Sul significato di “significato fisico”
Giuseppe Boscarino
La lettura dell’articolo di Di Mauro, Notarrigo e Pagano, che compare in questo quaderno, mi ha richiamato alla memoria quanto scriveva il Lakatos intorno all’esperimento di Michelson - Morley.
Il Lakatos,1 rigettando, in parte, la teoria degli esperimenti
cruciali nella storia della scienza, così scrive:
“Le nostre
considerazioni spiegano perché esperimenti cruciali siano visti come tali solo
decine d’anni dopo. Le ellisi di Keplero furono generalmente ammesse come
evidenza cruciale per Newton contro Cartesio solo circa un secolo dopo
l’affermazione di Newton. Il comportamento anomalo del perielio di Mercurio venne
ritenuto per decenni una delle tante difficoltà non risolte del programma di
Newton; e solo il fatto che la teoria di Einstein lo spiegò meglio, trasformò
una noiosa anomalia in una brillante ‘confutazione’ del programma di ricerca di
Newton.... Mentre la maggior parte dei fisici cercava di interpretare gli
esperimenti di Michelson‑Morley entro il quadro del programma
dell’etere, Einstein, che ignorava Michelson, Fitzgerald e Lorentz, ma era
stimolato soprattutto dalla critica di Mach alla meccanica di Newton, arrivò ad
un nuovo progressivo programma di ricerca. Questo nuovo programma non solo
‘predisse’ e spiegò il risultato dell’esperimento di Michelson - Morley, ma predisse pure un ‘enorme schiera di fatti di cui prima di
allora non ci si era nemmeno sognati, e che ottennero drammatiche
corroborazioni. Fu solo allora, venticinque anni dopo, che l’esperimento di
Michelson‑Morley potè apparire come il più grande esperimento negativo
della storia della scienza”.
E conclude:
“Si tende a
dimenticare che se anche l’esperimento di Michelson e Morley avesse mostrato
l’esistenza di un ‘vento d’etere’, il programma di Einstein avrebbe potuto ciò
nonostante, riuscire vittorioso. Quando Miller, un appassionato difensore del
classico programma dell’etere, pubblicò la sua sensazionale dichiarazione
secondo cui l’esperimento Michelson - Morley era
condotto con trascuratezza e in realtà
esisteva un vento d’etere, i corrispondenti di ‘Science’ esultarono dicendo che
‘i risultati del professor Miller mettono fuori combattimento la teoria della
relativita in modo decisivo’ ”.
E in una nota il Lakatos ancora afferma:
“La mia ricostruzione
considera la tenacia del programma di ricerca einsteiniano di fronte ad una
pretesa evidenza contraria come un fenomeno completamente razionale”.
Dalle precedenti citazioni sembra che i fisici, secondo il Lakatos, considerino come cruciali alcuni esperimenti solo all’interno di un programma di ricerca che si sia affermato, ma non sembra che egli metta in dubbio l’oggettiva “crucialità” di qualche esperimento.
Infatti egli sostiene che la “crucialità”
dell’esperimento di Michelson -Morley si deve al successo della relatività in
quanto essa non solo predisse e spiegò il risultato dell’esperimento di
Michelson‑Morley, ma predisse pure un’enorme schiera di altri fatti.
Negli articoli presentati in questo Quaderno2 sembra, invece, negarsi in ogni
caso la tesi che ci possano essere esperimenti cruciali.
Anch’io penso che non possano esistere
esperimenti cruciali. Ma il Lakatos rivendica il carattere razionale,
necessario e progressivo, del programma di ricerca einsteniano,3 che giustificherebbe in questo caso la “crucialità”
dell’esperimento di Michelson‑Morley.
Io penso che Lakatos, non diversamente da
Popper,4 stia facendo la
stessa operazione, nel campo dell’epistemologia, che aveva già fatto Hegel
nella sua storia della filosofia nei confronti della storia del mondo,
asserendo che la filosofia proclama la razionalità del presente storico.
Scrive, infatti, Hegel nella ‘Prefazione’ ai suoi “Lineamenti di filosofia del diritto”:
“Del resto, a
dire anche una parola sulla dottrina di come deve essere il mondo, la filosofia
arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima
volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione
ed è bella e fatta”.
Allo stesso modo, per Lakatos, e anche per
Popper, sembrerebbe potersi concludere: l’epistemologia
proclama la razionalita della scienza presente e vincente.
Ma cos’è la “scienza”? giustamente ci si
chiede negli articoli di questo Quaderno.
Ma molte altre domande ci si potrebbe porre:
Chi dichiara che un programma di ricerca è più progressivo di un altro?
E che significa “progressivo”?
La relatività era l’unico programma di ricerca alternativo al paradigma
dell’etere?
A me sembra, e credo di non essere in
contrasto con gli altri articoli di questo Quaderno, che il nucleo metafisico nei
due programmi “alternativi”, ‘etere’ da un lato e ‘relatività’ dall’altro, sia
lo stesso. In entrambi i casi si tratta di un “credo
positivista”, che fa esclusivo riferimento, in linea di principio, a
osservazioni e misure, che indirettamente danno un preciso senso al concetto di
“realtà fisica” e a quello di “significato fisico”. Significati che sono gli
stessi di quelli propugnati da Mach, il quale è stato il più influente
esponente di un tale indirizzo affermatosi come dominante nella scienza del Novecento.
Quindi ambedue i programmi fanno riferimento
ad una comune filosofia, sia che la vogliamo chiamare “programma di ricerca”
con Lakatos, sia che la chiamiamo “paradigma” con Kuhn. Tale comune filosofia è
centrata sull’idea di “campo”, e la circostanza che ci sia l’etere o meno è
assolutamente irrilevante.
Born, che ha scritto una sua “sintesi” della
relatività, pone a base delle sue considerazioni la lotta vittoriosa che la
relatività ha combattuto e vinto contro “ pazio assoluto ed etere”,5 e, in una nota a pie’ di pagina, dice che
“Negli ultimi
anni Einstein propose di chiamare etere lo spazio vuoto di materia in cui
agiscono forze gravitazionali ed elettromagnetiche, senza che questa parola
denoti una qualsiasi sostanza...”.
Una costante che si ritrova nei momenti di
svolta della storia della scienza, cioè quando cambia il nucleo metafisico
delle teorie interpretative della realtà, è la dura e tenace battaglia attorno
al significato di “significato fisico”.
Mach, del quale si afferma che abbia esercitato una incisiva influenza sul pensiero di Einstein e sul suo programma di ricerca, infatti dice:
“Neghiamo che
all’espressione “quantità di materia” corrisponda una rappresentazione atta a rendere
più limpido e a spiegare il
concetto di massa, dato che essa stessa manca di chiarezza.... Il rapporto
delle masse è il rapporto inverso delle accelerazioni preso con segno negativo.
Che queste accelerazioni siano sempre di segno contrario e che vi siano quindi,
per definizione, solo masse positive, è cosa che può insegnare e in realtà
insegna solo l’esperienza. Il nostro concetto di massa non deriva da alcuna
teoria. Esso contiene soltanto la precisa determinazione, designazione di un
fatto. La “quantità di materia” è del tutto inutile” 6 .
