Su di un’opera dimenticata di fisica
di Boggio e Burali-Forti
Avevo maturato la convinzione che la
filosofia con la quale vengono usualmente rivestite le formule matematiche
della teoria della relatività (sia generale che particolare) non fosse di molto
alto livello. Almeno secondo il mio concetto di Scienza che mi ero andato
facendo durante i miei non pochi anni di ricerca nel settore della fisica
nucleare.
Ed ero, anche, convinto che le prove
sperimentali in favore delle due teorie (e in special modo per quella generale,
come oggi viene ammesso da molti specialisti) non siano affatto decisive. Ma
credevo che, dal punto di vista della matematica, non ci fossero sostanziali
obiezioni da fare.
Ma un bel giorno, mentre mi trovavo nello
studio di Notarrigo a parlare di fisica entra Boscarino che, come di consueto,
quando viene a Catania, non perde l’occasione per venirci a trovare per
scambiare quattro chiacchiere.
Ricordo che quel Giovedì, stavamo discutendo
su alcuni aspetti della meccanica einsteiniana. Boscarino, da buon filosofo,
ne fu subito interessato e senza molti preamboli entrò nella discussione.
Fu così che ebbi ad apprendere, per voce del
Boscarino, che due dei “discepoli” del Peano, e cioè Boggio e Burali-Forti,
intorno al 1925 avevano scritto un libro con lo scopo di criticare la moderna
meccanica relativistica.
Ovviamente la cosa ci incuriosì; anche perché
qualche tempo prima, commentando i risultati conseguiti nella logica, nella
matematica e nella meccanica razionale da Peano e dai suoi collaboratori, ci
eravamo chiesti se qualcuno di loro aveva, in qualche modo, espresso una
qualche posizione in merito all’evoluzione della fisica di quel periodo.
Infatti, come è noto, tra il 1900 e il 1930,
la fisica visse una grandissima “rivoluzione” con l’affermarsi di due teorie
che, partendo da presupposti sperimentali differenti, ma fondate sugli stessi
presupposti metafisici, criticavano radicalmente le concezioni classiche della meccanica
come risultanti dagli assiomi di Galilei e Newton.
Consultammo la biografia di Giuseppe Peano
scritta dal Kennedy1 dove
vedemmo confermata l’informazione dataci dal Boscarino; infatti a p. 214 si
legge:
“Prima del congresso
di Torino, Peano partecipò ad un altro congresso: Il Congresso internazionale di
filosofia a Napoli (5-9 Maggio
1924). Uno dei temi principali era la teoria della relatività, e ad esso furono dedicati due giorni. Peano
aveva scarsa conoscenza dell’argomento, ma partecipò alla discussione per
annunciare la pubblicazione, nel corso dell’anno, del volume degli amici Boggio
e Burali-Forti, che conteneva appunto critiche alla teoria. (Gli autori del
volume pretendevano di aver dimostrato
l’impossibilità della relatività; anche Peano, fino alla morte, rimase critico
nei confronti della teoria).”
Per quanto riguarda il Peano debbo prestar
fede alle parole dell’autore; perché, a mia conoscenza, non pare che esistano
opere di Peano che esplicitamente trattano della relatività einsteiniana.
Mentre, consultando altre opere, appresi pure
che, in qualche modo, non tutti i “peaniani”, se così posso dire, la pensavano
allo stesso modo: perché, per esempio, il Marcolongo, dottissimo fisico
matematico, si dissociava dai giudizi negativi nei confronti della nuova
teoria; anzi, pare, secondo quanto è riportato dal Kennedy, che questo preciso
argomento ebbe a provocare un tale dissidio tra il Marcolongo ed il
Burali-Forti da incrinare i loro rapporti di amicizia.
Addirittura, come avremo modo di vedere, il
Marcolongo scrisse, ancor prima di Burali-Forti, un’opera molto interessante
con lo scopo di divulgare le nuova teoria einsteiniana che egli
entusiasticamente aveva accettato.
Questo dissidio interno alla scuola del Peano
a me parve della massima importanza, perché vedevo in esso un esempio
estremamente significativo di contrapposizione tra due scienziati che, pur
appartenendo alla stessa scuola, pur “professando” la stessa matematica, pur
avendo insieme combattuto una grande battaglia culturale in favore
dell’introduziomìe nelle scuole del metodo vettoriale, si trovavano in
disaccordo totale circa l’interpretazione dei fatti empirici.
In questo fatto vedevo un’ulteriore
dimostrazione di come la matematica da sola non possa rappresentare una teoria
fisica, né da soli possono farlo i fatti; né le due cose insieme potrebbero
farlo, in quanto una teoria fisica presuppone sempre una metafisica, ovvero una
particolare visione del “reale”.
Ho cercato di chiarirmi le idee in merito a
questa contrapposizione e mi propongo di parlarne in seguito.
L’opera di “critica alla relatività”, cui
accennò il Peano al congresso di Napoli, fu effettivamente pubblicata per i
tipi della casa editrice STEN.2
Io e Notarrigo trovammo il libro presso il
Seminario Matematico dell’Università di Catania e ne discutemmo insieme
l’impostazione generale. Dopo di ciò, poiché era nata l’idea di dedicare un
numero dei Quaderni al Peano, decisi
di approfondire lo studio dell’opera per poter contribuire con un articolo.
I tanti problemi sollevati dagli autori mi
hanno dato l’occasione di approfondire la filosofia della fisica generale e di
apprezzare il notevolissimo contributo che la scuola italiana (e non solo
quella del Peano) ha dato a questa materia che, da sempre, ho considerato come
“guida” per ogni disciplina specialistica; cosa questa che purtroppo oggi si
tende a trascurare sotto l’incalzare dello specialismo esasperato che ha invaso
le nostre scuole e le nostre università.
Se con questo articolo riuscirò a suscitare
nei lettori interesse nei confronti della fisica italiana degli inizi del
secolo mi sentirò profondamente appagato, anche se certamente non riuscirò a
comunicare la grande gioia ed emozione che ho ricevuto dalla lettura diretta di
tutte le opere che per l’occasione ho avuto modo di consultare.
L’ambiente
culturale dell’epoca.
Per comprendere l’opera, alla quale dedico
questo saggio, è indispensabile dare alcuni elementi che mettano in evidenza i
profondi mutamenti che si stavano venendo a creare all’inizio del ‘900, non
solo nella concezione generale del mondo, ma anche nel modo di intendere la
ricerca scientifica ed il suo ruolo nella storia umana.
Nel fare ciò cercherò di evidenziare quegli
aspetti che sono essenziali per me, senza alcuna pretesa di completezza ma con
l’unico scopo di evitare, per quanto mi sarà possibile, che giudizi ingiusti e
sicuramente troppo sbrigativi vengano scritti nei confronti di quella
componente della cultura italiana che faceva riferimento al Peano.
Sintomatica è la posizione espressa da
Corrado Mangione, opportunamente denunciata da Boscarino nel suo articolo in
questo stesso numero dei Quaderni.
Ma, lasciando da parte le inutili polemiche,
cerchiamo di parlare di Scienza senza lasciare che le passioni, sacerdotesse
dell’opinabile, ci infastidiscano più di tanto!
Negli ultimi secoli, grandi maestri avevano
profuso immani fatiche, sulla scia indicata da Galilei e da Newton, sviluppando
in modo organico la fisica e la matematica. Questo grande lavoro aveva
stimolato la nascita di analoghi risultati in discipline che si andavano sempre
più delineando come scienze esatte.
E si pensi, non solo alla termodinamica, alla
chimica e all’astronomia ma, anche, all’economia, che poteva, grazie al
poderoso lavoro di Smith, Ricardo e Marx, ben degnamente elevarsi al rango di
scienza empirico-formale, alla pari della termodinamica.3
Ricordiamo, per la fisica, tra tanti nomi,
quelli di Laplace, D’Alembert, Jacobi, Hamilton, solo per dare un’idea circa
il particolare momento magico vissuto dall’umanità in cammino verso il “mito”
di una conoscenza verace; mito che, appunto verso la metà del secolo
diciannovesimo, sembrava una possibilità concretamente raggiungibile.
Le idee essenziali che avevano animato ed
alimentato tale ricerca si possono riassumere così:
i) Esiste una realtà che è conoscibile mediante il pensiero ed è
comunicabile attraverso il linguaggio scientifico.4
ii) La realtà si manifesta al soggetto pensante nei fenomeni o
sensazioni.
iii) Gli elementi di realtà sono gli atomi in moto nello spazio
assoluto e il vuoto. Dal moto deriva tutta la “realtà fenomenica”, la quale è
sempre riconducibile a movimenti atomici regolati secondo leggi eterne ed
immutabili: leggi che rimangono nascoste ai sensi per l’incessante divenire; ma
possono essere comprese attraverso una metodologia opportuna. Tale metodologia
non è suggerita da speciali rivelazioni mistiche ma è il frutto di una
quotidiana e dura ricerca.
In questa metafisica, nulla è commcesso al
caso e tutto è regolato da un assoluto determnmmmmsmo: niente accade per puro
caso!
Il “caso” è apparenza, ovvero impressione momentanea
derivante solo dall’assenza di informazioni complete su ciò che si stà
analizzando. Da queste idee essenziali partono le teorie probabilistiche
classiche (cioè non quantistiche) che, utilizzando il concetto di entropia,
permettono in linea di principio (ovvero astraendo dalle eventuali difficoltà
di calcolo) una esauriente descrizione dell’evoluzione dei sistemi complessi
(come ad esempio può essere un gas di particelle).
Il concetto di entropia, e dunque di
probabilità, è stato stupendamente chiarito da Boltzmann che riuscì a tracciare
la via maestra per la quale si perviene al collegamento tra “leggi
microscopiche della meccanica” e leggi “empiriche termodinamiche”.
Con Boltzmann la meccanica classica raggiunge
il punto più alto del suo cammino, ma non dobbiamo dimenticare che questo
sviluppo non si produsse per caso o solo per merito di pochi illustri studiosi.
Infatti, a parte Galilei e Newton, ancor
prima di loro, altri scienziati di grande valore, collegandosi direttamente
agli antichi atomisti e all’opera geniale di Archimede ne avevano gettato le
basi.5
Ben presto la meccanica diventa la guida
essenziale per l’ingegneristica la quale vive il suo momento magico con la
progettazione e costruzione di macchine di ogni tipo. Viene così favorita la
definitiva affermazione di quella società industriale alla quale molto dobbiamo
sia nel bene che nel male.
Seguendo le esigenze dei tempi, la meccanica
viene “spinta” dal campo dei fondamenti a quello della pratica industriale che,
in special modo agli inizi del ‘900, richiedeva sempre nuove e più efficienti
macchine da utilizzare in ogni campo, per inseguire il nuovo “mito” dello
sviluppo economico, assai diverso, purtroppo, dal “mito” della conoscenza.
I nuovi filosofi dell’empirismo, incarnando
in pieno le esigenze di questo esuberante attivismo economico, provvedono a
riformulare il concetto di scienza, “liberandola” da quelli che essi chiamano
“i postulati inverificabili”.
