Il potere dei paradigmi:

L’etere cosmico e la critica di Augusto Righi

all’esperimento di Michelson-Morley

 

Pietro Di Mauro, Salvatore Notarrigo, Angelo Pagano

 

 

Introduzione

 

Per molti anni il dibattito e la riflessione sulla scienza sono stati condi­zionati dalla “Logica della scoperta scientifica” di sir Karl R. Popper.1

A dire di Popper il suo libro nasceva da una sua contestazione nei confronti di una tesi centrale del neopositivismo logico, secondo la quale solo le affermazioni empiriche e quelle logicamente dimostrabili a partire da esse, sono dotate di significato.

Popper tenta di dimostrare che vi sono affermazioni, che pur non essendo riconducibili alle due possibilità sopra menzionate, hanno significato.

Questo lo porta alla necessità di inventare un “criterio di demarcazione” tra affermazioni scientifiche e pseudoscientifiche. Tale criterio viene identifi­cato con il “criterio di falsificabilità”.

Tale criterio ha molte lacune ed ambiguità, come sottolineato da molti, tuttavia si affermò come essenziale per lo studio della storia delle scienze e, in particolare, della fisica.

La costruzione teorica di Popper, come espressa nel libro citato, fu in­terpretata (come lo stesso autore lasciava intendere fin dal sottotitolo del libro: Il carattere autocorrettivo della scienza) come una deontologia dello scienziato; anche se gli esempi storici da lui citati e, naturalmente, dallo stesso reinterpretati potevano servire a giudicare la sua teoria come adatta a spiegare i fatti concreti della storia della scienza.

La filosofia popperiana venne rovesciata con l’apparizione di “La strut­tura delle rivoluzioni scientifiche” di Thomas S. Kuhn.2

In tale libro, a partire da una ben altra interpretazione dei fatti della storia delle scienze, si sosteneva la tesi che né la verifica né la falsificazione delle ipotesi scientifiche potevano avere rilevanza per il processo di sviluppo della “scienza normale”, come descritta dallo stesso Kuhn, in quanto questa era esclusivamente guidata dal “paradigma” dominante. Un dato paradigma, secondo tale impostazione, veniva cambiato dopo una lotta tra gruppi rivali di scienziati; se il gruppo sostenitore del nuovo paradigma risultava vincente solo allora si sarebbe avuta una “rivoluzione scientifica”.

Anche qui si hanno molte ambiguità: non è chiaro quale sia il mecca­nismo che porta al cambiamento del paradigma, non è chiaro se la  scienza normale sia una necessità logica o un dato di fatto, non è chiaro il significato stesso di “paradigma”.

Ancora una volta, indipendentemente dalle critiche che ne vennero fat­te, il “paradigma” kuhniano si affermò nelle discussioni epistemologiche e nelle analisi di molti storici della scienza, sfociando in discussioni di natura puramente sociologica, che forse erano gli argomenti più adatti per l’interpre­tazione del significato da attribuire alla nozione di paradigma.

Recentemente la teoria kuhniana è entrata nella discussione sui problemi dell’insegnamento della fisica.

Schecker3 nota che le difficoltà degli studenti nell’apprendimento della meccanica newtoniana dipendono dal paradigma che loro deriva dalla “mec­canica del senso comune”, che applicano con successo nella comunicazione quotidiana intorno al moto e alle forze.

A partire da un test eseguito su 254 studenti di scuola superiore lo Schecker crede che la sua tesi sia confermata al massimo grado.

È interessante esaminare tali risultati.

Veniva chiesto agli studenti di commentare la seguente affermazione:

“Nelle lezioni di fisica si incontrano spesso ipotesi o esperimenti ideali che ovviamente non  possono essere realizzati in un esperimento effettivo, come, p. es., l’esclusione della resistenza dell’aria ed altri effetti di attrito o l’ipotesi di un moto lineare che dura infinitamente.

Pensi che un tale metodo sia utile o inutile? Fornisci delle ragioni per la tua risposta.”

Solo il 10% ha definito il metodo come senza senso. Ma un’analisi più accurata delle risposte di coloro che consideravano utile il metodo mostrava che solo un terzo di essi aveva dato la risposta che lo sperimentatore riteneva corretta e cioè che i casi ideali sono strumenti mentali per strutturare la realtà sensibile e funzionano come principi di base del processo. Gli altri lo ritenevano positivo solo in quanto rende le cose più facili, oppure per la semplice ragione che non è necessario riferirsi sempre alla realtà quando si è interessati alla fisica.

Noi crediamo che non si sarebbero ottenuti risultati molto diversi se il test fosse stato eseguito su un campione di scienziati.

Riprenderemo tali considerazioni epistemologiche dopo avere illustrato un caso molto significativo che si riferisce al famoso esperimento di Michelson e Morley.4

 

 

Due paradigmi a confronto: campi e particelle

 

Fin dall’antichità due paradigmi fondamentali si sono confrontati sul significato da attribuire alla parola “scienza”.

Diogene Laerzio divide i filosofi in due categorie:5 dogmatici ed efettici.

I primi pensano che qualsiasi discorso sulla realtà debba partire da pro­posizioni vere, perché evidenti per il significato stesso dei termini, che quindi bisogna assumere come assiomi. I secondi pensano che prima di asserire una proposizione bisogna astenersi da ogni giudizio sulla sua verità e bisogna invece porla semplicemente come ipotesi da vagliare.

Ponendo la questione al modo degli efettici, senza dare alcunché per certo, l’unico modo possibile per avanzare nella ricerca resterebbe quello pro­posto dai neopositivisti, contestati da Popper; o, in ogni caso, bisognerebbe assumere una qualche forma di empirismo, che, anche assumendo criteri deduttivi, può portare al massimo al metodo ipotetico - dettuttivo, caldeggiato da Einstein sostenuto, in questo, dal Popper.

Per i dogmatici il problema non si pone, perché di assolutamente certo vi sono le nostre convenzioni linguistiche, fondate a partire dalle operazioni fisiche elementari, come, p. es., quelle che possiamo compiere mediante l’uso di riga e compasso, facilmente controllabili.