La stessa critica, cioè di mancanza di
significato fisico, Mach rivolge allo “spazio assoluto” e al “tempo assoluto”.
Ed Einstein:
“Nella
meccanica classica, come nella teoria della relatività ristretta, le coordinate
spaziali e temporale hanno un
significato fisico immediato.
Dicendo che un
punto (rappresentante un evento) ha la coordinata x1 sull’asse X1, si intende
dire che la proiezione del punto dello spazio‑tempo
sull’asse X1, determinata da segmenti rigidi e in
accordo con le regole della geometria eucidea è ottenuta riportando un segmento
assegnato (il campione di lunghezza unitario) x1 volte a partire dall’origine delle
coordinate nella direzione positiva dell’asse X1. Dicendo che un
punto dello spazio‑tempo ha la
coordinata x4 = t sull’asse X4, si intende dire che un orologio campione, costruito per misurare il
tempo con assegnato periodo unitario, che è in quiete rispetto al sistema di
coordinate e coincide (praticamente) nello spazio col punto rappresentante
l’evento, ha segnato x4 = t periodi all’istante in cui il punto‑evento si è verificato.
Questa
concezione dello spazio e del tempo è sempre stata presente alla mente dei fisici, anche se per la maggior parte in maniera incoscia,
come risulta chiaro dall’ufficio che questi concetti svolgono nelle misure
fisiche. Il lettore ha certamente supposto che questa concezione si trovi alla
base della seconda riflessione del precedente paragrafo, allo scopo di dare un
significato ai nostri sviluppi. Senonché ora mostreremo che è necessario
abbandonarla, e sostituirla con una concezione più generale, supponendo che la
teoria della relatività ristretta si applichi al caso limite in cui sia assente
il campo gravitazionale.
In uno spazio
privo di campi gravitazionali introduciamo un riferimento galileano K(x,y,z,t)
ed inoltre un sistema di coordinate K’(x’,y’,z’,t’) in moto rotatorio uniforme
rispetto a K. Supponiamo che siano coincidenti le
origini di entrambi i sistemi, e l’asse z coincida sempre con z’. Mostreremo
che per una misura dello spazio‑tempo
riferita al sistema K’ la
concezione, sopra richiamata, del significato fisico delle lunghezze e dei
tempi non può venire mantenuta. Per ragioni di simmetria è chiaro che una
circonferenza giacente sul piano XY di K e con il centro nell’origine, può
contemporaneamente venir considerata come circonferenza sul piano X’Y’ di K’.
Supponiamo che
la circonferenza e il diametro della stessa siano stati misurati con un’unità
di misura (infinitamente piccola rispetto al raggio), e calcoliamo il rapporto
delle due misure. Qualora si assuma come unità di misura un campione di
lunghezza a riposo rispetto al sistema galileano K, il rapporto che ne risulta
sarà π .
Qualora si assuma invece come unità di
misura un campione di lunghezza a riposo rispetto a K’, il risultato sarebbe
maggiore di π. Ciò si comprende
immediatamente se si riflette sull’intero processo di misurazione del sistema stazionario
K, e se si considera che l’unità di misura riportata sulla periferia subisce una contrazione lorentziana, mentre quella riportata lungo il raggio no. Da
ciò segue che la geometria eudidea non vale per K’; la nozione di coordinata
sopra ricordata, che presuppone la validità della geometria eudidea, cade in
riferimento al sistema K’. In modo analogo, inoltre, siamo incapaci di
introdurre in K’ un tempo che obbedisca alle esigenze fisiche, il quale sia
indicato da orologi normali a riposo relativamente a K’. Per convincerci di
questa impossibilità, immaginiamo che due orologi di identica costruzione siano
posti uno nell’origine delle coordinate, e l’altro sulla circonferenza, ed
entrambi siano osservati dal sistema “stazionario” K.
In conseguenza di un
risultato ben noto nella teoria della relatività ristretta, l’orologio sulla
circonferenza, osservato da K, va più adagio dell’altro, perché il primo è in
moto e il secondo sta fermo. Un osservatore posto nell’origine delle
coordinate, in grado di osservare l’orologio sulla circonferenza mediante la
luce, constaterà quindi che questo è più lento dell’orologio che gli è accanto.
E poiché tale osservatore non può pensare che la velocità della luce lungo la
traiettoria in questione dipenda esplicitamente dal tempo, egli interpreterà le
proprie osservazioni concludendo che l’orologio sulla circonferenza “rea!mente”
va più adagio dell’orologio nell’origine. Egli sarà dunque obbligato a definire
il tempo in modo tale che la velocità angolare delle lancette di un orologio
dipende dal luogo in cui l’orologio stesso si trova.
Cosicché perveniamo al
seguente risultato: nella teoria della relatività generale, lo spazio e il
tempo non possono venire definiti in modo tale che le differenze tra le
coordinate spaziali possano venir direttamente misurate mediante il campione di
lunghezza scelto come unità di misura, e le differenze tra le coordinate
temporali possano venir direttamente misurate da un orologio campione.” 7
E di rincalzo Born, interprete e diffusore della relatività, tra gli anni ‘20 e gli anni ‘30, quando si affermò il programma di ricerca einsteniano, scrive:
“Un concetto è
inerente alla realtà fisica, soltanto quando è possibile rilevare, mediante
l’osservazione sperimentale l’esistenza di qualche fenomeno a cui esso corrisponda.... Il
criterio di realtà che ora abbiamo dato corrisponde pienamente al modo in cui
il termine “realtà” viene usato nelle scienze fisiche. Quei concetti che non
soddisfano tale criterio sono stati gradualmente eliminati dalla struttura
della fisica. Come segue dal principio di relatività, è immediato riconoscere
che una “posizione fissa” nello spazio assoluto di Newton non ha alcuna realtà
fisica, conformemente a quanto abbiamo ora stabilito.... Uno spazio, in cui non
c’è nessun luogo che possa essere rivelato per mezzo di un qualsiasi strumento
fisico, è in ogni caso un’idea vaga e astratta, e non semplicemente una scatola
in cui sono collocati gli oggetti materiali. Ora dobbiamo anche cambiare la terminologia
che avevamo usato nell’enunciare il principio di
relatività, poiché parlavamo ancora di un sistema di coordinate in quiete
nello spazio assoluto, e ciò è
chiaramente privo di significato fisico. Per arrivare ad una formulazione definita
di tale principio, introduciamo il concetto di sistema inerziale, che designa
un sistema di coordinate in cui la legge d’inerzia è valida nella sua forma
originaria. Non esiste soltanto un unico sistema in quiete come nello spazio
assoluto di Newton, ma ci sono infiniti altri sistemi, tutti ugualmente
permessi.... Il principio di relatività assume allora la seguente forma:
esistono infiniti sistemi equivalenti, i sistemi inerziali, che descrivono un
moto traslatorio (rettilineo e uniforme) l’uno rispetto all’altro, e in cui le
leggi della meccanica sono valide nella loro semplice forma classica.... Non è
lo spazio ad imprimere la sua forma alle cose, ma sono le cose e le loro leggi
fisiche a determinare lo spazio.” 8
Nei tre ampi brani citati emerge chiaramente
la tesi che qui voglio sostenere.
