini
precedenti devono essere usati nei significati appropriati, cioè quando i
termini sopraelencati rappresentino effettivamente dei sinonimi, quindi, devono
essere usati con quel significato che è l’intersezione di tutte quelle proprieta alle quali nella lingua comune
si fa riferimento usando tali termini, come abbiamo chiarito nel descrivere le “descrizioni”.7
Come già detto, questo è l’unico modo con cui si può restringere il significato di un dato termine, data l’ambiguità del linguaggio naturale.
Abbiamo chiamato tale processo la descrizione o definizione reale del termine.
Per esempio, come notava il Padoa, illustre
collaboratore di Peano, non potremo mai ottenere il significato reale del termine “significa”
mediante una sua possibile definizione
nominale perché dovremmo scrivere:
significa .significa. (un certo complesso di segni).
E, una volta trovato tale complesso di segni
che definisce la parola “significa”, ne avremmo già dovuto conoscere il
significato per poterlo riferire alla seconda apparizione di “significa”. In altre parole, il
formalismo della logica non si occupa di significati
ma solo di relazioni formali tra termini dotati di significato. Anche se
molti sembrano pensare esattamente il contrario e cioè che si occupi del
significato di relazioni formali tra termini senza significato!
Abbiamo scritto delle frasi come:
a) Socrate Î mortale, uomo É mortale, mais = granoturco,
ma anche delle formule come
b) x Î a , x É a , x = a .
Nelle a) compaiono oltre ai termini logici “Î, É, =” anche i termini extralogici“Socrate, uomo, mortale,
mais, granoturco”.
Queste sono proposizioni con un valore semantico ben definito e non fanno parte
della logica.
Le formule b) invece sono proprie della
logica la quale tratta solo schemi
formali che stanno per proposizioni arbitrarie.
Quando sarà necessario essere più precisi li chiameremo schemi di proposizioni invece che proposizioni. Peano li chiama proposizioni
condizionali per distinguerle dalle prime che chiama proposizioni categoriche. La terminologia attuale è varia.
Quindi, negli schemi di proposizioni, “oltre” ai termini logici compaiono “solo” dei simboli, che non hanno significato definito, espressi usualmente
con singole lettere minuscole dell’alfabeto (possibilmente dotate di indici);
ma tali simboli non sono senza significato; ché uno necessariamente lo devono
avere anche se al formalismo della logica non interessa conoscerlo; gli basta
sapere che uno (ed uno solo!) ce l’abbiano. Tali simboli, come già detto,
vengono chiamati (tradizionalmente ma non molto opportunamente) variabili.
Il nome variabile
è poco opportuno perché, preso alla lettera, potrebbe significare che noi
potremmo effettuare, lungo il corso d’un ragionamento, degli slittamenti
semantici per cui dalla formula sillogistica: “a É b” e “b É c” implica “a É c”, potremmo
concludere assurdamente: Elisei É venti e venti É numero implica Elisei É numero; cioè dal momento che gli Elisei sono venti e venti è un numero ne segue
che gli Elisei sono un numero!
Anche formule del tipo “x Î numero” o simili, cioè quelle in cui compaia un qualunque termine extralogico, non fanno parte della logica anche se possono
fare parte di altre scienze formalizzate come l’aritmetica. Nei libri di
logica, di tradizione russelliana che poi sono la stragrande maggioranza,
questa regola non viene osservata arrivando a conclusioni paradossali, perché
si mantiene l’illusione che tutto, ed in particolare l’aritmetica, sia
riducibile a logica; identificando la logica con la metafisica, come è chiarito
in PF.
Non è necessario nemmeno menzionare
(nell’assiomatizzazione della logica) i termini proprietà ed individuo e
non interessa nemmeno conoscerne il significato, ammesso che ne abbiano alcuno
oltre quello formale.
Il decidere se hanno un significato non
puramente formale non è una questione di facile soluzione essendo un problema
di metafisica.
Non stiamo usando tale ultimo termine nel suo
senso deteriore ma semplicemente per dire che la questione non è risolvibile né
con la logica, né empiricamente; ma che bisogna necessariamente ricorrerre a
postulati preliminari di ordine teoretico dei quali, nel costituire qualunque
scienza, logica compresa, non si può fare assolutamente a meno.
Ciò costituisce la più grande costernazione
dei neopositivisti che, pur di non ammettere questa banale verità, finiscono
con lo scambiare la peggiore metafisica con le scienze, empiriche o formali che
esse siano.8
***
Dal punto di vista puramente “formale”, cioè puramente “logico”, possiamo (meglio “dobbiamo”) fare finta di non conoscere il significato che tali termini hanno
nel linguaggio comune e dire che è una “proprietà”
qualunque cosa che venga rappresentata da un “segno”, qualunque ne sia il suo significato (purché ne abbia uno e
uno solo!), che stia a “destra” di “Δ, ed
è invece un “individuo” ciò che è
rappresentato da un “segno”, qualunque
ne sia il significato, che stia a “sinistra” di “Δ.
Se non si osserva la regola che le lettere
minuscole dell’alfabeto, che abbiamo usato come simboli per generici ma determinati termini, debbano avere uno (e uno solo) significato (per cui di
fatto sono “costanti”!)
si potrà facilmente arrivare alle più assurde conclusioni come quelle già
menzionate o di altro tipo; p.es. si potrebbe dedurre, dall’osservazione che il
cane abbaia e che il cane è un sostantivo maschile, la verità (!?) che il
sostantivo maschile debba necessariamente abbaiare!
Se vogliamo esplicitamente asserire che “a” rappresenta una proprietà scriveremno “a Î C”; dove
ora “C”, al contrario di “a”, non è un simbolo arbitrario (nel qual caso avrebbe un significato variabile, nel particolare senso che il
significato del simbolo varierebbe da una proposizione
all’altra per cui bisognerà fissarlo di volta in volta in ogni singola proposizione). Invece “C” è un termine che ha sempre un significato costante nel senso che resterà invariato in tutto il nostro
discorso.
Quindi intendererno sempre: “C =
proprietà” (si può dire che “C” è il nome comune dei nomi comuni!).
Allo stesso modo scriveremo “a Î I” se
voglianmo dire che “a” rappresenta un
individuo, quindi “I =
individuo” .
Nella formalizzazione della logica pura (intendendo con tale
locuzione l’insieme dei simboli, degli assiomi e dei teoremi pertinenti ad
essa, con l’esclusione quindi della metalogica cioè del linguaggio con cui si parla
di essa) non è necessario usare i termini “C”
e “I”, bastando la convenzione
metalinguistica che deriva dallo stare il simbolo a “destra” o a “sinistra” del
segno “Δ, come già detto.
Nel caso che la logica venga usata come metalinguaggio
per la costruzione di altri linguaggi scientifici (p.es., la matematica, nel
qual caso le formule di logica funzioneranno da metamatematica) può risultare utile (anche se non necessario:
infatti è sempre possibile introdurre apposite convenzioni nell’uso dei segni
per evitarlo) menzionare l’ipotesi che un dato simbolo indichi una proprietà,
scrivendo: “a ÎC” ; questo
bisognerà farlo, in ogni caso, quando ci sia pericolo di ambiguità sul
significato logico del simbolo “a”.
***
Faremo ancora finta di non sapere il
significato della parola “proprietà” ma
affermeremo che se “a” e “b” sono simboli che denotano proprietà,
allora anche l’operazione:9 “” è una proprietà.
Questo è un esempio di quelle che si dicono definizioni ricorsive cioè: si elencano
prima gli oggetti elementari che
possiedono la proprietà da definire
(in questo caso, le proprietà elementari sono
rappresentate dai simboli semplici “a”,
“b”) e poi si dà una regola per definire gli oggetti composti (nel nostro caso, le proprietà composte sono quelle del tipo “”). Con ciò ovviamente non si dà il
significato reale del termine definito ricorsivamente (nel nostro caso, il
termine proprietà), che invece
dobbiamo già possedere, ma soltanto quello formale; quindi le definizioni
ricorsive sono definizioni nominali anche
se non ne hanno la forma esplicita che abbiamo descritto sopra.
Possiamo simbolizzare quanto detto con la
formula:
(M1) ,
cioè
se “a” e “b” sono proprietà lo è anche “” e viceversa.
Dal punto di vista puramente formale non è necessario sapere il
significato reale di “” (fermo restando il suo significato formale di operazione che date due proprietà ne produce una terza); ma se
ne può dare una definizione reale (= descrizione) dicendo che “
” significa la proprietà
complementare della proprietà intersezione
di “a” e “b”, cioè la proprietà di
non essere “a” e “b” contemporaneamente.
In modo più formale: se qualcosa, p. es.: “x”,
ha la proprietà “” allora necessariamente “x” non ha la proprietà intersezione di “a” e “b”, cioè o non ha la proprietà
“a” o non ha la “b”; o, ancora, “x”
non può essere “a” e “b” nello stesso tempo.
***
Per il significato che abbiamo dato al segno “ι”,
possiamo convenire che “ιa” significa il “concetto” determinato completamente
dalla proprietà “a”. Cioè: “
ιa .=. concetto di a”.
Notiamo che, dal momento che si ha sempre “a = a”
e quindi “a Î ιa”, “a” ha la funzione di individuo
nei confronti della proprietà “ιa”. In questa funzione
diremo che “a” è l’“intensione” del concetto “ιa” o, che è lo stesso, “a” è l’intensione del concetto di “a”. Ma, naturalmente, la
forma simbolica è più perspicua di qualunque adattamento, più o meno forzato,
della lingua comune.
Nel caso che “a” sia un termine che rappresenti un individuo realmente (e non solo formalmente,
cioè nel caso che il termine sia un nome
proprio, come, p. es., Socrate) diremo che “a” è l’individuo e “ιa”
è l’“idea” di “a” (Peano usava il
nome elemento per essa, ma oggi tale
nome viene usato come sinonimo di individuo).
Per esempio se uomo è una proprietà, ι uomo è il concetto di uomo. E
uomo è l’intenzione del concetto di uomo. Se Socrate è un individuo ι Socrate è l’idea di Socrate.
Notiamo che “ι” si può
considerare come un “operatore” che
applicato ad un individuo ne produce
la sua idea e applicato ad una proprietà ne produce il suo concetto.
Nell’ipotesi che, nel seguito, possa servire
introdurremo l’“operatore inverso” di
“ιa”
che fa passare dal concetto alla
sua intensione (o dall’idea all’individuo corrispondente). Lo
indicheremo con “j”
Per esempio, se “b” è il concetto di uomo, “j b” è
la proprietà uomo. Se “b” è l’idea di Socrate, “jb” è
l’individuo Socrate.
Ne segue che: “j ιa = a” e “ι
j a = a” qualunque cosa sia “a”.
Converremo, ancora, che se “a” è la proprietà che definisce il concetto “ι a” allora “áa” ne
denota la sua “comprensione”.
Intenderemo, invece, con il termine “estensione” il gruppo di individui dei quali possiamo affermare
che sono degli “a”; l’estensione di “ιa”
differisce dall’intensione di “ιa”
e la indicheremo, se dovesse servire, con “ext a”; ma vedremo che in un linguaggio scientifico tale segno non
è necessario.10
Per le convenzioni fatte, le proposizioni elementari si possono tutte
ricondurre alla forma “x Î a”, che all’occorrenza, abbrevieremo con il segno “ax”, cioè:
(A4) ax
.=. x Î a
Per gli assiomi elencati in Appendice
anche le proposizioni composte (cioè
quelle formate analogamente alle proprietà
composte) possono essere poste sotto tale forma. Per cui se conveniamo di
abbreviare il termine proposizione con
“P” possiamo scrivere:
(M2) x Î a . É . x Î I ∩ a Î C ∩ (x Î a) Î P,
cioè: la formula “x Î a”
implica che “x” è un individuo, “a” è una proprietà e “x Î a” è una proposizione.
Notiamo che nella (A4), il segno “x Δ assume
il ruolo di un “operatore” che, assegnato
un determinato individuo “x”, ci fa passare da una data proprietà alla corrispondente proposizione relativa ad “x”.
In tale ruolo lo indicheremo con “Îx”.
Possiamo, invece, assegnare al segno “'x” il ruolo di “operatore inverso” che fa passare dalla
proposizione relativa a “x”
alla corrispettiva proprietà.
Per cui si avrà:
(A5) ax
.=. Îx a
,
(A6) a
.=. 'x ax
Operando sui due membri delle due identità, rispettivamente, con “'x” e “Îx”, si
ottiene:
'x ax = 'x Îx a = a ,
Îx a = Îx 'x ax = ax ;
questo significa che i due operatori “'x Îx” e “Îx 'x” operando,
rispettivamente, su di una proprietà e
su di una proposizione le lasciano inalterate;
tale proprietà può risultare utile nelle deduzioni.
Infatti, lo scopo principale di un “sistema deduttivo” è quello di dedurre
da proposizioni ritenute come vere altre proposizioni valide, in modo
assolutamente meccanico mediante pochissime regole deduttive.
Le proposizioni che si assumono come vere si
dicono “assiomi”,
quelle dedotte dagli assiomi,
mediante le regole deduttive, si dicono “teoremi”.
Tuttavia, è importante osservare che la
distinzione tra termini primitivi e termini derivati, da un lato, e definizioni nominali, assiomi e teoremi dall’altro, ha un valore
relativo e non assoluto. La scelta di cosa assumere come primitivo o come
derivato è assolutamente arbitraria e dipende solo dalla volontà di chi
costruisce il sistema deduttivo.
Tale scelta non dipende né da una necessità
pratica, né teorica, ma solo da condizionamenti esterni dettati da valutazioni
soggettive, quali: considerazioni estetiche, ricerca di semplicità, adeguamento
a particolari concezioni del mondo o, anche e non ultime, ragioni economiche,
ecc.
Per esempio, nell’industria dei calcolatori
si sceglie (in questo caso, “fisicamente”,
nel processo di produzione dei chip di silicio) l’operazione che abbiamo
indicato con il simbolo “” (la chiameremo “operazione nand”, abbreviazione dell’inglese not and) come operazione primitiva, a
partire dalla quale costruire le altre operazioni logiche, perché si riducono
notevolmente i costi di produzione dei circuiti integrati.
La ricerca della “semplicità” è solo un mito, sia perché è un concetto difficile da
definire, sia perchè una volta definitolo in un caso particolare non sarà più
adatto in un altro caso.
Al contrario, il costo unitario di un
determinato circuito integrato (e quindi il maggiore o minore profitto da
ricavare dalla sua vendita), per il bene o per il male, è invece oggettivamente
determinabile!
Il Peano, giustamente, non si preoccupa gran
ché di stabilire un sistema assiomatizzato al massimo grado, convinto com’è
che, in un linguaggio scientifico, da qualunque punto si parta, si debba
necessariamente arrivare allo stesso risultato; purché non si scambino pseudoproblemi
di natura puramente verbalistica per problemi effettivi che concernono i
concetti e le idee (vedi comunque PF).
Tuttavia il suo collaboratore A. Padoa
stabilisce un sistema deduttivo in cui, come termini primitivi di tutta la
logica, si assumono solo tre termini; e precisamente quelli da noi indicati con
“ =, ∩ e 'x”; a partire dai quali vengono
definiti nominalmente tutti gli altri.11
In generale, nei vari campi della scienza,
non è nemmeno un’impresa semplice, ma, in qualche caso, richiede il lavoro di
molti anni da parte di provetti matematici, il verificare se una data proposizione data come assioma non possa essere, invece,
dimostrata come teorema a partire
dagli altri assiomi.
In Appendice
viene dato un possibile sistema di termini
primitivi, di definizioni nominali e
di assiomi per la logica.
Qui ci limiteremo a notare che a partire
dall’operazione “~” si possono definire nominalmente tutti gli altri connettivi logici che
servono a formare tutte le altre proprietà partendo da quelle elementari.
Per esempio la “proprietà complementare” di una data proprietà “a” si può definire mediante la:
(P1)
L’“unione” di due proprietà con:
(P2)
L’“intersezione” con
(P3)
Si è soliti sottindendere il segno di intersezione con la definizione:
(P4)
Con tale abbreviaziomie si realizza una consistenza simbolica con il
segno originario “~”; infatti, operando sui due membri della (P4) con “~” si ottiene: “”.
Per realizzare un migliore aspetto
tipografico delle formule useremo, talvolta, la convenzione di negare solo
l’operazione invece che l’intera proposizione, p. es.: “” e “
”.
Per la stessa ragione useremo, a volte, le
convenzioni: “ ~ a . = .
~ (a) . = . ã ” .
Il significato reale dei segni introdotti mediante definizione nominale potrebbe desumersi a partire da quello dei
segni primitivi.12
Possiamo asserire gli ovvi “assiomi” seguenti:
(P5)
cioè: facendo il complemento del
complemento si riottiene la proprietà di partenza.
(P6)
che esprime la proprietà commutativa dell’operazione
retta da “~”.
(P7) ,
con l’abreviazione:
(P8) .
Le (P7) e (P8) esprimono la proprietà associativa dell’operazione
retta da “∩”.
(P9) ,
che esprime la proprietà
distributiva di “∩” rispetto a “U” (il segno “∩”,
per la convenzione (P4), è sottinteso
nell’ultima formula).
(P10) ,
cioè: la proprietà “aã” è
assurda. O, in altre parole, non è
possibile che qualcosa sia “a” e
“non-a” nello stesso tempo.13
Per le definizioni
e gli assiomi dati, si possono
assumere tre sole regole deduttive, che
appelleremo:
D1. Regola
di sostituzione tra simboli di segno uguale.
D2. Regola di sostituzione tra simboli di segno diverso.
La D1. ha origine dal significato del termine
“simbolo” che, stando per un “generico”
termine, permette di sostituire, in una data proposizione, un determinato simbolo
con un qualsiasi altro simbolo; purché:
a simboli di eguale nome si
sostituiscano altri simboli che,
corrispondentemente ed uniformemente,
siano ancora di eguale nome;
così, per esempio, la (P9) si
può scrivere anche
“x (y U z) . = . xy U xz” con identico
significato. Ma non è lecita la sostituzione “x (y U z) .
= . xb U xz” perché, se si cambia il nome di “b” con “y”, la sostituzione deve essere effettuata in tutti
i posti in cui compaia il simbolo “b” nell’intera
proposizione. Ciò in quanto,
all’interno di ogni singola proposizione (o
in una catena deduttiva), il simbolo ha
significato “costante”, anche se è “variabile” da una proposizione all’altra.