Successivamente, Diogene Laerzio introduce un’altra distinzione tra i filosofi: Italici e Ionici (tale distinzione si deve fare risalire ad Aristotele).

Bisogna pensare che tale distinzione viene fatta sulla base della prece­dente distinzione di ordine teoretico, infatti tra gli Italici vengono elencati, oltre ai Pitagorici propriamente detti e agli Eleati (Parmenide e Zenone), anche altri di origine non italica, come Democrito ed Epicuro, e fra gli Ionici, oltre Talete, Anassimandro ed Anassimene, vengono elencati anche Platone ed Aristotele, di origine non ionica.

Strettamente connessa a tali distinzioni ve n’è un’altra molto importante dal punto di vista della fisica che oggi chiameremmo l’opposizione tra una teoria di particelle e una teoria di campo.

Per gli Italici l’unico principio, essendo di natura logica (il “numero” come viene riportato per i Pitagorici dai dossografi), può essere costituito da un mondo di “particelle”. Infatti, a partire dall’Essere logico (il Tutto) di Parmenide, contrapposto al Nulla, e dalla teoria dei contrari dei Pitagorici (le classi complementari della logica di Peano), si perviene, per successive dicoto­mizzazioni, all’idea di particella. Con una prima dicotomizzazione dell’Essere si produce l’opposizione, puramente logica: “enti che hanno estensione” ed “enti che non hanno estensione”. Con una seconda dicotomizzazione degli enti estesi, si perviene agli enti materiali (gli “atomi” di Democrito, privi di “pori”, ovvero le particelle, che possono essere piccole o grandi “quando il mondo”, come ricorda lo stesso Democrito) e agli enti estesi non materiali (i punti geometrici dello spazio vuoto).

Per gli Ionici, invece, l’unico principio, essendo di natura materiale (come ricorda Aristotele), può essere solo un “campo” fatto di acqua, o di aria, o di Apeiron, cioè il principio indefinito di Anassimandro.

Gli Italici replicano che ciò è assurdo perché senza il vuoto interposto tra le particelle, anche le più piccole, non può aversi il movimento.

Ma il paradigma del “campo” si impone fino ai tempi di Galilei, sulla base del dogma empirista, propugnato da Aristotele, che negava il vuoto, dal momento che non lo possiamo vedere con i nostri sensi. Come se, d’altra parte, si potessero toccare e vedere gli enti astratti dei Pitagorici: Terra, Acqua, Aria e Fuoco, ammessi anche da Aristotele, come sostanze, semplice­mente perché possiamo avvertire con i nostri sensi qualcosa di concreto che chiamiamo con lo stesso nome, scritto con l’iniziale minuscola.

Il paradigma delle particelle viene ripreso da Galilei e si afferma presso la gran parte degli scienziati mediante la teoria matematica di Newton, almeno per quanto riguarda le forze gravitazionali. Tuttavia il paradigma del campo resiste ancora per quanto riguarda la luce, che viene pensata come dovuta alle oscillazioni dell’“etere cosmico” che pervade tutto l’universo, etere che è un mezzo materiale con ben strane proprietà. E tale concezione, con qual­che modificazione introdotta dalla relatività e dalla meccanica quantistica, ancora permane presso la maggior parte dei fisici odierni.

Per vedere ciò riportiamo qualche brano dalla prefazione di una presti­giosa opera di storia dell’elettromagnetismo:6

“Una parola è necessaria sul titolo “Etere ed elettricità”. Come si sa, l’etere ha giocato un grande ruolo nella fisica del secolo diciannovesimo; ma nella prima decade del secolo ventesimo, principalmente come risultato del fallimento del tentativo di osservare il moto della terra relativo all’etere e dell’accettazione del principio che tali tentativi debbano sempre fallire, la parola “etere” perse favore e divenne di moda riferirsi agli spazi interplanetari con il termine “vuoto”; il vuoto viene concepito come mera mancanza di qualsiasi cosa, senza alcuna proprietà tranne quella della propagazione delle onde elettromagnetiche. Ma con lo sviluppo dell’elettrodinamica quantistica, il vuoto è stato considerato come la sede delle oscillazioni di “punto zero” del campo elettromagnetico, delle fluttuazioni di “punto zero” di cariche e correnti elettriche, e di una “polarizzazione” corrispondente alla costante dielettrica diversa dall’unità. Sembra assurdo mantenere il nome di “vuoto” a  un’entità così ricca di proprietà fisiche,  e  la storica parola “etere” può essere mantenuta.”

La ragione di ciò sta nella difficoltà che si incontra, entro un paradigma empirista, incapace di allontanarsi dal dato immediato dei sensi, di poter concepire qualsiasi azione a distanza,7 anche a costo di introdurre enti non visibili, ma comunque sempre materiali.8

Secondo il Whittaker, il paradigma delle particelle, anche in relazione ai fenomeni luminosi, viene sostenuto, per primo dal Gassendi.9

Il Whittaker sostiene, contrariamente ai molti che ancora oggi attribu­iscono a Newton la concezione della luce fatta da corpuscoli in movimento, che questi non prende posizione a proposito della costituzione della luce. Ma noi pensiamo che Newton ha in mente già l’interazione a distanza (cosa che poi avrà il coraggio di proporre nei suoi ‘Principia” (1687) per quanto ri­guarda l’attrazione gravitazionale), infatti in un suo manoscritto - inteso a spiegare, contro coloro che l’accusavano di abbandonare la filosofia mecca­nicistica, il perché in una memoria presentata nel 1672 alla Royal Society aveva affermato che “non si disputerà più a lungo se ... e nemmeno, forse, se la luce è un corpo.” -  spiega:10