Nel brano di Mach, in base al nuovo
significato che viene attribuito al termine “significato fisico”, cioè “hanno significato
fisico solo le quantità che possono venire determinate con un’operazione fisica
concreta”, si nega significato alla “quantità di materia”, allo “spazio
assoluto” e al “tempo assoluto”, termini che fino ad allora avevano piena
legittimità in fisica, anche se con diverse accezioni da parte dei diversi
autori. Infatti i termini sopra menzionati avevano un significato totalmente
diverso in Newton ed in Eulero, come evidenzieremo appresso.
Nel brano di Einstein notiamo un’operazione
più sottile. Si comincia con l’assimilare la concezione delle coordinate spazio‑temporali
della meccanica classica e della relatività ristretta per poi dire che tale
concezione non si può mantenere in vista di considerazioni (notiamo:
assolutamente lontane da qualunque possibile riscontro empirico) che provengono
dalla teoria della relatività “ristretta” che intende superare con quella
“generale”. Vedremo che il significato che Newton attribuiva a spazio e tempo è
molto lontano da quello che Einstein qualifica come proprio della “meccanica
classica”.
A nostro giudizio, Einstein qui fa confusione
tra sistemi di riferimento, sistemi di misure e sistemi di grandezze, tra
misure e misurazioni, tra significato matematico e significato fisico degli
“oggetti” della fisica, negando, se non con le parole certamente nel pensiero,
gli insegnamenti di Mach, da cui, per sua stessa ammissione, è stato
influenzato.
Se assumiamo con Mach che le “misure” di
lunghezza e di tempo sono definite da concrete “misurazioni”, per confronto
diretto con l’“unità di misura”, non si capisce come il rapporto tra
circonferenza e diametro di un cerchio possa cambiare per sistemi in moto
relativo tra loro, visto che ogni volta che tento di misurare la circonferenza
l’unità di misura, essendo una “lunghezza” (non si capisce che cosa Einstein
intenda con le parole: “infinitamente
piccola rispetto al raggio”!?, un’unità di misura è un unità di misura
piccola o grande che sia!), cambierà allo stesso modo della “lunghezza” della
circonferenza.
Ma qui, in realtà, Einstein sta abbandonando
l’idea delle misure per confronto diretto, senza dirlo esplicitamente, sotto
l’ipotesi, che i fisici successivi gli hanno attribuito, che siano equivalenti
le misurazioni di lunghezza fatte per mezzo della luce o per confronto diretto.
Su questo punto è stato criticato da Bridgmann. Io qui mi limito semplicemente
a richiamare il fatto per mettere in evidenza, ancora una volta, il cambiamento
del significato di “significato fisico”. Infatti, Einstein dà significato
fisico anche alle “misure” ottenute mediante le trasformazioni di Lorentz,
senza bisogno di alcuna “misurazione” diretta.
Nel brano di Born tale incoerenza è
esplicita. Da un lato si sfuma il concetto di “realtà fisica” (difficile
attribuire un significato univoco alle parole: Un concetto è inerente alla
realtà fisica, soltanto quando è
possibile rilevare, mediante l’osservazione sperimentale l’esistenza di qualche
fenomeno a cui esso corrisponda)
ma poi si danno regole apparentemente più restrittive per definire la “realtà
fisica”, legandola all’esistenza di un “sistema inerziale” di cui è difficile
dire che cosa sia in assoluto; Newton infatti non aveva bisogno di tale
concetto. D’altra parte, se lo spazio assoluto non ha significato fisico,
perché non osservabile né misurabile, perché lo dovrebbero avere “infiniti sistemi inerziali esistenti”, senza aver dato preventivamente il
significato di “esistere” e di “infinito”, quando tutti dicono che i sistemi
inerziali possono esistere nella realtà fisica solo approssimativamente, in
quanto meri enti ideali?
Abbiamo constatato che è soprattutto sul
significato di “significato fisico”, che si svolge la battaglia per
l’affermazione di nuovi programmi di ricerca o, meglio, di nuovi paradigmi e
tale “significato” riassume interamente l’autentico nucleo metafisico delle
nuove teorie.
Sono queste riflessioni che mi hanno fatto
leggere con simpatia gli articoli di questo Quaderno e che mi portano a
condividerne le posizioni.
In un primo tempo volevo intitolare
quest’articolo: Sul significato di “realtà fisica”, ma ho preferito invece intitolarlo: Sul significato di “significato fisico”, perché potesse apparire
più immediatamente e più chiaramente il senso della questione che è di
carattere metasemantico e metafisico, perché solo di questo si tratta quando si
afferma o si nega il significato fisico di particolari concetti o teorie.
Nella letteratura epistemologica
sull’argomento9, spesso si
incontrano grandi confusioni e notevoli superficialità, quando non addirittura
manifesti circoli viziosi.10
Il significato di “significato fisico” appartiene a quelle cose che i logici medievali chiamavano le “intenzioni seconde”, o se si vuole “proprietà di proprietà”, per cui il significato di “significato fisico” non e della fisica, ma della metafisica, che dice appunto ciò che è fisica e ciò che ha significato fisico. Si dice, facendo grande confusione filosofica, che il significato fisico nasce con le teorie, cioè concetti fisici e fatti fisici nascono con le teorie. Questa tesi è molto diffusa nella divulgazione epistemologica contemporanea, dopo Popper e Kuhn, solo che non è chiaro il significato di “teoria”.
Non si distingue tra la “teoria” in quanto
oggetto matematico, che definisce il significato sintattico dei termini che in
esse intervengono, dalla “teoria” in quanto espressione della metafisica
personale dello scienziato che ha già dato significato, dal punto di vista
puramente semantico, ai termini: “ente fisico”, “significato fisico”; e ancor
più ha stabilito ciò che sono gli esperimenti e le osservazioni. Queste sono
questioni metateoriche, puramente filosofiche, “metafisiche”, in un senso
neutrale di questi ultimi termini.
Non si possono scambiare le proprietà che
sono del concetto, con le proprietà dell’individuo. “Significato fisico”, per
esempio, non è proprietà della “massa”, come definita da Newton: “La quantità di materia è la misura della
medesima ricavata dal prodotto della sua densità per il volume”,11 ma del concetto “grandezza
fisica”, o di quello di “costrutto teorico” di cui si predicano, le proprietà
che, appunto, definiscono indirettamente il significato di “significato
fisico”.
Ora queste proprietà non vengono stabilite
dalla fisica, ma dalla metafisica, cioè da qualcosa, che sta sopra o sotto,
come dir si voglia, la fisica.
“Massa, tempo, spazio, forza”, in quanto
“assolute, vere e matematiche”, non sono per Newton concetti che hanno
“significato empirico”, ma concetti che hanno “significato matematico,
assoluto”, cioè hanno significato formale, senza relazione ad alcunché di
esterno”, come Newton dice nel successivo ‘Scolio’, riferendosi, in
particolare, al tempo assoluto ed allo spazio assoluto, quindi, non “misurabili
o osservabili”.