La D2. ha origine dalla proprietà del segno “=”,
che dà, identicamente, lo stesso significato ai termini a destra e a sinistra
di esso. Seguendo il Padoa, la chiameremo: la proprietà sostitutiva del segno “=”.
Infatti, se quello che sta a destra di “=” significa la stessa
cosa di quello che sta a sinistra (e viceversa) ne segue che se si asserisce: “a = b”,
si può sostituire “a” in
qualunque formula compaia “b”, e
viceversa. Per di più, qualunque operatore
sia definito su “a”, lo si può
applicare anche su “b” senza alterare
l’identità.
Esprimendo quanto detto con una formula:
D3. Se
“ω” è un operatore che ha senso applicare al termine simbolizzato da “x”
allora:
x = y . É . ω x = ω y ,
anzi, se “ω” ammette un
inverso allora il segno “É” si
può sostituire nell’ultima formula con il segno “=”.
Per la proprietà
sostitutiva del segno “=”
non è necessario, per questa seconda regola deduttiva, operare la sostituzione
del simbolo in tutti i posti in cui
esso compaia, dato che il simbolo che
si va a sostituire ha lo stesso significato di quello che lo sostituisce
(infatti sono sinonimi). Solo ragioni
di convenienza, a fini deduttivi, ci
suggeriscono dove e quando operare la sostituzione.
Dalla proprietà
sostitutiva del segno “=”
vengono fuori immediatamente le proprietà caratteristiche dell’identità e cioè le proprietà: riflessiva, simmetrica e
transitiva. E cioè:
(I1) a =
a
(I2) a = b . = . b =
a
(I3) (a = b) ∩ (b =
c) . = . (a = c)
***
A partire dalle (P1) - (P10), mediante le regole deduttive D1., D2., D3., si possono dedurre molti teoremi sulle proprietà.14
Se si introduce l’assioma:
(P11)
a É b . = . ab =
a ,
la comprensione di un
concetto diventa una struttura ordinata dalla relazione “É”.15
Una struttura analoga si verrà a generare
anche per le proposizioni, a partire
dall’assioma del metalinguaggio (analogo di M1):
(M3) ,
se si assumono assiomi analoghi ai (P1)
- (P10) (vedi Appendice).
Qui notiamo solo che, ovviamente,
l’operazione di complementazione diventa
la “negazione”.
L’unione diventa la “disgiunzione inclusiva”.
L’intersezione
diventa la “congiunzione”.
L’assioma (P5)
diventa l’asserzione metalinguistica che “due negazioni affermano”.
Valgono, analogamente, le proprietà: commutativa, associativa e
distributiva.
L’inclusione tra proprietà diventa l’“implicazione”
tra proposizioni (detta anche
segno di “deduzione”).
Anche qui vale il fortissimo assioma:16
(Q11)
ax É by . = . axby
= ax .
Nel caso che tutte le proposizioni si
riferiscano ad un solo individuo “x”, si instaura un perfetto
isomorfismo tra le due strutture formali relative alle proprietà e alle corrispettive proposizioni
riguardanti il detto individuo; ciò si ottiene formalmente con l’assioma:
(C1)
(ab)x . = . axbx
.
Un altro importante assioma e:
(C2) xÎa . =
. ι x Î áa . = . i x É a
che permette di dimostrare un’altra forma di sillogismo relativo alle
asserzioni singolari:
(C3)
ax ∩ (a É b) . É . bx .
Un altro ovvio assioma, che come il (C2)
permette il collegamento tra proprietà di un livello a quelle di livello
superiore, è:
(C4) a
Î áb . = . áa Î ááb
che, ovviamente, si può scrivere anche:
(C4’) a
É b . = .
áa É áb
Parentesi
epistemologica
Fin dal tempo in cui l’uomo ha cominciato a
riflettere su se stesso e sulla realtà che lo circonda, egli ha coltivato due
superbe illusioni; da un lato, quella di scrivere un libro, simile a quello
delle fantastiche invenzioni di Borges, in cui vi fossero elencate tutte le
proposizioni della conoscenza universale ricavate da un’infinita sequenza di
osservazioni empiriche. Questo, e solo questo, avrebbe costituito «LA SCIENZA»
e, per sapere qualsiasi cosa relativa all’universo fisico e mentale, sarebbe
bastato consultare questo immenso vocabolario, dovendosi solo conoscere
l’ordine in cui le conoscenze furono disposte.
Da questa illusione, nasce l’idea dell’“uomo dotto” come magazzino di informazioni varie, benché sconnesse, che ancora dura ai nostri giorni e, anzi, si rafforza per via dell’infinita congerie di informazioni su presunti risultati di scienze confuse, diffuse, profuse dagli odierni mezzi di informazione di massa.
Dalla stessa illusione
nascono le innumerevoli filosofie che, sotto diversi nomi, si rifanno alla
concezione empirista della realtà.
Ma, non appena si cominci a stendere tale libro, anche nelle dimensioni le più ridotte, ci si accorge subito che non è per nulla facile trovare l’ordinamento più razionale affinché esso risulti di facile consultazione. Si scopre che è indispensabile un criterio di classificazione.
Nasce così la tassonomia e le sue strutture astratte
che, ora, vengono identificate con “LA SCIENZA”.
Ciò, a un certo punto, crea
la seconda superba illusione, secondo la quale, un bel giorno, l’uomo sarà in
grado di possedere un’unica e breve formula magica a partire dalla quale, senza
nemmeno più consultare il risultato degli esperimenti, si potranno dedurre
tutte le conoscenze dell’universo. Questo crea il mito dell’“uomo colto” che,
seduto a tavolino con la pipa in bocca, alla stregua di Ercole Poirot, da pochi
indizi ricrea presente, passato e futuro.
La stessa illusione dà
origine alle pratiche magiche ed a tutte quelle filosofie che sotto vari nomi
si rifanno alla concezione idealista della
realtà.
Si potrebbe pensare che chi
coltiva la prima illusione non possa coltivare la seconda e viceversa. Ma ciò
non è vero perchè l’una illusione è conseguenza dell’altra, come appunto gli empiristi logici stanno a dimostrare,
non solamente, guardando al nome con cui si qualificano!
Ora ci occuperemo un momento
degli effetti della cattiva filosofia di cui alla citazione di Engels in nota8.
Quando ci si voglia occupare
scientificamente di un determinato campo
di ricerca bisogna necessariamente delimitarlo.
Gli epistemologi di
orientamento empirista pensano che, intanto, bisogna partire dai fatti, cioè dal dato empirico. Altri
obbiettano che ciò è praticamente impossibile dal momento che in nessuna
scienza esiste il dato empirico in astratto ma solo una ben particolare
selezione di dati. E per fare tale selezione preventiva noi dobbiamo essere già
in possesso di una teoria anche se in una forma ancora rudimentale.
La più rozza forma di teoria
deve partire da alcune proprietà che,
all’inizio, saranno necessariamente vaghe e non ben definite ma che possono
permettere una prima classificazione. Qui siamo ancora in una fase puramente
tassonomica o, per usare la terminologia di Bunge,17 in una fase protoscientifica.
Dal momento che ciò sembra
ovvio e banale c’è da chiedersi come mai gli empiristi trascurano questo “fatto”, visto che si appellano ai “fatti”.
Inseguendo le loro
argomentazioni ci si accorge che essi usano il termine fatto nell’accezione della lingua comune, la quale porta a
confondere gli elementi teorici con gli elementi fattuali.
Il sostantivo fatto è omonimo del participio passato
del verbo fare. Ma, nell’accezione comune, il sostantivo, da tale participio
derivato, assume i significati relativi a tutti i tempi del participio:
presente, passato e futuro.
Per cui, usualmente, molti
considerano un fatto il contenuto
semantico della proposizione: chiunque
cada dalla finestra finisce a terra.
È ovvio che questa non si
riferisce al passato, come in sono caduto
dalla finestra e sono finito a terra che, effettivamente, si riferisce ad
un “fatto”; ma, piuttosto,
rappresenta un futuro ipotetico ed ha la struttura di una legge fisica che, in
ogni caso, contiene elementi teorici e, come minimo, presuppone il postulato
metafisico induttivista che se una
correlazione tra due fatti si è
sempre verificata in passato deve continuare
a verificarsi in futuro.
Intanto, la proposizione
precedente si deve, correttamente, porre nella forma se qualcuno cade dalla finestra, allora egli finisce a terra ovvero
x Î a É x Î b, dove
“x” è il qualcuno, “a” è la
proprietà di cadere dalla finestra e “b”
quella di finire a terra.
Più semplicemente possiamo
scrivere a É b, dal
momento che, in ogni discorso teorico si fa l’ipotesi forte che la legge vale
qualunque sia l’individuo “x”, per cui la proprietà coincide con la sua estensione,
ipotesi questa che dovrà mantenersi fino a prova contraria, altrimenti
sarebbe difficile fare qualsiasi deduzione che non sia banale.
Per la fisica, la precedente
proposizione è vera ma è ellittica e la si dovrebbe completare con un sistema
deduttivo di proposizioni del tipo:
1) Tutti i corpi soggetti alla
forza di gravità sono accelerati lungo la direzione della forza stessa.
Questo è un principio fisico
che, nella teoria, assume il ruolo di assioma;
il che è un modo per dire che è una proposizione primitiva, cioè
indimostrabile (e nemmeno verifìcabile, visto che noi possiamo sperimentare
solo sotto certe particolari condizioni mentre il principio è espresso in forma
universale).
2) Sulla terra c’è un campo di
forze di gravità diretto dall’alto verso il basso.
Anche questo è un assioma.
3) x è soggetto alla
forza di gravità della terra ed è libero di cadere perché la finestra è situata
in alto rispetto alla superficie della terra.
Questa è una condizione
iniziale. Nella teoria assume il ruolo di ipotesi, eventualmente da verificare
empiricamente, da assumere anch’essa come proposizione primitiva.
4) x finisce a terra per 1), 2),
3) e per le leggi del movimento.
Risultato verificabile
empiricamente. Nella teoria è un teorema.
Ma questa è solo una rozza
semplificazione che serve solo a dare l’idea della complessità di una
descrizione scientifica del fenomeno considerato.
A questo punto qualcuno
potrebbe pensare che la descrizione scientifica complica inutilmente le cose
solo per dire, né più né meno, quello che, non solo già sapevano, ma che,
addirittura era assolutamente necessario sapere per avere una pur minima
legittimità nell’asserire i princìpi fisici da cui si tira la conclusione.
Ciò è tremendamente vero!
Ma la spiegazione
scientifica non ha lo scopo di dedurre cose banali da cose banali (come spesso
appare dopo avere letto i più famosi libri di epistemologia!). Ma il suo scopo
è quello di dedurre, rigorosamente, da cose assolutanmemìte banali, o ritenute
tali, cose di gran lunga più complicate come, p. es., dedurre l’istante preciso
in cui un missile (lanciato dalla terra da un certo posto e in un certo
istante) raggiungerà il pianeta Marte ed in quale preciso punto.
La previsione risulterà più
interessante se quello che si deduce è paradossale, perché questo imporrà la
scelta tra le ipotesi di partenza e le conclusioni finali o, quanto meno, una
reinterpretazione della teoria; non potendosi, almeno logicamente, mantenere
due proposizioni contradittorie.
E qui si capisce a che serve
la logica!
Essa non ci può dire niente
sulla verità delle ipotesi e degli assiomi, né su quella delle conclusioni!
Ma ci può dire se ipotesi,
assiomi e conclusioni siano contradittori o compatibili. E ciò è molto
importante per la scienza.
La logica non è la scienza
della VERITÀ ma, semplicemente, un piccolo insieme di regole di deduzione.
Anzi, non è nemmeno una scienza ma una precondizione di ogni scienza!
Allora, come già sapevano
gli antichi, nella scienza non si parte dai fatti
ma dalle proprietà, (o dai concetti che è lo stesso) che una volta
astratte dall’esperienza sono gli individui
della nostra comprensione e gli elementi della nostra teoria.
La comprensione è un insieme strutturato di proprietà; è un’algebra di Boole, come già detto
nella sezione precedente.
Quanto detto vale anche per
una scienza puramente empirica, cioè priva di qualunque forma di teoria la quale
possa assumere “a priori” i suoi elementi
costitutivi.
Infatti, per la costituzione
di un linguaggio scientifico si parte (consciamente o inconsciamente) da un
insieme non strutturato di proprietà, che chiameremo i generatori dell’algebra (sottinderemo: della comprensione); essa delimita il campo di ricerca.
Tutte le altre proprietà del
campo di ricerca, elementi compresi,
possono essere generate, appunto, da tali generatori
mediante l’operazione tra
proprietà, nand, che abbiamo indicato
con il simbolo .
Potrebbe sembrare, a prima
vista, che partendo da un numero finito di proprietà si possa generare tutta
un’infinità di altre proprietà, per effetto di successive e ripetute
applicazioni dell’operazione nand.
Ma ciò non è vero, in quanto
gli assiomi che sono stati dati nella sezione precedente limitano enormemente
il numero delle proprietà semanticamente differenti. Si dimostra, infatti, che
se si parte da n generatori si
possono ottenere solo N £ 2n
proprietà atomiche, cioè proprietà,
mutuamente incompatibili, mediante le quali si può generare tutta l’algebra
della comprensione, che conterrà
esattamente 2N proprietà,
comprese la proprietà assurda, che
abbiamo indicato con , e la sua complementare, che indicheremo con
e che chiameremo la “proprietà banale”, cioè quella
proprietà posseduta da tutti gli individui
che costituiscono il campo di
ricerca.
Faremo il postulato che le
proprietà della comprensione, così
generata, costituiscano tutte e sole le proprietà possedute dagli individui del
campo di ricerca.
Tra le proprietà generate,
alcune hanno un’importanza maggiore delle altre; per cui risulta utile
introdurre, mediante definizione nominale,
dei segni particolari per esse.
Il massimo numero di
proprietà atomiche, N = 2n, si otterrà
solo quando capiti che si siano scelti i generatori tutti indipendenti tra loro
di modo che, presi due qualunque di essi, p.es. “a” e “b”, si abbiano
certamente individui che posseggono contemporaneamente entrambe le proprietà,
cioè, quando si possa certamente asserire: $ ab.
Ne segue che, se con
Aristotele, pensassimo di definire la sostanza
o essenza
(ούσία) come la proprietà dell’esistenza delle
cose (facendo astrazione da ogni altra proprietà), si avrebbe n = 0,
N =
20 = 1 e la comprensione avrebbe solo 2N=
21 = 2 proprietà e cioè solo la proprietà assurda e la proprietà
banale, come Parmenide cercava di far capire agli empiristi che
precedettero l’empirista Aristotele. Ma ciò lo esamineremo più dettagliatamente
in seguito.
***
Ma, per potere entrare nei
dettagli della scienza degli antichi, è necessario chiarire alcune questioni
metodologiche.
Solo pochissimi frammenti ci
sono pervenuti dei cosiddetti presocratici.
Quasi tutto quello che
sappiamo, o che crediamo di sapere, ci proviene dai dossografi.
Si potrebbe pensare che con
un minuzioso lavoro filologico si possa ricostruire, in qualche modo, il loro
pensiero. Questa, in ogni caso, è l’opinione generale. Ma noi pensiamo che la
filologia non è di nessuno aiuto in questa impresa. La riprova di ciò è che ci
sono tanti Parmenidi e tanti Democriti per quanti filologi ci siano.
Escludiamo, ovviamente, dal
novero dei filologi tutti quelli che hanno seguito (o che seguono) un ben
determinato paradigma. Ché, per i ben noti meccanismi della carriera
accademica, non aggiungono niente di nuovo.
È per la forza del paradigma
aristotelico che molti dossografi sembrano dire la stessa cosa. Di fatto, non
fanno altro, per lo più, che pestare e ripestare le opinioni di Aristotele, con
la convinzione, che ancora perdura, che il pensiero di Aristotele, ritenuto il
più grande scienziato del passato, fosse più maturo dei suoi predecessori.
Questo in omaggio a quella che abbiamo chiamato la teoria delle PULCI.
Se si abbandona questa
teoria si potrebbe pervenire alla conclusione che Aristotele rappresenta un
profondo arretramento nel processo di costruzione del linguaggio scientifico.
Ma se neghiamo valore ai
dossografi e al loro progenitore Aristotele come potremo procedere?
Semplicemente sostituendo la
logica (come chiarita da Peano) alle speculazioni metafisiche che cercano
supporto nella filologia.
Già lo stesso Peano aveva ricostruito, con i
suoi “simboli”, l’opera di Euclide;
nella convinzione (che è anche la nostra) che, da qualunque punto si parta, se
si procede coerentemente e senza ambiguità, il risultato deve necessariamente
essere lo stesso, se le ipotesi di partenza sono le stesse.
Ma quali erano le ipotesi
dei “presocratici”?
Questo ce lo faremo dire
dallo stesso Aristotele, che nel criticarli, le ha enunziate, anche se
malamente illuminate, all’ombra del suo paradigma.
Quindi per studiare i
presocratici saremo costretti a partire da Aristotele; ma non dalle sue conclusioni,
bensì da un’analisi logica del suo paradigma.
***
Accettando le conclusioni di
Max Müller,18 Peano notava che
le categorie grammaticali derivano da Aristotele, il quale elenca dieci categorie logiche in corrispondenza con
le parti del discorso della grammatica greca. Lo stesso Müller osservava che la
classificazione dei vocaboli nella lingua semita e in quella cinese era ben
diversa.
Questo significava, per
Peano, che altro sono le proprietà reali dei nomi e altra cosa le proprietà
formali, in quanto derivanti esclusivamente dalla tradizione linguistica.19
A partire da questo possiamo
concludere alcune cose ovvie.
Si dice spesso che
Aristotele è da considerare il padre della logica. Peano, in più di
un’occasione, nota che la logica di Aristotele è di nessun uso per la
matematica. La diversità concettuale, del resto, salta immediatamente agli
occhi.