“A causa di una distinzione impropria fatta da alcuni in ordine alle ipotesi meccaniche, ossia tra quelle per le quali la luce è considerata un corpo e quelle per le quali è considerata l’azione di un corpo intendendo la prima corpi proiettati attraverso un mezzo, la seconda moti o pressioni propagati attraverso di esso questa posizione può sconsideratamente essere intesa come appartenente alla prima; ma in entrambi i casi la luce è ugualmente un corpo o l’azione di un corpo. Se, nel primo caso, i raggi di essa vengono chiamati corpi proiettati, allora, nell’altro caso, i raggi sono corpi che propa­gano il moto dall’uno all’altro in linee rette, finché l’ultimo colpisce il senso. L’unica differenza è che nell’un caso un raggio è nient’altro che un corpo, nel­l’altro molti. Analogamente, se nell’ultimo caso il moto propagato attraverso i corpi viene chiamato raggio, nel primo sarà moto continuato nei medesimi corpi. In tutt’e due i casi, però, i corpi devono causare la visione per effetto del loro moto. Ora, essendo mia intenzione, in questo luogo, soffermarmi sui concetti dei peripatetici, ho assunto il corpo non in opposizione al moto, come nella distinzione detta, bensì in opposizione alla qualità peripatetica, dirimendo la controversia tra la filosofia peripatetica e quella meccanica con l’indagare se la luce è una qualità o un corpo. Che la mia idea fosse questa, appare dal mio congiungere questa controversia con altre controversie fin qui dibattute tra le due filosofie, sia utilizzando relativamente all’una i termini peripatetici qualità, soggetto, sostanza, qualità sensibili, sia, rispetto all’altra, i termini meccanici corpo, modi, azioni, sia, infine, lasciando indeterminato il genere di quelle azioni (se pressioni, urti o altro) per effetto delle quali la luce può produrre nelle nostre menti i fantasmi dei colori.”

In altre parole tutto, compresa la luce, è materia e movimento, come per i Pitagorici, quindi, usando il vocabolario dei peripatetici, la luce dovreb­be chiamarsi sostanza e non qualità, che è solo l’apparenza sensibile che la sostanza produce nei nostri sensi, come aveva specificato nella sua memoria presentata alla Royal Society. Newton, come scrive ad Oldenburg, accetta l’idea di Hooke del moto vibratorio causato dalla luce, ma essa non puo con­sistere solo in ciò, che è solo quello che possiamo avvertire con gli esperimenti, ma deve essere qualcosa d’altro, e certamente non è una qualità peripatetica, forse è più vicina al concetto democriteo di coesione tra atomi in moto rela­tivo tra loro, l’azione a distanza. Nel seguito molti accettarono pienamente l’idea dell’azione a distanza come Boskovich, Ampere e molti altri.

I due paradigmi per lungo tempo stanno testa a testa: da un lato i sostenitori dell’etere, dall’altro i sostenitori dell’azione a distanza.

Questa situazione ce la ritroviamo fino ai tempi di Maxwell.

Infatti scrive Maxwell, nella prefazione al suo famoso “Trattato”:11

“Il trattato nel suo complesso differisce considerevolmente da altri ec­cellenti lavori di elettricità pubblicati, per la maggior parte in Germania, e potrà sembrare che vi venga resa scarsa giustizia al pensiero di parecchi emi­nenti cultori di elettricità e matematici. Una delle ragioni di ciò è che,  prima di cominciare a studiare l’elettricità, avevo deciso di non leggere sull’argo­mento nessuna trattazione matematica, se non dopo avere letto interamente le Ricerche sperimentali di Faraday. Sapevo che si riteneva esserci una dif­ferenza tra il modo di concepire i fenomeni proprio di Faraday e quello dei matematici, cosicché né il primo né i secondi erano soddisfatti del reciproco linguaggio usato. Ero anche convinto che la discrepanza non sorgesse dal fatto che l’una o l’altra delle due parti fosse in errore. Il primo a persuader­mi di questo fu Sir William Thomson, ai consigli e all’assistenza del quale, così come ai suoi lavori pubblicati, io devo la maggior parte di quanto ho imparato sull’argomento. ...

Quando ebbi tradotto quelle che consideravo le idee di Faraday in forma matematica, trovai che in generale i risultati dei due metodi coincidevano, così che con entrambi si potevano spiegare gli stessi fenomeni e dedurre le stesse leggi di azione; mentre però i metodi di Faraday assomigliavano a quelli un cui si comincia da un tutto per arrivare alle parti per via analitica, gli ordinari metodi matematici si basavano sul principio di cominciare dalle parti per arrivare al tutto per via di sintesi. ...

Un grande progresso nella scienza elettrica è stato compiuto, sopra tutto in Germania, da parte di cultori della teoria dell’azione a distanza. Le pre­ziose misurazioni elettriche di W. Weber sono state interpretate da lui stesso secondo questa teoria e la teorizzazione sull’elettromagnetismo originata da Gauss, e portata avanti da Weber, Riemann, J. e C. Neumann, Lorenz, ecc., si basa sulla teoria dell’azione a distanza; essa dipende, però, o direttamente dalla velocità relativa delle particelle, oppure dalla propagazione graduale di un qualche cosa, sia esso potenziale o forza, da una particella all’altra. Il grande successo ottenuto da questi uomini eminenti applicando la matema­tica ai fenomeni elettrici conferisce, come è naturale, ulteriore peso alle loro ricerche teoriche, cosicché coloro che, nello studio dell’elettricità, si rifanno a loro come alle più grandi autorità in fatto di teoria matematica dell’elettricità, probabilmente finiranno con l’assorbire, assieme ai loro metodi, anche le loro ipotesi fisiche.

Queste ipotesi fisiche, però, rimangono completamente al di fuori del mio modo di guardare alle cose, e uno degli scopi che mi propongo è che alcuni di coloro che vogliono studiare l’elettricità possano, leggendo questo trattato, rendersi conto che può esserci anche un altro modo di trattare la materia, modo non meno adatto a spiegare i fenomeni, e sebbene in alcune parti possa sembrare meno definito, esso, a mio avviso, corrisponde più fedelmente allo stato effettivo della nostra conoscenza, sia in ciò che afferma, sia in ciò che lascia indeciso.