Si fa una precisa, ma nello stesso tempo
scorretta, operazione filosofica quando si attribuisce a determinati termini la
proprietà di avere “significato fisico”, cosa che essi non possono mai avere
nel senso di osservabile; nessuno può osservare il concetto “massa”, lo si può
solo definire, viceversa si può osservare e misurare la “massa” di un corpo,
come una delle sue proprietà “relative, apparenti e volgari”, per dirla con le
parole di Newton. Infatti subito dopo, in relazione alla “quantità di materia”,
Newton scrive: “Tale quantità diviene
nota attraverso il peso di ciascun corpo.”
In altro luogo Newton precisa: “Ho detto che un corpo riempe un luogo e lo riempe in modo così completo da
escludere totalmente da esso qualunque altra cosa dello stesso genere o altri corpi in quanto è un ente impenetrabile.
Si potrebbe definire il luogo anche come quella parte di spazio in cui qualcosa
sia distribuita uniformemente; ma dal momento che noi avremo a considerare solo corpi e non cose penetrabili, ho preferito definirlo
come quella parte di spazio che le cose riempiono. Per di più, poiché il corpo
viene qui studiato non in quanto Sostanza Fisica dotata di qualità sensibili,
ma solo in relazione alla sua estensione, mobilità ed impenetrabilità,
non è stato necessario definirlo secondo il costume dei filosofi, ma astraendo
dalle qualità sensibili (delle quali anche i filosofi, se non sono in errorre,
dovrebbero fare astrazione, attribuendole alla mente come modi diversi di
pensare, modi eccitati dai moti dei corpi), ho postulato solo quelle proprietà
necessarie per descrivere il moto locale. Di modo che, piuttosto che come corpi
fisici, sono invece da intendere come figure astratte alla stessa stregua di
come vengono considerate dai Geometri quando assegnano loro il movimento, come
vien fatto negli Elementi di Euclide, Libri 1,4 e 8.” 12.
E più oltre, nella stessa opera citata nella
nota precedente:
“I corpi sono
più densi quando la loro inerzia è più intensa, e più radi quando lo è di meno ... cosicché noi dovremmo stimare la quantità totale del corpo a partire
dalla quantità e delle sue parti e dei suoi pori ... i quali ultimi non offrono resistenza
inerziale al moto e la cui mescolanza con le parti propriamente corporee da origine
ai vari gradi di inerzia in relazione al rapporto tra le parti. E se qualcuno
volesse concepire tale composizione dei corpi come uniforme, dovrebbe
immaginare le sue parti come infinitamente suddivise e disperse in ogni dove attraverso i pori, dimodocché nell’intero corpo composto non rimanga la
benché minima particella di estensione senza una perfetta mescolanza di parti
e di pori così infinitamente suddivise. Certamente si addice ai matematici contemplare le
cose alla luce di tali ragionamenti, o
se si preferisce alla maniera dei Peripatetici; ma in fisica le cose stanno ben
altrimenti.” Quest’ultima proposizione è la solita frecciata alla
concezione cartesiana che immagina l’esistenza di un qualche mezzo aereo o
etereo che riempe tutto lo spazio, che Newton aveva ridicolizzato nelle pagine
precedenti.
Il paradigma machiano è penetrato così
profondamente nella mente dei moderni che si arriva a criticare la definizione
newtoniana di “quantità di materia”. Nella nota di A. Pala, a commento di tale
definizione si scrive:13
“... ma e chiaro,
in pari tempo, che questa definizione non è felice -come fece osservare il fisico e filosofo Ernst Mach - in quanto costituita da un circolo vizioso. È noto [Pala non ci dice da chi e per quale ragione è noto, egli la
fornisce come verità oggettiva e assoluta! n.d.r] che la densità di un corpo esprime il rapporto tra la sua massa e il suo volume; ma detto questo va da sé che
per definire la massa non possiamo ricorrere - come invece fa Newton - alla
densità. Ciò infatti lascia ancora da definire uno dei due termini: o la massa o la densità.”
Ma nella metafisica di Newton non c’è alcuna
circolarità come abbiamo letto nelle citazioni che abbiamo riportato: alla
materia solida possiamo attribuire densità unitaria e al vuoto densità zero;
per cui i corpi sensibili avranno densità intermedia compresa fra 0 e 1; con le
parole della definizione dei “Principia”, Newton si rifà all’antica
concezione di quei filosofi, che Aristotele denomina Italici, cioè:
dall’“Essere” indefinito attuando una dicotomizzazione, di ordine puramente
logico o, se si vuole linguistico, si introduce il concetto di “estensione”
producendo due enti “contrari”: a) enti estesi, b) enti non estesi. Una
successiva dicotomizzazione degli “enti estesi” produce: a) la materia, b) la
non materia = vuoto = pori.
Naturalmente li “produce” nella mente, come
coppie di concetti “contrari” (nel senso pitagorico del termine). Ma è questa
organizzazione “logica” che “produce” la “realtà fisica”, il “Cosmos”, il resto
è solo apparenza, ammassi di sensazioni informi, “Caos”.
I corpi sensibili sono, quindi, una
mescolanza di materia e di vuoto.
Dal momento che noi misuriamo la massa
mediante il peso, conviene scegliere un’unità di misura ad esso legata; questo
per la libertà che sempre abbiamo nella scelta delle unità di misura; libertà
che, tuttavia, non può modificare l’essenza della precedente definizione che è
di natura puramente logica e concettuale.
Quindi, come per i pitagorici, anche per
Newton, la densità, nella costruzione razionale della meccanica, è il concetto
primitivo e la massa è, invece, un concetto derivato anche se, operativamente,
noi misuriamo il peso e il volume, e mediante queste grandezze possiamo
misurare la densità dei corpi sensibili; ma dobbiamo tenere in conto tutti gli
eventuali errori sistematici connessi al metodo pratico di misura. Sarebbe
assurdo erigere, a definizione di una qualità
primaria della materia, il risultato sempre aleatorio e spesso non sufficientemente
accurato di una misura.
Con la metafisica moderna si è persa
qualunque distinzione tra “definizioni reali” e “definizioni nominali”!
Quando in un processo di assiomatizzazione
scriviamo “m = ρ v” e
la usiamo come una definizione nominale, possiamo sempre rovesciare la
scrittura: “ρ= m/v”
e reinterpretarla come la nuova definizione nominale, senza menomamente
avere intaccato la “definizione reale” (o “descrizione” o “schiarimento” del
termine come preferiva chiamarla il Peano). La prima ci dà il significato
formale, la seconda il significato reale.
Ma riportiamo interamente i passi di Newton
relativi a spazio e tempo:
“Non
definisco, invece, tempo, spazio, luogo e
moto, in quanto notissimi a tutti. Va notato tuttavia, come comunemente
non si concepiscano queste quantità che in relazione a cose sensibili. Di qui
nascono i vari pregiudizi, per eliminare
i quali conviene distinguere le medesime quantità in assolute e relative, vere e apparenti,
matematiche e
volgari.
I. Il tempo
assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché
di esterno, scorre uniformemente, e con altro
nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare è una misura (esatta o inesatta) sensibile ed esterna
della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del
vero tempo: tali sono l’ora, il giorno, il mese, l’anno.