D’altra parte, le conquiste
nel campo della matematica dei presocratici sono immense. Si pensi ad Eudosso e
Democrito che godevano la profonda ammirazione di Archimede.20
Ovviamente, non si può fare
matematica senza logica; e, del resto, tra le opere di Democrito, elencate da
Diogene Laerzio tra gli scritti di fisica, vi figura Logica o Canone in tre
libri.21
Se ne può semplicemente
concludere che la logica di Aristotele è la logica del senso comune e quella di
Democrito doveva necessariamente essere quella della matematica.
***
Quale dovrebbe essere la
logica della scienza in generale?
Per Democrito non ci sarebbe
potuto essere alcun dubbio, visto che per lui la scienza era una e non era
divisa in branche e sottobranche di specialisti che, secondo l’aforisma di
Bernard Show, sono coloro che sanno tutto su nulla.
Oggi, la risposta non sembra
così ovvia, anche a causa della confusione epistemologica di marca russelliana,
ancora imperante! (si veda PF).
È utile entrare, per un
momento, in qualche dettaglio per capire la profonda differenza tra le
metafisiche che si nascondono sotto dei simboli apparentemente uguali e per
vedere come lo scontro tra queste due contrapposte metafisiche non è diverso da
quello che ciclicamente si è verificato nel corso della storia.
Come viene chiarito in PF,
tale differenza si manifesta nell’interpretazione estensionale del termine
classe nell’una concezione del mondo contrapposta a quella intensionale
dell’altra.
Al senso comune appare che
gli oggetti immediati della nostra percezione siano le “cose” in quanto “individui”.
Da esse noi formeremmo gli aggregati di cose. Successivamente, avendo dato
un nome all’aggregato, raggiungeremmo la “classe”.
Se così fosse non avremmo
nemmeno bisogno di nominare le proprietà.
Infatti nella logica empirista il ruolo delle classi risulta del tutto marginale ed il
ruolo primario viene assunto dalle proposizioni categoriche.
Per esempio, Russell (vedi
PF) concede qualche ruolo alle intensioni
solo per parlare dei numeri transfiniti, che per altro, nessuna applicazione
trovano nelle scienze.
Saltando, così, con un solo
incredibile balzo, dalle banalità della logica del senso comune agli
iperuranici meandri dell’infinito.
Tuttavia, una tale filosofia
ha un profondo fascino; perchè conforta gli sciocchi che si sentono a loro agio
nel linguaggio atavicamente acquisito e pretendono di stupire il mondo con i
supposti paradossi della matematica. Allo stesso modo di Aristotele che
pretendeva di superare quelle che egli chiamava le aporie di Zenone; le quali,
invece, come vedremo, erano dei semplici teoremi. Il paradosso nasceva solo al
confronto con le difettose premesse aristoteliche.
Uno potrebbe, ingenuamente,
pensare che, quando si incontrano dei paradossi, vuol dire che i significati
degli assiomi di partenza (essendo libere creazioni dell’intelletto umano!)
siano contraddittori; ma i falsi profeti concludono diversamente; ipotizzando,
inconsciamente o esplicitamente, che i loro assiomi e relativi significati
siano leggi imposteci dalla natura; per cui bisogna abituarsi a convivere con
paradossi ed aporie, cercando di arrangiarsi a fare il meglio che si può
acciocché non diano soverchio fastidio quando dal mondo iperuraneo del
pensiero astratto si voglia fare il tentativo di applicarle a situazioni
concrete o pseudoconcrete.
Per assaporarne, in seguito,
le analogie coi discorsi degli antichi, esaminiamo il paradosso centrale dei
logici moderni che è, appunto, quello che va sotto il nome di “paradosso di Russell”
e che deriva, sostanzialmente (senza tenere conto delle infinite chiacchiere
inutili) dal dogma che la matematica si occupa solo di estensioni e dalla
conseguente identificazione del termine classe
con il termine aggregato. (Per
capire come Russell doveva, necessarianmente, arrivare al paradosso basta
leggere la confusa ed incomprensibile distinzione tra classe, concetto e concetto-classe
nell’intero capitolo dedicato a tale questione nel suo The principles of mathematics, dove con argomenti non dissimili da
quelli medioevali, riferentisi al sesso degli angeli, si critica, anche a
sproposito, la chiara e precisa impostazione di Peano; vedi, comunque, PF).
Per Peano, al contrario, la logica non è una scienza a sé sulla
quale esercitarsi con l’alta matematica, per poi applicarla ad astruse
questioni metafisiche (nel senso deteriore di tale termine) ma è un semplice
strumento per il chiarimento dei concetti della matematica; la quale, a sua
volta, non serve per costruire castelli di carta della più inutile astrazione,
ma costruisce le sue strutture formali a partire da modelli che idealizzano le
concrete operazioni della scienza empirica.22
Per Russell, la matematica è
quella scienza che non deve sapere nemmeno di che cosa tratta, secondo un
paradossale aforisma russelliano. Ma nonostante ciò, egli procede impunemente
a matematizzare la logica.
L’obiezione, più ovvia, a
una tale impostazione è quella di notare, banalmente, che fare della matematica
sulla logica che, a sua volta, deve servire a fondare la matematica, equivale a
porsi l’irresolubile problema di sapere se è nato prima l’uovo o la gallina;
come tutte le successive chiacchiere inutili sul sovrumano problema dei fondamenti
della matematica stanno a dimostrare. Infatti, la conclusione a cui
giungono i superlogici che si
autodefiniscono metamatematici è la
contradittoria asserzione che, da un lato, la matematica non si può fondare
sulla logica (vedi le varie interpretazioni del famigerato teorema di Goedel) e
che, d’altro lato, la matematica è riducibile ai concetti della logica.
Ma vediamo di capire
l’essenza del tremendo ed esiziale paradosso
di Russell.
Se, come abbiamo convenuto,
scriviamo “a e C” per dire che “a” è una
classe, dove “a” e un simbolo che può assumere qualunque
valore semantico (ovviamente tra i termini che denotano una classe), possiamo
pensare di essere liberi di attribuire ad “a”
il particolare valore “C”, scrivendo
“CÎC”.
Se interpretiamo “C” come sinonimo di mucchio, cioè estensionalmente, e, ancora arbitrariamente, ipotizziamo di essere
liberi di creare astrattamente dei mucchi
con la sola potenza del nostro pensiero, possiamo pensare, che oltre a “C”, ci siano altri mucchi per i quali si possa scrivere “a Î a” (pressappoco come quel fantastico mucchio di spaghetti che
contiene la pentola che li contiene; infatti basterà ribattezzare la pentola con il più pomposo nome di insieme degli spaghetti che contiene se
stesso!) chiamiamo tali chimerici mucchi:
insiemi
chiusi.
Ovviamente ci sono anche
banalissimi insiemi che fra i loro
membri non contengono lo stesso insieme che li deve contenere, chiamiamoli: insiemi aperti.
Immaginiamo ora, sempre con
l’infinita potenza del nostro pensiero, di compiere un ultimo atto di creazione
e generiamo Eva dalla costola di Adamo inventandoci l’insieme di tutti gli insiemi aperti che chiameremo “R”.
Nasce un tremendo problema
che assomiglia al problema di Wiener il quale si chiede se, essendo Dio
onnipotente, possa creare un masso così pesante, ma così pesante, che Egli
stesso non possa sollevare. Il problema o non ha soluzione perché mal posto o
conduce ad una contraddizione che viene a negare l’onnipotenza di Dio. Infatti
o è in grado di creare il masso e allora non potrà sollevarlo o non ne sarà in
grado. In ogni caso, non sarebbe onnipotente.
Non dissimile il problema di
Russell: è R chiuso o aperto?!
Se è chiuso dovrà aversi R Î R. Ma R era l’insieme
degli aperti e, quindi, R Ï R, per
definizione.
Se è aperto dovrà aversi R Ï R ma
allora dal momemmto che R è aperto
dovrà essere contenuto in R che è
l’insieme degli aperti e quindi R Î R.
Allora, o la questione è mal
posta o il pensiero astratto non è
onnipotente. Noi pensiamo che entrambe le ipotesi siano vere!
Ma forse che, da questa
patente contraddizione, Russell ed i “logici” posteriori concludono che ci deve
essere qualcosa di marcio sotto? No!, al contrario, pensano che sia un brutto
scherzo della natura stessa della
logica e quindi ricorrono a delle pezze per salvare il salvabile e, così
Russell si inventa la famigerata ed inutilmente complessa teoria dei tipi che complicherebbe enormemente la
vita ai matematici che, infatti, l’hanno sempre rifiutata.
Tuttavia, questi ultimni o
fanno limita di niente, forse tacitamente assumendo che la questione è malposta,
o ricorrono ad una semanticamente non chiarita distinzione tra insieme e classe aggiungendo un, praticamente inutile, postulato secondo il
quale, affinché qualcosa sia un insieme non
basta che ci siano degli individui che vi appartengano ma deve esistere, anche,
un non meglio specificato ente a cui l’insieme stesso deve appartenere; con
divertenti conseguenze quando le astratte formule si volessero interpretare
semanticamente.
Infatti, a causa dello
stesso errore che porta ai paradossi, Whitehead e Russell, insieme ad altri
posteriori assiomatizzatori, giungono a definire l’insieme vuoto come l’insieme di quegli individui per cui valga la
proposizione “x ¹ x” e la classe universale viene
definita come la classe di quegli individui per cui valga la proposizione “x
= x”.
Analizzando le precedenti definizioni con l’ideografia di Peano se ne può misurare facilmente la loro assurdità.
Per quanto riguarda la
classe universale: usando il precedentemente introdotto simbolo per la
formazione di classi a partire dalle proposizioni, si ha “'x (x
= x)”
e per la decomposizione di “ = ” : “'x Îx ι x” che, per la proprietà già menzionata dell’operatore 'x Îx , si riduce semplicemente a “ι x”. Per cui la classe universale si riduce a quella che
abbiamo chiamato l’idea di “ x” che, in ogni caso, è una
classe con un solo individuo.
Ma, essendo “ x” un simbolo generico senza
significato definito, si conclude che la classe
universale è la proprietà di nessun individuo determinato e quindi la proprietà assurda.
Allo stesso modo, per l’insieme vuoto si ha: “'x (x
¹ x)”
e quindi “'x Îx ~ ι x” e, alla fine, ~ ι x ; in conclusione: la proprietà complementare delle cose
che non hanno significato e quindi, se volessimo insistere sull’interpretazione
estensionale, la proprietà di tutte le cose che significano qualcosa; per cui
l’insieme “vuoto” viene ad essere “pieno” zeppo!
E si potrebbe continuare,
con divertimento, a volontà!
Nella formulazione di Peano,
tali assurdità non possono mai presentarsi; infatti: non ha senso scrivere “ x Î x” (come in molte altre
rinomate assiomatizzazioni si scrive!)
ma solo “ x Î áx” o “ x Î ι x” qualunque cosa sia “x”,
in particolare anche “C”.
Per cui, al massimo,
potremmo ottenere solo le banali asserzioni “C É C” o “C = C” che sono,
ovviamente, sempre vere e ci dicono: nel primo caso che la classe è una sottoclasse del termine classe o, in altre parole, che il termine classe è un membro della
comprensione del concetto di classe; come, d’altra parte, vale per qualsiasi
altro termine!
Nel secondo caso avremo che
la classe è identica alla classe o, in altre, parole che il
termine classe è un membro del concetto di classe.
Tutte queste frasi sono modi
più precisi, anche se inutili e banali, di enunciare l’ambigua affermazione del
linguaggio comune che una classe è una classe!
Come sempre, i paradossi
derivano da una ben povera teoria! Ma la gente sembra deliziarsi con i
paradossi e ne va costantemente alla ricerca in ogni campo della SCIENZA
(naturalmente di quella scritta a caratteri maiuscoli!).
***
La confusione
epistemologica, a nostro giudizio, può essere portata avanti solo per un
profondo malinteso sul ruolo della matematica nella scienza.
C’è, intanto, un’importante
distinzione che bisogna fare entro le scienze particolari a cui la logica si
applica, distinguendo tra quelle formali,
come la matematica, quando si astrae da qualunque applicazione concreta, e
quelle empiriche in cui la matematica
è nient’altro che il mezzo per organizzare ogni discorso.
Nel primo caso si ha
solamente una struttura formale non interpretata. Nel secondo caso, oltre alla
prima, che spesso si dice la teoria, si
ha anche tutta una serie di affermazioni riguardanti i dati empirici, cioè esperimenti,
osservazioni empiriche, e loro
risultati fattuali, i cui termini sono dotati di significato non formale,
ma operazionale.
Il collegamento tra le due
parti del linguaggio viene operato mediante un processo di interpretazione di natura solamente e, necessariamente, metafisica
(cioè non dimostrabile formalmente,
nè verificabile empiricamente) che
consiste nello stabilire opportune relazioni tra termini definiti operazionalmente e termimui definiti teoricamente.
Solo allora i teoremi
dedotti dalle ipotesi teoriche potranno essere falsificati empiricamente se, per di più, si stabilisce un limite
di accettabilità, tenuto conto che, in ogni esperimento reale, siamo costretti
a un processo di idealizzazione per
cui, solo statisticamente, si possono
trarne conclusioni intorno all’accordo tra teoria ed esperimento.23
Gli stessi termini operazionalmente definiti presuppongono
elementi teorici, anche se non formalizzati, provenienti dal, generalmente
inconscio, processo di concretizzazione o
ipostatizzazione degli enti astratti (cioè che sono stati “astratti” dal caotico mondo delle
sensazioni).
A maggior ragione, gli
assiomi della teoria (che, ovviamente, non sono direttamente collegati ai
termini del linguaggio empirico) sono astrazioni;
ma, in questo caso, è più opportuno dire idealizzazioni, intendendo con quest’ultimo termine il processo per
cui, da determinate proprietà precedentemente astratte dal mondo sensibile
(anche se nei contesti i più disparati), a partire dalla ripetuta applicazione
dell’operazione tra proprietà che abbiamo indicato con , si generano altre
proprietà che definiscono una nuova idea generale, che non fa parte delle cose osservabili.
Un esempio si ha in
meccanica classica dove si definisce il concetto di punto materiale, mediante le proprietà astratte di essere senza
dimensioni fisiche e, tuttavia, dotato di massa. Dopodichè si attribuisce agli
individui di tale classe astratta anche la proprietà dell’esistenza; quindi concretizzandola.24
Dal momento che i termini
della teoria rappresentano idealizzazioni e che, quindi, gli individui sono
definiti a partire dalle proprietà, e non viceversa (anche gli enti, cosiddetti,
sensibili sono, anche se spesso inconsciamente, definiti per proprietà!), ne
consegue che tali termini, per parlare propriamente, non avrebbero un’estensione, se volessimo usare tale termine nell’accezione degli
empinisti, nella quale si mantiene l’illusione che vi siano oggetti che
“esistono” in quanto sensorialmente percepiti. Quando invece in realtà si
assume ipostaticamente che esistono realmente
proprio perché creati indipendentemente dai nostri sensi e cioè al di là
del caos sensoriale.
Ragione per cui, nel
linguaggio teorico, assumiamo (o, facciamo
la convenzione, come dice Peano) che l’estensione
coincida con l’intensione. Per
cui la classe si può far coincidere
con la proprietà che la definisce.
Ma se tale identificazione,
tra intensione ed estensione, va bene nel linguaggio
teorico di una scienza empirica, non va per niente bene in un linguaggio
puramente tassonomico.
Infatti, senza la
convenzione “ext a = a”, possiamo solo scrivere: “a É ext a” (ma non viceversa) e non
saremmo più autorizzati a generare tutta l’algebra della comprensione e, al massimo, potremmo pervenire a una struttura
formale meno forte (esattamente si perverrebbe a quello che i matematici
chiamano un reticolo non distributivo).
Per vederne la ragione,
esaminiamo la scoperta già attribuita ai Pitagorici (PR p. 131)25 che la stella
del mattino e la stella della sera sono
termini diversi per lo stesso oggetto.
Le proprietà che i due
termini descrivono sono diverse e non può sussistere nessuna relazione di
inclusione tra di esse.
Empiricamente niente potremo
dire su una loro eventuale relazione; al massimo potremmo osservare determinate
correlazioni tra certe particolari osservazioni.
L’asserzione della loro
equivalenza estensionale può derivare solo da una teoria fisica sulla
costituzione del sistema solare che creerebbe un altro concetto (di ancora
diversa intensione): il pianeta Venere.
A questo punto, non saremmo
in grado di stabilire nessuna relazione di inclusione tra le tre proprietà
diverse. Avremo bisogno di tutta una, piuttosto complessa, teoria che leghi il
moto dei pianeti alle nostre osservazioni empiriche; e, quindi (come minimo) di
una qualche teoria della luce.
L’algebra di Boole di questo
sistema teorico sarebbe davvero troppo vasta. Ma senza di questa non potremmo
scrivere nessuna relazione logica fra le tre proprietà.
Ma, naturalmente, la scienza
teorica procede per altre vie. Cioè introducendo altre relazioni oltre a quelle
puramente logiche e che, invece, sono specifiche delle varie scienze
particolari (mediante le cosiddette definizioni
per astrazione — vedi PF).
Da ciò risulta chiaro che il
mito empirista è assolutamente vacuo.
Così come lo è quello del
razionalismo estremo; il quale viene derivato dal primo mediante l’illusione
di poter trovare una regoletta universale che spiega tutto anche a costo di
partire da strutture meno forti (come in meccanica quantistica) dell’algebra
della comprensione e che si limitino a rispondere solo sul risultato di possibili
misure.
Da questa osservazione, la
fisica moderna, dentro il paradigma della meccanica quantistica, conclude che
bisogna rinunciare a costruire l’algebra di Boole, accontentandosi di un
reticolo non distributivo; al quale, arbitrariamente, si attribuisce la
proprietà di modularità debole. Ciò
semplicemente allo scopo di salvare il mito empirista.
Ma se si rinuncia alla
SCIENZA UNIVERSALE, si possono ben spiegare le nostre osservazioni empiriche
con “modelli” parziali
nell’estensione ma strutturalmente completi.
Solo allora è possibile e,
anzi, necessario identificare l’intensione di un concetto con la sua
estensione, se si vuole “dedurre” qualcosa.
Ma ciò, certamente, non
potrà essere possibile nella matematica, quando la si voglia considerare come
un puro gioco astratto di simboli, nel qual caso, parlare di estensione non
avrebbe molto senso, potendosi essa riformulare in modo da non nominare
assolutamente gli individui.
Ma, piuttosto, nella “teoria” delle scienze empiriche.