Da un punto di vista filosofico, inoltre, è estremamente importante met­tere a paragone due metodi, quando entrambi sono riusciti a spiegare i più importanti fenomeni elettromagnetici ed hanno tentato di spiegare la pro­pagazione della luce come fenomeno elettromagnetico, riuscendo, effettiva­mente, a calcolarne la velocità mentre le concezioni fondamentali circa cio che effettivamente avviene, assieme alla maggior parte dei concetti secondari riguardanti le quantità in gioco, sono radicalmente differenti.

Perciò, io ho assunto la parte dell’avvocato, piuttosto che quella del giudice, ed ho esemplificato un metodo, piuttosto che dare una descrizione imparziale di entrambi. Non ho dubbi che anche il metodo che io ho definito tedesco troverà i suoi sostenitori e che verrà esposto con capacità degna della sua ingegnosità. …”

E a pag. 231 del Trattato scrive:

“Le idee che guidarono Ampère appartengono al sistema che ammette l’azione a distanza, e troveremo che una notevole serie di speculazioni e ri­cerche basate su queste idee sono state portate avanti da Gauss, Weber, F. E. Neumann, Riemann, Betti, C. Neumann, Lorenz e altri, con risultati assai notevoli sia per la scoperta di nuovi fatti sia per la formazione di una teoria dell’elettricità.

Le idee che ho tentato di seguire io, sono quelle dell’azione attraverso un mezzo, che trasmette da una porzione alla porzione contigua. Queste idee furono molto usate da Faraday; il loro sviluppo in forma matematica e il confronto dei risultati con i fatti noti è stato il mio scopo in molti saggi già pubblicati. Il confronto, da un punto di vista filosofico, dei risultati dei due metodi, tanto opposti l’uno all’altro nei loro principi di partenza, deve portare a dati validi per lo studio delle condizioni della speculazione scientifica”.

Quindi Maxwell afferma che tutti i suoi risultati sono già stati trovati sotto il paradigma dell’azione a distanza.

Infatti, già nel 1857, Kirchhoff aveva trovato, sulla base delle misure di Weber e Kohlrausch, che le onde elettromagnetiche si propagavano nei cavi con la velocità della luce.

 

 

Il paradigma dell’etere è in bilico: Michelson-Morley

 

Dopo gli esperimenti di Hertz, che verificarono l’esistenza delle onde elettromagnetiche, quella dell’etere sembrò definitivamente assodata, sotto l’ipotesi che le onde potessero viaggiare solo attraverso un mezzo.

Tuttavia altre difficoltà sorgevano: se l’etere è un mezzo materiale deve, in qualche modo, interagire con la materia ordinaria. L’interpretazione degli esperimenti in cui si cercava di mettere in evidenza tale interazione davano risultati contraddittori. Ci si chiedeva se l’etere era immobile o se, invece, venisse trascinato totalmente o in parte dalla materia in movimento.

Già Maxwell, in un suo contributo alla voce “Etere” dell’Enciclopedia Britannica, nell’edizione del 1878, pensava a un esperimento, anche se lo riteneva praticamente impossibile, che poteva mostrare la velocità relativa del moto orbitale della terra rispetto all’etere.

Più tardi Michelson costruisce un inteferometro di grande sensibilità e nel 1881 lo impiega per fare l’esperimento.

L’idea, apparentemente, è semplice: se dividiamo un raggio di luce in modo da far viaggiare uno dei due raggi lungo la direzione del moto della terra e l’altro in direzione ortogonale e, poi, riflettendoli entrambi, li fac­ciamo ricongiungere, essi interferiranno e si potrà risalire alla velocità della terra rispetto all’etere osservando lo spostamento delle frange di interferenza dovuto a tale movimento.

Lo schema dell’esperimento di Michelson è mostrato in figura.

 

 

Un raggio di luce viaggia nella direzione ad, viene diviso da una lamina di vetro, posta a 45° rispetto alla direzione del raggio incidente, con un sottile strato d’argento sopra (lamina semiargentata), in modo che il raggio venga in parte riflesso verso lo specchio in c e in parte trasmesso verso lo specchio in d. I raggi riflessi dagli specchi si ricongiungeranno in b e la loro sovrapposizione può essere vista con un piccolo telescopio in e. La lamina di vetro in g serve di compensazione, in quanto, senza di essa, un raggio attraverserebbe due volte la lamina in b (andata e ritorno) e l’altro, non l’attraverserebbe mai (si suppone che lo strato d’argento stia nella faccia in basso della lamina).

Se la direzione ad viene fatta coincidere con la direzione del moto della terra e poi si ruota l’interferometro di 90° si deve osservare uno spostamen­tento di frange al telescopio.

Naturalmente, bisognerebbe conoscere la direzione del moto della terra rispetto all’etere, ma con un po’ di matematica il problema può facilmen­te essere superato, confrontando due misure fatte, l’una in una direzione arbitraria e l’altra con l’intero apparato ruotato di 90°.

Il   modello matematico di Michelson12 prevedeva una differenza di cam­mino della luce lungo i due bracci (per il percoso totale di andata e ritorno) pari a , dove d è la lunghezza dei due bracci uguali, v la velocità della terra rispetto all’etere e c è la velocità della luce.

Supponendo che l’etere sia fermo rispetto al sistema delle stesse fisse, al posto di v si poteva mettere la velocità orbitale della terra come misurata dagli astronomi, per d = 1,2 metri, si otteneva, per lo spostamento,  , essendo λ la lunghezza d’onda della luce gialla del sodio.

L’inteferometro di Michelson era in grado di osservare differenze di cam­mino, misurando lo spostamento delle frange di interferenza, molto più pic­cole di tale valore.

Ma proprio l’alta sensibilità dello strumento poneva dei seri problemi, in quanto l’apparecchio risultava molto sensibile alle vibrazioni causate dal traffico cittadino (il primo esperimento fu eseguito nell’istituto di fisica di Berlino) e, con difficoltà, si poteva lavorare solo di notte, per cui Michel­son pensò di trasferire l’esperimento nell’osservatorio di Potsdam. Ma anche qui i problemi dovuti alle vibrazioni erano notevoli ed inoltre Michelson sco­perse che l’apparecchio era sensibile a lievi differenze di temperatura tra i due bracci, causate dalla rotazione dell’apparato nelle due misure successive. Una differenza di temperatura di un centesimo di grado centigrado poteva provocare un effetto tre volte maggiore di quello misurato.