II. Lo spazio
assoluto, per sua natura, senza relazione ad alcunché di esterno, rimane sempre
uguale e immobile; lo spazio relativo è una dimensione mobile o misura dello
spazio assoluto, che i nostri sensi definiscono in relazione alla sua posizione
rispetto ai corpi, ed è comunemente preso al posto dello spazio immobile; così
la dimensione di uno spazio sotteraneo o aereo o celeste viene determinata
dalla sua posizione rispetto alla Terra. Lo spazio assoluto e lo spazio
relativo sono identici per grandezza e specie, ma non sempre rimangono identici
quanto al numero. Infatti se la Terra, per esempio, si muove, lo spazio che
contiene la nostra aria, e che
relativamente alla Terra, rimane identico, ora sarà
una data parte dello spazio assoluto attraverso cui l’area passa, ora un’altra
parte di esso; e così, senza dubbio,
muterà incessantemente....”14.
Lo spazio assoluto di Newton, come si vede, è ben lontano da quella assurda e arbitraria estrapolazione dell’impressione, tratta dall’immediata esperienza sensibile, di una piattaforma immobile alla quale si concede di diventare “infinita”, cosa che probabilmente deriva, dalla assiomatizzazione di Eulero.
A questo proposito è interessante citare un
lungo brano di Stallo:15
“La dottrina
di Newton viene portata alle sue conseguenze estreme da Leonardo Eulero. Nel
primo capitolo della sua Theory of the Motion of Solid or Rigid Bodies, Eulero
comincia con l’enfatica dichiarazione che la quiete ed il moto, nei limiti in
cui ci sono noti dall’esperienza sensibile, sono puramente relativi. Dopo
essersi riferito al caso tipico del marinaio nella sua nave, egli prosegue:”
«La nozione di
quiete di cui qui parliamo è, quindi, una delle relazioni, dal momento che non
è derivata solamente dalle condizioni del punto O al quale essa è attribuita, ma
da un confronto con un qualche altro corpo A.... E quindi appare immediatamente
che lo stesso corpo che è a riposo rispetto al corpo A è in moto vario rispetto
ad altri corpi....
Quello che è stato detto della quiete relativa può
essere immediatamente applicato al moto relativo; poiché quando un punto O
mantiene la sua posizione rispetto al corpo A, si dice che è relativamente a
riposo, e quando cambia continuamente di posto, si dice che è in moto
relativo.... Perciò moto e quiete sono
distinti meramente nel nome e in fatto non sono opposti l’una all’altro, dal
momento che entrambi i termini possono essere attribuiti nello stesso tempo
allo stesso punto, a seconda che esso è riferito a corpi diversi. Né il moto
differisce altrimenti dalla quiete di quanto un moto differisce da un altro [moto].»
“Dopo avere
così insistito sull’essenziale relatività di moto e quiete, Eulero prosegue, nel
secondo capitolo, “Sui Principi Interni del Moto”, considerando la questione
se quiete e moto sono predicabili o meno di un corpo senza riferimento ad altri
corpi. A tale questione egli senza alcuna esitazione dà una risposta
affermativa, ritenendo essere assiomatico che “ogni corpo, anche senza
relazione ad altri corpi, è a riposo o in moto, cioè o è
assolutamente a riposo o
assolutamente in moto”.
«Finora», egli
spiega, «seguendo i sensi, noi non abbiamo riconosciuto alcun altro moto o quiete
se non rispetto ad altri corpi, quindi noi abbiamo chiamato relativi sia
il moto che la quiete. Ma se ora mentalmente togliamo via tutti i corpi tranne
uno e se così viene abolita la relazione con cui finora abbiamo distinto la sua
quiete e il suo moto, per prima
cosa sarà necessario chiedersi se la conclusione in relazione alla quiete o al
moto del corpo rimasto resta in piedi o no. Poiché, se la conclusione può solo
tirarsi dal confronto del posto del corpo in questione con quello degli altri
corpi, ne segue che, quando tali corpi sono scomparsi, la conclusione stessa
scompare con essi. Ma, nonostante noi non sappiamo intorno alla quiete o al
moto di un corpo se non mediante la sua relazione con gli altri corpi, purnondimeno
non si deve concludere che tali cose (quiete e moto) sono niente in se’ stesse
se non una mera relazione stabilita dall’intelletto e che non vi è niente inerente
ai corpi stessi che corrisponda alla nostra idea di quiete e di moto. Poiché,
sebbene noi siamo incapaci di conoscere le quantità altrimenti che per confronto, tuttavia, quando le cose con
cui noi abbiamo istituito il confronto sono scomparse, rimane ancora nel corpo
il “fundamentum quantitatis”, così com’era; poiché, se esso venisse esteso o
contratto, tale estensione o contrazione
dovrebbe essere presa come un cambiamento vero. Così, se un solo corpo
esistesse, noi dovremmo dire che esso è in moto o a riposo, dal momento che non
potremmo considerarlo come avente entrambi gli attributi o nessun attributo.
Per cui io concludo che la quiete ed il moto non sono cose meramente ideali,
nate solo dal confronto, tal che non vi possa essere niente inerente al corpo
che corrisponda a tali attributi, ma che ci si può sempre chiedere
correttamente, anche per un corpo solitario, se esso è in moto o a riposo.... Perciò, dal momento che
noi possiamo correttamente relativamente a
un singolo corpo medesimo, senza riferimento ad altri corpi, o sotto la
supposizione che essi siano stati annichilati, chiederci se esso è in quiete o
in moto, noi dobbiamo necessariamente prendere l’una o l’altra alternativa. Ma
che cosa tale quiete o moto sarà, in vista del fatto che non vi è alcun
cambiamento di posto rispetto ad altri corpi, noi non siamo in grado nemmeno di
immaginarlo senza ammettere uno spazio assoluto in cui il nostro corpo occupi
un dato spazio da cui può passare ad altri posti.»
“Conseguentemente
Eulero insiste molto strenuamente sulla necessità di postulare uno spazio
assoluto e immobile”.
«Chiunque nega
lo spazio assoluto», egli dice, «cade nelle più gravi perplessità. Poiché egli
è costretto a rigettare la quiete e il moto
assoluti come vuoti suoni sensa alcun senso, egli non solo è costretto a riget
tare anche le leggi del moto, ma anche ad affermare che non vi è alcuna legge
del moto. Poiché, se la domanda che ci ha condotto a questo punto: - Quali saranno le condizioni di un corpo
solitario staccato dalla sua connessione con gli altri corpi? - è assurda allora anche quelle cose che sono
indotte nel corpo dall’azione degli altri corpi diventa incerta e
indeterminabile, e così ogni cosa
dovrà essere presa come un accadimento fortuito e senza ragione veruna.»