Vedremo che questa era la
filosofia degli antichi scienziati che vengono qualificati come Italici.
Il linguaggio scientifico dei preso cratici.
Essere e Non-essere.
L’intreccio tra le due
contrastanti metafisiche di cui alla sezione precedente è molto antico.
P.es., Diogene Laerzio nel
Proemio alle sue Vite dei Filosofi divide
i filosofi antichi in due principali tradizioni: la Ionica che fa capo a Talete e l’Italica
originatasi da Pitagora.
Non sembra che il criterio
di classificazione di Diogeime fosse geografico in quanto molti tra gli Ionici
non erano della Ionia, nè tutti gli Italici erano dell’Italia. Tale
ripartizione è molto antica e si fa risalire a Sozione.
Infatti tra gli Ionici
oltre, ovviamente, a Talete, Anassimandro, Anassimene e Anassagora, vengono
annoverati anche Socrate, Platone e Aristotele. E tra gli Italici troviamo
oltre a Pitagora, Empedocle, Archita, Filolao, Parmenide e Zenone, anche
Eudosso, Senofane, Leucippo, Democrito, Protagora ed Epicuro.
È probabile che la
bipartizione avesse a che fare, invece, con il differente dogma centrale che
ognuna delle due tradizioni assumeva. Esso si riferiva alle due possibili
alternative per l’interpretazione del termine realtà.
Nella tradizione ionica la
realtà inizialmente viene, sostanzialmente, identificata con il dato dei sensi;
la conoscenza della realtà quindi è data immediatamente e la ragione umana può
solo limitarsi a classificare le sue esperienze, la matematica non è adatta per
la comprensione della complessità del reale come concluderà Aristotele (Metaf. 995a 15-20): “Nè, d’altra parte, si deve pretendere l’uso
di un esatto linguaggio matematico indistintamente in ogni settore di ricerca,
ma soltanto nel caso che si studino enti immateriali. Perciò un tale modo di
esprimersi non si addice all’indagine sulla natura, giacché ogni ente naturale
non è certanmente privo di materia.”
Nella tradizione italica,
viceversa, il dato sensoriale è solo apparenza;
la realtà in quanto essenza è una
ricostruzione razionale accessibile solo mediante lo strumento matematico.
L’imperativo per ogni
scienza era stato posto da Solone: “Testimonia
le cose invisibili con quelle visibili.”
Come possiamo interpretare
questa esortazione?
Dato per scontato che le “le cose visibili”, cioè le sensazioni,
sono il dato di partenza di qualunque processo conoscitivo, non possiamo
fermarci ad esse se vogliamo fare scienza.
Le sensazioni sono
semplicemente Caos. Fare scienza
significa, quanto meno, dare un ordine alle sensazioni, farne un Cosmos.
Non si può nemmeno
riflettere sulle sensazioni senza individuarne alcune, che abbiano un certo
grado di stabilità, dando un nome ad
esse. Ma questo è solo il principio della scienza.
La scienza deve anche essere
in grado di spiegare per essere in grado di prevedere, quindi bisogna cercare “le cose invisibili”, cioè le
connessioni intime tra le cose visibili.
È da queste che bisogna
partire, non dai sensi.
Ma queste connessioni non
possono essere arbitrarie, devono essere “testimoniate”,
cioè verificate dai nostri sensi.
Quindi le sensazioni sono il
punto di arrivo della scienza non il punto di partenza, al contrario di quello
che pensano Aristotele e Mach (per citare alcuni dei più illustri empiristi).
Ma come son fatte le cose
invisibili?
Somigliano, forse, all’aria dello “Ionico” Anassimene, che secondo quanto riferisce Ippolito (PR p.
109): “quand’è tutta uniforme, sfugge
alla vista, mentre si mostra col freddo e col caldo, con l’umido e il
movimento. E si muove sempre perché, se non si muovesse, tutto quel che si
trasforma non si trasformerebbe… Sicché i contrari fondamentali per la
generazione sono il caldo e il freddo” ?
O non somigliano, piuttosto,
alla monade dell’“Italico” Pitagora;
che, secondo quanto riferisce Diogene Laerzio (DL VIII, 25)26: “è principio
di tutte le cose; dalla monade nasce la diade infinita, che sottosta come
materia alla monade che è causa; dalla monade e dalla diade infinita nascono i
numeri; dai numeri i punti; da questi le linee, da cui le figure piane; dalle
figure piane le figure solide; da queste i corpi sensibili, i cui elementi sono quattro: fuoco, acqua, terra,
aria che mutano e si volgono per il tutto, e da questo risulta il cosmo
animato, intelligente, rotondo, che contiene al centro la terra anch’essa
rotonda e abitata” ?
La contrapposizione è netta.
Gli Ionici, seguono una tradizione molto antica che si può far risalire alle
prime civiltà neolitiche. Essa sfocerà in quelle che oggi vengono matematizzate
sotto il nome di teorie di campo.
Infatti Aristotele dice (PR
p. 89): “ritennero che i soli principi di tutte le cose fossero di
specie materiale, perché ciò da cui tutte le cose hanno l’essere, da cui
originariamente derivano e in
cui alla fine si risolvono, pur rimanendo la sostanza ma cambiando nelle sue
qualità, questo essi dicono che è l’elemento, questo il principio delle cose e
perciò ritengono che niente si produce e niente si distrugge, poiché una
sostanza siffatta si conserva sempre… Talete, il fondatore di tale forma di
filosofia, dice che è l’acqua.” E Simplicio (PR p. 90) aggiunge che Talete
era spinto “a tale conclusione dall’esame
sensoriale dei fenomeni.”
Quindi per gli Ionici la realtà non è altro che una determinata materia sensibile che, in qualche modo trasformandosi, dà origine al mondo.
Ma tuttavia,
dialetticamente, tra i primi Ionici si ammetteva ancora un principio unitario
allo stesso modo degli Italici. Infatti Simplicio (PR p. 90) dice: “Altri supposero un elemento solo e questo dissero illimite per grandezza, come
Talete a proposito dell’acqua.” Ed Aezio (PR p. 90): “Talete ed i suoi discepoli
dicevano che uno è il cosmo.” E c’è anche il tentativo da parte di
Anassimandro di pensare il principio come indeterminato fisicamente,
introducendo il termine di infinito; ma
secondo Aristotele (PR p. 100) “è chiaro
che l’infinito è causa come materia, che la sua essenza è privazione e che il sostrato in sé è ciò che è continuo e sensibile. E tutti gli
altri [pensatori], si vede chiaramente, utilizzano l’infinito come materia.” Simplicio (PR p. 109)
precisa che “Bisogna sapere che altro è l’infinito e il limitato quanto al numero, il che è proprio di
coloro che ammettono molteplicità di princìpi, altro l’infinito e il limitato
quanto a grandezza, il che ... conviene
ad Anassimandro e ad Anassimene, i quali ammettono sì un unico
elemento, ma infinito per grandezza.” Ma nello stesso tempo parlano,
secondo Teofrasto (PR p. 109), di rarefazione
e condensazione.
Questo è un punto che sarà
soggetto alla critica che muovono gli Italici, come vedremo.
Questi, come già detto,
seguono la tradizione pitagorica che vuole spiegare le cose del mondo non
ricorrendo ai dati sensibili (i quali necessitano di spiegazione essi stessi)
ma all’aritmetica e alla geometria.
Proclo (PR p. 118) ci fa
sapere che “dopo Talete si ricorda come
studioso della geometria Mamerco, fratello del poeta Stesicoro [della città siciliota di Imera] e dopo costoro si dedicò allo studio della
geometria e le diede forma di educazione liberale Pitagora, ricercandone i principi primi e investigandone i
teoremi concettualmente e teoreticamente: per primo egli trattò poi
dell’irrazionale e trovò la struttura delle figure cosmiche.”
Ma anche qui c’è un elemento
dialettico, se dobbiamo credere a Diogene Laerzio, il quale, parlando di
Pitagora (DL VIII, 14), dice che fu “il
primo ad introdurre in Grecia misure e
pesi, come dice Aristosseno.”
Il discorso dei Pitagorici è molto più astratto e di più difficile
comprensione di quello degli Ionici, specialmente per chi non ha confidenza con
la matematica e soprattutto con le applicazioni di essa al mondo fisico. I
travisamenti di Aristotele ne sono l’esempio più lampante.
Ma già, all’interno stesso
della tradizione pitagorica, avviene una profonda divisione (PR p. 124) tra esoterici (o matematici, o
Pitagorici) da una parte ed essoterici (o acusmatici, o Pitagoristi) dall’altra;
che in seguito si trasformerà anche in una contrapposizione politica (se pur
non sia stato esattamnente il contrario e cioè che la contrapposizione
ideologica fosse il risultato di quella politica!)27
Vediamo di interpretare le
parole, sopra riportate, con le quali Diogene Laerzio descrive la filosofia di
Pitagora.
Facciamo l’ipotesi che si
abbia:
monade = ι
uno
che, nel linguaggio comune, viene espressa
con: la monade è l’uno; ma che più
precisamente si dovrebbe esprimere con: la
monade è identica al concetto di uno, se interpretiamo uno come una proprietà che diversi individui possono possedere o,
invece, (secondo la distinzione terminologica che abbiamo, a suo tempo,
introdotta): la monade è identica
all’idea di Uno, se, al contrario, pensassimo che Uno sia il nome proprio di qualche individuo esistente, magari nel
mondo iperuraneo. La nostra ideografia non è in grado di distinguere tra le due
possibili interpretazioni che corrispondono a due diverse metafisiche. Ma dal
momento che la proprietà uno si dice
di ogni individuo, vale la prima interpretazione e, se Uno esiste, ovviamente Uno ¹ uno e
non serve ripetere il ritornello di Aristotele, che uno si dice in molti sensi, se si vogliono evitare le
contraddizioni.
Del resto, questa era la
polemica che gli Eleati portavano avanti contro i rozzi predecessori di
Aristotele.
Notiamo, tuttavia, che si
può porre, senza inconvenienti Uno . =
. ι uno;
ma, in tal caso, bisognerà scrivere “Uno . = . monade” e “monade Î Monade”, con la conseguenza che ci sarebbero infiniti mondi iperuranei.
Ma, naturalmente, in ogni
caso si avrà:
uno Î monade ,
cioè: uno
è una monade che, senza la distinzione logica che abbiamo chiarito, sembra
che dica la stessa cosa di: la monade
è l’uno.
I dossografi non sono in
grado di afferrare la differenza tra individuo ed elemento (tra άτομον e μονάς)
per cui riportano (vedi PR p. 489): “Archita
e Filolao chiamano indifferentemente l’uno anche monade e la monade uno.”
Molto probabilmente, invece,
i due Pitagorici menzionati volevano mettere in evidenza la diversità formale
tra la proprietà e l’elemento che ne è il suo concetto.
Ma i dossografi sono ormai
sotto la cappa del vocabolario antiscientifico creato da Aristotele il quale,
anche se in qualche modo aveva intuito la profonda differenza della semantica
pitagorica rispetto a quella degli Ionici, non riesce a liberarsi dal concreto
sensibile e dalla sua logica grammaticale; dice infatti nella Metafisica (PR p. 520): “I principi e gli elementi di cui si servono
i filosofi che sono detti Pitagorici, sono assai lontani da quelli dei
fisiologi. E la causa è in questo, che essi non li hanno presi dalle cose
sensibili; gli enti matematici infatti, se si eccettuano quelli che riguardano
l’astronomia, sono senza movimento.”
La concezione degli enti
matematici di Aristotele oggi appare infantile, se confrontata a quella dei
Pitagorici che andava criticando; per cui egli si sorprende che i Pitagorici li
potessero applicare all’indagine sulla natura ed allo studio delle cose percepibili. E si chiede stupefatto in
che senso si deve intendere che il numero e le proprietà dei numeri sono causa
delle cose che sono.
Per capire cosa mai i
Pitagorici intendevano dire, useremo le notazioni di Peano.
Indichiamo comì “ x”
un individuo che appunto è uno e indivisibile come l’ άτομον dei greci.
Con indivisibile dobbiamo
intendere l’oggetto pensato come indiviso, cioè in quanto individuo anche se, per altri aspetti, può essere divisibile
all’infinito.
Si pensi al termine “retta”: possiamo pensare la retta come
individuo indivisibile componente di uno spazio fatto di rette o come insieme
di punti e quindi divisibile all’infinito.
Nel linguaggio formale
bisognerà usare due simboli diversi per i due concetti se, nel contesto in cui
se ne parla, servono entrambi: se “P” è la
proprietà “punto”, “ áP ” sarà
la comprensione di “P” e cioè la proprietà “insieme di punti”. Cioè: “P . = . punto” e “ áP .
= .
insieme di punti”.
Supponiamo che “R . = . retta”. Sarebbe errato scrivere: “R É P” in quanto si avrebbe per sillogismo (nella sua forma singolare) “x
Î R . É . x Î P”, cioè, se “ x” è una retta
allora “x” è un punto.
Bensì, dobbiamo scrivere: “R É áP”, che
dà origine a: “x Î R . É . x Î áP”
(ovvero: “x Î R . É . x É P”), cioè se “x” è una retta allora x è un insieme di punti.
Ma, nello stesso tempo,
avremo: “ι x Î áR . É . ι
x Î ááP” cioè,
“ι x” è il concetto di una data retta “x”; “x”, invece, è una
tra le proprietà possibili degli insiemi di punti, cioè della comprensione del concetto insieme di punti, e, a sua volta, il
concetto insieme di punti è la comprensione del concetto punto.
Nel linguaggio ordinario,
con il termine “retta” si intendono
entrambe le cose e non si possono evitare le contraddizioni.
Allo stesso modo, se
scriviamo: x Î monade avremo x = uno;
ma se scriviamo: ι x
Î monade
(monade=elemento=concetto di essere uno), dobbiamo intendere ι x . = . uno e quindi: x Î ι x . = . x Î uno e, ancora: x = x . = . x Î uno. Cioè, se qualcosa è una monade essa è l’uno e, invece, quella
cosa di cui predichiamo che è una, è sempre uguale a se stessa e viceversa.
Di nessun concetto (o idea) noi possiamo predicare che non è uno;
perché arriveremmo alla conclusione assurda che “x ¹ x”. Quindi se qualcosa è un concetto
o un’idea, allora è una.
Ma, dal momento che la vera
realtà, l’essenza delle cose tutte, sono i concetti, allora se qualcosa “è” allora
essa è una. E, allo stesso tempo, “uno” sarà
molti, anzi infinito, essendo che infiniti sono gli individui dell’estensione
del suo concetto. Asserzione che verrà, poi, ribadita dagli Eleati.
Tale asserzione esprime il
fatto ovvio che qualsiasi idea o concetto è uno, financo il concetto di pluralità.
E, viceversa, qualsiasi proprietà che non sia un’idea singolare è molti, come
la stessa proprietà di essere uno.
Abbiamo convenuto che uno è una proprietà, infatti, non esiste
alcun individuo di cui “Uno” sia il nome proprio.
Ma una volta che ci siamo
formati il concetto di uno, per
contrapposizione logica, acquistiamo anche il concetto di non-uno, che può essere o semplice molteplicità, cioè numero, o
l’infinito cioè il non numerabile (nel senso che non è possibile assegnargli un
numero —ne viene che i numeri
interi, essendo infiniti, non sono numerabili; contrariamente alla definizione
odierna, originatasi dalle ipotesi di Cantor) ottenendo così la “diade”, cioè la coppia (uno;non-uno) che perciò viene detta “infinita” dai Pitagorici, in quanto
ogni cosa è uno o non-uno.
Quindi la “diade” non è l’idea di due.
Tuttavia gli individui della
diade sono due; ma tali due individui sono proprietà complementari delle cose
tutte.
Lo stesso vale per qualsiasi
altra proprietà. In altre parole, tutte le volte che introduciamo una nuova
proprietà, se essa non è la proprietà
assurda (il non-essere) o la proprietà banale (l’essere), allora
esisteranno individui che hanno la proprietà complementare. Quindi tutto il
mondo viene generato (logicamente) dalle
coppie di contrari di cui i Pitagorici ne fanno un lungo elenco a scopo
esemplificativo.
Ma non tutte le proprietà
sono attribuibili all’uno in quanto individuo della monade perchè molte altre
proprietà sono attribuibili solo agli individui che hanno la proprietà di
essere uno o non-uno, che sono tutti gli individui del mondo (fisico o logico
che esso sia).
Ma se limitiamo il campo di ricerca, identificando la diade
con la totalità delle cose che sono nello spazio (la monade coinciderà, in
questo caso, con il concetto di punto), avremmo:
diade
=(punto;non-punto) e gli individui elementari sarebbero solo gli indivisibili punti.
Con ciò abbiamo creato
un’altra diade di enti contrapposti e cioè la contrapposizione concreto-astratto; per cui l’individuo, in quanto pensato come
essere concreto, “sottostà come materia
alla monade che è causa” ovvero elemento,
(o anche: principio, forma, idea,
essenza, sostanza, ecc, che sono gli svariati termini con i quali, nel
fluire dell’entropia durante il corso dei secoli, si è tradotto il termine
greco αιτία o
gli altri termini con i quali Aristotele crede di spiegare il predetto
termine).
Che questa nostra
interpretazione possa essere la più corretta (necessità logica a parte) viene
confermato da certe parole dello stesso Aristotele, là dove dice (PR p.
512-13): “Al tempo di costoro [Leucippo e
Democrito], si dedicarono alle matematiche e per primi le fecero progredire quelli che
son detti Pitagorici. Questi, dediti a tale studio, credetterro che i principi delle matematiche
fossero anche principi di tutte le cose che sono [notiamo che i princìpi
delle matematiche sono princìpi “logici”].