Superando, in qualche modo, tali difficoltà, Michelson riusciva a dare un valore per lo spostamento compreso tra 0.004 e 0,015, cioè un effetto più di cinque volte minore di quello aspettato e concludeva, date le notevoli incertezze delle misure, che l’effetto misurato era, in realtà, da  considerarsi nullo e che quindi l’ipotesi di un etere stazionario era da considerarsi erronea. Tuttavia Potier notava un errore nella teoria dell’esperimento: bisognava tenere conto del moto rispetto all’etere anche dello specchio ortogonale alla direzione del moto, cosa che Michelson avveva trascurato. Questo riduceva il valore aspettato a 0,04 , quindi il rapporto tra valore aspettato e valore misurato si riduceva di un fattore due e, data l’incertezza delle misure, non era possibile negare con sicurezza l’ipotesi dell’etere stazionario, come, del resto, si era affrettato a puntualizzare Lorentz, il quale era molto interes­sato al problema, in quanto la sua teoria dell’elettrone pretendeva un etere stazionario.

In un successivo esperimento, effettuato a Cleveland (Ohio),13 Michelson e Morley, riconoscono la validità dell’osservazione di Potier e correggono con­seguentemente la teoria dell’esperimento, inoltre pongono l’apparato su una base massiccia, galleggiante su una vasca di mercurio, per ridurre l’effetto delle vibrazioni dovute a cause esterne (così riducendo anche le fluttuazioni di temperatura provocate dalla rotazione di 90° dei pesanti bracci), portano a 11 metri la lunghezza dei bracci e migliorano la sensibilità dello strumento facendo effettuare ai raggi di luce riflessioni multiple per mezzo di appositi specchi opportunamente sistemati.

Notano che i due raggi di ritorno, secondo la teoria corretta da quell’er­rore messo in evidenza da Potier, non si incontrano nello stesso punto, ma decidono (non si sa su quale base) che tale fatto non può avere influenza sul risultato dell’esperimento.

Notano che assumere l’etere in quiete rispetto al sistema solare non ha senso e programmano di ripetere ogni tre mesi l’esperimento per accertare la possibile esistenza di un moto del sistema solare rispetto all’etere, cosa che, come vedremo, sarà successivamente continuata da Miller.14

Ma cosa più importante, in un “supplemento” in calce all’articolo, no­tano (sembra su suggerimento di Lorentz) che la legge di riflessione in uno specchio in moto può essere diversa da quella da loro usata, e calcolano la cor­rezione da apportare alla teoria, ma si riservano di accertare tale fatto in un futuro esperimento, da fare sul picco di una montagna, ideato per verificare l’ipotesi di un eventuale trascinamento dell’etere da parte della terra.

Questa correzione da introdurre nella teoria è cruciale per il risultato dell’esperimento come dimostrerà Righi.

Il risultato dell’esperimento fornisce un valore dello spostamento di 0,01, contro un valore calcolato di 0,4.

Sulla base di tale risultato, interpretato come “risultato nullo di un espe­rimento cruciale”, cioè come se fosse stato trovato , Lorentz è costretto a modificare la sua teoria e, pur di non abbandonare l’etere stazionario, è costretto a supporre una contrazione dei corpi lungo la direzione del moto (già ipotizzata dal FitzGerald) sulla base delle trasformazioni oggi dette “di Lorentz” ma che erano già state studiate dal Voigt, come riconosce lo stesso Lorentz, sul postulato che sono le sole trasformazioni che lasciano invariata la relazione r2 - c2t2= 0 o, come già trovato da Voigt, l’equazione dell’onda.

È vero che le trasformazioni di Lorentz lasciano invariate le cose dette, ma tuttavia non sono le sole, in quanto vi sono altre trasformazioni lineari e non lineari che fanno la stessa cosa, come si può facilmente verificare, anche se sono le sole che lasciano invariante l’espressione ds2 = dr2 - c2dt2, cosa ben diversa dalla relazione ds2 = 0, condizione sufficiente allo scopo.

È importante, per capire appieno la vicenda che si sviluppò intorno all’in­terpretazione del risultato dell’esperimento di Michelson e Morley, analizzare più attentamente la filosofia del Lorentz, in quanto, a quei tempi, egli era uno degli scienziati più accreditati e influenti.

Egli parte dalla teoria di Maxwell, ma ne modifica sostanzialmente la base interpretativa: da teoria macroscopica e fenomenologica essa diventa nelle sue mani una teoria microscopica e fondamentale.

Traduciamo dalla sua “Teoria degli elettroni” (pag. 1 e 2):15

“Per quanto concerne la sua base fisica, la teoria degli elettroni nasce dalla teoria generale dell’elettricità, alla quale resteranno per sempre attac­cati i nomi di Faraday e Maxwell.

Voi tutti conoscete questa teoria di Maxwell, che noi chiameremo la teo­ria generale del campo elettromagnetico, e nella quale si tiene costantemente in vista lo stato della materia o il mezzo occupato dal campo. Io devo subito richiamare la vostra attenzione sul fatto curioso che, mentre si parla di tale stato, nonostante noi non lo perdiamo mai di vista, noi non abbiamo bisogno in alcun modo di andare così lontano da tentare di formarci un’immagine di esso e, infatti, noi non siamo in grado di dire molto su di esso. È vero che noi possiamo rappresentare a noi stessi gli sforzi interni che esistono nel mezzo che circonda un corpo elettrificato o un magnete, che noi possiamo pensare all’elettricità come a una qualche sostanza o a un fluido, libero di muoversi in un conduttore o legato in posizioni di equilibrio in un dielettrico, e che, ancora, possiamo concepire un campo magnetico come la sede di certi movimenti invisibili, come, per esempio, rotazioni intorno alle linee di for­za. Tutto questo è stato fatto da molti fisici e lo stesso Maxwell ne ha dato l’esempio. Tuttavia questo non è da considerarsi come realmente necessario; noi possiamo sviluppare la teoria in larga parte, e possiamo elucidare un gran numero di fenomeni senza entrare in speculazioni di questo genere. In vero, a causa delle difficoltà in cui esse ci conducono vi è stata, negli ultimi anni, la tendenza a evitarle completamente e a costruire la teoria su poche assunzioni di natura più generale.