“Che la base
di tutto questo ragionamento è puramente ontologica è chiaro. E, quando i
pensatori del diciottesimo secolo diventarono attenti nei confronti delle
fallacie della speculazione ontologica, l’infondatezza dell’“assioma” di
Eulero — che la quiete e il moto sono entità sostanziali attributive indipendenti da ogni
relazione — difficilmente potè
sfuggire alla loro attenzione. Purnondimeno essi furono
incapaci di emanciparsi interamente dai preconcetti di Eulero. Essi non
evitarono all’istante il suo dilemma, ripudiandolo come infondato, col negare
che moto e quiete non possono essere
reali senza essere assoluti, ma piuttosto essi cercarono di conciliare la
realtà assoluta della quiete e del moto con la loro relatività fenomenale
postulando un punto o centro assolutamente fermo nello spazio a cui le
posizioni di ogni corpo potevano essere riferite.”
Non abbiamo niente da aggiungere alle
conclusioni di Stallo, notiamo che lo spazio - tempo di Einstein non
è per niente diverso dallo spazio assoluto di Eulero a parte il numero delle
dimensioni. Notiamo ancora che gli “assoluti” di Newton, come sopra abbiamo
visto, non sono di ordine “ontologico” ma solo di ordine “logico”. Lo spazio,
il tempo e le altre grandezze fisiche sono assolute in quanto indipendenti dalle
unità di misura scelte e dal metodo di misura scelto.
Infatti, tradotto nel linguaggio delle
grandezze fisiche, quanto Newton dice sullo spazio assoluto e relativo,
significa, a mio parere, che le grandezze fisiche, quali, ad esempio, le
lunghezze, sono degli assoluti, invarianti, rispetto a qualsivoglia sistema di
riferimento e unità di misura, mentre i loro rapporti, cioè i numeri che li
esprimono, possono mutare se cambiamo le unità di misurao il metodo di misura
che, a sua volta, potrebbe far dipendere i numeri dal moto del sistema di
riferimento.
Per Newton una cosa sono le grandezze
fisiche, assolute, perciò vere e matematiche, tali per definizione, un’altra
cosa sono i numeri che le esprimono, i rapporti che le misurano, perciò
apparenti e volgari.
Quindi la massa è assoluta, vera, mentre il
peso, il numero che ne esprime la misura sensibile, è solo apparenza.
Per Newton la fisica è filosofia naturale, la
‘cosa fisica’ è ‘cosa filosofica’, cioè ente razionale, a partire da cui
spiegare la ‘cosa empirica’, che è l’apparente e il volgare, ma che è la sola
cosa che possiamo osservare e misurare.
Scrive infatti:
“Vero è che,
in quanto, queste parti dello spazio non possono essere viste e distinte fra loro mediante i nostri
sensi, usiamo in loro vece le loro misure sensibili. Definiamo infatti, tutti i luoghi dalle distanze e dalle posizioni delle cose rispetto a un qualche corpo, che assumiamo come immobile; ed in seguito,
con riferimento ai luoghi predetti valutiamo tutti i moti, in quanto consideriamo
i corpi come trasferiti da quei medesimi luoghi in altri. Così, invece dei
luoghi e dei moti assoluti usiamo i
relativi; né ciò riesce scomodo nelle cose umane: ma nella filosofia occorre
astrarre dai sensi. Potrebbe anche darsi che non vi sia alcun corpo in quiete
al quale possono venire riferiti sia i luoghi
che i moti.”16
Ecco perché poi prima di trattare il sistema
del mondo nel terzo libro dei Principia, Newton così scrive:17
“Nei libri precedenti
ho trattato i Principi della Filosofia, non filosofici tuttavia, ma soltanto
matematici, a partire dai
quali, però, si può discutere di cose filosofiche”.
“Fenomeni” titola Newton la seconda
parte del terzo libro, dopo aver dato le regole del filosofare, cioè del
“pensare fisico”.18
I fenomeni sono le osservazioni, cioè le
misure sensibili che operativamente vengono fatte.19 Il significato fisico di essi è dimostrato quindi a
partire dalle proposizioni matematiche e dalle regole filosofiche.20
Non si può fare fisica senza metafisica. La
“cosa fisica” è “cosa filosofica”, costruzione razionale, elaborata a partire
da entità fisiche, razionalmente definite sulla base di principi metafisici. La
“cosa fisica” è “cosa filosofica” perché essa non si ferma al fenomeno, cioè
alla “cosa empirica”, ma la spiega, la deduce. Essa è pertanto “conoscenza”
della realtà empirica apparente perché ne è l’essenza, lo strato profondo,
anche se non ultimo o definitivo.
Nel programma di ricerca machiano, cioè nel
paradigma positivista, viene rovesciato il significato razionale di “ente
fisico” e di “significato fisico”, che viene sostituito con quello che Newton
chiama “l’ente fisico volgare, apparente e mutevole”. Così viene ad avere
significato fisico e realtà fisica solo quanto osserviamo o misuriamo; il
numero, cioè l’apparenza, si sostituisce alla grandezza, alla ‘cosa’, la quale,
a sua volta, svanisce nel nulla.
Nelle trasformazioni di Lorentz meri indici
numerici, perché tali sono gli x, y, z,
t e x’, y’, z’, t’,
che stanno ad “indicare” gli estremi di distanze spaziali e temporali, si
sostituiscono alle distanze spaziali e temporali.
Lo stesso avviene in matematica, con il
programma di ricerca di Dedekind. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del
Novecento si ha questo profondo cambiamento metafisico che, sostituendo le
misure, cioè i numeri, alle grandezze nella fondazione della ‘cosa matematica’
e della ‘cosa fisica’, sovverte la “realtà fisica”.
Già in Mondotre/Quaderni, N 7, dal titolo “Grandezze fisiche e numeri matematici”,
avevamo espresso queste idee.
Ma ora voglio aggiungere che con i suddetti
moderni programmi di ricerca si perde la “matura consapevolezza filosofica”
newtoniana, secondo la quale non è possibile fare fisica senza metafisica, o se
si vuole scienza senza filosofia.
Infatti, nell’un caso (Dedekind) si insegue
il ‘mito formalistico o idealistico’, di credere di potere “creare” la cosa
matematica a partire dal puro pensiero, di creare la grandezza fisica dal
numero astratto, di creare il significato a partire dal mero segno indicatore,
nell’altro caso (Mach) si insegue il ‘mito empirista’, di potere ricavare la
“cosa fisica”, che come abbiamo detto, è cosa filosofica, dalle imperfette
operazioni fisiche che possiamo compiere sulla realtà, che invece è già stata
stabilita nella nostra mente, con l’illusione di poter ricavare il “significato
fisico” dalla “cosa empirica”, dalla mera osservazione, che invece è pura
apparenza, come già sosteneva Parmenide. Del resto abbiamo sostenuto che il
programma di ricerca di Newton non è altro che il prosieguo di quella
‘tradizione di pensiero’, che affonda le sue radici nella scienza, o meglio
filosofia, antica che resta sotto i nomi di Pitagora, Parmenide, Democrito,
Euclide, Archimede.
Nei programmi di ricerca che hanno inseguito
il mito machiano si è voluto, invece, scorporare la metafisica dalla fisica,
“gli enti privi di significato fisico, metafisici” dagli “enti con significato
fisico, operativamente definiti”. Questa, secondo me, è una pura illusione come
ho cercato di dimostrare.