Alla scienza viene assegnato il compito di
“economizzare” nella descrizione dei fatti sperimentali.
Campione di questo rinascente aristotelismo6 fu soprattutto E. Mach che ha
sferrato uno degli attacchi più potenti e raffinati alla cultura atomistica di
tutte le epoche.
Infatti Mach respingeva radicalmente
l’esistenza reale degli atomi e quindi la teoria meccanica che aveva in
Boltzmann il più illustre sostenitore.
La nuova ed emergente cultura dello sviluppo
economico illimitato, modernamente inteso come corsa all’industrializzazione
forzata, consente il dilagare della dottrina empirista che occupa spazi sempre
più importanti.
La scuola, la famiglia e persino la religione
orientano le nuove generazioni verso una cultura efficientistica, il cui
rappresentante supremo è il super-specialista che deve saper risolvere i
complessi problemi pratici imposti dalla sempre più aggressiva economia.
Lo scienziato antico, il pensatore
spassionato amante del sapere, diventa sempre più raro; al suo posto compare un
nuovo tipo di scienziato “risolvitutto”, in corsa verso sempre nuovi e più
prestigiosi traguardi.
Risulta allora comprensibile lo stato d’animo
di molti scienziati e filosofi che, sinceramente innamorati della conoscenza,
con pieno possesso dei concetti e della fisica e della matematica, vedevano nei
“tempi moderni”7, un sostanziale
imbarbarimento della ricerca scientifica, contrassegnato dall’ascesa al potere
economico-politico-scientifico di giovani “rampanti”, intelligenti ed
efficienti ma, soprattutto, ignoranti!
Sembra davvero un paradosso che nel secolo
della scuola aperta a tutti si possa parlare di ignoranza e di imbarbarimento!
Tuttavia emerge con chiarezza che i talenti e
gli esperti del ventesimo secolo mostrano generalmente una sostanziale indifferenza
nei confronti della storia e della tradizione. Soprattutto è da segnalare una
profonda ignoranza nei confronti dei classici e degli scienziati del passato
che sono stati sistematicamente ignorati o malamente scimmiottati.
E se ne capisce facilmente il perché se si
considera il fatto che i nuovi “laureandi” delle università si accontentano,
generalmente, di studiare la “lezione” sugli appunti del docente, facendo
attenzione a non perdere una sola sillaba in modo da poter superare con
successo e velocemente gli esami.
Si crea, così, una schiera di specialisti
che, in assenza di proprie e maturate opinioni in merito alla Scienza, è la più
convinta nel declamare ad ogni piè sospinto la “verità” dettata dal “maestro”.
Io sono profondamente convinto che questa
“cultura” dell’efficienza a tutti i costi e dell’alta produttività stia per
crollare sotto l’incalzare di eventi esterni alla scienza, tra i quali bisogna
annoverare, drammaticamente, il disastroso inquinamento ambientale e il bisogno
di pane dei paesi del terzo e quarto mondo. E quando si ritornerà a
riconsiderare la storia, per riscoprire il gusto del pensare con la propria
testa, per sentire la gioia della lettura di un Archimede, quando alla
televisione sarà restituito il ruolo che gli compete, allora l’epoca che sta
per chiudersi potrà essere riesaminata con più obiettività e serietà.
E sono altresì convinto che quando un
siffatto riesame verrà fatto allora sarà restituita necessariamente giustizia a
coloro che agli inizi del ‘900 combatterono la loro battaglia, purtroppo
perduta.
Tra costoro bisogna annoverare coloro che,
con Peano, in Italia si prodigarono per non far morire la cultura
dell’obiettività e del rigore che fu prerogativa principale di quella scuola
“classica” grazie alla quale ancora oggi l’uomo può vantare una superiorità
intellettuale nei confronti della scimmia!
Ma ora esaminiamo brevemente cosa stava
succedendo nel campo della fisica agli inizi del secolo, visto che la fisica è
l’argomento principale del presente articolo.
Si era appena conclusa la costruzione di quel
maestoso monumento che è la fisica classica che già inquietanti spettri
aleggiavano nell’aria.
La meccanica newtoniana trovava uno sbocco
naturale nello studio e nella comprensione dei moti dei corpi celesti. In
questo campo già Newton aveva detto moltissimo, basti pensare allo studio dei
moti lunari.
Tuttavia, mentre i “meccanici” rivolgevano
tutta la loro attenziomìe verso il “laboratorio naturale” celeste, la
sperimentazione nei laboratori terrestri delle varie università ed istituzioni
scientifiche era dominata da ricerche di elettromagnetismo, di chimica e di
fisica atomica e nucleare.
I primi problemi per una comprensione
totalmente meccanica di tutti i fenomeni naturali vengono dal campo
dell’elettromagnetismo.8
Dopo le indagini teoriche di Maxwell che
riusciva a formalizzare con le sue note equazioni di “campo” gli esperimenti di
induzione elettromagnetica di Faraday ed altri, nei laboratori era tutto un
fermento di esperimenti finalizzati allo studio dei fenomeni di polarizzazione,
di induzione elettromagnetica e, soprattutto, volti a verificare l’ipotesi
sulla propagazione delle onde elettromagnetiche.
Dagli esperimenti di Hertz fu manifesto che i
fenomeni elettromagnetici potevano essere descritti con accuratezza
introducendo l’apparato matematico delle già note equazioni di Maxwell. In
questo sistema di equazioni, l’elemento dominante era rappresentato da certe
funzioni delle coordinate e del tempo, dette componenti del “campo elettromagnetico”.
In particolare, sia le equazioni di Maxwell
che gli esperimenti mostravano che l’accoppiamento tra due circuiti elettrici,
“distanti” l’uno dall’altro, era riconducibile alla trasmissione di un segnale
che si propagava come un’onda dal primo al secondo circuito, e viceversa,
impiegando un tempo finito.
Allo stesso modo si pensava di individuare la
natura della luce che veniva anch’essa descritta come una pertubazione
elettromagnetica.
Seguendo l’analogia meccanica della
propagazione delle onde elastiche (onde sonore, onde marine, ...), il campo elettromagnetico veniva
interpretato come un “modello” per descrivere le oscillazioni di un etere che
doveva riempire lo spazio.
Venivano avanzate numerose ipotesi sul
comportamento dell’etere che, per taluni, doveva essere immobile, per altri,
mobile e, per altri ancora, in parte mobile ed in parte immobile.
Bisogna riconoscere che l’ipotesi dell’etere
rappresentava un “abile” compromesso tra i fautori della teoria corpuscolare
della luce, e quelli che, invece, ne sostenevano la natura ondulatoria.
L’ipotesi che la luce fosse costituita da
corpuscoli era stata sostenuta anche da Newton; ma il “corpuscolo luce” si
prestava male per interpretare i tipici fenomeni ondulatori di interferenza e
di diffrazione. Mentre, indubbiamente, una descrizione in termini di “onda”,
che ebbe sostenitori convinti in Huyghens, Fresnel, Faraday, pareva più
soddisfacente.
In tal senso, secondo me, bisogna
interpretare, probabilmente, gli interventi in favore di una teoria di campo
presenti nei lavori dei vari Lorentz, Hertz, Poincarè, ecc.
L’etere rappresentava allora il mezzo fisico
vibrante nel senso della meccanica.
È evidente
che, in meccanica, l’ipotesi di un etere è ingombrante ed inutile, dal momento
che le leggi sulle quali essa si fonda presuppongono, come del resto aveva
esplicitamente notato Newton, solo atomi e vuoto.
Non a caso, Newton nel commento che fa
seguire alla sua definizione di quantità di materia, dove chiarisce definitivamente
il significato da attribuire alla parola massa, sente il bisogno di aggiungere:
“Qui, non mi occupo del mezzo che
liberamente penetra gli intervalli delle parti, ammesso che ci sia.” 9
Tuttavia, allo scopo di inquadrare le ricerche di elettromagnetismo in uno schema meccanico, molti sforzi di valenti sperimentatori furono orientati verso esperimenti che mettessero in evidenza eventuali effetti fisici connessi con la presenza dell’etere.
Tra tutte queste esperienze si suole citare,
ed io seguirò questa “moda”, quella di Michelson e Morley (1887). Secondo
l’interpretazione usuale, l’esperienza di Michelson mise in evidenza la
contraddittorietà del concetto di etere la cui esistenza reale veniva messa in
serio dubbio.
A quel tempo esperienze del tipo di Michelson
furono considerate come decisive (e lo stesso Einstein assegna ad esse un
grande valore), mentre oggi, alcuni, pur riconoscendone la correttezza
sperimentale sono più cauti nell’attribuire ad esse un tale significato.10
Comunque stiano le cose dal punto di vista
sperimentale, a mio parere, gli esperimenti in questione erano viziati dal
pregiudizio in base al quale i fenomeni elettromagnetici dovevano necessariamente
essere prodotti da vibrazioni di qualcosa, non importava se di carattere
meccanico o di altro genere. Questo pregiudizio è legato ad una particolare
interpretazione delle equazioni di Maxwell che ancora resiste nella fisica
odierna.
A me pare ovvio che, le equazioni di Maxwell,
anche se descrivono correttamente i fenomeni, non autorizzano a introdurre il
concetto di “propagazione” per onde; a meno che, per onda non si voglia
intendere una semplice e utile descrizione matematica. Infatti, e questo
emerge, a mio avviso, chiaramente anche dal monumentale lavoro di Hertz11, un sistema di equazioni,
anche se è “elegante”, nulla può dire intorno alla realtà; a meno che per
realtà non si intenda “tutto ciò che è suscettibile di misura” e dunque si
postuli, empiristicamente, che è reale solo ciò che è misurabile.
Ma così facendo, non solo si vengono a
ribaltare completamente i criteri classici di scientificità, come sono stati
sopra delineati, ma si perviene, addirittura, ad una descrizione della natura
che assume il caso stesso come reale, per la semplice ragione che esso lo si
può definire operativamente.
Come è noto, il caso riveste un ruolo
determinante nella teoria della meccanica quantistica, nella cui usuale
interpretazione si assume, molto più esplicitamente che nella relatività, una
metafisica empirista e fenomenologista.12
Visto il mutamento che stava avvenendo nella
filosofia, ancor prima che nella fisica, la critica einsteiniana dell’etere
arrivava in un momento particolarmente propizio.
Il lavoro di Einstein trova un terreno reso
fertilissimo dalle ricerche dei vari Lorentz, Poincaré, Mach ed altri.
Assai rilevante è da ritenere il contributo
di Lorentz e Poincaré, sia sul concreto nuovo modo di intendere i fenomeni
fisici, sia dal punto di vista della ricerca matematica.
Il Poincaré13 nel 1905, partendo dal lavoro di Lorentz, riuscì a
determinare il gruppo più generale delle trasformazioni rispetto alle quali le
equazioni dell’elettrodinamica risultano invarianti in forma.
Come vedremo in seguito, il problema della
ricerca delle trasformazioni che rendono invarianti in forma le “leggi
naturali” (covarianza delle equazioni) sarà una delle principali ragioni ispiratrici
del lavoro dello stesso Einstein.