La prima di queste è che in un campo elettrico si ha un certo stato di cose che origina una forza che agisce su un corpo elettrificato e che, quindi, può essere rappresentato simbolicamente dalla forza per unità di carica che agisce su tale corpo. Esso è quello che noi chiamiamo forza elettrica, un simbolo per uno stato del mezzo sulla cui natura non ci avventuriamo a dire altro.

La seconda assunzione riguarda il campo magnetico. Senza pensare alle sottostanti rotazioni, di cui abbiamo prima detto, noi possiamo definirlo mediante la forza magnetica, cioè la forza per unità di intensità agente su un polo.

Dopo avere introdotto queste due quantità fondamentali, noi tenteremo di esprimere le loro mutue connessioni con un insieme di equazioni che saran­no poi applicate a una larga varietà di fenomeni. Le relazioni matematiche vengono quindi ad assumere un posto preminente, per cui Hertz ha potuto persino dire che, dopo tutto, la teoria di Maxwell può meglio definirsi come il sistema delle equazioni di Maxwell”.

Quindi l’idea di “campo” e con essa quella di “etere” può restare anche se noi non sappiamo che cosa esso effettivamente rappresenti.

E aggiunge (pag. 8):

“Per di più, anche se così fosse, questa teoria generale [quella di Max­well], nella quale noi esprimiamo le proprietà peculiari dei diversi corpi pon­derabili, semplicemente coll’ascri vere a ciascuno di essi particolari valori della costante dielettrica, ε, della conduttività, σ e della permeabilità magnetica, μ, non può più essere considerata soddisfacente se vogliamo ottenere una visione che penetri più profondamente dentro la natura dei fenomeni. Se noi vogliamo capire il modo in cui le proprietà elettriche e magnetiche dipendano dalla temperatura, dalla densità, dalla costituzione chimica o dallo stato cristallino delle sostanze, noi non possiamo rimanere soddisfatti dal­la semplice introduzione di tali coefficienti, sperimentalmente determinati, per ogni singola sostanza; noi saremo obbligati a ricorrere a qualche ipotesi concernente il meccanismo che sta sotto ai fenomeni.

È da tale necessità che si è arrivati all’idea degli elettroni, cioè, a particel­le estremamente piccole, elettricamente cariche, che sono presenti in numero immenso in tutti i corpi ponderabili, tali che attraverso la loro distribuzione ed i loro movimenti noi tentiamo di spiegare tutti i fenomeni elettrici ed ottici che non si limitino all’etere libero.”

Dopo avere dato uno sguardo ai fenomeni in cui è necessario fare inter­venire il concetto di elettrone, Lorentz continua (pag. 10):

“Questo rapido sguardo sarà sufficiente a mostrarvi che la teoria degli elettroni deve essere riguardata come un’estensione al dominio dell’elettri­cità delle teorie molecolari ed atomiche che sono risultate valide in molte branche della fisica e della chimica. Come è capitato con queste è probabi­le che la nostra teoria possa venire considerata sfavorevolmente da alcuni fisici, i quali preferiscono inoltrarsi, anche in regioni nuove ed inesplorate, seguendo le grandi e diritte vie della scienza come noi le possediamo nelle leggi della termodinamica, o che arrivano a importanti e bellissimi risultati col descrivere semplicemente i fenomeni e le loro mutue relazioni per mezzo di un conveniente sistema di equazioni. ...

Dopo avere con degli esempi giustificato il suo procedimento prosegue col dare alcuni schiarimenti sulla sua teoria:

“Per prima cosa noi attribuiremo a ciascun elettrone dimensioni finite, comunque piccole esse possano essere, e fisseremo la nostra attenzione non solamente sul campo esterno ma anche nello spazio interno, nel quale sup­porremo che vi sia sufficiente luogo per molti elementi di volume e in cui lo stato delle cose possa variare da punto a punto. Per quanto riguarda tale stato supporremo che esso sia dello stesso genere dei punti esterni. Invero, una delle più importanti tra le nostre assunzioni fondamentali deve essere quella che l’etere occupa non solo tutto lo spazio tra molecole o atomi o elet­troni ma deve pervadere tutte queste particelle. Noi aggiungeremo l’ipotesi, che sebbene le particelle possano muoversi, l’etere rimanga sempre a riposo. Noi possiamo riconciliarci con questa, che a prima vista può sembrare una idea sconvolgente, col pensare che le particelle di materia non siano altro che modificazioni locali nello stato dell’etere. Tali modificazioni possono ben viaggiare in avanti mentre gli elementi di volume del mezzo in cui esistono rimane a riposo”.

Con questo paradigma resterebbe da spiegare: a) come parti dell’etere si possano muovere senza influenzare il restante etere, b) come cariche dello stesso segno possano stare assieme per costituire l’“elettrone” e vincere le naturali forze repulsive; tentativi fatti da successivi autori di introdurre un “collante” non hanno avuto molto successo, in quanto portano ad altri più gravi inconvenienti.

Ancora oggi quest’ultima questione non è stata superata ma viene nascosta all’interno delle teorie quanto - relativistiche di campo insieme alle loro, certamente non minori, difficoltà. Ma di questo tutti sanno.