Ora, se come è vero che non è possibile fare fisica senza metafisica, scienza senza filosofia e dato il deterioramento del termine “fisica”, forse risulterebbe utile tornare alla “filosofia naturale” di newtoniana memoria, che meglio esprime il significato di ‘significato fisico’ o di ‘cosa fisica’ o ‘realtà fisica’, che dir si voglia. In verità una matura consapevolezza epistemologica (si veda quanto scrive R. Fonte nel suo articolo) credo che renderebbe attuale la ripresa di tale denominazione.
La questione non è meramente nominalistica.
Infatti sappiamo che al contrario è stata combattuta, e purtroppo vinta, ben
altra battaglia, iniziata da Platone ed Aristotele e che continua fino ai
giorni nostri, per la quale invece si rivendica l’autonomia della ‘cosa
metafisica’ dalla ‘cosa fisica’, fino a negare “valenza conoscitiva” alla “cosa
fisica” ridotta a una mera sequenza di osservazioni. Ricordiamo, per restare in
Italia, i filosofi Croce e Gentile, con la loro nefasta influenza sui nostri
corsi di studio.
La riaffermazione della “cosa fisica come
cosa filosofica”, della “fisica” o, più in generale, della “scienza come
pensiero” e non come semplice accumulazione di conoscenze empiriche, può solo
passare allora, non solo attraverso un profondo cambiamento di paradigma
filosofico o di pensiero, ma anche della cultura in tutte le sue
manifestazioni, ma questo naturalmente ha bisogno anche e soprattutto di un
cambiamento di regimi politici ed economici.
1 Cfr. I. Lakatos, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici
in Critica e crescita della
conoscenza, Feltrinelli, 1976, pp. 235, 239, 242. TORNA
2 Vedi, anche, l’articolo di R. Fonte. TORNA
3 Alcuni aspetti ditale programma sono discussi in
altri articoli di Notarrigo e Pagano, pubblicati nei Quaderni di Mondotre, numeri
4, 5 e 7. TORNA
4 È noto come Popper abbia ancorato la sua
riflessione epistemologica al suo giovanile incontro del 1919 con la teoria
della relatività di Einstein e con altre tre teorie: la teoria marxista della
storia, la psicanalisi di Freud e la psicologia individuale di Adler. Ciò che
della prima impressiona il giovane Popper, in cerca di un “criterio per determinare lo stato scientifico di una teoria”, è
l’alto potere di rischio delle sue previsioni, mentre ciò che lo lascia
insoddisfatto delle altre è il loro “apparente potere esplicativo”. Scrive,
infatti, “Esse sembravano in grado di
spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi in cui si riferivano”. Ma è in questa loro forza apparente
che il giovane Popper scorge la loro intrinseca debolezza. La validità di una
teoria scientifica sta, invece, nelle sue limitazioni: “ogni teoria scientifica valida è una proibizione”; “un teoria che non
può essere confutata non è scientifica”; “ogni controllo genuino di una teoria
è un tentativo di falsificarla”. Accettato questo decalogo per lo statuto
della scienza, Popper proclama quindi scientifica la teoria di Einstein, poiché
“la teoria eiristeniana della
gravitazione soddisfaceva chiaramente il criterio della falsificabilità” e
caccia le altre teorie nell’alveo delle pseudoscienze. Cfr K. Popper, La scienza: Congetture e confutazioni in
Congetture e confutazioni, Il Mulino, 1972. TORNA
5 “Nella nuova teoria, conformemente ai risultati sperimentali, vale un
principio di relatività riferito all’elettrodinamica, secondo cui un
osservatore percepisce lo stesso fenomeno indipendentemente dal fatto che il
suo sistema sia a riposo nell’etere o si muova di moto rettilineo e uniforme.
Egli non ha alcun modo di distinguere fra un sistema e l’altro, poiché, anche
nel caso di corpi che si muovono nell’universo indipendentemente
dall’osservatore, non è possibile riconoscere il moto assoluto rispetto all’etere,
ma soltanto il moto relativo. Così due osservatori in moto relativo fra loro,
possono a ugual diritto asserire di essere a riposo nell’etere senza che vi sia
alcuna possibilità, né da un punto di vista sperimentale, né da un punto di
vista teorico, di decidere quale dei due abbia ragione. Queste considerazioni assumono nei confronti del
concetto di etere una posizione analoga a quella che il principio di relatività
della meccanica classica ha rispetto allo spazio assoluto di Newton. In
quest’ultimo caso la conclusione cui si
arriva è che nessun punto nello spazio
assoluto ha un reale significato fisico, poiché in esso non ha alcun senso
fissare e riconoscere in un secondo tempo un qualsiasi punto. Allo stesso modo
dobbiamo ora ammmettere che definire un punto nell’etere non ha alcun carattere
di realtà nell’ambito della fisica, per
cui l’etere perde completamente la sua natura di sostanza materiale. È ovvio
cioè che, se due osservatori in moto relativo fra loro possono affermare a buon
diritto di essere fermi nell’etere, non vi è ragione di supporre l’esistenza di
un simile mezzo.” Cfr. M. Born, La
sintesi einsteniana, Boringhieri, 1973, p. 267. TORNA
6 Cfr. E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico‑critico, Boringhieri, 1977, pp. 235 -
237. TORNA
7 Cfr. A. Einstein, I fondamenti della teoria della relativita generale, in Cinquant’anni di relatività, Giunti
Barbera, 1980, pp. 510 - 512. TORNA
8 M. Born, Op.
cit., pp. 94 - 95. TORNA
9 E. Nagel individua cinque possibili significati di
tali termini presso gli scrittori, che si sono occupati della “realtà fisica” e
del “significato fisico”: “1. Va
considerato come fisicamente reale la cosa o l’evento che venga pubblicamente
percepito quando si verificano le condizioni adatte alla sua osservazione... Secondo tale criterio le superfici illuminate sono
fisicamente reali, mentre le onde luminose non lo sono... In questo
significato, la realtà fisica delle entità teoriche non ha grande importanza
per la scienza; 2. Secondo questo criterio, ogni termine non logico di una
legge fisica assunta - teorica o
sperimentale - designa qualcosa che
è fisicamente reale, purché la legge sia ben sostenuta da prove empiriche e sia generalmente accettata come
probabilmente vera da parte della comunità scientifica. Secondo tale criterio
quindi, viene attribuita una realtà fisica non soltanto a entità
sperimentalmente identificabili...ma anche ad oggetti teorici come le onde
luminose, gli atomi, i neutrini e le onde di probabilità. Chiunque adotti
questo criterio sosterrà conseguentemente che molti oggetti postulati da
qualche teoria accettata sono fisicamente esistenti, anche prima che siano
disponibili le prove empiriche.... Questo sembra essere stato il criterio
adottato da molti fisici contemporanei, che hanno creduto nell’esistenza fisica
dall’antiprotone, secondo quanto postulava la teoria quantistica, anche se mancava,
fino a poco tempo fa, la prova sperimentale ad essa relativa; 3. Un terzo
criterio è quello secondo cui un termine che designi qualcosa di fisicamente
reale deve entrare a far parte di più di una legge sperimentale, con la
clausola che le leggi siano logicamente indipendenti tra loro e che nessuna di
esse sia logicamente equivalente ad un insieme di due
o più leggi.... Per esempio il valore della forza gravitazionale terrestre su
un corpo appare nella legge di Galileo sulla caduta libera dei gravi come la costante ‘g’.... Ma ‘g’ compare in molte
altre leggi sperimentali, come quella sul periodo di un pendolo semplice; di
conseguenza, si può attribuire alla forza gravitazionale terrestre una realtà
fisica. 4. Secondo questo criterio, un termine significa qualcosa di
fisicamente reale, se esso compare in una “legge causale” - teorica o sperimentale - ben fondata. Secondo una versione più
particolare del criterio, il termine deve descrivere ciò che tecnicamente
viene detto lo “stato di un sistema fisico”, così che se “At” è la “descrizione - di -
stato” del sistema all’istante t, la
legge cusale asserisce che lo stato dato è invariabilmente seguito (o
preceduto) dallo stato “At′” all’istante t′
posteriore (o precedente) a t.... Le leggi causali della meccanica ci
permettono, date le posizioni e le velocità di un insieme di particelle in
qualsiasi istante iniziale, di determinare le posizioni e le
velocità in qualsiasi altro istante. Di conseguenza lo stato meccanico di un
sistema è fisicamente reale.... Le coordinate della posizione e della velocità
di una particella elementare individuale della meccanica quantistica, per
esempio di un elettrone, non descrivono qualcosa che sia fisicamente reale,
perché non costituiscono la “descrizione - di - stato” della particella.