Einstein nel suo famoso articolo14 del 1905, completa l’opera dei predecessori, sostituendo
ai postulati “inverificabili” della meccanica due assiomi ritenuti
empiricamente “verificabili”, soddisfacendo in pieno le esigemmze della
filosofia del Mach.15
In questo suo primo lavoro sulla relatività
egli cancella l’etere divenuto oramai superfluo e con esso ogni riferimento
allo spazio assoluto di Newton.
Pagando un tributo al dogma empirista
dell’eliminazione, dall’indagine scientifica, di ogni postulato metafisico,
come sono usualmente intesi il tempo e lo spazio in Newton.
Tale dogma, che era semplicemente presupposto
nel lavoro del 1905, divenne dominante in quello16 del 1916, dove veniva elaborata la teoria della
relatività generale.
Secondo le idee einsteiniane, il parlare di
moto assoluto non ha alcun senso, dal momento che un osservatore, vedendo
muovere un corpo A solo rispetto ad un corpo B considerato in quiete, può
sperimentare solo tale moto relativo.
Inoltre nessuna esperienza fisica, secondo
Einstein, sarebbe in grado di misurare gli effetti del moto assoluto.
Ogni osservatore è in grado di crearsi,
assieme al necessario apparato di misurazione, tutto ciò che basta per
descrivere le osservazioni empiriche e ciò deve essergli sufficiente.
La realtà fenomenica assume allora il ruolo
di realtà “tout court”, con conseguenze enormi sia per gli sviluppi ulteriori
della teoria della relatività sia, e soprattutto, per tutta la fisica del
ventesimo secolo.
Una conseguemmza sconcertante riguarda il
modo nuovo di intendere il concetto di causalità.
Da quanto detto precedentemente emerge
chiaramente che per la fisica classica la connessione tra causa ed effetto è
da ricercare nel mondo degli invisibili atomi e non già nel mondo dei fenomeni.
Con altrettanta chiarezza bisogna riconoscere
che per Einstein e i relativisti la connessione causale ha il significato di
un’affermazione che si deve limitare a verificare l’aderenza della teoria con
il mondo “visibile”.
I fatti osservati (“eventi”) sono causalmente connessi solo se appaiono in
successione. In questo passaggio dall’assoluto al relativo credo che si possa
individuare e principalmente collocare il contributo einsteiniano alla fisica.
Avvertendo, però, che questo passaggio
dall’assoluto al relativo non significa che la fisica einsteiniana manchi di
assoluto, ma significa solo che l’assoluto viene ipostaticamente trasferito
dal mondo “invisibile” (abolito definitivamente!) a quello delle percezioni
sensoriali, che viene rappresentato matematicamente dalla lunghezza
dell’intervallo tra due eventi spazio-temporali.
Geometria e fisica degli spazi curvi
Dopo queste necessarie premesse introduttive
possiamo esporre i contenuti della critica di Boggio e Burali-Forti alla
relatività einsteiniana.
Tale critica si colloca precisamente in
quello che abbiamo chiamato “passaggio dall’assoluto al relativo” che fu
vissuto da molti scienziati dell’epoca con atteggiamenti diversi e
contrastanti.
Solo alcuni seppero cogliere l’importanza
filosofica della crisi connessa con la nascita del “relativismo” moderno.
Tra questi troviamo i nostri autori che ne
sentirono il problema con particolare e drammatica sensibilità.
Anche altri, ovviamente, sentirono con
altrettanta intensità questo momento di crisi e si opposero al cambiamento di
paradigma con altrettanta forza.
Mi riferisco, ad esempio ad un Boltzmann o ad
un Planck; ma questi scienziati, pur restando sempre “fedeli” al più puro
atomismo, fecero delle concessioni apparentemente innocue che, tuttavia in
seguito, ebbero una grande rilevanza per gli ulteriori sviluppi della fisica.
Boltzmann assumendo una definizione di massa che
non si rifaceva esplicitamente al newtoniano concetto di “quantità di materia”
accettava, sostanzialmente, la definizione del Mach, dove la massa viene
ridotta a semplice relazione, ovvero a rapporto tra accelerazioni.
Planck, invece, interessandosi concretamente
ai lavori del giovane Einstein ne favoriva l’ingresso nel mondo scientifico,
pur manifestando per le sue idee molta cautela e spesso giudicandole
“premature”.
Per quanto riguarda i nostri autori (che nel
seguito indicherò con la sigla BB), dopo averne consultate le opere essenziali,
posso affermare che essi furono “partigiani”, sia nella matematica sia nella
fisica, dell’“assoluto” dei classici ed in favore di questo intesero
battagliare, non risparmiando di usare anche la più feroce ed ironica polemica.
Tuttavia, una cosa mi pare di dover dire,
nella loro opera (che nel seguito indicherò con la sigla EC), BB non si
scagliarono mai contro i capiscuola.
Gli autori usano l’arma della polemica non
contro gli iniziatori di una teoria, considerati sempre con il rispetto dovuto
ai “grandi”, ma bensì contro i loro “seguaci” che, a loro avviso, e soprattutto
in Italia, troppo acriticamente e rapidamente accettavano le “nuove” idee, in
special modo se venivano d’oltralpe, senza averne misurato tutte le conseguenze.
In questo senso nell’opera EC, non troveremo
mai un attacco ad Einstein, mentre troveremo, e abbondantemente, una polemica
dura nei confronti dei “relativisti”, come sono chiamati da BB, che vengono
contrapposti ai “fisici”.
Ma, del resto, anche il “relativista”
Eddington, già prima di essi, aveva usato questa, a mio avviso infelice
contrapposizione nel suo libro, divenuto notissimo, Space Time and Gravitation.
I nostri due autori, già prima della
pubblicazione di EC, avevano scritto un’opera poderosa di meccanica razionale,
che nel seguito indicheremo con la sigla MR.
In MR si può trovare una chiara esposizione
dei criteri di ricerca a cui essi si ispiravano.
Ed è importante notare che, come appunto si
può leggere sin dalla prefazione, che non avrebbe avuto senso scrivere un’opera
di meccanica razionale senza una ben precisa motivazione dal momento che
esistevano già molti libri italiani sull’argomento tanto poderosi quanto
importanti.
Si pensi ad esempio alla meccanica del
Marcolongo o a quella del Burgatti o, ancora, ai bellissimi trattati del Maggi.
Tuttavia BB, pur riconoscendo il grande
valore delle opere già esistenti, rimproveravano ad esse una sostanziale
debolezza rispetto alle questioni riguardanti il concetto di moto assoluto, per
essi, di fondamentale importanza nella fisica di Newton.
È interessante
rileggere qualche stralcio della prefazione di MR:
“La meccanica
generale viene da noi trattata ed ordinata in modo alquanto diverso dall’usuale
... . Dei moti relativi (cfr. Cap.
IV,) ne diamo soltanto un cenno: perché, realizzando un’idea generale più volte espressa, e
parzialmente applicata in precedenti nostri lavori, trattiamo tutta la
meccanica non facendo uso dei moti relativi.”
Ed è ancora più significativa la nota aggiunta a piè di pagina, perché il suo contenuto lo ritroveremo esaminando EC, la quale ci chiarisce completamente e senza bisogno di ulteriori commenti il profondo contrasto sia nei confronti degli autori italiani delle varie “meccaniche”, precedentemente menzionate, sia nei confronti dei “moderni” relativisti.
Così si legge nella nota: “È naturale che i moti relativi,
dovuti esclusivamente all’introduzione di assi coordinati fissi e mobili,
spariscano con lo sparire di questi; ed è pure naturale che bastino i vettori che, come enti assoluti, non hanno
bisogno di elementi di riferimento (assi) per trattare le proprietà meccaniche,
che sono tutte di natura assoluta. Nello stesso modo, aboliti gli assi, non vi
è più bisogno di considerare invarianti, covarianti, ... enti dovuti esclusivamente
all’introduzione di arbitrari elementi di riferimento, che nulla hanno a che fare con gli enti assoluti che si studiano. Analogamente dovrebbe sparire
l’algoritmo delle proposizioni che è una piccola parte, e di forma ormai troppo
complessa, del calcolo algebrico.”
Come è ormai chiaro, la più forte
preoccupazione degli autori deriva dal constatare che l’uso e l’abuso del
metodo che fa esplicito uso del concetto di coordinata, anche se di per sé può
sembrare innocuo, conduce ad un indebolimento della teoria meccanica che,
poteva, come di fatto avveniva con Mach, essere reinterpretata in senso
“relazionale”.
È evidente
che la scelta di un particolare linguaggio matematico nulla può dirci intorno
al reale, tuttavia, e qui concordo pienamente con gli autori, l’eccessivo uso
di coordinate di qualsiasi specie, induce di fatto a trasferire gli “elementi”
della realtà dallo spazio fisico ordinario in cui, nella meccanica, avvengono i
movimenti, verso spazi “astratti” introdotti artificiosamente, provocando una
“perdita” di coscienza sulla stessa realtà fisica che si vuole studiare.
A quanto pare, la pubblicazione dell’opera di
meccanica razionale (MR), provocò non poche polemiche negli ambienti accademici
italiani.
A causa di ciò gli autori intervennero
ulteriormente sull’argomento con la pubblicazione di un saggio dal titolo: Moti Relativi e Pendolo di Foucault.17
In questa nota gli autori espongono, a mio
avviso assai lucidamente, il loro punto di vista, anche se il “taglio” della
nota è ancora una volta altamente polemico!
Così leggiamo nell’introduzione: “... nel nostro libro di meccanica razionale non
abbiamo fatto uso dei moti relativi; anzi abbiamo affermato che di
tali moti può farsi a meno in ogni caso. Questa affermazione ha dato luogo ad
alcune verbali osservazioni che, in questa nota, con considerazioni generali e
con l’esempio del pendolo di Foucault, dimostreremo avere un valore di consuet
udine, ma non un valore assoluto; precisamente un valore relativo.”
Quello che è degno di nota è il fatto che
queste polemiche riguardano sostanzialmente l’ambiente italiano, e,
probabilmente, si riferiscono principalmente all’amico Marcolongo, del quale
però mai essi citano il nome esplicitamente.
Comunque, a questo punto, mi paiono
sufficientemente chiare le motivazioni a partire dalle quali muovono le mosse i
nostri autori per cimentarsi, con competenza e responsabilità, in una critica
puntuale alla relatività einsteiniana.
Naturalmente in tale critica non furono i
soli; basti pensare che la rivista “Scientia”
nel 1923 promosse un interessantissimo dibattito intorno alla nuova teoria,
dove gli studiosi poterono liberamente, ovvero senza censure di sorta, ma
solamente mettendo in gioco la loro responsabile coscienza di scienziati,
esprimere le loro opinioni.18
L’opera EC si compone di due parti. Nella
prima parte gli autori espongono i metodi di calcolo vettoriale assoluto ed
omografico esteso a spazi n-dimensionali come formulato interamente dalla
scuola italiana del Peano. Nella seconda si critica la relatività.