Continuiamo invece a esporre le idee di Lorentz con le sue stesse parole (pag. 11):

“Ora, se dentro l’elettrone vi è dell’etere, vi deve essere anche un campo elettromagnetico, e per far questo noi dobbiamo stabilire un sistema di equa­zioni che possano applicarsi sia a quelle parti dell’etere dove vi è una carica elettrica, cioè agli elettroni, sia a quelle dove non ve ne sono. Per quanto riguarda la distribuzione di carica noi siamo liberi di fare qualsiasi ipotesi ci piaccia. Per convenienza supporremo che essa sia distribuita in un certo spazio, ad esempio nell’intero volume occupato dall’elettrone, e considere­remo la densità volumica, ρ, come una funzione continua delle coordinate, cosicché la particella carica viene ad essere senza netti confini, ma viene ad essere circondata da un sottile strato in cui la densità decresce gradualmente dal suo valore entro l’elettrone fino a 0. Grazie a questa ipotesi di continuità per la ρ, che noi estenderemo a tutte le altre quantità che appaiono nelle nostre equazioni, noi non avremo modo di preoccuparci circa le superfici di discontinuità, né saremo costretti a riempire la nostra teoria con innumerevo­li equazioni per esse. Inoltre, se supporremo che la differenza tra l’etere entro e fuori gli elettroni sia causata, almeno nei limiti che ci interessa considera­re, solamente dall’esistenza della densità volumica nell’interno, si avrà che le equazioni per il campo esterno potranno essere ottenute da quelle interne semplicemente ponendo ρ = 0, cosicché noi dovremo scrivere un solo sistema di equazioni differenziali”.

Difficile dire in che senso le equazioni scritte da Lorentz si possano chiamare, oggi, “microscopiche”.

Da questo si vede, che quando Einstein deriva le trasformazioni di “Voigt - Lorentz” da ipotesi che non implicano una contrazione “materiale” dei regoli, egli accetta facilmente la nuova teoria e non ha nessuna remora ad abbandonare l’“etere”, finché rimane il “campo”. Del resto, come abbiamo sopra visto, Whittaker nota che ribattezzare “vuoto” quello che prima si chiamava “etere”, è solo una questione puramente linguistica!

 

 

L’esperimento “cruciale” è irrilevante ma nessuno se ne accorge:

le analisi di Righi e gli esperimenti di Miller

 

Dieci anni dopo la pubblicazione del risultato di Michelson - Morley, Sutherland16 riprende la teoria dell’esperimento.

Egli nota che, secondo la teoria di Michelson e Morley, quando si fosse incluso il termine di ordine superiore di cui si parla nel supplemento al lo­ro articolo, ma da essi trascurato nell’analisi del risultato, si otterrebbe un risultato nullo, anzi nemmeno sarebbe stato possibile vedere le frange di inter­ferenza: le frange si vedono solo a causa di un leggero disallineamento della geometria che porta ad osservare soltanto una frazione dello spostamento massimo, che si sarebbe potuto osservare con un disallineamento calcolato, diverso da quello ottenuto con l’aggiustamento manuale dell’apparato, al solo scopo di osservare le frange, operazione necessaria prima di qualunque misurazione dello spostamento delle medesime. Suggerisce quindi di ripetere l’esperimento, tenuto conto di questo fatto, in vista di ottenere la sensibilità massima.

La stessa osservazione viene successivamente fatta da Hicks,17 il quale però pone l’accento sulla non coincidenza dei punti in cui i due raggi di ritorno si incontrano sull’asse ad. Quindi sviluppa una teoria generale per un sistema con arbitrari orientamenti della lamina semiargentata e degli specchi.

Hicks va molto oltre, esaminando l’ipotesi della contrazione supposta da FitzGerald per spiegare il risultato nullo, e conclude, erroneamente, che per spiegare il risultato nullo occorrerebbe un allungamento più che una contrazione.

Questa conclusione fu subito contestata e l’errore riconosciuto dallo stes­so Hicks. Tale errore gettò il discredito su tutta la sua teoria dell’esperimento, che invece era assolutamente indipendente da tale errore, dovuto a un’appli­cazione errata delle sue stesse formule, le quali, del resto, venivano rico­nosciute corrette da Morley e Miller, che puntualmente verificano, mediante i dati ricavati dall’esperimento, alcune conclusioni di tale teoria, ma si affret­tarono a far notare che, entro l’approssimazione supposta (?!), le loro formule erano corrette, non preoccupandosi del fatto che proprio l’approssimazione era in discussione.

La questione fu ripresa in seguito dal Righi, il quale si propose di studiare la teoria dell’esperimento usando esplicitamente e formalmente il principio di Huygens, che nei discorsi precedenti veniva presupposto, nel vocabolario dei raggi di luce intesi come abbreviazioni simboliche dei fronti d’onda.

Le conclusioni di Righi sono sconvolgenti ed è singolare, che nella let­teratura sull’argomento, antica e moderna, raramente viene citato, né per accettare la sua teoria, né per contestarla, nonostante egli non fosse l’ultimo arrivato sui problemi dell’interferenza di onde luminose!

D’altra parte sembra inverosimile che i sostenitori della teoria del cam­po continuassero a trattare i raggi di luce come delle particelle trascurando completamente la costruzione di Huygens che solo giustifica l’uso dei raggi di luce, ma solo come vettore normale ai fronti d’onda e non come vettore velocità di singole particelle, cosa che lo stesso Newton, al quale veniva er­roneamente attribuita l’idea che la luce fosse costituita da particelle, non si sarebbe mai sognato di fare!

Ma, accettando l’ipotesi kuhniana sui vari meccanismi messi in atto dagli scienziati in difesa di un paradigma, a noi sembra ovvio che la migliore strategia da adottare in caso di difficoltà è quella di ignorare il problema. Ma vediamo quale è il problema posto dal Righi.

Egli fa una rapida analisi delle teorie precedenti sull’apparato sperimen­tale, comprese quelle di Sutherland e di Hicks, e decide che il miglior modo di affrontare il problema è quello di attenersi strettamente all’uso del principio di Huygens, e scrive: “la validità di tutto quanto sarà esposto è subordinata alla validità di detto principio”.18

Quindi nota che un raggio di luce, che procede parallelamente a un raggio dato, incide sulla lamina semiargentata, posta a 45°, con un ritardo o un anticipo rispetto al raggio dato, a seconda che la proiezione del suo punto di incidenza su una retta ortogonale alla direzione del moto della lamina e giacente nel piano del foglio, nel disegno più sopra riprodotto, stia sopra o sotto la proiezione del punto di incidenza del raggio dato.