5. Un ultimo criterio di realtà fisica è quello secondo cui il reale è ciò che
è invariante rispetto ad un insieme stipulato di trasformazioni, variazioni,
proiezioni o prospettive.... Il valore numerico della velocità di un corpo non
è invariante quando il moto del corpo venga riferito a diversi sistemi di
riferimento, così che secondo il presente criterio la velocità relativa non è
una realtà fisica. Molti studiosi che hanno scritto sulla teoria della
relatività hanno infatti sostenuto che le distanze spaziali e le durate
temporali come sono concepite nella fisica prerelativistica non sono
fisicamente reali in quanto non sono invarianti per tutti i sistemi che si
muovono uno rispetto all’altro con velocità relative costanti”. L’autore
non approfondisce la questione e conclude “sarebbe
desiderabile bandirne del tutto l’uso”. Cfr. E. Nagel, La struttura della scienza, Feltrinelli, 1977, pp. 153 - 159. TORNA
10 È il caso del noto
epistemologo italiano E. Agazzi, il quale scrive: “Se è vero che il significato di un segno è costituito solidarmente
dalla sua intensione e dalla sua estensione, è del tutto naturale trarne come
conseguenza che un termine ha un significato fisico se e solo se hanno
carattere fisico tanto la sua intensione quanto la sua estensione, o se
preferiamo (ma è la stessa cosa detta con parole diverse), se esso ha
riferimento unicamente ad “entità fisiche”, siano esse dei veri e propri
oggetti materiali, siano esse proprietà, relazioni, operazioni, funzioni
definite su enti materiali” (Cfr. E. Agazzi”, Temi e problemi di Filosofia della fisica, Edizione Abete, 1974).
La definizione è circolare. Cosa sono le “entità fisiche” se non quelle che
hanno “significato fisico”? Ma allora: Cosa è il “significato fisico”? TORNA
11 I. Newton, Principi
matematici della filosofia naturale, a cura di A. Pala, UTET, 1965. TORNA
12 Cfr. De gravitatione et
aequipondio fluidorum, Unpublishcd scientific papers of Isaac Newton, Cambridge
Univ. Press, 1962 p. 91. TORNA
13
I. Newton, Principi...,
op. cit., p. 92. Vedi su questo punto l’articolo di A. Pagano in questo stesso numero
dei Quaderni. TORNA
14 Cfr. I. Newton, Principi..., op. cit. pp. 101 - 104. TORNA
15 Stallo è un epistemologo
americano di origine e formazione tedesca, nato ad 01denburg (Germania) nel
1823, morto a Florence (USA) nel 1900, portato in evidenza da Bridgman. Le
citazione che riportiamo nel testo, da noi tradotta dall’inglese, si trova a
pag. 207 e segg. di J.B. Stallo, The
concepts and theories of modem physics, edited by P. W. Bridgman, Harvard
Library Book, 1960. Notiamo che nella Mechanica,
sive motus scientia analytice exposita di Leonardo Eulero, edita da Teubner
nel 1912, si possono leggere cose molto simili a quelle riportate da Stallo, e
precisamente nella definizione 2, della prima parte del libro e nel successivo
scolio 2. TORNA
16 I. Newton, Principi..., op. cit., pp. 106 - 107. TORNA
17 Ibidem, p. 601. TORNA
18 “Regola I. - Delle cose naturali non devono
essere ammesse cause più numerose di quelle che sono vere e che bastano a
spiegare i fenomeni. Regola II. - Perciò,
finché può essere fatto, le medesime cause vanno attribuite ad
effetti naturali dello stesso genere. Regola III. - Le qualità dei corpi che non possono essere aumentate e diminuite, e
quelle che appartengono a tutti i corpi sui quali è
possibile impiantare esperimenti, devono essere ritenute qualità di tutti i
corpi. Regola IV. - Nella filosofia
sperimentale, le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni, devono,
nonostante le ipotesi contrarie, essere considerate vere o rigorosamente o
quanto più possibile, finché non interverranno altri fenomeni, mediante i quali
o sono rese più esatte o vengono assoggettate ad eccezioni. (Ibidem, pp. 603 - 607). TORNA
19 Scrive, per esempio Newton: “Fenomeno I. - I pianeti che ruotano intorno a Giove descrivono, con i raggi condotti
verso il centro di Giove, aree proporzionali ai tempi, e i loro tempi periodici, supposte le stelle
fisse in quiete, sono in ragione della potenza 3/2 delle distanze dal centro
dello stesso. Risulta dalle osservazioni astronomiche... Gli astronomi
concordano sul fatto che i tempi periodici sono in ragione della potenza 3/2 dei semidiametri
delle orbite”. O ancora: “Fenomeno
VI. - La Luna descrive, con il raggio
condotto verso il centro della Terra, un’area proporzionale ai tempi.” (Ibidem,
p. 608 - 615). TORNA
20 “Prop. I. - Teorema I. Le forze per effetto
delle quali i pianeti che ruotano intorno a Giove sono continuamente distratti
dai moti rettilinei, e sono trattenuti nelle proprie orbite, tendono al centro
di Giove e sono inversamente proporzionali ai quadrati delle distanze dei
luoghi dal medesimo centro... Prop. IV. - Teorema IV. - La Luna gravita
verso il centro della Terra, ed è sempre distratta dal moto rettilineo e
trattenuta nella sua orbita dalla forza di gravità.” Newton conclude la
dimostrazione del teorema, affermando: “Perciò,
la forza per effetto della quale
la Luna, se fosse lasciata cadere verso
la superficie della Terra, viene trattenuta nella propria orbita, diventercbbe
uguale alla forza di gravità presso di noi; pertanto per le Regole I e II è
quella stessa forza che noi siamo soliti chiamare gravità.” (Ibidem, pp. 617
- 6, 621). TORNA