Or poiché principi delle matematiche sono i numeri [questa ci sembra una
personale opinione di Aristotele; infatti, per i Pitagorici non c’è differenza
fra numeri e rapporti tra grandezze; e tutte le cose del mondo hanno grandezze
fisiche; e solo mediante queste le descriviamo! infatti i Pitagorici:] vedevano espresse dai numeri [perfino] le
proprietà e i rapporti degli accordi armonici ... hanno pensato che due sono le cause i Pitagorici, ma essi hanno in più
pensato, e in questo è la loro singolarità, che il
limitato e l’infinito e l’uno non siano attributi degli
altri enti, come il fuoco e
la terra e qualunque altra cosa
simile a questi, ma che lo stesso illimitato e lo
stesso uno siano la sostanza delle cose che da essi sono predicate [infatti
fuoco Î uno uno Î predicato
= essenza = causa = elemento = sostanza = ...] ... di numeri compongono l’intero cielo; ma non di numeri formati da unità
senza grandezza, ché essi attribuiscono grandezza alle unità. ... Dicendo che sostanza è
l’unità, e non la cosa di cui si dice che è una,
Platone è d’accordo coi Pitagorici; e ancora
s’accorda con essi quando dice che i numeri sono causa dell’essere delle altre cose [cioè sono proprietà delle
cose che sono]. Suo proprio è invece
l’aver sostituito la diade all’infinito concepito come uno, e aver creduto che
l’infinito consti del grande e
del piccolo [infatti, per i
Pitagorici, l’infinito è qualunque cosa sia diverso dal niente, dall’uno e dal
molti, indipendentemente dal fatto che sia grande o piccolo, i punti di un
granellino di sabbia sono infiniti come quelli dell’intero universo fisico]. Inoltre egli pose i numeri fuori delle cose
percepibili, mentre essi dicono che le cose stesse sono numeri [infatti, p.
es., gli occhi dell’uomo “sono” 2 e
gli occhi sono cose!
Se ne diamo un’altra interpretazione, bisognerà pensare che i Pitagorici
fossero dei deficienti! ma questo proprio non sembra!], e non pongono nel mezzo gli enti matematici [da Platone
indebitamente ipostatizzati!]. Questo, il
porre, diversamente da quanto fanno i Pitagorici, l’uno e i numeri fuori delle
cose, e introdurre le specie egli potè fare perchè
nella ricerca si serviva della dialettica, che i filosofi precedenti non
conoscevano”.
Con il significato odierno
di dialettica diremmo che i filosofi precedenti erano dialettici, mentre
Platone era assolutamente adialettico, a meno che per dialettica non si intenda
la possibilità di asserire contemporaneamente due asserzioni contraddittorie,
come spesso viene intesa.
Ma come mai dai “numeri” nascono i “punti”?
Questo ce lo faremo spiegare
dal pitagorico Archita (PR p. 491): “S’io
mi trovassi all’estremità dello spazio, ad esempio nel cielo delle stelle
fisse, potrei tendere la mano o un bastoncino fuori di quella? o non potrei?”
Se consideriamo come unità
di misura il bastoncino (o la mano, in tal caso parleremmo di un “palmo”), con
l’esempio di Archita avremmo generato la serie dei numeri interi e al limite l’infinito. La domanda di
Archita non è altro che un modo di enunciare il principio di induzione
matematica così come formalizzato da Peano. Ma il bastoncino lo possiamo
dividere in sottomultipli sempre più piccoli e al limite, otterremmo i “punti”.
È divertente, a questo
proposito, osservare l’incapacità di Aristotele di pensare i numeri come
riferibili alle grandezze fisiche; al più, ed ovviamente sbagliando, identifica
l’unità con il punto (PR p. 516): “Anche
i Pitagorici pensano che il numero sia d’un modo solo, e cioè [numero]
matematico ...Di numeri infatti
compongono l’intero cielo; ma non di numeri senza grandezza, ché essi
attribuiscono grandezza alle unità” e più oltre, avendo stabilito, invece,
che almeno le unità non possono avere grandezza essendo indivisibili (non si
capisce perchè!), si chiede attonito: “com’è
possibile che una grandezza sia composta da indivisibili? E tuttavia il numero
è formato da unità. Essi invece dicono che il numero è le cose che sono, o
almeno applicano i loro teoremi ai corpi, come se i numeri fossero corpi”.
Ma per Pitagora di punti si compongono le “linee” e di queste le “figure piane” e di queste, a loro
volta, le “figure solide”.
Ed in che altro modo
potremmo descrivere i “corpi sensibili” se non con questi
strumenti matematici?
Forse che “fuoco, acqua, terra, aria” non sono
corpi sensibili?
E tuttavia essi assumono
forme geometriche ed hanno grandezza!
Basterà aggiungere il
movimento per ottenere il “cosmo animato
e intelligente”. Intelligente perché concepito dalla nostra intelligenza.
Tale filosofia è stata in
seguito praticata da Democrito e da Archimede ed è stata esplicitamente
enunciata da Galileo asserendo che la natura è un libro aperto ma che i suoi
caratteri sono figure geometriche.
Ma ecco il concetto
centrale: il “cosmo animato” creato
dall’intelligenza, la quale si contrappone al caos informe delle sensazioni.
Il concetto di ordine è
fondamentale per il cosmo; nella lingua greca i due concetti hanno lo stesso
nome. Aezio (PR p. 131) dice: “Pitagora
fu il primo a chiamare cosmo la sfera delle cose tutte, per l’ordine che esiste
in essa.”
È molto probabile che il
concetto di ordine derivasse da quello di legge
scritta che dalla sfera sociale veniva estesa alla sfera naturale. Nella Storia del mondo antico della Cambridge
University Press, lo storico P.N. Ure, in relazione al fatto che le prime
legislazioni scritte nel mondo di lingua greca si devono ai legislatori
pitagorici Zeleuco di Locri e Caronda di Catania, scrive: “Nelle comunità di fondazione relativamente recente della Magna Grecia
e della Sicilia le costumanze inveterate erano indubbiamente considerate meno
sacrosante che nella madrepatria, circostanza che può spiegare il ruolo
eminente che queste regioni ebbero nel mutamento importantissimo rappresentato
dall’introduzione di codici scritti.”
Che le cose nella mente di
Pitagora fossero legate assieme è testimoniato da Diogene Laerzio il quale
riferisce che egli scrisse tre libri: Dell’educazione,
Del governo delle città, Della natura.
Ma questo della natura non è
un ordine statico in quanto il cosmo è animato, cioè dotato di movimento.
Questa semplice idea rende logicamente impossibile la concezione del mondo
propria degli Ionici la quale, a sentire Teofrasto (PR p. 138), fu anche
ripresa dall’ex pitagorico Ippaso (il quale sembra che abbia organizzato una
rivolta politica all’interno delle città rette dai Pitagorici): “Anche Ippaso di Metaponto ed Eraclito di
Efeso dissero che l’uno è mosso e limitato, ma pensarono come fuoco il
principio, e dissero che dal fuoco nascono le cose per condensazione e per
rarefazione, e che in esso poi le cose si dissolvono, perché questa sola è per
essi la natura che fa da sostrato.”
Ma per capire come tale
assunzione sia in assoluto contrasto con le teorie pitagoriche bisognerà
seguire la linea consequenziale del pensiero degli Italici emergente dal poema Sulla Natura scritto da Parmenide (PR p.
271):
“Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole,
quali vie di ricerca sono le sole pensabili:
l’una dice che è e che non è possibile che non sia,
è il sentiero della Persuasione (giacchè questa tien dietro alla
Verità);
l’altra dice che non è e che non è possibile che non sia,
questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile:
perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile),
né lo puoi esprimere.”
Prima di riportare questi
versi Sesto Empirico premette: (PR p. 268) “Il
suo [di Senofane] discepolo Parmenide condannò il discorso di opinione, cioè
quello costituito di rappresentazioni non salde, e pose come criterio il
discorso scientifico, cioè quello che non può essere rovesciato, rifiutando
ogni credibilità alle sensazioni.” E Simplicio (PR p. 269) dice: “Questi uomini posero una duplice ipostasi:
l’una ciò che realmente è, l’intelligibile; l’altra ciò che diviene, il
sensibile, che non credettero di chiamare essere assoluto, ma essere apparente.
Ragione per cui dicono che dell’essere c’è verità di ciò che diviene opinione.”
Mettiamo le affermazioni di
Parmenide in simboli: Nella via della Persuasione e della Verità (oggi diremmo
della Logica) se asseriamo “ $a” dobbiamo
asserire necessariamente “a ¹ Ù” ; e non possiamo asserire “
~$a” e
nello stesso tempo “a ¹ Ù”.
Se, d’altra parte, astraiamo
da qualsiasi proprietà “a”, come in
seguito penserà di poter fare Aristotele introducendo il suo multiforme e
perciò ambiguo concetto di ούσία
, ci ridurremmo alla “proprietà
banale” posseduta da tutte le cose e alla sua complementare, la “proprietà assurda” che nessuna cosa
(nemmeno puramente ideale) può possedere, come si è visto nelle sezioni
precedenti.
Ed infatti il poema
parmenideo continua:
“Bisogna che il dire e il pensare sia l’essere: è dato infatti essere,
mentre nulla non è; che è quanto ti ho costretto ad ammettere.
Da questa prima via di ricerca infatti ti allontano,
eppoi inoltre da quella per la quale mortali che nulla sanno
vanno errando, gente dalla doppia testa. Perchè è l’incapacità che nel
loro
petto dirige l’errante mente; ed essi vengono trascinati
insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi,
da cui l’essere e il non essere sono ritenuti identici
e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino.”
Quindi per Parmenide la
descrizione (“il dire e il pensare”) della
realtà coincide con la realtà stessa (“l’essere”);
il resto è “nulla”; cioè,
1’ingannevole effetto di sensazioni informi (prive di alcuna individuabile
proprietà):
“Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero
né l’abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa lungo
questa via,
a usar l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba di suoni illusori
e la lingua, ma giudica col raziocinio la pugnace disamina che io ti
espongo. ...”
L’essere, in quanto tale, è
un ente della logica, cioè del nostro modo di esprimerci e pertanto non ha
senso dire che ha un’origine o una fine; esso
“Essendo ingenerato é anche imperituro,
tutto intero, unico, immobile
senza fine.
Non mai era né sarà, perché è ora tutt’insieme,
uno, continuo. Difatti quale
origine gli vuoi cercare?
Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò né
di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare
ciò che non è. E quand’anche, quale necessità può avere spinto
lui, che comincia dal nulla, a nascere dopo o prima?
Di modo che è necessario o che sia del tutto o che non sia per nulla.
Giammai poi la forza della convinzione verace concederà che dall’essere
alcunché altro da lui nasca. Perciò né nascere
né perire gli ha permesso la giustizia disciogliendo i leganmi,
ma lo tien fermo. La cosa va giudicata in questi termini;
è o non è. Si è giudicato dunque, come di necessità,
di lasciare andare l’una delle due vie
come impensabile e inesprimibile (infatti non è la via vera)
e che l’altra invece esiste ed è la via reale.
L’essere come potrebbe esistere nel futuro?
In che modo mai sarebbe venuto all’esistenza?
Se fosse venuto all’esistenza non è e neppure se è per essere nel
futuro.
In tal modo il nascere è spento e non c’è traccia del perire.
Neppure è divisibile, perchè è tutto quanto uguale.
Né vi è in alcuna parte un più di essere che possa impedirne la
contiguità,
né un di meno, ma è tutto pieno di essere.
Per cui è tutto contiguo: difatti l’essere è a contatto con l’essere.”
Ne consegue che parlare di
un principio materiale, unico, limitato ed in continuo movimento, con
condensazioni e rarefazioni, come fanno Eraclito ed il Pitagorista Ippaso (i
fisici, oggi, chiamerebbero la concezione del mondo di costoro una Teoria di Campo) è un’assurdità, perchè
l’essere se è essere non può che essere limitato, immobile, omogeneo, isotropo
e senza tempo. Tali proprietà si possono solo attribuire ad un insieme di punti
indifferenziato; solo quando ne considerassimo anche la proprietà della
estensione fisica diventerebbe lo spazio assoluto di Newton, che poi è lo
spazio come modellato dalla geometria.
Infatti l’essere è
“... immobile ... senza conoscere né principio né fine ...
E rimanendo identico nell’identico stato,
sta in sé stesso ...”.
In quanto l’essere è un
costrutto logico non ha senso il dire che è illimitato, altrimenti sarebbe “incompiuto” e “manchevole”; la qual cosa è impossibile perché non esistono punti
che non siano punti dell’essere: “... infatti la dominatrice Necessità lo tiene nelle strettoie del linmite
che tutto intorno lo cinge ...”.
Per introdurre il concetto di spazio illimitato abbiamo bisogno di introdurre altre proprietà oltre a quella primordiale di essere, come già detto.
Senza di queste
“saranno tutte soltanto parole ... nascere e perire, essere e non essere, cambiamento di luogo e mutazione del
brillante colore.”
In assenza di altre proprietà non c’è niente che possa cambiare nella sola proprietà di essere. E l’essere
“è compiuto da ogni lato, simile alla massa di ben rotonda sfera ... che egli infatti non sia né un pò più grande né un pò più
debole qui o là è necessario ... né
c’è la possibilità che l’essere sia
dell’essere qui più, là meno, perché è
del tutto inviolabile.”.
A questo punto siamo costretti a osservare che se identifichiamo l’essere con la materia, esso non potrebbe muoversi senza vuoti frapposti, ma allora l’essere sarebbe e nello stesso tempo non sarebbe; sarebbe uno e, nello stesso tempo, molti. Ma ciò è contro la logica.
Aristotele crede di superare
la ferrea logica di Parmemmide opponendo che l’essere si dice in molti sensi.
Ed è vero! Ma è proprio questo che Parmenide vuole superare! cioè l’ambiguità
ed i molteplici sensi delle parole della lingua comune, legata al sensibile e
non adatta per un discorso veramente scientifico.
Ma come, a partire dalla
logica di Parmenide, possiamo spiegare l’apparenza dei sensi?
“Con ciò interrompo il mio discorso degno di fede e i miei pensieri
intorno alla verità; da questo punto le opinioni dei mortali impara
a conoscere, ascoltando l’ingannevole andamento delle mie parole.
Perchè i mortali furono del parere di nominare due forme,
una delle quali non dovevano — e in questo sommo andati errati —;
ne contrapposero gli aspetti e vi applicarono note
reciprocamente distinte: da un lato il fuoco etereo
che è dolce e leggerissimo, del tutto identico a se stesso,
ma non identico all’altro, e inoltre anche l’altro [lo posero] per sé
con caratteristiche opposte, [come] notte senza luce, di aspetto denso
e pesante.
Quest’ordinamento cosmico, apparente come esso è, io te lo espongo
compiutamente,
cosicchè non mai assolutamente qualche opinione dei mortali potrà
superarti.”
A partire da questo punto,
solo pochi sconnessi frammenti ci rimangono della titanica opera parmenidea.
Non ci resta che continuare con la sua ferrea logica.
Per spiegare il mondo dei
sensi, quindi, dobbiamo introdurre altre proprietà
che non possono essere di natura logica come quella dell’essere. In
contrapposto al logico, porremo il materiale.
Allora, tra i punti
dell’essere ci saranno i punti materiali e
quelli non-materiali cioè i punti
dello spazio vuoto di materia; cioè,
il “vuoto”, il quale “esiste” alla stessa stregua della
materia. Perché sia i punti materiali che i punti privi di materia sono punti
dello spazio fisico che coinciderà
con l’essere se gli individui del
nostro campo di ricerca sono solo
essi.
“Queste cose, benché lontane, vedile col pensiero saldamente presenti:
non infatti distaccherai l’essere dalla sua connessione con l’essere
né quando sia disgregato in ogni senso completamente con cura sistematica
né quando sia ricomposto.”
Si intende nella sua reale
unità di essere pensato; anche se prima o dopo lo possiamo ripensare “completamente disgregato” come
costituito di punti materiali che si muovono nello spazio geometrico. E questo
è quello che concretamente ha fatto Archimede (vedi rifer. di cui a nota20).
Si può concludere che per
Parmenide una Teoria di Campo è logicamente autocontraddittoria ed è solo
possibile una Teoria di Particelle come sarà succesivamente precisata da
Leucippo e Democrito, i quali secondo Diogene Laerzio seguono, appunto, la
tradizione italica.
Ma prima di passare a questi
ultimi giganti, è bene seguire le conseguenze della critica parmenidea alle
concezioni dei fisici dell’opposta scuola di pensiero, come formalizzate dal
suo discepolo Zenone.
Atomi e vuoto.
Notiamo intanto che, con
l’impostazione che abbiamo esposto, cade qualunque divieto per l’uso della
matematica nella descrizione fisica della realtà, sia di tipo aristotelico che,
come abbiamo visto, relega la matematica allo studio di enti privi di materia e
privi di movimento; sia alla proibizione misticheggiante di tipo platonico.28
Anzi, per capire la realtà
fisica, in quanto sintesi di materia e movimento, dobbiamo indagare a fondo
sugli enti matematici, che per gli Italici, non sono avulsi dalla realtà ma
semplicemente astratti dalle impressioni sensoriali e che, anzi, costituiscono,
ormai, la realtà stessa. Per essi non avrebbe alcun senso una matematica chiusa
su se stessa che non si curi di sapere di quali enti concreti si occupi.
Per loro non c’è differenza
tra geometria e fisica. E non è vero che per essi gli assiomi della geometria
siano autoevidenti di per sé, come la maggior parte dei commentatori moderni
asserisce, attribuendo ai “Greci” il
modo di ragionare di Aristotele, ma sono semplicemente quelli che meglio si
adattano a fungere da mattoni per il sistema deduttivo. Per esempio, non serve,
in questa logica, negare l’assioma delle parallele per lo spazio fisico, perché
la sua asserzione è compatibile con tutte le osservazioni empiriche.
Diogene Laerzio attribuisce
a Zenone la dottrina che “Esiste un solo
mondo e il vuoto non esiste”; ma molto
probabilmente, nella distorsioime postaristotelica, Diogene confonde il mondo
con l’essere, cioè con la proprietà
banale (mentre per Zenone il mondo è l’essere materiale) e il vuoto con la
privazione di essere, cioè con la proprietà
assurda (mentre per Zenone il vuoto è l’essere privo di materia).
Infatti abbiamo visto che
per il suo maestro Parmenide l’essere non è materiale ma logico e solo in
questo senso è uno. Del resto questo viene riconosciuto anche dallo stesso
Aristotele (PR p. 256).29
Ed è la stessa rozza
filosofia di Antistene (di cui alla nota precedente) che impedisce ad
Aristotele e ai dossografi di capire gli argomenti di Zenone.
Con Zenone siamo meno
fortunati, in quanto i frammenti pervenutici sono pochissimi e le testimonianze
sono inaffidabili, data l’opposta metafisica dei commentatori.