Tra i creatori e divulgatori dei metodi
vettoriali sono da segnalare, oltre i nostri due autori, anche Burgatti,
Marcolongo, Pensa, Bottasso.
Il calcolo “assoluto omografico senza coordinate”
viene ad essere contrapposto polemicamente al “calcolo assoluto con
coordinate” che, partendo da certi problemi posti dal Christoffel e dal
Riemann, ebbe anche un brillante sviluppo in Italia, specialmente ad opera del
Ricci e del Levi-Civita.
Come è noto l’opera di questi due matematici
italiani, secondo un’espressione dello stesso Einstein, trova la sua massima
applicazione nella teoria della relatività generale.
È opportuno
fare una doverosa precisazione.
Sia il metodo omografico di BB che quello
usato dal Levi-Civita vengono detti “assoluti” creando con ciò non poca
confusione.
Per questo motivo mi sia permesso fare una
brevissima parentesi nella quale cercherò di evidenziare le differenze
concettuali tra le due impostazioni.
Mi servirò per lo scopo di due esempi: uno
tratto dalla geometria e l’altro dalla fisica.
Esempio a):
È noto che le figure geometriche dello spazio ordinario (ad es. sfera,
cono, cerchio, ...) si possono
studiare assumendo le idee di punto e
di vettore, questo considerato come
differenza di due punti. Il vettore lo si identifica completamente assegnando
una direzione, un verso ed una lunghezza.19
Le proprietà degli enti geometrici vengono
espresse e studiate utilizzando solo queste due idee elementari oltre alle
regole della logica formale, senza mai dover ricorrere alla nozione di
coordinata con relativo sistema di riferimento.
C’è un altro modo di trattare gli enti
geometrici, utilizzando i concetti della “geometria analitica” che consente di
esprimere le stesse cose della geometria elementare in un linguaggio di
coordinate.
In particolare, ad ogni punto dello spazio si
fa corrispondere una terna ordinata di numeri reali che si chiamano coordinate
cartesiane (non necessariamente ortogonali) del punto, relativamente ad un
assegnato sistema di riferimento.
Sembra ovvio che la scelta del sistema di
riferimento non possa far cambiare le proprietà assolute (cioè geometriche)
degli enti. Così, assume particolare rilevanza, in questo contesto di coordinate,
lo studio delle trasformazioni che, trasformando da un sistema di riferimento
ad un altro, lasciano invariate le proprietà assolute (distanze tra punti,
volumi, angoli, ...).
Tenendo presente quest’ultima importantissima osservazione, tutta la geometria elementare può essere interamente riscritta in un linguaggio analitico; cosa che spesso rende più facili le cose.
Esempio b):
Nello studio dei sistemi meccanici di molti
corpi soggetti a vincoli vari,20 per
studiarne il moto, si può impiegare il metodo, che già Newton aveva usato, di
lavorare direttamente con gli enti reali (punto materiale, linea, forza,
vettore, ...).
Tuttavia, quando il sistema è abbastanza complesso,
è spesso preferibile adottare dei metodi più astratti (anche se è sempre
raccomandabile farsi prima un’idea della dinamica del problema usando i
vettori!).
Per esempio, la posizione nello spazio fisico
dei punti materiali che compongono il sistema può essere individuata da un solo
“punto” in uno spazio astratto a n gradi
di libertà introducendo n parametri
reali che si chiamano coordinate
generalizzate del sistema. La corrispondenza tra spazio ordinario e spazio
astratto viene completata dall’introduzione di opportune forze generalizzate, in modo tale che il moto del sistema reale
possa venire descritto dal “moto di un punto” appartenente allo spazio astratto
ad n gradi di libertà.
Questi due esempi ci fanno capire come, l’uso
di coordinate, sia nella geometria che nella fisica, è utile, e spesso
indispensabile, a condizione che “non si perdano di vista” i veri elementi di
realtà che non sono né le coordinate nè le forze generalizzate.
Tuttavia è completamente errato, e anche in
questo caso la critica di BB è da ritenere particolarmente significativa,
pensare che il metodo assoluto “senza coordinate” sia impotente di fronte a
questioni o di fisica o di geometria che coinvolgano un numero di gradi di
libertà superiore a tre.
Gli autori mostrano come, in ogni caso, il
metodo vettoriale è non meno potente di quello delle coordinate e ne sviluppano
completamente e chiaramente le tecniche, generalizzando quanto era già stato
fatto precedentemente, oltre che da loro stessi, dal Pieri, dal Pensa e dal Marcolongo.
L’universo di Minkowski risulta una
traduzione nel linguaggio delle coordinate di una tale impostazione.21
Nella relatività einsteiniana si instaura una
relazione matematica entro le variazioni delle coordinate spaziali e di quella
temporale che spesso si suole indicare con il nome suggestivo di “fusione del
tempo e dello spazio”, la variazione in questo spazio-tempo viene chiamata “quadri-intervallo”.
Con ciò si viene a dare significato fisico ad
una distanza in tale spazio quadridimensionale, che a seconda del sistema di
riferimento appare ora come lunghezza nello spazio ordinario, ora come
intervallo di tempo, ora come qualcosa di anfibio tra spazio e tempo.
Lo spazio di Minkowski è la “collezione” di
tutte le quaterne del tipo (x, y, z,
t) che dovrebbero rappresentare gli “eventi fisici”, considerati come enti
assoluti, indipendenti quindi dal sistema di riferimento, che tuttavia, invece
possono essere espressi solo mediante le coordinate dei singoli osservatori, e
cioè: x, y, z per le
coordinate spaziali e t per quella
temporale, che invece variano da osservatore a osservatore.
Per tale ragione, per es., nella relatività
particolare la scelta del sistema di coordinate non può essere arbitraria, ma
deve sottostare al requisito che calcolando per mezzo delle nuove coordinate il
“quadri-intervallo”, esso deve
risultare un invariante.
Tecnicamente, tale condizione può essere
espressa dicendo che le trasformazioni da un sistema ad un altro (in moto
rettilineo relativo uniforme rispetto al primo) formano il gruppo di
trasformazioni di Lorentz, che nel seguito indicheremo con il simbolo L.
A noi sembra evidente, come del resto a BB
(ma non lo è all’interno della usuale interpretazione della relatività), che il
poter collegare due sistemi di riferimento con una trasformazione tipo L non ci obblighi in alcun modo a
cambiare la natura del tempo e dello spazio, come, appunto, viene mostrato in
EC mediante la riduzione in forma assoluta delle trasformazioni di Lorentz.22
Gli autori mostrano che, introducendo
un’opportuna corrispondenza lineare (omografia) tra vettori dello spazio
ordinario e considerando il tempo ordinario (ovvero assoluto), è possibile
ridurre a forma vettoriale la trasformazione di Lorentz alla quale, a questo
punto, si può dare un significato fisico semplice e chiaro.
Si considerino due osservatori concreti O e O’,
tra i quali si propaghino onde generate da un qualche processo fisico. La
pertubazione che all’istante di tempo t si
produce in un punto P relativo ad O sarà rivelata ad un certo istante t’, in un punto P’ relativo ad O’. Ciò
significa che si stabilisce una corrispondenza tra i punti ed il tempo di O e quelli di O’ in modo che, nei punti corrispondenti, le pertubazioni siano
uguali in ampiezza o, più generalmente, stiano in una certa relazione tra loro.23
In altre parole, seguendo le critiche
espresse dagli autori, la relatività particolare non è altro che la
correlazione tra misure effettivamente compiute con determinati strumenti
fisici, indipendentemente dalla causa reale che ha provocato l’effetto sui
rivelatori.
Mi ero proposto di parlare della parte
matematica e sono andato a finire nella fisica! Ma, non credo che sia solo per
“deformazione” professionale.
Mi chiedo: cos’è la matematica? La risposta
non è facile, coinvolgendo essa difficili questioni, come si può vedere
leggendo i saggi di Boscarino e di Notarrigo.
In relazione alle questioni di matematica
sollevate dai nostri autori, vorrei aggiungere ancora qualche altra
riflessione.
La critica esplicita di BB contenuta in EC si
basa sulla, apparentemente, ingenua domanda: Se tutto ciò che serve alla
fisica, è nei nei vettori e nelle loro trasformazioni, perché ostentare l’uso
del metodo del calcolo con coordinate?
Si potrebbe rispondere in modo ovvio dicendo:
Perché no!?
Infatti, dopo tutto, malgrado l’accusa di
calcoli “lunghi e difficili” che i nostri autori rivolgono ai metodi
“stranieri”, il fatto che questi si siano imposti sia all’estero che in Italia
(si ricordi l’opera del Ricci e del Levi-Civita!) potrebbe indicare che tali
metodi siano, effettivamente, più maneggevoli e persino più “semplici”
(qualunque significato che si voglia dare all’aggettivo “semplice”!).
E, sostanzialmente, essendo noi liberi di
scegliere, potremmo optare in favore del metodo più conveniente (anche se la
convenienza è spesso quella che deriva dall’essere alla moda).
Tenterò di dare una mia interpretazione della
faccenda.
Intanto, dopo aver confrontato i due metodi
(quello con coordinate è sostanzialmente usato nell’insegnamento della fisica
teorica di oggi sotto il nome di calcolo
tensoriale), non mi pare che si possa dire che i calcoli di BB siano “più
accessibili” di quelli con coordinate, anche se parecchi teoremi, qui, si
possono dimostrare in poche righe.
Penso che la scelta tra i due metodi dipenda
solo dall’abitudine ad un certo tipo di manipolazioni matematiche piuttosto che
ad altre. D’altra parte, i metodi assoluti degli italiani erano e sono poco
conosciuti, mentre il linguaggio delle coordinate era ed è di gran lunga il più
diffuso. Per questo motivo, anche in Italia, molti, per non restare ai margini
della “cultura europea”, preferirono i metodi d’oltralpe.
Si immagini infatti di dover comunicare
qualcosa in un congresso dominato (numericamente) da americani; non rimane che
parlare americano!
Ma, per esprimere questo concetto, non potrei
far meglio che di avvalermi delle parole, tanto significative, che il
Marcolongo scrive nella prefazione alla sua opera sulla relatività:
“Anche alla
teoria della relatività sono applicabili con completo successo, i metodi delle
omografie vettoriali di cui, da molti anni, faccianmo uso e
ci sforziamo di diffondere, il prof.
Burali-Forti ed io. In recenti lavori a stampa scolastici si è mostrato come
tutta la teoria dei coefficienti di Riemann, possa essere semplificata e sintetizzata colla sola
considerazione di due omografie, che
hanno pure fondamentale importanza nella
teoria della relatività. Ma il seguire tal via mi avrebbe costretto a valermi
delle parti più astratte e più complesse di teorie che non sono ancora
conosciute da tutti; non avrei, nell’interesse immediato della relatività,
fatto opera di volgarizzazione e
di diffusione; non avrei agevolato lo studio (almeno che ad un piccolo numero di iniziati) a
coloro che vorranno approfondire le
memorie originali. Del resto nella scienza non ci sono, non ci debbono essere
esclusivismi; tutte le vie che conducono alla scoperta, alla conoscenza del
vero, sono belle ed aspre ad un tempo e tutte libere nello sconfinato oceano
del sapere” 24
Bisogna semplicemente notare, a commento di
queste posizioni, l’uso dei termini “volgarizzazione” e “diffusione” impiegati
dall’autore. Certamente, esse denotano un profondo mutamento nel modo di
intendere la cultura agli inizi del ‘900.
Questo mutamento era dettato da un sincero
bisogno di emancipazione collettiva che intendeva far uscire dalle “torri” la
cultura accademica per “distribuirla” nella società.
Questa operazione di svecchiamento, tuttavia,
ha condotto innegabilmente a delle storture abominevoli del concetto di
scienza, storture che sono risultate funzionali al sistema politico-economico.
Deve essere chiaro che non mi riferisco
all’opera del Marcolongo (sicuramente anch’essa nota solo a pochissimi, perché
rigorosa) né alle opere del Levi-Civita o dell’Einstein (anch’esse, a quel
tempo, pressocché sconosciute alla grande massa) ma a quelle opere di
divulgazione scientifica “da vetrina” (cioè scritte da famosi personaggi) che,
specialmente in tempi come questi, adornano le librerie e ... confondono le menti ai giovani!
E tanto basti sul versammte della matematica,
per capire da un lato l’importanza di EC, e “giustificarne”, dall’altro, il
contenuto altamente polemico.
E passiamo alla fisica che, come si è già
accennato, non può essere arbitrariamente scissa dalla matematica e dalla
filosofia.
Nel parlare di fisica, si è immediatamente
condotti a considerare quello che BB chiamano l’“aspetto empirico
sperimentale”. In altri termini, se è vero che il principale obiettivo di una
teoria fisica è quello di guidare verso la conoscenza, ne viene che,
certamente, è un importante banco di prova l’accordo della teoria con
l’esperimento.
Senza dimenticare però che questa esigenza
fondamentale vale tanto per la teoria newtoniana quanto per quella
einsteiniana; però è da notare che, in particolar modo agli inizi del secolo,
gli esperimenti che mostrerebbero l’evidenza di effetti relativistici sono
stati accolti da molti con eccessivo entusiasmo, suscitando in alcuni vivaci
reazioni, tanto giustificate quanto opportune.
Esaminiamo un pò più da vicino la questione.
Sulla relatività particolare, BB si limitano
a riportare le critiche del Somigliana, sostenendole efficacemente.
Tali critiche a me paiono di grande valore e
ho già avuto modo di parlarne più sopra, a proposito dell’interpretazione
classica della trasformazioni di Lorentz.
Ma il contributo del Somigliana, a questo
punto, mi sembra così profondo che ne voglio ribadire il significato.
La critica del Somnigliana non si rivolge
contro gli esperimenti, usualmente portati a sostegno della relatività, con lo
scopo di individuarne gli eventuali punti deboli (che comunque potrebbero di
fatto esserci), ma ne riconsidera il significato fisico alla luce della
semplice e allo stesso tempo terribile domanda: cosa significa il risultato di un esperimento?
In effetti, ancora oggi, è diffusa l’idea
(nonostante il Popper) che un esperimento possa verificare una teoria. Più
opportunamente, bisognerebbe dire che un esperimento può solo, eventualmente,
“falsificare” il risultato di un “modello”
costruito a partire dalla teoria.
Il Somigliana mostra che le “presunte prove”
in favore della relatività non erano e non potevano essere considerate come
“prove” tali da falsificare la teoria classica di Newton, per la semplice
ragione che era sempre possibile costruire un modello classico (meccanico)
compatibile con i risultati sperimentali stessi.
Per fare ciò, Somigliana considera, come
esempio, il modello della propagazione delle onde elettromagnetiche, come
formalizzato dalle equazioni di Maxwell, le quali, notoriamente, stanno alla
base della relatività particolare.
Esaminiamo il caso delle oscillazioni di una
corda “elastica” fissa alle estremità, come, ad esempio, la corda di un
violino.
In questo caso, e più in generale in tutti i
fenomeni ondulatori, il modello meccanico come applicato ai corpi continui
deformabili, nel quale si rinuncia, di proposito e a scopo di semplificazione
matematica, alle discontinuità atomiche, ci fornisce, sotto opportune condizioni,
una descrizione del moto ondulatorio, quando si consideri la variazione nel
tempo dello spostamento, trasversale alla corda, di un punto A della corda stessa (ampiezza), che dal
punto di vista della matematica obbedisce all’equazione d’onda di D’Alembert.
Si sa che all’equazione di D’Alembert
obbediscono pure le componenti del campo elettrico e magnetico come descritte
dalle equazioni di Maxwell.
Ed ecco una prima ed importante osservazione:
l’equazione d’onda non è tipica dei fenomeni elettromagnetici! Essa, invece, è
ben nota ai meccanici che se ne erano già serviti da tempo, anche per spiegare
completamente l’effetto Doppler.25
Ora è chiaro che le trasformazioni che
lasciano inalterata la forma dell’equazione di D’Alembert, nel caso della
meccanica, sono identiche a quelle che sono state trovate per
l’elettrodinamica, per la semplice ragione che non vi è distinzione formale tra
i due casi.
Queste trasformazioni (che furono esaminate
dal Voigt e riprese dal Somigliana come indicato in nota23) sono
molto generali e nel caso lineare conducono alle trasformazioni di tipo L.
Per le trasformazioni lineari, come abbiamo
avuto modo di notare precedentemente, si perviene ad una semplice
interpretazione nel caso delle correlazioni introdotte dai processi di misura,
effettuati da due diversi osservatori in moto relativo uniforme, sul segnale
ondulatorio propagantesi nello spazio.
Ed ecco, allora, un’altra importante
osservazione: è lecito cambiare le leggi del moto dei punti materiali a causa
di certe proprietà di trasformazione dell’equazione d’onda?
In meccanica, non solo una tale domanda non
sarebbe lecita, ma non avrebbe il benché minimo significato, visto che
l’equazione di D’Alembert rappresenta solo e nientaltro che un semplice
modello!
È forse
lecito riformulare le leggi della meccanica, come pretenderebbe la relatività,
per il semplice fatto che un’equazione d’onda venga utilizzata con successo per
la descrizione fenomenologica dei fenomeni elettromagnetici?
La risposta degli autori, a cui difficilmente
si può razionalmente controbattere, è chiara:
assolutamente no!
Questo per quanto riguarda la relatività
particolare.
Passiamo ora ad esaminare le famose “prove
storiche” in favore della teoria einsteiniana della relatività generale prese
in esame dai nostri autori. Esse sono: 1) lo spostamento verso il rosso delle
“righe” di emissione dello spettro solare, 2) L’anomalia del moto del perielio
di Mercurio, 3) l’incurvamento dei raggi luminosi nel passaggio vicino ad una
grande massa gravitazionale.
Esula dagli scopi che ci siamo prefissi
parlare in dettaglio di questi effetti, come del resto fanno BB rimandando alle
pubblicazioni originali dell’epoca, che sono ampiamente discussi in molti libri
a carattere divulgativo.26
Mi limiterò solo a qualche osservazione.
Per quanto riguarda gli effetti 1) e 3) BB si
avvalgono ampiamente del lavoro e delle osservazioni del Fabbry, illustre
fisico sperimentale di allora.27
Fabbry incomincia con l’elencare, come solo
un fisico sperimentale che abbia effettivamente acquisito una grande esperienza
di laboratorio può fare, tutti i parametri empirici da cui poteva dipendere uno
“spostamento verso il rosso” della radiazione emessa da un dato elemento.
Ricordiamo, brevemente, cosa si intende per
spettro luminoso, servendoci del paradigma usuale. Tutti abbiamo certamente
osservato, almeno qualche volta, l’effetto prismatico di dispersione della luce
solare che attraversa un pezzo di vetro o di cristallo. Si suole dire che la
luce bianca del sole viene scomposta nei colori “fondamentali” che, nel visibile,
vanno dal rosso al violetto: questo è un esempio di spettro luminoso.
Se invece della luce solare ci serviamo della
luce emessa da un determinato elemento come nel caso dei vapori di sodio o di
un gas di idrogeno, oltre ad uno spettro continuo, come quello della luce
bianca (più o meno apprezzabile), si noteranno anche delle “sottili strisce” o
“righe” di determinati colori.
Generalmente, uno spettro “tipo luce bianca”
lo si dice continuo perché esso non presenta interruzioni nel pasare dal rosso
al violetto, mentre uno spettro a righe lo si dice discreto.
Poiché la luce è interpretata come
propagazione di onde elettromagnetiche, i vari colori sono associati ad
altrettante frequenze di vibrazione dell’onda.
Per mezzo dell’analisi spettrale, ad ogni elemento
viene associato il corrispettivo spettro che così viene ad assumere il ruolo di
“carta di identità” o di “impronta” dell’elemento stesso.
Secondo la teoria della relatività generale,
il periodo di oscillazione dell’onda elettromagnetica dovrebbe dipendere dalla
curvatura indotta nello spazio dall’eventuale presenza di campi gravitazionali,
cosicché la frequenza di vibrazione dovrebbe diminuire all’aumentare
dell’intesità del campo.
Questo fatto produrrebbe, visibilmente, uno
spostamento delle righe spettrali verso il rosso. Un tale spostamento è stato
effettivamente osservato in passato ed attribuito, allora, troppo
frettolosamente, come oggi viene riconosciuto, ad effetti relativistici.
Il Fabbry fa osservare che spostamenti verso
il rosso (vi erano pure casi di spostamenti verso il bleu!) erano stati
osservati da tempo anche in laboratorio e prima ancora dell’avvento della
relatività. Per cui era già noto agli sperimentali che il “dogma”, che lo
spettro di un elemento fosse qualcosa di indipendente dalle particolari
condizioni in cui si trovasse l’elemento stesso, era già da lungo tempo
crollato. Ma del fatto se ne davano differenti interpretazioni. Infatti, era
stato osservato che gli spostamenti erano sensibili a molteplici fattori
empirici.
Il Fabbry ne ricorda alcuni tra i più
rilevanti: effetto Doppler, effetti di pressione, effetti magnetici (come
l’effetto Stark) ed altri ancora.
Ma oltre a questi, egli richiama l’attenzione
sulla scoperta di un effetto nuovo, da lui stesso individuato e studiato
accuratamente, in base al quale lo spettro luminoso si dispone diversamente,
rispetto ad uno spettro di riferimento, a seconda che la luce provenga dal
centro o dai bordi del disco solare.
In base a queste interessantissime
argomentazioni sperimentali il Fabbry concludeva osservando che, prima di
tirare conclusioni in merito alla relatività, come sarebbe stato opportuno in
nome della Scienza, bisognava considerare, con ogni possibile cura, la misura
dello spostamento delle righe spettrali dovuto a tutti quegli effetti già noti,
dei quali, la relatività, per altro, non riesce a dare nessuna stima né
quantitativa né qualitativa!