Ma abbiamo visto che i
frammenti di Parmenide sono compatibili con la logica della matematica così
come formalizzata da Peano e, per coerenza, dobbiamo postulare che il discepolo
e difensore dell’opera del maestro usi la stessa logica e, quindi, dobbiamo
assumere che i suoi discorsi fossero costruiti per ridurre all’assurdo le tesi
degli antagonisti.
Esaminiamo prima le
conseguenze logiche dei postulati che abbiamo attribuito a Parmenide ed a
tutta la tradizione pitagorica.
L’“ente” in quanto essere sensibile, oltre
alla proprietà di “essere” (cioè di essere costituito dai punti dello
spazio delle cose che esistono fisicamente ovvero la materia e di essere costituito
dai punti dello spazio privi di materia, ovvero il vuoto) deve avere altre proprietà che lo rendono sensibile e cioè estensione fisica caratterizzata da
proprietà (massa, volume, forma, densità,
ecc.) che ne diversificano le diverse parti. A tali proprietà sono
associate delle grandezze che le
misurano.
Senza di queste l’ente non è niente (cioè ni-ente=non-ente); come, del resto,
testimonia Simplicio (PR p. 302-03) riportando un frammento di Zenone: “In questa argomentazione poi mostra che ciò
che non possiede né grandezza né spessore né massa alcuna neppure esiste. Dice:
Se infatti venisse aggiunto a un altro essere non lo renderebbe per
nulla maggiore. Difatti, non avendo esso grandezza alcuna, quando venga
aggiunto non é possibile che nulla aumenti in grandezza. E cosi senz’altro ciò
che venne aggiunto non sarebbe nulla. Se poi, quando venga sottratto non
diventerà per nulla minore, e neppure, d’altro canto, quando quello venga
aggiunto questo diventerà maggiore, è chiaro che non era nulla né ciò che venne
aggiunto né ciò che venne sottratto.
E questo Zenone non lo dice per negare l’uno, ma perché ognuno dei
molti e infiniti ha grandezza ...”.
E tale grandezza è
divisibile all’infinito (PR p. 303): “Se
esiste è necessario che ciascuna cosa abbia una certa grandezza e spessore e
che in essa una parte disti dall’altra. Lo stesso ragionamento vale anche della
parte che sta innanzi: anche questa infatti avrà grandezza e avrà una parte che
sta innanzi. Questo vale in un caso come in tutti i casi: nessuna infatti di
tali parti sarà l’ultima e non è possibile che non ci sia una parte a precedere
l’altra. Così, se [tali parti] sono molte, è necessario che esse siano piccole
[in grandezza] e grandi [in numero]: piccole fino a non avere grandezza, grandi
fino ad essere infinite [in numero]30.
La continuità dell’essere
(indipendentemente dal fatto che i singoli punti siano punti di essere solido e indivisibile o di essere fatto
di pori contigui,
come precisa l’italico Empedocle,31)
è, per Zenone, una necessità logica e non l’eventuale risultato di
un’impossibile osservazione empirica:
“Se gli enti sono molti é necessario che siano tanti quanti sono e non
più né di meno. Ma se sono tanti quanti sono saranno limitati.
Se gli enti sono molti sono infiniti: sempre infatti in mezzo agli enti
ve ne sono altri e in mezzo a questi di nuovo degli altri. E in tal modo gli
enti sono infiniti.”
O, in altre parole, se gli “enti” in quanto essere sensibile fossero numerabili
(“molti”)32 verrebbero
ad essere non numerabili. Quindi per
evitare contraddizioni logiche dobbiamo ammettere che anche l’essere sensibile è uno e continuo
nella sua essenza, anche se ci appare come costituito di parti che si
diversificano nelle varie proprietà che ne definiscono l’estensione fisica.
Se lo spazio fisico è quello
che, per via di pura logica, è stato delineato (che altro non è che lo spazio
newtoniano!) non ha senso parlare di “luogo”
che contiene le cose come in un vaso (secondo la similitudine
aristotelica).33
Infatti, Zenone dice (PR p.
304): “Ciò che si muove non si muove né in quel luogo in cui è, né in quello in cui non è”. In quanto sono le proprietà dei punti
dello spazio che si modificano, non nel senso che il singolo punto sia più o
meno denso di materia come nelle teorie di campo, che sono state dimostrate
logicamente contraddittorie da Parmenide; ma nel senso che nel corso del tempo
il singolo punto è dotato o meno della proprietà di essere materia o di essere vuoto.
La proprietà di essere più o
meno denso è solo apparenza, in
quanto proprietà di tutto un sistema di punti e solo “in media” di un determinato punto.
Aristotele, nella sua Fisica, spende decine e decine di pagine
credendo di poter contestare Zenone aggiungendo parole confuse a parole di cui
non ne comprende il significato. Ma non riesce a venirne a capo, passando da
una contraddizione all’altra. E, alla fine, se ne tira fuori ricorrendo al Deus ex machina (di cui ne contestava,
invece, l’uso nell’arte drammatica) costituito dalla sua ineffabile distinzione
tra atto e potenza.
Ma, con l’ultima citazione
zenoniana, si esauriscono i frammenti di Zenone, come raccolti dal Diels-Kranz
(vedi PR). Saremo costretti a seguire Aristotele servendoci solo della logica,
ma non certamente della logica aristotelica!
Per Aristotele, Zenone
appare il negatore di ogni movimento. Ma la verità è che Zenone negava la
possibilità logica del movimento se si fossero assunte le ipotesi che la lingua
comune assumeva e che Aristotele ha cercato di giustificare con l’arricchire la
lingua comune di altri termini di significato ancora più ambiguo di quelli che
voleva spiegare.
Nel linguaggio comune si ipostatizza
una contrapposizione netta tra numeri e grandezze.
I numeri sono il regno del
discreto, le grandezze quello del continuo.
I numeri sono fatti di unità
e le unità sono indivisibili.
Le grandezze sono divisibili
all’infinito.
I Pitagorici affermavano,
invece, che i numeri sono rapporti tra grandezze, come abbiamo visto che lo
stesso Aristotele testimonia.
Ma, secondo lui, non sembra
che essi sappiano dire come sia composta la prima unità dotata di grandezza
(naturalmente questo non è vero come dimostra il ragionamento di Archita,
precedentemente da noi citato, da cui emerge chiaramente che per i Pitagorici
il numero non è altro che il risultato dell’operazione di misura delle
grandezze per confronto con l’unità di misura. E, quest’ultima è nello stesso
tempo unità e grandezza).
Ma questo per Aristotele è
inconcepibile (PR p. 516-17):
“Il modo [di concepire il numero] dei Pitagorici comporta meno difficoltà di
quelle di cui ho parlato finora, ma ne comporta altre sue proprie. Perché, se
il concepire il numero come non separato [dalle cose] elimina molte difficoltà,
assurdo è tuttavia dire che i corpi sono composti di numeri e concepire nello stesso tempo questi numeri come matematici. È infatti
errato parlare di grandezze indivisibili: e, d’altra parte, se
sono soprattutto in questo modo [come grandezze], almeno le unità non hanno
grandezza. Ora com’è possibile
che una grandezza sia composta di indivisibili? E tuttavia il numero è formato
di unità.”
Ecco da dove proviene
l’assurdo! Per Aristotele, le grandezze sono sempre divisibili, le unità sono
indivisibili, quindi le grandezze e i numeri sono inconciliabili. D’altra
parte, anche i punti sono indivisibili e quindi sono unità, per cui i corpi non
possono essere composti di punti, come concluderà nella Fisica, ricorrendo alla finzione, di natura puramente verbale, che
i punti sono il limite e le grandezze il limitato.
Questa, in seguito a
complicatissimi (e senza senso) ragionamenti, porterà Aristotele a concludere (Fisica 218a 18, 19): “In realtà, si deve ritenere impossibile che
gli istanti siano continui tra loro, come è impossibile la continuità tra punto
e punto.”
Ma, nello stesso tempo, per
Aristotele, l’istante separa i due tempi prima e dopo il movimento e il punto
separa i due luoghi dove si trovava l’oggetto prima e dove si troverà dopo il
movimento.
Ma Aristotele, dopo che in
varie opere ha enunciato che la cosa più certa è che non si può affermare
contemporaneamente una proprietà e la sua contraria, risolve il problema
dicendo che: “l’istante è in parte
identico e in parte non identico” (Fisica 219b 32).
Ma se si assumono tali
ipotesi, il moto risulta impossibile logicamente; e questo è quello che Zenone
dimostra.
Primo argomento: Se punti e
istanti non sono continui l’intervallo tra di essi, comunque piccolo, sarà una
grandezza finita. Allora, supponiamo che bisogna percorrere una lunghezza
finita in un tempo finito.
Cadremmo subito in contraddizione, perché per percorrere la lunghezza bisognerà
prima percorrerne la metà. E poi la metà della metà. E così via di seguito per
un numero infinito di volte. Quindi, per l’ipotesi che gli intervallini sono
finiti, occorrerà un tempo infinito e la distanza stessa risulterà infinita.
Aristotele crede di superare
l’argomento dicendo che il rapporto di due grandezze infinite può essere finito
(Fisica 233a 13-28):
“... risulta ovvio che, se il tenmpo è continuo, lo è pure la grandezza, se
è vero che nella metà di un dato tempo si percorre la metà di una data
grandezza e, insomma, in un tempo minore una grandezza minore: identiche, infatti,
saranno le divisioni del tempo e quello della grandezza, e se uno qualsivoglia
dei due è infinito, lo sarà anche l’altro; e nel modo in cui è
finito il primo, nello stesso modo lo sarà anche l’altro; ad esempio, se il
tempo è infinito per le estremità, anche la grandezza lo sarà per estremità; e se quello è infinito nella divisione, nella divisione sarà infinita
anche la grandezza; e se il tempo è infinito in ambedue le guise, sarà infinita
anche la grandezza in ambedue le guise.
Anche per questo il ragionamento di Zenone erroneamente presuppone l’impossibilità che si possano percorrere gli infiniti o che possano toccarsi ciascuno successivamente in un tempo finito. Difatti, tanto la grandezza quanto il tempo e, in generale, ogni cosa continua si dicono infiniti in due sensi, cioè o per divisione o per gli estremi. Pertanto, gli infiniti che son tali secondo la quantità, non possono toccarsi in un tempo finito; quelli, invece, che son tali secondo divisione, lo possono, perché il tempo stesso è infinito sotto questo aspetto.”
Il ragionamento di
Aristotele dice cose banali se riferite al moto uniforme, false se riferite al
moto in generale come da lui considerato, ma soprattutto trascura di ricordare
il fatto più importante che per lui non c’è continuità né tra gli istanti né
tra i punti, per cui ogni grandezza infinita per divisione deve risultare,
necessariamente, anche infinita per gli estremi. Nella sezione successiva
sembra ricordarsene, ma per uscirne ricorre alla incomprensibile dialettica tra
potenza e atto. Il teorema di Zenone resta in piedi tutto intero.
Ma era quello, che noi
abbiamo posto, il problema di Zenone?
Non lo potremo mai sapere!
Ma possiamo fare delle
ipotesi sulla cultura matematica di Zenone in base alla tradizione
che abbiamo descritto e ai pochi frammenti che ci rimangono; cose che depongono
a suo favore. Nello stesso tempo, abbiamo la prova inequivocabile della
incapacità di ragionamento scientifico che dimostra Aristotele in tutti i suoi
scritti. Ma lo stesso Aristotele ci dà un indizio (PR p. 295):
“Allo stesso modo bisogna opporsi a quelli che ci fanno obbiezioni
conformi al ragionamento di Zenone [e ritengono] che se si deve pur sempre
percorrere la metà, e se queste metà sono infinite, non si può percorrere
l’infinito, o anche ad altri che ci fanno obiezioni in maniera diversa, ma
conformi pur sempre a quello
stesso ragionamento, ritenendo che, nello stesso tempo in cui avviene il
movimento nella metà del percorso, si deve prima numerare la metà che risulta
da ciascuna metà, sicchè, mentre l’oggetto percorre l’intero, accade che esso
abbia numerato un numero infinito: cosa che, per comune consenso, è
riconosciuta impossibile.”
Secondo argomento: detto Achille. Niente di nuovo rispetto al primo,
come ci dice Aristotele, a parte “il
fatto che la grandezza successivamente assunta non viene divisa per due” dal
momento “che chi insegue giunga in
precedenza là di dove si mosse chi fugge”; e a parte la drammaticità del
fatto che la tartaruga non potrà mai raggiungere il pié veloce Achille.
Su questo argomento, i
commentatori moderni attribuiscono a Zenone l’affermazione che non è possibile
ottenere una lunghezza finita come somma di una serie infinita, dimenticando
anch’essi di assumere, come viene esplicitamente assunto da Aristotele, il “se” esistono “unità indivisibili” (che non sono la stessa cosa degli “indivisibili”; infatti i punti sono
indivisibili ma non sono unità e le unità (in quanto unità di misura) sono
grandezze e sono sempre divisibili. Quindi la contraddizione viene
dall’assunzione già contraddittoria che esistano unità indivisibili, che è ciò
che appunto Zenone voleva dimostrare ricorrendo al ragionamemmto per assurdo).
Terzo argomento: La freccia
scoccata dall’arco non si muove, se, ovviamente, si fa l’ipotesi, che è anche
di Aristotele, che la freccia occupa un luogo che trasporta con se come un vaso
e inoltre diciamo, come dice Aristotele, che un corpo è fermo quando occupa il
suo luogo, cioè uno spazio uguale al corpo stesso. Ma in ogni istante questo è
vero; quindi, per definizione, il corpo è fermo in ogni istante e quindi
sempre. Aristotele crede di poter superare la contraddizione negando che il
tempo sia costituito da istanti. Ma questo è palesemente assurdo e Aristotele
se ne esce dicendo che in un senso l’istante è nel tempo e in un altro senso no
per via del solito sotterfugio della potenza e dell’atto a cui ora si deve
aggiungere un’ancora più misteriosa entelechia
che rende perfetto l’atto. Amen.
Quarto argomento: “è quello delle masse uguali che si muovono
lungo masse uguali in senso contrario, le une dalla fine dello stadio, e le
altre dalla metà con uguale velocità. In esso crede che si provi che sono un
tempo uguale il tempo metà e
il tempo doppio. Il paralogismo consiste
in questo, nel ritenere che con la stessa velocità si percorra nello stesso
tempo ha stessa grandezza presa in un caso lungo un mosso e nell’altro lungo un immobile.
Questo invece è falso.” (PR p. 298).
Verissimo! ma, al solito
Aristotele, si dimentica di dire che con le sue ipotesi, più volte qui sopra
ricordate, le due velocità devono essere uguali! Non ha senso contestare un
teorema cambiando le ipotesi lungo la strada! Ma, per Aristotele, la fisica è
una cosa che percepiamo con i sensi e la logica e la matematica sono un’altra
cosa, da usare solo per fare discorsi con parole senza alcun significato. Come
del resto avviene oggi per i cosiddetti logici o metamatematici moderni.
Con il contestatissimo
Zenone si può terminare qui.
Dopo di lui, entro la stessa
tradizione, viene un altro grande scienziato, naturalmente molto inviso ad
Aristotele, si tratta dell’agrigentino Empedocle. Anche se, in
questo caso, i frammenti pervenutici non sono pochi, la loro natura esula
dal problema che stiamo trattando.
Possiamo però affermare che
il suo discorso scientifico sta dentro la tradizione italica, come del resto
testimoniato da quasi tutti i dossografi e non si capisce perchè Aristotele,
spesso, lo contrappone agli altri.
È interessante la
testimonianza di Neante, riportata da Diogene Laerzio (PR p. 325) che “fino a Filolao e ad Empedocle i Pitagorici
comunicavano le loro dottrine; ma
che quando Empedocle le rese pubbliche
attraverso la poesia, stabilirono la norma che non fossero comunicate a nessun poeta (e questo
dice che dovette subirlo anche Platone: anche costui infatti ne restò
escluso).”
Naturalmente questo ci
appare inevitabile nel constatare come Platone abbia deformato le loro dottrine
continuando ad autodefinirsi Pitagorico.
Per Aristotele (PR p. 347)
il poema di Empedocle non è molto comprensibile:
“Se la dissoluzione avrà un termine, il corpo in cui si arresterà sarà
o un atomo o bensì divisibile, ma tale che nel fatto non sarà mai diviso, come
sembra voler dire Empedocle”.
Queste cose che “sembra” voler dire Empedocle saranno
chiarite da Democrito che fa parte della stessa tradizione come sappiamo per
mezzo di Diogene Laerzio che parlando dell’abderita dice (PR p. 665): “Sembra, dice Trasillo, che egli sia stato
un grande ammiratore dei Pitagorici, anzi fa menzione dello stesso Pitagora,
parlandone con ammirazione nell’opera che s’intitola dal nome di lui. E
parrebbe che Democrito avesse tratto da Pitagora tutte le dottrine e che ne
fosse stato anche scolaro, se la cronologia non facesse ostacolo. Che in ogni
modo però egli sia stato alla
scuola dei Pitagorici, ci è attestato da
Glauco di Reggio, vissuto nella stessa epoca di Democrito. E anche Apollodoro
di Cizico dice che frequentò Filolao.”
Dobbiamo ritenere che nello
stesso periodo circolavano due opposte interpretazioni delle dottrine
pitagoriche, quella di Platone e quella di Democrito e questo spiegherebbe
quello che riferisce Diogene Laerzio (DL p. 367-68): “Aristosseno nelle sue Memorie Sparse afferma che Platone ebbe
l’intenzione di bruciare tutte le opere di Democrito che potè raccogliere, ma
che i pitagorici Amicla e Chinia lo distolsero dal suo proposito, in quanto non
ne avrebbe tratto utilità alcuna, perché ormai i libri erano ampiamente diffusi
nel pubblico. E ciò è chiaro. Infatti, Platone, che pure menziona quasi tutti i
filosofi arcaici, non accenna mai a Democrito neppure là dove avrebbe dovuto
contraddirlo, evidentemente perché era consapevole che avrebbe dovuto
gareggiare col migliore dei filosofi, che anche Timone non potè fare a meno di
lodare ...”