Oggi, almeno tra gli specialisti, si fa molta
più attenzione alle critiche di ordine sperimentale a cui fanno riferimento i
nostri autori, anche se si è perso memoria di tutti i critici del passato che
furono riposti nel dimenticatoio dal momento che, effettivamente, agli inizi
del secolo, gli esperimenti in favore della teoria relativistica erano stati
accolti con un’indulgenza scientificamente non giustificabile nè dal punto di
vista della logica nè dal punto di vista della fisica.
Comunque, dopo i primi anni di soverchio
“entusiasmo”, le varie difficoltà cominciarono ad essere manifeste; tanto che,
oggi le prove connesse alle osservazioni astronomiche non vengono più
considerate come prove dirette del principio di equivalenza einsteiniano.
Tale situazione rimase immutata fino al 1960,
quando, con la scoperta dell’effetto Mòssbauer, si cominciarono ad eseguire
esperimenti direttamente in laboratorio, dai quali, a parere dei più,
risulterebbe confermato, con un’accuratezza intorno a qualche per cento, lo
spostamento verso il rosso della teoria einsteiniana. (Ma è davvero questa
l’unica possibile spiegazione?, ci sono voci discordi anche qui!).
Un’altra conseguenza della relatività è che
la luce, in analogia a quanto succede per un proiettile lanciato entro il campo
gravitazionale della terra, dovrebbe “incurvarsi” quando passa vicino ad una
sorgente di campo gravitazionale, come, p. es., la Terra o il Sole.
Un tale effetto si può misurare nel caso
della luce che, proveniente dalle stelle, passa vicino al Sole.
Effettivamente, se si interpreta la luce come
un’onda elettromagnetica che viaggia nello spazio, l’osservazione empirica
della luce proveniente dalle stelle indicherebbe un tale “incurvamento”.
Ma, anche in questo caso, concedendo che la
gravitazione infiuenzi effettivamente il cammino della luce, bisognerebbe
considerare con molta cura un’altro effetto, molto noto, come quello banale
della diffrazione che abbiamo imparato sin dalla scuola media che, mi si
permetta di ricordarlo, consiste nella deviazione del raggio luminoso nel
passaggio da un mnezzo (ad es. aria) ad un altro (ad es. acqua).
Seguendo le osservazioni di BB, a questo
proposito, prima di tirare conclusioni affrettate, sarebbe opportuno conoscere
in ogni dettaglio lo spazio effettivamente attraversato dal raggio luminoso e,
in particolare, l’estensione e la densità dell’atmosfera solare nonché la sua
temperatura e composizione chimica.
Secondo le mie conoscenze sull’argomento, la
critica di Boggio e Burali-Forti, confortata dalle osservazioni di numerosi
fisici dell’epoca, appare sostanzialmente corretta, tanto è vero che, oggi, le
prove astronomiche riguardanti l’osservazione delle eclissi solari28 non vengono più considerate come probanti e si
cercano altrove le prove sperimentali di quest’altra ipotesi einsteiniana.
Come abbiamo avuto modo di constatare, le
osservazioni sperimentali che coinvolgono la misura di certe quantità connesse
alla “propagazione della luce”, qualunque cosa possa essere la luce, sono molto
complesse, per cui, a mio avviso, non è in questo dominio che bisognerebbe
cercare prove accurate pro o contro la teoria relativistica.
Ma, ci si chiede: esistono indizi in favore
della relatività generale che riguardino il moto dei corpi materiali?
La situazione anche in questo caso è molto
complessa.
In definitiva si può dire che eventuali
indizi possono essere trovati solo su scala astronomica; anche perché i
fenomeni della microfisica sono descritti attualmente da leggi fisiche la cui
formulazione è indipendente dalla relatività generale.
Quelle stesse leggi della microfisica che,
all’interno della meccanica quantistica, sono espresse nel linguaggio della
relatività particolare sono indipendenti dai postulati della teoria generale e,
anzi, qualcuno sostiene l’incompatibilità logica tra la relatività e la
meccanica quantistica.
Tuttavia, anche su scala astronomica, la
meccanica celeste, fondata sulle leggi di moto classiche newtoniane, riesce a
spiegare il moto dei corpi celesti con una tale accuratezza da non richiede
l’uso della relatività generale.29 Comunque
è opinione comune, almeno l’opinione espressa nelle varie esposizioni della
relatività generale, che vi sia un fatto empirico riguardante il moto del
pianeta Mercurio che non è spiegabile interamente con la meccanica di Newton,
ma è spiegabile, invece, con la relatività generale.
Il fatto è noto come 1’“anomalia
del moto del perielio di Mercurio”.
Le Verrier nel 1859 notò che la traiettoria
di Mercurio attorno al Sole non era un’ellisse ma una curva più complessa.
Detto in parole povere, tale curva la si può
descrivere pensando a una traiettoria ellittica giacente su di un piano che si
vada, a sua volta, spostando continuamente.
Se si considera il vettore che congiunge il
Sole con il punto in cui il pianeta Mercurio gli si avvicina al massimo (perielio), si osserva che tale punto,
spostandosi nel tempo, spazza un certo angolo che si può misurare.
Le misure più recenti danno un valore di
circa 5601” (secondi d’arco per secolo), di cui 5026” sono dovuti al moto del
sistema di coordinate, per cui l’effettivo moto del penielio di Mercurio relativo
al sole, risulta, dopo tale sottrazione di 575”.
In linea teorica, è possibile spiegare questo
fatto con le leggi del moto di Newton, supponendo valida la sua famosa legge di
attrazione universale. Tuttavia, nel fare ciò, ci si scontra con il più grande
problema della meccanica (e non solo di quella classica ma anche di quella
relativistica e di quella quantistica). Questo problema, alla cui soluzione si
sono appassionati fisici e matematici di tutti i tempi, va sotto il nome di problema dei molti corpi.30
Nel caso del nostro sistema solare il problema consiste nel determinare il moto dei pianeti sapendo che tra essi, e tra ognuno di essi ed il Sole, vi è attrazione gravitazionale. Il problema non è analiticamente risolubile, anche se esistono molti teoremi assai utili, per cui bisogna utilizzare il metodo delle perturbazioni che dà una soluzione approssimata del problema.
Sostanzialmente, in tale metodo, si studia
dapprima il moto ellittico di un pianeta nel campo gravitazionale del Sole
(assumendo i due corpi come puntiformi e trascurando le interazioni con gli
altri pianeti del sistema solare e qualunque altra eventuale interazione non
gravitazionale) e introducendo, successivamente, le interazioni residue come
piccole perturbazioni con metodo iterativo. Allo stesso modo vengono
introdotte anche quelle correzioni dovute alle dimensioni e alla forma del
Sole.
Nel caso di Mercurio, a mia conoscenza, sono
state considerate solo le perturbazioni dovute a Venere, Terra, Marte, Giove,
Saturno, Urano, Nettuno e lo schiacciamento ai poli del Sole, assumendo come
trascurabili altre correzioni. Si perviene al valore di 532”. Per cui il
disaccordo tra dato sperimentale e modello teorico31 è di soli (42.9 ± 0.2)”.
A mio modo di vedere le cose, e qui concordo
pienamente con BB, questo risultato numerico è di per sé spettacolare visto che
si ha un disaccordo tra teoria ed esperimento inferiore all’uno per cento
(42.9/5601), nonostante le varie approsimazioni fatte e tenuto anche conto
delle incertezze nella misura dei vari parametri utilizzati (come masse,
distanze relative dei pianeti, periodi di rivoluzione, ecc.).
Vediamo invece come vanno le cose sul
versante dei calcoli effettuati con la relatività generale. Anche in questo
caso il problema è estremamente complicato. Anche qui è possibile risolvere il
problema dei due corpi (pianeta e Sole) facendo delle, più o meno, ragionevoli32 approssimazioni sul campo
gravitazionale del Sole.
Il calcolo dà il valore di 42” da confrontare
con il valore 0” del calcolo fatto con la teoria classica nelle stesse
condizioni di approssimazione in cui è stato fatto il calcolo relativistico.
Guarda caso, tale valore è giusto uguale alla
differenza tra il valore sperimentalmente misurato e il calcolo classico che
tiene conto delle perturbazioni più importanti.
Allora si ragiona così: Se al valore di 532”
che proviene dalle perturbazioni aggiunte al calcolo classico aggiungiamo i 42”
del calcolo relativistico senza perturbazioni otteniamo il valore sperimentale,
quindi la relatività generale spiega il dato sperimentale mentre la teoria
classica no.
Ma siamo sicuri che il calcolo classico tiene
conto di tutte le correzioni rilevanti e che i parametri usati siano quelli
giusti, prima di dire che la teoria classica fallisce?
E siamo sicuri che quando le perturbazioni
venissero introdotte direttamente nel calcolo relativistico, invece che
ottenerle per sottrazione, si otterrebbe di nuovo il valore sperimentale?
Alla prima domanda si risponde, generalmente,
dicendo che le approssimazioni fatte vanno bene per gli altri pianeti;
purtroppo capita che l’orbita di Mercurio sia la più allungata di tutti gli
altri pianeti ed è per questo che lo spostamento del suo perielio è più
sensibile; per di più è il più vicino al sole e l’interazione elettromagnetica
tra i due corpi potrebbe risultare non trascurabile per effetti percentualmente
così piccoli.
Alla seconda domanda, generalmente, non si
risponde; almeno, da quanto è emerso dalle mie letture, nessuno se la pone.
Può darsi che, con il tempo, altri fatti,
diversi da quelli considerati da BB, potranno giustificare la relatività
generale; tuttavia, è mia opinione che la situazione ancora oggi non è per niente
molto chiara, come del resto, quasi tutti i più esperti fisici sperimentali che
operano in questo campo sembrano ritenere. Ma, ancor oggi, il raggiungimento di
un’accettabile precisione sia nelle misure che nei calcoli non è per niente
agevole; ed è più difficile raggiungerla visto che la verità della teoria viene
data per scontata, per cui solo i “pazzi possono avere il coraggio di
cimentarsi in tali costosissime imprese.
Ma lasciamo il campo empirico-sperimentale e
vediamo in che cosa consiste la critica più importante che BB muovono alla
relatività generale.
È evidente,
e persino superfluo a dirsi, riconoscere che le prime pubblicazioni con le
quali veniva esposta la teoria, anche dello stesso Einstein, contenevano delle
imprecisioni e alcuni punti di vista inessenziali che, in seguito, sono stati
eliminati nelle più moderne esposizioni della teoria; ne segue che talune
critiche di BB (per esempio quella a proposito della definizione “operativa” del tensore energetico)
sembrano oggi superate.
Tuttavia, vi è un punto che mi pare
importante riproporre all’attenzione dei “moderni”
e che rimane una critica seria alle concezioni relativistiche sul mondo
fisico.
Si parla spesso di spazio-tempo relativistico
come l’“arena” in cui avvengono i
fenomeni fisici. Ma i nostri autori formulano la seguente domanda: lo
spazio-tempo einsteiniano è una “raltà
fisica” oppure esso è da considerare come un semplice “modello matematico” tra i molti equivalenti che possono descrivere
la stessa realtà fisica?
E, in questo secondo caso, quale dovrebbe
essere l’effettivo spazio fisico in cui avvengono i fenomeni? Una tale domanda
necessita di un chiarimento di ordine filosofico. Infatti, qualcuno potrebbe, a
sua volta, chiedere: Non è forse vero che, almeno, da Galilei in poi è la
matematica che descrive la “realtà
fisica”?
Penso che i nostri autori risponderebbero: Sì
è vero. Ma la matematica doveva descrivere le grandezze fisiche e non le
coordinate, che venivano usate solo come strumento ausiliario di calcolo e non
avevano significato fisico. E questo per la semplice ragione che non sono
invarianti per traslazioni o rotazioni o riflessioni operate sul sistema di
coordinate.
Sarebbe stato inconcepibile per Galilei o per
Newton che una grandezza fisica potesse dipendere dalla scelta del sistema di
riferimento!
In questa luce, la domanda degli autori si
deve tradurre: Le misure effettuate dai vari osservatori sono la “realtà fisica”? Se si risponde
affermativamente si avrebbe una realtà diversa per ogni osservatore. Se
assumiamo invece che esiste una “realtà
fisica” indipendente dalle misure dei singoli osservatori, queste
verrebbero ad essere solo “apparenza”, come
le diverse prospettive di un palazzo osservato da diversi punti di vista.
Certamente la sostanza della questione è di ordine metafisico. Ma gli autori
mettono in campo alcune considerazioni di ordine logico e matematico.
Essi, per prima cosa, sviluppano il loro
discorso in uno spazio astratto ad N dimensioni,
e lo indicano con EN (per
significare che è uno spazio “euclideo” che,
quindi, a parte il numero delle sue dimensioni, ha tutte le proprietà
geometriche dello spazio ordinario della nostra esperienza quotidiana; ma nel
loro termine è incluso anche lo spazio “pseudoeuclideo”).
Nello spazio EN si può sempre immergere un altro spazio euclideo a n dimensioni, che indicano con En ; ma pongono la condizione
che sia 2 £ n £ N. (Cioè se N = 3, come
per lo spazio ordinario, n può solo
essere 2, cioè un piano dello spazio, o 3, cioè lo spazio stesso. Se N = 4, come lo spazio-tempo della
relatività, n può essere solo 2 o 3 o
4, e così via per gli altri valori di n).
Immaginiamo che esista uno spazio curvo (che
indicheremo con Cn), tale
che per individuare un punto di esso siano sufficienti n parametri e supponiamo che tale spazio sia immerso nello spazio EN. Per fare un esempio
immediatamente intuibile, immaginiamo che EN
sia lo spazio ordinario e che Cn
sia la superficie della terra. In tal caso n = 2, poiché il numero dei parametri indipendenti necessari per assegnare
un punto della terra sono solamente 2 (p. es., longitudine e latitudine).
Supponiamo che si possa fare l’ipotesi che
sia sempre possibile stabilire una corrispondenza biunivoca tra i punti P di En
e i punti Q di Cn
. Nel nostro esempio banale, si tratterebbe di rappresentare i punti della
superficie terrestre su di un piano (p. es., il piano tangente al Polo Nord),
come si fa per costruire le carte geografiche polari in proiezione
stereografica (in questo caso bisognerà escludere il Polo Sud).
D’altra parte, è sempre possibile stabilire
una corrispondenza tra i vettori di En
e quelli di un altro sottospazio (di EN)
euclideo Sn tangente
in Q a Cn (nel
nostro esempio banale, tra i vettori del piano tangente al Polo Nord e i
vettori del piano tangente in un altro punto Q della terra) che sia lineare
(cioè tale che alla somma di due vettori in En
corrisponda la somma dei vettori corrispondenti in Sn e
al multiplo di un vettore in En
corrisponda lo stesso multiplo del corrispondente vettore di Sn). Gli autori chiamano “omografie” tali corrispondenze lineari.
Naturalmente, si fa l’ipotesi che la
trasformazione che fa passare da uno spazio all’altro sia invertibile (nel
senso che per ogni vettore in En
esiste sempre un unico vettore che gli corrisponde in Sn e viceversa).
Si raggiunge un risultato interessante se si
introducono altre due “omografie”: indichiamo,
intanto, con il simbolo β la
trasformazione di cui sopra, che fa passare da En ad Sn
(si ricordi che En ed Sn sono sottospazi di EN). E costruiamo un’altra
omografia, Kβ , tale che se u e v sono due vettori
arbitrari di En e di Sn rispettivamente allora si
deve avere sempre: u ´ Kβ v = v ´ β u. Cioè Kβ deve essere tale che, operando con esso su v e moltiplicando scalarmente con u, si debba sempre ottenere lo stesso
risultato numerico che si ottiene moltiplicando scalarmente v con il trasformato di u secondo β.
Introduciamo un’altra omografia α
= Kβ β, che
equivale ad operare prima con β
e, successivamente, con Kβ
sul vettore già trasformato da β.
Avendo date tali definizioni, gli autori
dimostrano, in tutto rigore, che si ha: ds2
= dQ2 = dP ´ α dP, essendo dQ una variazione infinitesima di un punto Q di Cn (nel nostro modello banale
coinciderebbe con una variazione nel piano tangente alla terra nel punto Q).
Il fatto importante è che tale ds2, così definito, risulta
essere uguale al quadrato di uno spostamento infinitesimo arbitrario nello
spazio-tempo relativistico che, invece, viene usualmente espresso nel
linguaggio delle coordinate, dopo avere introdotto quella che si chiama la “metrica dello spazio curvo” e che si
suppone determinata dalla distribuzione delle masse nell’universo fisico
(trascurando ogni altra interazione che non sia quella puramente
gravitazionale).
Quindi gli autori riescono ad esprimere il ds2 in “forma assoluta” senza bisogno di alcun ricorso alle coordinate. In
altre parole, lo “spazio curvo” assume
un aspetto assolutamente oggettivo e cioè indipendente da ogni e qualsiasi
misura di un qualunque osservatore.
Ma questa nuova espressione non è solo un
modo diverso di descrivere la stessa realtà fisica, perché mette in luce alcune
importantissime questioni che non si possono vedere nella rappresentazione
delle coordinate.
Se poniamo n = 4, vediamo subito, intanto, che il C4 non può essere lo spazio-tempo che viene ipotizzato
nelle usuali interpretazioni della relatività generale, nonostante il risultato
precedentemente stabilito.
Infatti, se con Landau33 assumiamo che “le
proprietà geometriche dello spazio-tempo (cioè la sua metrica) sono determinate
dai fenomeni fisici e non sono proprietà invariabili dello spazio e del tempo” ne segue che in base
ai fenomeni fisici osservati si determinerebbe un C4 che, essendo un elemento geometrico dello spazio
euclideo EN, in cui è
immerso, deve essere indipendente dalla sua rappresentazione analitica che
assume nel particolare E4 scelto
per fare i calcoli con le coordinate, dove tuttavia si presume che si facciano
le misurazioni fisiche che dovrebbero determinare C4.
Allora si perviene alla conclusione
paradossale secondo cui lo spazio-tempo della relatività che è rappresentato
da E4, dovrebbe
determinare lo spazio-tempo curvo “assoluto”
che, invece, matematicamente, risulta essere C4, spazio che, per altro, non viene neanche menzionato
dai “ relativisti”,
nonostante se ne possa dimostrare l’esistenza a partire dai loro stessi
assiomi. Per cui BB concludono: “Les phenoménes physiques se comprtent comme si l’espace fixe dans
lequel ils se developpent étais cette fonction (inconnue) de E4 et
de α, mais on ne peut dire de plus”.
Si potrebbero interpretare le parole di
Landau, più sopra riportate, nel senso della “totalità” di tutti i fenomeni fisici (naturalmente, in questo
caso, bisognerebbe trovare delle equazioni che includano le altre interazioni,
oltre quelle gravitazionali; ma sappiamo che i vari tentativi in tale direzione
— tra cui i vari tentativi dello stesso Einstein — non hanno approdato a nulla
di convincente) e così pervenire ad un C4
che, ovviamente, risulterebbe completamente diverso dallo spazio-tempo dei “relativisti”.
Notiamo che le misure possono solo
effettuarsi localmente mentre la metrica bisogna conoscerla in tutto lo
spazio-tempo, in quanto varia, in generale, nello spazio e nel tempo. Ne segue
che lo scopo principale per cui le trasformazioni della relatività generale
sono state introdotte, fallisce all’inizio, non essendo possibile, in pratica,
collegare tra loro i risultati sperimentali dei diversi osservatori.
Il mito empirista, nell’intento di liberare
la fisica dai fantasmi dello spazio e del tempo “assoluti” di Newton, vi ha introdotto il diavolo in carne e ossa!
Almeno lo spazio di Newton era omogeneo e isotropo ed il tempo uniforme e,
quindi, sapevamo tutto su di essi. Lo spaziotempo dei “relativisti” varia da punto a punto nello spazio e da istante a
istante nel tempo. E non serve il sapere che la curvatura media è determinata
da 14 o 10 parametri; perché, per collegare le osservazioni dei diversi
osservatori bisognerà conoscere una quadrupla infinità di parametri.
Nasce spontanea una domanda: Qual’è il
significato fisico del numero N delle
dimensioni dello spazio in cui è immerso C4
, ammesso che riuscissimo a conoscerlo? O, ancora e molto più importante,
qual è il ruolo di C4 in
natura? Visto che di entrambe le cose se ne può, matematicamente, dimostrarne
l’esistenza!
La matematica non può più dir nulla su queste
semplici ma inquietanti domande; bisogna, forse, avvicinarsi al senso comune o
alla filosofia, ma, in ogni caso, BB concludono:
“La
phylosophie pourra justifier l’espace-tempe de la relativité, mais la
mathématique, la science expérimentale et le sens commun ne la justifient pas
absolument.”
Con queste parole si chiude la critica principale
di BB allo spazio-tempo della relatività; ma si potrebbe ancora continuare con
altre critiche, non meno interessanti dal punto di vista fisico, tra le quali
bisogna annoverare la critica relativa alle derivazioni delle equazioni del
campo gravitazionale relativistico tramite l’applicazione del principio
generalizzato di Hamilton; ma preferisco rinviare il lettore interessato alla
lettura diretta dell’opera di BB.
L’impressione che io personalmente ho provato
nel leggerla è stata che tutta la sua impostazione, il linguaggio utilizzato,
le citazioni riportate, furono progettate avendo principalmente in mente il
loro amico Roberto Marcolongo, con il quale i nostri autori condivisero molte
idee, anche manifestatesi in tante pubblicazioni che li avevano visti come
coautori, e con il quale essi condivisero, soprattutto, l’amore per la scienza
e, anche e perché no, i calcoli “interamente
italiani”.