Resta il problema di capire
perché quasi tutta l’opera di Platone è arrivata fino a noi e niente della
copiosa opera di Democrito ci è pervenuta. Un’ipotesi per questo apparente
miracolo sarà avanzata nella prossima sezione.
Stranamente, pochissimi sono
i frammenti genuini di Democrito ma moltissime le testimonianze il più delle
volte distorte o male interpretate.
Ma dai pochissimi frammenti
è indubbio che egli esprime la filosofia e la scienza della tradizione italica.
Sesto Empirico riporta il
seguente frammento (PR p. 748): “Opinione
il dolce, opinione l’amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il
colore; verità gli atomi e il vuoto.”
Cioè le sensazioni sono solo
opinione perciò fallibili, i costrutti logici di atomi e vuoto sono la realtà
scientifica.
Infatti Galeno, che è uno
scienziato, commenta tali parole (PR p. 688): “ritenendo che tutte le qualità sensibili, ch’egli ritiene relative a
noi che ne abbiamo sensazione, derivano dalla varia aggregazione degli atomi, ma
che per natura non esistano affatto bianco, nero, giallo, rosso, dolce amaro:
infatti l’espressione ‘per convenzione’ [vόμω] equivale, per
esempio, a ‘secondo l’opinione comune’ [vόμιστί]
e a ‘relativamente a noi’ [πρός ήμάς],
cioè non secondo la natura delle cose, la
quale egli indica con l’espressione ‘secondo verità’ [έτεή]
ricavata da έτεόυ, che significa ‘vero’. E tutto il
senso di questo discorso sarebbe il seguente: gli uomini credono che sia
qualche cosa di reale il bianco e il nero, il dolce e l’amaro, e tutte le altre qualità del genere, mentre in verità ente e
niente = non-ente sono tutto
ciò che esiste, perché Democrito usava anche questi termini, chiamando ‘ente’
gli atomi e ‘niente’ il vuoto. Così
tutti quanti gli atomi, essendo corpi piccolissimi [oggi diremmo punti
materiali o particelle
elementari], non posseggono qualità sensibili, ed il vuoto è uno spazio nel
quale tali corpuscoli si muovono tutti quanti ...”.
Lo stesso Democrito, secondo
Sesto Empirico, dice (PR p. 749), ripetendo in prosa la teoria che Parmenide
aveva espresso in versi:
“Vi sono due forme di conoscenza, l’una genuina e l’altra oscura; e a
quella oscura appartengono tutti quanti questi oggetti: vista, udito, odorato,
gusto, tatto. L’altra forma è la genuina, e gli oggetti di questa sono nascosti
[alla conoscenza sensibile e oscura]. Quando la conoscenza oscura non può più
spingersi ad oggetto più piccolo né col vedere né coll’udire né coll’odorato nè
col gusto nè con la sensazione del tatto, ma ási deve
indirizzar la ricercañ a ciò che è più sottile, áallora
soccorre la conoscenza genuina, come quella che possiede appunto un organo più
fine, appropriato al pensareñ”.
Più d’uno tra i dossografi
testimonia che Democrito chiama idee gli
elementi e i principi delle cose che sono. Gli atomi sono gli individui, cioè
gli indivisibili di tali idee. E in quanto una porzione di spazio
è materia in modo continuo, essa è solida
cioè indivisibile fisicamente (senza pori) e anch’essa si comporta come un
atomo, in quanto non può avere qualità sensibili (che sono generate dalla
mescolanza di atomi e vuoto mediante l’interazione con i nostri sensi,
anch’essi composti di atomi e vuoto).
Di questi solidi niente possiamo sapere senza
opportuni modelli particolari da verificare con opportuni esperimenti, se non
quello che possiamo dedurre per via puramente logica e cioè che essi possono
differire solo per forma e volume e per la posizione che occupano nello spazio.
E dal punto di vista logico, possono essere piccoli quanto si vuole (ma non di
grandezza nulla) e grandi quanto il mondo.
La loro massa, finchè sono solidi sarà, necessariamente,
proporzionale al volume, perché non c’è motivo che la densità della materia
indistinta e priva di vuoto sia diversa da un solido all’altro.
Da queste ipotesi Democrito
sviluppa tutta una scienza integrata che ci appare, nonostante le distorsioni
dei commentatori, come moderna e grandiosa perché ricavata solo al lume della
logica, astenendosi da ipotesi azzardate, quando la logica ne lasciasse aperte
più possibilità.
Infatti Democrito raccomanda
(PR p. 784): “Non sforzarti per sapere
tutte le cose, perché c’è il rischio che tu finisca ignorante su tutte”.
Ma, nello stesso tempo,
inizia la sua opera intitolata Piccola
Cosmologia (PR p. 784):
“In questa
trattazione discorro di tutte le cose ...
In altre parole: Evita di
sapere Tutto su Nulla come lo specialista di Bernard Show e nello stesso tempo
evita di sapere Nulla su Tutto come i tuttologi radiotelevisivi. Affidati solo
alla ragione e non fare ipotesi azzardate che non siano testimoniate dai sensi.
In base a questa regola,
quali possibilità esistono per il moto degli atomi?
Riferisce Simplicio (PR p.
681): “Del fatto che le sostanze
rimangano in contatto tra di loro per un certo tempo, egli dà la causa ai
collegamenti e alle capacità di adesione degli atomi.”
E qui Simplicio dà un elenco
di possibilità, oggi, tutte spiegabili con le forze molecolari.
Ma come avviene la
disaggregazione?
“ …egli reputa dunque che gli atomi si tengano attaccati gli uni agli
altri e rimangano in contatto solo fino a quando, col sopraggiungere di qualche
azione esterna, una necessità più forte non li scuota violentemente e li
disperda in varie direzioni”.
Ma da dove può provenire l’azione
esterna se tutto l’essere è formato da atomi e vuoto? Dai commentatori non lo
sappiamo perché ipotizzano cose contraddittorie ma la logica ci dice che gli
atomi, necessariamente, interagiscono tra loro. Anche Newton sembra essere
della stessa opinione.34
Ma Aristotele pensa che nel
ragionamento di Democrito si nasconde un paralogismo perché (PR p. 684): “Noi vediamo lo stesso corpo, saldamente
unito, presentarsi ora allo stato liquido, ora solidificato, senza che si sia verificata
in esso separazione o riunione di parti, e senza che ciò si debba alla
direzione o al contatto reciproco, come dice Democrito: perché il corpo da
liquido si trasforma in solido senza ‘spostamento interno’ e senza
‘modificazione della sua struttura’.”
Chiaramente Aristotele è
condizionato dagli organi dei sensi e non riesce ad usare il senso più sottile
che è quello della ragione che opera secondo la logica che non è quella
grammaticale di Aristotele.
Per Democrito che usa tale
organo si ha, invece, (PR p. 682): “Se dunque il nascere è aggregazione di atomi e il dissolversi è
disgregazione, anche per Democrito il divenire non è che modificazione di
stato” che può aversi solo per ‘modificazione
della struttura’ interna dei corpi proprio causata dallo ‘spostamento interno’.
Ma vediamo ancora, in
un’altra importante questione, come Democrito usa la logica della matematica
per mostrare l’assurdità delle unità indivisibili e la necessità dei punti
indivisibili (PR p. 780): “Se un cono
viene secato da un piano parallelo alla base, come si dovranno immaginare le
superficie di sezione? verranno uguali o disuguali? Perché, se saranno
disuguali, renderanno irregolare il cono che verrà ad avere tante incisioni e
scabrosità a gradini; ma se saranno uguali le superfici saranno uguali anche le
sezioni e il cono verrà ad assumere l’aspetto del cilindro, in quanto
risultante dalla sovrapposizione di cerchi uguali e non disuguali: il che è
manifestanaente assurdo”.
Ecco perché Archimede mostra
grande stima per Democrito (PR p. 780): “Perciò
appunto anche circa questi teoremi sul cono e sulla piramide, di cui Eudosso ha
trovato per primo la dimostrazione, e cioè che il cono è la terza parte del
cilindro e la piramide del prisma che
abbiano la medesima base e uguale
altezza, non piccola parte di merito è da attribuire a Democrito che per primo
formulò, senza dimostrazione, l’enunciato relativo alle figure suddette”.
Notiamo che Archimede,
dicendo senza dimostrazione, intende semplicemente senza l’uso del metodo
(detto di esaustione) di Eudosso. Ma il merito di Democrito è “non piccolo” perchè ha usato il
concetto dei punti indivisibili e Archimede ne sa qualcosa, come risulta dal
suo Metodo Meccanico! (vedi rifer. di
cui a nota20).
Mito e scienza.
Da quanto detto, analizzando
la scienza dei cosiddetti presocratici, emerge che Platone e Aristotele
rappresentano un profondo, incommensurabile arretramento nell’evoluzione del
linguaggio scientifico. Quindi è chiaro che la teoria delle PULCI non è valida.
Ci resta da capire il perché.
Dobbiamo cercare di
individuare i meccanismi che producono l’andamento fluttuante dell’efficacia
del linguaggio a descrivere la realtà.
Abbiamo accennato, nel Preambolo, che tali meccanismi sono
esterni al sistema della scienza e hanno radici sociali ed economiche.
L’azione di tali meccanismi,
la si può osservare seguendo la nascita, lo sviluppo e la morte dei linguaggi
scientifici anche nelle più antiche civiltà della storia umana.
Si può ipotizzare un
coerente modello per descrivere l’evoluzione di tali linguaggi. Ma prima è
necessario sgombrare il campo dai secolari (o, forse, millenari!) pregiudizi
creati dal mito di quella che abbiamo chiamato la teoria delle PULCI, dalla
quale si può solo dedurre che gli antichi scienziati non potevano essere molto
di più che promettenti bambini; mentre, esaminando le cose a fondo, si affaccia
prepotentemente alla mente il fondato sospetto che la profondità e l’ampiezza
del loro pensiero non era per niente inferiore a quella dei più grandi geni
della nostra era e di gran lunga superiore a quella, inesistente, dei falsi
profeti.
Infatti, riesce difficile poter
conciliare le sbalorditive conoscenze di matematica, fisica e astronomia dei
popoli della valle del Nilo o di quelli delle regioni attorno al Tigri ed
all’Eufrate (come testimoniate da papiri e iscrizioni scoperti negli ultimi due
secoli; conoscenze che si fanno risalire a più di mille anni prima di Talete,
considerato il progenitore della scienza Greca) con le sciocchezze che Aristotele
ed i suoi successori fanno dire agli eredi di lingua greca di tali popoli e
cioè ad Italici e Ionici.
Per tale ragione faremo
l’ipotesi, che oggi potrebbe apparire rivoluzionaria ma che già era stata
adombrata ai tempi di Pitagora da Teagene di Reggio, secondo la quale, a brevi
periodi particolarmente felici in cui si ha un effettivo progresso scientifico
susseguano lunghi periodi di caligine in cui si perde persino la capacità di
capire quello che, nel periodo precedente, era stato conquistato spesso a caro
prezzo.
Naturalmente, questo non
avviene per caso; perchè un sistema, ormai corrotto, di simboli serve a
proteggere la classe che detiene il dominio del potere e della “CULTURA”, pur
se di questa se ne possa mantenerne il nome (ad ogni buon conto ed a scanso di
equivoci, le abbiamo riservato l’onore dei caratteri maiuscoli non potendo qui
abusare di quelli cubitali).
Infatti, per fare solo alcuni
tra i mille possibili esempi, come spiegare il fatto che, nonostante le
immense conquiste scientifiche di Egizi e Mesopotamici, in Ionia ed in Italia,
agli albori della civiltà greca, si deve praticamente ripartire da zero? E,
ancora, come spiegare, altrimenti, il fatto che Ionici ed Italici, dopo enormi
conquiste riescono a raggiungere le vette della scienza archimedea e,
nonostante ciò, Galileo e Newton devono ripartire anch’essi quasi da zero?
Le spiegazioni che usualmente
se ne danno non hanno né capo, né coda come acutamente osserva il
Farrington,35 il quale,
giustamente, propone una spiegazione fondata sulla struttura sociale e
politica.
Noi, qui, ci proponiamo di
ampliare questa tesi, mostrando lo stretto legame tra le strutture sociali e le
strutture linguistiche della scienza.
Il reggino Teagene, intorno al 500 a. c., difende Omero dall’accusa di
essere dannoso e sconvenientemente irriguardoso verso gli dèi adducendo che i
miti omerici non riguardavano gli dèi, in quanto i nomi ad essi attribuiti
stavano a rappresentare le concrete forze della natura. Certo, ai tempi dell’ovviamente
altrettanto sacrilega scienza pitagorica della natura, e particolarmente a
Reggio, dove allora Teagene scriveva, egli si poteva permettere una tale difesa
di Omero; trovandosi in un posto ed in un’epoca tra quelle fortunate, se pur
brevi, in cui risulta possibile la pratica e lo sviluppo della scienza; chissà
se l’avrebbe potuto nell’Atene di Socrate!
Si potrebbe attribuire un senso
politico al mito, riportato da Filodemo, secondo il quale il poeta ed indovino
Epimenide diceva che le Arpie figlie di Oceano e di Gea furono uccise presso
Reggio!
Ma, per ironia della sorte,
sono rinate da quelle parti, costringendo proprio a Reggio gli ultimi
Pitagorici, scacciati a forza dalle loro città-Stato.
Ma, a noi, resta il problema di
sapere perché Omero sentiva la necessità di nascondersi dietro il nome degli
dèi dell’Olimpo!
Non sarà forse la stessa
ragione per cui qualcosa sembra anche nascondersi nei miti attribuiti ad Orfeo,
il quale viene spesso associato ai Pitagorici?
Nel coro degli uccelli di
Aristofane si sente l’eco della teogonia orfica:
“Il Caos e la Notte, l’Erebo oscuro, il Tartaro immenso primi regnarono;
né Terra, né Aere, né Oceano potevano esistere ancora;
ma dentro gli sterminati spazi di Erebo
un uovo
senza seme, per primo, le buie ali della Notte partorirono;
si
susseguirono le stagioni ed emerse da questo l’amabile Eros,
dal tergo
splendente di ali dorate, qual
vortice d’uragano
egli si
unì al Caos alato; nella notte del Tartaro
sconfinato,
il
genere dei mortali fu creato e portato
alla luce.
Non esistevano ancora gli dèi immortali, prima che Eros
accoppiasse le cose.
Ma quando ogni cosa all’altra fu accoppiata, Urano e Oceano comparvero
e
Terra; e, degli altri dèi,
l’intera progenie immortale.
Proviamo a interpretare tali
versi secondo il suggerimento di Teagene:
Prima che l’uovo senza seme,
cioè l’uomo in quanto astratto dal suo substrato materiale, in quanto pensiero,
potesse condurre i mortali alla luce del sapere, l’universo appariva disordinato;
era semplicemente Caos, sterminato come il Tartaro, informe come l’Erebo e buio
come la Notte. Prima che la mente dell’uomo distinguesse le cose, l’idea stessa
di materia, nei suoi tre stati di aggregazione: solido, liquido e gassoso (=
Terra, Oceano ed Aria), non era nemmeno pensabile.
Solo dal primigenio pensiero
può sorgere l’idea di Eros, cioè della connessione intima di cose contrapposte
tra loro (l’idea dei contrari dei Pitagorici cantata nei versi di Empedocle,
da cui può nascere, in seguito, anche l’idea di attrazione reciproca tra
cariche di opposta polarità). Questa, unendosi all’idea di materia ancora
informe, ma in eterno movimento, rappresentata dal Caos alato, col susseguirsi
delle stagioni, porta i mortali dalla notte dell’ignoranza alla luce del
sapere. Non può esistere il concetto di immortale senza quello, di origine
empirica, di mortale. Infatti, nei versi di Aristofane, gli dèi nascono dopo!
Solo così si possono creare i
concetti scientifici (gli dèi immortali) di cielo, di mare e di terra (=Urano,
Oceano e Terra). Tali concetti, in quanto concetti, possono essere creati solo
dopo che siano nati gli uomini, con la luce del loro intelletto, ma ogni
concetto è, per sua natura, eterno come, necessariamente sarà successivamente,
anche l’Essere di Parmenide.
E qua Aristotele e soci
scoprirebbero un’aporia: come è possibile che siano eterni e quindi increati se
sono stati creati dall’uomo? Naturalmente, questo lo ipotizziamo perché
Aristotele non riesce mai a distinguere il concetto da quello che esso rappresenta.
La nostra stupida domanda sembra molto simile a quella che porta al paradosso
di Russell. È lo stesso che chiedersi come può essere immortale il nome
“immortale” che l’uomo stesso ha inventato?!
Che il
mito orfico si riferisse alla spiegazione razionale e soprattutto logica
dell’universo è testimoniato dall’altro grande poeta greco Euripide che nell’Alceste, riferendosi alle tavolette
di Orfeo di Tracia, canta:
Io,
grazie alle Muse,
mi son
librato in alto,
ho
esaminato ogni discorso,
ma, della Necessità, niente di più cogente
ho
potuto scoprire, né altro si può ricavare
dalle
tavolette di Tracia
che la
voce di Orfeo ha dettato...
Ricordiamo
che Euripide ha difeso con i suoi versi il suo amico Anassagora accusato di
empietà.36
La spiegazione orfica della
natura percorre tutta la scienza dei cosiddetti presocratici, dove, di volta in
volta, se ne mette in luce un qualche aspetto particolare, molto probabilmente,
per controbbattere le obiezioni più stupide che ad essa si venivano facendo.
Anche se fra tali obiezioni ce ne potevano essere di più serie e meritevoli di
essere considerate e superate; come di fatto sono state via via superate. Per
esempio, il ruolo della necessità logica, menzionata nei versi di Euripide,
sarà di fondamentale importanza nella scienza degli Italici e culminerà nella
ferrea logica di Parmenide e del suo discepolo Zenone.
Tradizionalmente, dato che solo
in anni relativamente recenti si sono decifrati i papiri e le tavolette di
Egizi e Mesopotamici, la nostra scienza si fà cominciare da Talete. Questi
riduce il principio di tutte le cose all’acqua.
Questa visione, se dobbiamo
fare l’ipotesi che i dossografi riportino correttamente, sembra un regresso
rispetto al mito orfico echeggiato da Aristofane.
L’ipotesi che i dossografi
riportino correttamente sembra altamente improbabile. Infatti costoro in
massima parte si limitano a riportare le opinioni di Platone o di Aristotele,
spesso anche peggiorandone il senso; ma quasi sempre d’accordo con i paradigmi
interpretativi di questi due personaggi che si sono imposti nei secoli bui
della scienza.