A questo loro comune amico, che li aveva
preceduti scrivendo un libro sulla relatività generale, essi sembrano rivolgere
l’ultimo accorato invito per un ritorno alle origini, coscienti che ormai, in
ogni caso, la nuova visione del mondo si era già imposta definitivamente.
Per parte mia non ho da fare altre
osservazioni sulla relatività generale, dal momento che con questo mio articolo
non ho, in alcun modo, inteso presentare la teoria, ma solo rendere un umile ma
sincero omaggio a due grandi studiosi italiani, la cui opera per la vastità e
complessità degli argomenti trattati, per il rigore matematico, per l’onestà
nella citazione delle fonti e per il rispetto scientifico che mostrano nei
confronti dei “grandi”, tra i quali
lo stesso Einstein, mi ha positivamente impressionato. Debbo confessare che ho
provato una profonda ammirazione per questi uomini che, con il loro lavoro,
spesso incompreso, giorno dopo giorno spesero la loro esistenza in nome della
conoscenza e, in definitiva, per “qualificare”
la presenza del genere umano sulla terra.
Sento il dovere di ringraziare i
collaboratori della Biblioteca Zelantea di Acireale per la preziosa assistenza
che mi hanno gentilmente concesso nella consultazione di alcune delle opere
citate. Ringrazio il Prof. S. Notarrigo per i preziosi suggerimenti che mi ha
dato nella stesura definitiva del presente articolo.
Altre opere, non comprese nelle citazioni dei
testo, che mi sono state molto utili sono:
1) A. Pensa, Geometria assoluta
dei vettori e delle omografie in un Sn euclideo, Ren. Is. Lomb.
LII, 1919.
2) A. Pensa, Geometria assoluta
delle formazioni geometriche, At. Is. Ven., LXXIX, 2, 1919-20.
3) T. Boggio, Sulla geometria
assoluta degli spazi curvi, Atti R. Acc. Torino, Vol LIV, 1919.
4) C. Burali-Forti, Sopra alcuni
operatori lineari vettoriali, At. R. Ist. Ven., t. LXXII, p. II, 1912-1913.
5) C. Burali-Forti, Operatori per
iperomografie, Atti R. Acc. Torino, Vol LVII, 1922, p. 285.
6) C. Burali-Forti e R.Marcolongo, Analisi
vettoriale generale, Zanichelli, 1929.
7) R. Marcolongo, Meccanica
Razionale, Hoepli, Milano, 1953.
8) A. Einstein, Il Significato della
Relatività, Einaudi, 1955.
9)
M.
Pieri, Della Geometria elementare come
sistema ipotetico deduttivo, Mm. R. Acc. Sci. Torino, 2, 49, 1898-99.
__________________________
1 H. C.
Kennedy, Peano - Storia di un matematico,
Boringhieri, 1983, p. 214. TORNA
2 T. Boggio e C.Burali-Forti, Espace Courbes - Critique de la Relativitè, Soc. Tip. Ed. Naz., Torino,
1924 TORNA
3 Vedi G. Amata e S. Notarrigo. Energia e Ambiente — Una
ridefinizione della teoria economica, Ed.
CUECM, Catania, 1987. TORNA
4 A proposito della distinzione
tra linguaggio scientifico
e chiacchere inutili
si veda l’articolo
del
Notarrigo in questo numero
dei Quaderni. TORNA
5 Per meglio valutare
la grande importanza della tappa archimedea si vedano i saggi di G.
Boscarino, A.
Maugeri e S. Notarrigo sul
numero 4/5 di Mondotre, 1988. TORNA
6 Ricordiamo che il programma scientifico aristotelico tendeva ad
identificare la scienza con l’attività intelligente di sistemazione dei fatti
empirici, nell’assurda pretesa che una siffatta classificazione fosse
sufficiente per conoscere la realtà. Da questo punto di vista, il programma del
Mach, a mio avviso, coincide con quello di Aristotele. TORNA
7 Mi piace
ricordare al lettore quel bellissimo film di C. Chaplin
dal titolo: “Tempi Moderni”, in cui
l’attore rappresenta, con
un’impareggiabile mimica ironica, la sua sferzante critica al secolo ‘900! TORNA
8 Mi limiterò a dare qualche indicazione esclusivamente sui
fenomeni elettromagnetici ai quali, più di ogni altro fatto, si fa risalire la
genesi della teoria della relatività. In particolare per la
relatività generale concordo con l’opinione espressa dal Bergmann: “Today’s preavailing theory of gravitation,
the general theory of relativity, did not grow out of any failure of Newton’s
equations (though it explains the one slight discrepancy on Mercury’s orbit,
which had been discovered in mid-nineteenth century) but resuited from an
attempt to reconcile the two contradictory sets of notions of space and time appropriate to
Newton’s theories and to an account of
elettromagnetic phenomena, respectively.” Vedi: Problems in The Foundations of Physics, Ed. by M. Bunge,
Springer-Verlag, Berlin, 1971, Vol. 4, p. 49.
TORNA
9 Isaac Newton, Principi
Matematici della filosofia naturale a cura di Alberto Pala UTET, p.
92. TORNA
10 E’ degno di nota che tra le critiche più serie e fondamentali
all’interpretazione originaria dell’esperimento di Michelson e Morley troviamo
quella dell’italiano Righi: L’Esperienza
di Michelson e la sua interpretazione, Mem. R. Acc. Dell’Ist. di Bologna,
aa. 1918-1919. TORNA
11 H. Hertz, Electric
Waves, Dover Publications, New York, 1962. TORNA
12 Per i problemi
connessi con l’interpretazione della meccanica quantistica vedasi il saggio di
S. Notarrigo, Un problema all’interno
della meccanica quantistica: Una questione di fisica o di metafisica? in
Laboratorio Idee/Quaderni, Anno I, n. 0, 1987.
TORNA
13 Vedi
ad es., H. Poincaré, Sur la Dynamique de
l’électron in Rend. Circolo Mat. Palermo, t. 21, p. 129,
1906. TORNA
14 A.
Einstein, Zur Elektrodynamik bewegter
körper, in Annalen der Physik, 17, 1905, p. 891. TORNA
15 I due
postulati einsteiniani sono: a) Il
Principio di relatività particolare e b) Il Principio di invarianza della
misura della velocità della luce. TORNA
16 A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeinen
Relativitätstheorie, Annalen der Physik, 4, 49, 1916, p. 769.
Sullo spazio assoluto di Newton si veda il lavoro di G. Boscarino, Spazio assoluto ed idealizzazione in Newton,
Laboratorio Idee/Quaderni, Anno I, n. 0, 1987, p. 45. TORNA
17 0.
Burali-Forti e T. Boggio, in Ren. Ist. Lombardo, Vol. LV, 1922. TORNA
18 L’abitudine
di pubblicare saggi sotto la propria responsabilità si è andata perdendo con
il tempo. Oggi, generalmente, si pubblica solo dopo aver ottenuto l’avallo di
un esperto nominato dalla rivista sulla quale si intende pubblicare il saggio.
Questo, a mio avviso, è un’altro segno negativo dei nuovi tempi! TORNA
19 Vedi G. Peano, Formulario
Mathematico, a cura di U.Cassina, Ed. Cremonese, Roma, 1960. TORNA
20 Si
potrebbe avere ad es. il problema di seguire, al variare del tempo, la
posizione di un punto costretto
a muoversi su di un cammino
assegnato con forza assegnata. TORNA
21 Minkowski
fu professore di Einstein e pare che si ebbe ad opporre all’ingresso di
Einstein come assistente all’università. Dopo la comparsa del lavoro
dell’“allievo” riformulò la teoria della relatività particolare usando lo
spazio degli eventi quadridimensionale. Sembrerebbe, come fatto “curioso” , che il Minkowski si sia avvalso del lavoro di
teorici italiani, quali il Marcolongo, senza citarne mai i nomi. Ho appreso
questa informazione leggendo qualche opera del Somigliana sul quale avrò modo
di parlare in seguito. Non ho potuto appurare la cosa personalmente ma il fatto
non mi meraviglia affatto, visto come è stata liquidata tutta la scuola del
Peano! TORNA
22 E’ degno di nota che una tale riduzione in forma assoluta si
deve proprio al Marcolongo, il quale è uno dei bersagli della critica di BB,
vedi: R. Marcolongo, Sulle equazioni
dell’elettrodinamica, Rend. Acc, Scienze Fis. Mat. di Napoli, 1912. TORNA
23 Una siffatta interpretazione si deve a M. C. Somigliana, I fondamenti della relatività, Scientia,
1923 (citato in EC). TORNA
24 R. Marcolongo, Relatività,
Ed. Principato, Messina, 1921. Quest’opera non mi è stata suggerita dalla
lettura di EC ma la scopersi per “caso” leggendo un articolo del Somigliana, a
conferma del fatto che BB non intendono attaccare apertamente l’amico e
collaboratore Marcolongo per queste posizioni che si possono definire piuttosto
agnostiche! TORNA
25 La trasformazione di Lorentz, dal momento che si trova già
esposta nella memoria del W. Voigt, (Ueber
das Doppler’sche princip 1887) si dovrebbe in effetti chiamare di
Voigt-Lorentz. Purtroppo, non mi è stato possibile consultare questa memoria
del Voigt che viene citata sia nel lavoro di BB che in quello del
Somigliana. TORNA
26 Si può vedere, ad es., il libro divulgativo di D. W. Sciama: La relatività generale, fondamenti fisici
della teoria, Zanichelli, 1979. TORNA
27 Vedi ad es. C. Fabbry, La Théorie de la relativité et le déplacement des raies spectrales produit par le champ de gravitation, in Scientia, anno
XVII, 1923. TORNA
28 Per
ragioni puramente sperimentali si è ritenuto opportuno, all’inizio del secolo,
studiare il fenomeno in condizioni di oscuramento del Sole da parte della Luna
(eclisse totale). TORNA
29 Leggiamo
a questo proposito il commento che lo T.E. Stern scrive nella prefazione alla
sua opera di meccanica celeste, nella quale non vengono prese in esame le
equazioni della relatività generale: “Relatìvity,
because its dynamical effects for sìzable bodies in the solar system appear to
be so small as to be in pratice nearly always negligible, has
not been considered”. T. E. Stern, An Introduction To Celestial Mechanics, Interscience
Publisher Ltd, London, 1960. TORNA
30 Una
bella rassegna di quanto fatto fino agli inizi del secolo si deve all’allievo
di Peano: R. Marcolongo, Il problema dei
tre corpi da Newton ai nostri giorni, Atti della R. Accademia delle Scienze
Fisiche e Matematiche, vol. XVI, Serie
2a, n. 6. TORNA
31 Vedi R. H. Dicke, Remarks on the observational basis of general relativity in Gravitation and Relativity, Ed. by H. Y. Chiu and W. F. Hoffmann,
Benjamin Inc., 1964, p. 5. TORNA
32 Tale soluzione si deve a K.Schwrzschild (1916). TORNA
33 L. D.
Landau, E. M. Lifshitz, Teoria dei campi,
Ed. MIR (Editori Riuniti), 1976, p. 299.
TORNA