Tuttavia, alla luce dei
risultati e delle credenze della scienza galileiana, esaminando le critiche
che, con una presunzione inaudita, i due “sommi filosofi” rivolgono agli
scienziati che li avevano preceduti nel tempo, appare manifesta la loro
assolutamente bambinesca concezione del mondo che, in nessun modo, può reggere
il confronto con la profondità di pensiero di tutti i loro predecessori. E per
capire questo bastano le loro stesse critiche!
E ciò, come crediamo di avere
mostrato, risulta pienamente confermato dai pochissimi frammenti che di tali
antichissimi veri scienziati ci sono pervenuti.
Potrebbe apparire sorprendente
ed addirittura misterioso il fatto che di tutti gli scienziati, anteriori,
contemporanei o anche posteriori a Platone e ad Aristotele, niente o quasi ci
sia pervenuto; mentre di questi due campioni abbiamo quasi tutto quello che
hanno scritto e, forse, anche qualcosa che non hanno scritto, visto che sono
infinite le diatribe sull’autenticità di alcune loro opere. Ma, alla luce della
su accennata legge dell’entropia, sarebbe sorprendente se fosse successo il
contrario.
Proviamo a chiederci quali
opere resteranno tra mille anni a partire da oggi?
Naturalmente non i libri di
scienza, la cui diffusione è irrisoria in confronto ai libri che hanno un
mercato! Il pronostico si può fare facilmente esaminando il mercato dei libri o
le vetrine dei librai!
***
Per tornare alle prove
contrarie alla teoria delle PULCI, supponiamo, solo per un momento, che il
pensiero dei presocratici sia giusto quello che dai dossografi ricaviamo.
Allora per spiegare il regresso
degli Ionici rispetto ai miti orfici, come reinterpretati alla luce
dell’ipotesi di Teagene, ci rimarrebbero pochissime possibilità.
Accettando la tradizione che
vuole Talete di stirpe fenicia e che, a detta di Flavio, “Ferecide di Siro, Pitagora, Talete, furono per ammissione generale
discepoli degli Egizi e dei Caldei”
allora o la scienza di Egizi e Caldei era meno avanzata di quella tramandata
dai miti orfici o l’armamentario culturale di Talete non era sufficientemente
adeguato per capire appieno la scienza di quei popoli. Si dovrebbe scartare la
seconda ipotesi dal momento che Proclo dice che Talete fece molte scoperte nel
campo della geometria che aveva appreso in Egitto e, d’altra parte, Plutarco
(PR p. 89) dice che i sacerdoti egizi “pensano
che anche Omero, come Talete, pose l’acqua inizio e matrice di tutte le cose, avendolo appreso dagli Egizi: infatti Oceano è
Osiride, Tetide è Iside ...”.
Certo, pensando che la civiltà
degli Egizi, come quella dei Caldei, si è sviluppata in assoluta dipendenza dai
fiumi attorno ai quali vivevano, si potrebbe ritenere che l’acqua potesse
essere vista come l’elemento primordiale.
Ma questa rozza concezione del
mondo contrasterebbe con le meravigliose conquiste scientifiche oggi
abbondantemente documentate dai ritrovamnenti scritti (tenuto conto della
legge, sopracennata che i libri si conservano proporzionalmente alla loro
diffusione, legge confermata empiricamente in tutti i ritrovamenti presso i
resti delle civiltà sepolte).
Del resto, sembra accertato che
la scienza della Mesopotamia, dopo uno sviluppo notevole nel corso di pochi
secoli, ristagnerà per millenni, fino alla totale distruzione.
Come scrive un noto storico
della scienza antica,37 si
hanno due gruppi di testi relativi alla matematica mesopotamica che
corrispondono a due periodi nettamente delimitati e molto lontani tra loro. Il
primo va dal 1800 a.C. al 1600 a.C., il secondo si riferisce agli ultimi tre
secoli a.C. (per la maggior parte, tavolette che dovevano servire come libri di
scuola o altre di contabilità relativa ai commerci del tempo).
Pochi sono i mutamenti che si
possono osservare passando da un gruppo all’altro e nel secondo gruppo non vi
interviene alcun principio nuovo che non fosse già pienamente utilizzato nel periodo
precedente. Per cui il Neugebauer conclude: “E’
consuetudine postulare un lungo sviluppo, che si suppone necessario, per
raggiungere un alto livello di intuizione matematica. Non so su quale
esperienza si basi un giudizio del genere. Tutti i periodi, storicamente noti,
di grandi scoperte matematiche hanno raggiunto il loro apice dopo uno o due secoli di rapidi progressi,
preceduti e seguiti da molti secoli
di relativo ristagno.”
Del resto, anche in tutti gli
altri campi della cultura, si nota un decadimento della cultura Assira e
Babilonese rispetto a quella dei Sumeri, loro predecessori in Mesopotamia.38
Non può essere un caso che i
maggiori progressi scientifici, sia nella Ionia, sia nella Magna Grecia, sia
nella Mesopotamia si abbiano in corrispondenza di una organizzazione
socio-economica fondata su pacifiche città-Stato.
Sia in Mesopotamia, nel
passaggio dalle sumeriche citta-Stato agli imperi AssiroBabilonesi, che in
Grecia, nell’anologo passaggio all’egemonia ateniese, si osserva nella cultura
un parallelo passaggio dal naturalismo spontaneo, che si riflette nelle
credenze religiose, ad un più stretto rigore moralistico che accentua la
trascendenza del divino; ma lo stesso fenomeno trova conferma nella storia di
tutte le civiltà.
Questo si riscontra nei miti
sumerici confrontati con quelli babilonesi. Spesso, basta una semplice
trasposizione dei nomi degli dèi per ottenere lo stesso significato dei miti
delle diverse civiltà anche lontane tra loro nello spazio e nel tempo.
Tuttavia, spesso, gli storici
della scienza si affannano nel cercare di sminuire le conquiste del passato,
ciò al solo scopo di far tornare i conti con la teoria delle PULCI.
A che punto siamo oggi?
Siamo nella fase della Scienza
o in quella del Mito?
Per il momento lasciamo al
lettore la risposta a tale arduo quesito.
Appendice.
Un sistema di logica.
Diamo qui di seguito un elenco
di formule, già riportate nei vari lavori di logica scritti dal Peano (cfr.
OS-II e FM)39, ordinate in
modo da costituire uno tra i possibili sistemi deduttivi che dalle formule di
Peano si possono estrarre.
Lo scopo è quello di dare un
esempio concreto di sistema deduttivo e un riferimento immediato per le formule
che si incontrano nel testo. Per tale ragione sono state introdotte alcune
lievi modifiche nei segni usati dal Peano per renderli omogenei alle
convenzioni adottate nel testo.
***
Termini, descrizioni e assiomi della
metalogica:
Termini:
= significa significa.
C . = . proprietà.
I . = . individuo.
P . = . proposizione.
Î . = . è un (copula).
É . = . implica
(deduzione).
∩ . = . e (congiunzione).
. = . proprietà complementare dell’intersezione delle proprietà “a”
e “b”.
Simboli: le lettere minuscole
dell’alfabeto italiano.
Assiomi:
(M1) ,
(M2) x Î a . É . x Î I ∩ a Î C ∩ (x Î a) Î P,
(M3) ,
(M4) ιa Î C ,
(M5) a Î C
. É . áa Î C .
Definizioni,
assiomi e teoremi della logica.
Termini
primitivi: Î, ι, á,
~,
Ù.
Descrizioni:
Î . = . è un… .
ι . = . identico a … .
á . = . proprietà che
implica la … .
~ . = . incompatibilità tra
due proprietà o proposizioni.
Ù . = . proprietà assurda o
proposizione assurda.
Definizioni:
(A1) = .=. Î ι
(A2) É .=. Î á
(P1)
(Q1)
(A3)
(A4) ax
.=. x Î a
(A5) Îx a .= . ax
(A6) 'x ax .=. a
(A7)
“Ú” significa la proprietà
banale cioè quella proprietà che è posseduta da qualunque individuo o
(negli altri contesti appropriati) la tautologia cioè la proposizione
necessariamente vera.
(P2)
(Q2)
(P3)
(Q3)
(P4)
(Q4)
Assiomi :
(P5)
(Q5)
(P6)
(Q6)
(P7)
(Q7)
(P8)
(Q8)
(P9)
(Q9)
(P10)
(Q10)
(P11)
a É b . = . ab =
a
(Q11)
ax É by . = . axby
= ax
La formula (Q11) non si
trova in Peano; ma non è da arguire che possa essere asserita in base al
calcolo proposizionale di Whitehead e Russell (nel seguito li indicheremo con
la sigla WR).
Infatti, la (Q11) ha
un significato affatto diverso da quanto viene asserito in tale calcolo, in
quanto non si riferisce a proposizioni categoriche, come per i succitati
autori, ma a schemi di proposizioni.
Ricordiamo che, per Peano, le proposizioni categoriche non fanno parte della logica (cfr. OS-II p. 314).
Notiamo intanto che il segno
“É” (che possiamo leggere “implica”) ha un significato
profondamente diverso dall’implicazione
materiale di WR e, d’altra parte, non corrisponde nemmeno alla loro implicazione formale, la quale
corrisponde al segno “Éx” di Peano, che è definito
dall’identità:
(a1) a,
b Î Cls . É: . a É b . =: x Î a . Éx .x Î b .
Cioè, se “a”
e “b” sono classi (=proprietà) allora dire che l’estensione di “a” è inclusa nell’estensione di “b”
è lo stesso che dire che, per ogni individuo
“x”, “x Î a” implica “x Î b” (vedi FM p. 7), avendo, tuttavia, fatto la convenzione che le
estensioni definiscano completamente le proprietà (come chiarito nella Parentesi epistemologica).
Nel calcolo delle classi di
Peano il segno di inclusione “É” rappresenta una “relazione”
tra proprietà (analoga al segno “£“ tra numeri) e, quindi, per
la (al), lo stesso vale per l’implicazione formale “Éx”.
Nella formulazione di WR
(che è quella che successivamente si è affermata) il segno di implicazione
materiale, indicata sempre col segno “É”, rappresenta un’“operazione”
(analoga al segno “+” tra numeri), essendo definita dalla
├─ (p É q
= ~ p U q)
dove “p”
e “q” sono proposizioni arbitrarie.
Ricordiamo che per WR il
segno “├─
a” indica che la proposizione “a” viene asserita e non semplicemente menzionata (colle
convenzioni di Peano, che qui abbiamo seguito, non è necessario introdurre un
segno speciale per le asserzioni in quanto ogni proposizione della logica si
intende, non solo asserita, ma addirittura come “necessariamente asserita”; essendo che la logica elenca solo
proposizioni che sono necessariamente
vere e non solo semplicemente vere e
non elenca proposizioni false se non per negarle quando siano delle contraddizioni).
Quindi, WR non pretendono
nemmeno che si abbia:
(a2) ├─ (p É q = ├─ ~ p U q)
Mentre la (Q11) vale
[vedi appresso (T21)]:
(a3) ax É by . = . ãx
U by = Ú
cioè, esplicitando interamente le nostre
convenzioni: “ax É by” è,
per definizione, la stessa cosa che dire che la proposizione “ãx U by” è “necessariamente vera”.
Resta da capire in che modo
una proposizione relativa ad un individuo “x” possa essere collegata in
modo necessario ad una proposizione
relativa ad un altro individuo “y”; ma questo lo si potrà vedere, in
seguito, con l’introduzione delle diadi.
Diamo intanto alcuni assiomi
che servono a collegare le proprietà alle proposizioni:
(C1)
(ab)x . = . axbx
(C2) xÎa . = . ι x
Î áa . = . i x É a
(C3) ax ∩ (a É b) . É . bx
Questa rappresenta la forma individuale del
sillogismo. La (C3) viene data,
spesso, come assioma ma si potrebbe (vedi appresso T23) dimostrare come teorema a partire da (C2) e dal sillogismo in forma
universale (vedi appresso T22) che si dimostra, indipendentemente, a
partire dagli altri assìomi.
Sono utili anche i seguenti
assiomi:
(C4) a
Î áb . = . áa Î ááb .
= . áa É áb
(C5)
(C6) x
Î a
. É . $a
(C7)
Con l’introduzione delle “diadi” si può ricondurre al formalismo
generale delle proprietà anche quello
delle relazioni.
Consideriamo una relazione arbitraria, p.es., quella che
abbiamo indicato col segno “Δ, e supponiamo di volere
esprimere simbolicamente l’idea che che la coppia di simboli “x” e “a” stiano nella relazione “x Î a”. Considerando
la “diade” “(x; a)” (coppia ordinata
in cui “x” è il primo termine e “a”
il secondo) come un singolo individuo,
possiamo scrivere “(x; a) Î RΔ asserendo che “RÎ Î R” e “R . = . relazione” che quindi, per (M2), diventa una proprietà (“R
É C”)
Avendo indicato col termine
(costante) “RΔ la proprietà che un qualsiasi individuo “x” ha di possedere una
data proprietà “a”.
Cioè, nel nostro caso
particolare, possiamo scrivere “(x; a) Î RÎ . = . x Î a”.
Allo stesso modo, possiamo
definire “(x; y) Î R= . = .
x = y”, “(a; b) Î RÉ . = . a É b”,
“(a; b) Î R∩ . = . a ∩
b”, ecc.
Si potrebbe formalizzare il
tutto in modo affatto generale ma, per i nostri scopi, ciò non è necessario.
È ovvio che, a partire dalle
diadi, si possono definire le triadi: “(x; y; z) . = .
((x; y); z)” e così via, per
qualsiasi insieme totalmente ordinato con un numero qualsiasi di simboli.
Con queste convenzioni
possiamo, p. es., senza bisogno di altri assiomi, ricondurre la (C3) ad una forma particolare della (Q11).
Basterà, usando la (A2),
riscrivere la (C3) come: “ax ∩ (áb)a . É . bx” e, ricorrendo al formalismo delle triadi,
avendo posto “(x; a; b) Î Rá . = . ax ∩ (áb)a ”, per la (Q11)
possiamo scrivere “Rá(x;a;b) É bx
.
= . Rá(x;a;b) bx = Rá(x;a;b)”.
Questo ci fa capire, anche,
in che senso un’implicazione tra proposizioni singolari può esprimere una necessità logica, cioè una tautologia e ancora, in connessione con
la (T20), ci mostra come non sia
necessaria una logica modale come
calcolo separato. Infatti le modalità vengono
fuori dal significato che abbiamo attribuito al segno “$”.
Con ciò, perdono di
significato le logiche intuizionistiche e
le altre diavolerie del genere (vedi PF).
***
Regole deduttive:
Dl. Da ogni singolo schema
di proposizione valido della logica si può dedurre un altro schema valido
sostituendo ad un suo simbolo, qualsiasi altro simbolo, purchè la sostituzione
venga effettuata in ogni posto dello schema in cui compaia il primo simbolo.
D2. Da ogni schema di
proposizione valido della logica si può dedurre un altro schema valido
sostituendo ad un suo simbolo, un altro simbolo che risulti identico al primo,
per via di qualche proposizione valida del sistema.
D3. Da ogni identità valida
del sistema deduttivo (x = y)
si ottiene un’altra identità valida (ωx
= ωy) operando su ambo i membri dell’identità con un operatore (ω) per il quale abbia senso
applicarlo su uno dei due membri della prima identità.
Per la defizione di identità
e per le regole deduttive valgono sempre gli schemi seguenti:
(I1) a =
a
(I2) a =
b . = . b = a
(I3) (a =
b) ∩ (b = c) . = . (a
= c)
A partire dalle definizioni
e dagli assiomi precedenti si possono dimostrare moltissimi teoremi, usando
tali regole deduttive.
Tuttavia è importante ricordare
che per Peano i teoremi della logica sono, in generale, evidenti di per sé; per
cui lo scopo della dimostrazione non è quello di assicurarci la verità dei
teoremi ma solamente quello di mostrarci come certi modi di ragionamento
possono essere ridotti a modi più semplici.
Noi elencheremo solo
pochissimi teoremi e non ne daremo le dimostrazioni; fatta eccezione per
alcuni, giusto per mostrare come anche un computer li potrebbe fare.
Teoremi:
(T1) a . É . a
(T2) ab . É . a
(T3) ab . É . b
(T4) a
∩ a . = . a
(T5) a
= b . = .
(a É b) ∩ (b É a)
(T6) a
É b ∩ c . = . (a É b) ∩ (a É c)
(T7)
(T8)
(T9)
(T10)
(T11)
(T12)
(T13)
(T14)
(T15) Ù . É . a
(T16)
(T17)
(T18)
(T19)
(T20)
(T21)
(T22)
(T23)
Diamo
ora alcune dimostrazioni :
(T1)
asserisce a É a . Partiamo dall’assioma (P11) che per D1. (con la
sostituzione di “a” , ovunque compaia “b” ), si può scrivere a
É a . = . aa =
a ma aa = a è la formula (T10), valida nel sistema,
che si dimostra, indipendentemente da (T1), a partire da (P1) che
negata (per D3.) diventa giusto la (T10), se teniamo, anche, conto della
(P4).
(T22)
asserisce il sillogismo espresso in forma universale; le ipotesi del teorema
sono:
(L1) a É b
(L2) b É c
per (P11), D1. e D2. diventano
rispettivamente:
(L3) ab = a
(L4) bc = b
per D3. [operando con c∩ su
(L1) e a∩ su (L2) ] e (T11),
che si dimostra indipendentemente da (P6), si ottiene rispettivamente:
(L5) abc = ac
(L6) abc = ab
Da queste ultime per D2. si
ha
(L7) ac = ab
e da questa per (L3)
e D2. si ha
(L8) ac = a
che per (P11) e
D1. si può scrivere
(L9) a É c
che è la tesi del
teorema che si voleva dimostrare.
Per finire, diamo la dimostrazione di (T23), che è la stessa
cosa di (C3), cioè il sillogismo in forma individuale.
Partiamo da (T22)
e operiamo, per D1., le sostituzioni ι x ® a, a ® b, b ® c, ottenendo:
(ι x É a)
∩ (a É b) . É . (ι x É b)
per (C2) e D1.
otteniamo la (T23).