Questo fatto comporta che le due immagini della sorgente luminosa, generate dai due fasci di luce paralleli, che si originano dalla lamina semiar­gentata, quando di nuovo si sovrappongono, non staranno su piani paralleli, come viene supposto nell’approssimazione usata da Michelson e Morley per analizzare i dati.

Quando si tenga conto di tale importante fatto si trova che, nell’alline­amento presupposto nel modello di Michelson e Morley, lo spostamento delle frange, calcolato per una rotazione di 90°, deve essere esattamente nullo.

Solo disallineando almeno uno dei tre riflettori si può avere uno sposta­mento diverso da zero e, comunque, molto più piccolo di quello calcolato con la teoria di Michelson e Morley.

Nella seconda, delle quattro memorie di cui alla nota precedente, trova, in un’approssimazione migliore di quella di Michelson e Morley, corrisponden­te al termine da essi trascurato nell’analisi dei dati ma dai medesimi calcolato nel supplemento al loro articolo, le formule per lo spostamento delle frange, per effetto della rotazione di 90°, valide per valori arbitrari degli angoli di riflessione dei tre riflettori.

Nella terza memoria calcola numericamente il valore dello spostamento delle frange per piccoli valori del disallineamento, vicini a quelli che probabi­lmente gli sperimentatori realizzavano con l’aggiustamento manuale effettuato per rendere visibili le frange, che, altrimenti, sarebbero risultati invisibili.

Questo comporta che, anche se piccolo, uno spostamento si deve avere, per cui nella quarta memoria propone un piano di esperimenti inteso a verifi­care la nuova ipotesi, che nel frattempo era stata avanzata, la quale spiegava il risultato nullo dell’esperimento sulla base della relatività di Einstein.

Infatti, ai tempi di Righi, il risultato dell’esperimento aveva cambiato scopo e non era più inteso a verificare il moto relativo tra terra ed etere ma a confermare o refutare la teoria della relatività.

Infatti, nella prima memoria Righi affermava:

“Evidentemente, se questo si fosse saputo prima del 1887 non si sarebbe forse ideata l’esperienza di Michelson, per cui sarebbe probabilmente man­cata l’occasione di pensare alla relatività e alla contrazione.”

E più oltre, dato il risultato, supposto nullo, dell’esperienza di Michelson e Morley:

“La mia teoria fa prevedere che la stessa esperienza di Michelson potrà mostrare cambiamenti colla rotazione di 90° se i riflettori sono spostati ango­larmente dalle loro orientazioni presupposte. Sarebbe opportuno esaminare, calcolando tali cambiamenti, se siano di tale grandezza da poterne constatare la produzione o la loro mancanza. Non è dunque il caso di asserire che la Teoria della Relatività rimanga priva di base sperimentale.” (Si deve natu­ralmente intendere fino a quando non si fossero eseguiti esperimenti come quelli da lui proposti nella quarta memoria).

Qualche anno dopo lo studio del Righi viene ripreso da un altro fisico italiano.

Il Valle19 nota che nella teoria del Righi viene trascurata l’aberrazione che subirebbe il fascio di luce incidente per andare dalla sorgente luminosa alla lente che rende parallelo il fascio stesso e completa in questo senso la teoria del Righi.

Anche con tale correzione aggiuntiva l’esperimento, come congegnato dal Michelson, prevede un effetto nullo come calcolato dal Righi e uno sposta­mento può solo verificarsi per il disallineamento di uno specchio; tuttavia se si fa l’ipotesi che l’angolo di cui si deve disallineare lo specchio normale alla direzione della luce sia dello stesso ordine di grandezza del rapporto tra la velocità della terra e la velocità della luce si riottiene il risultato preventivato dal Michelson.

Ovviamente tale ultima considerazione è del tutto irrilevante allo scopo di salvare il “risultato nullo”, in quanto solo per puro caso gli sperimentatori possono avere imbroccato l’angolo giusto non avendolo considerato nella loro teoria dell’esperimento (per non dire dell’estrema piccolezza di tale angolo), e, soprattutto, per il fatto che nessuna ragione a priori ci permette di asserire che il sistema solare sia in quiete rispetto all’etere.

Né, d’altra parte, l’aberrazione dovuta alla lente posta davanti alla sor­gente luminosa può essere d’aiuto per una misura assoluta della velocità della terra rispetto all’etere, date le enormi incertezze che l’analisi completa dell’esperimento fa prevedere.

L’unica possibilità è quella di tentare degli esperimenti che, sfruttando lo spostamento di frange con specchi disallineati, riesca a individuare almeno la direzione del moto.

Esperimenti di questo tipo furono effettuati da Miller, il quale, come e molto probabile, studiò attentamente i lavori di Righi.20

Miller, nell’articolo citato alla precedente nota, fa una piccola storia dei vari esperimenti, a partire da quello originale di Michelson del 1881 ed è molto polemico su quelli che asseriscono essere stato nullo il risultato degli esperimenti di Michelson:

“Tuttavia, e questo fatto deve essere enfatizzato, l’effetto indicato non era nullo; la sensibilità dell’apparato era tale che la conclusione, pubblicata nel 1887, stabiliva che il moto relativo, tra  terra ed etere, osservato non ec­cedeva un quarto della velocità orbitale della terra. Questo è assolutamente diverso da un effetto nullo così frequentemente imputato a tale esperimento dagli scrittori della Relatività. È anche necessario richiamare l’attenzione su di un altro fatto storico: Michelson e Morley fecero solo una serie di osserva­zioni, nel luglio del 1887, e non ripeterono più l’esperimento sul movimento relativo all’etere in nessun’altra data, nonostante molte asserzioni contrarie che si trovano sulla carta stampata.”

Egli ricorda anche che Morley e Miller fecero un esperimento, nel 1902, sostituendo la base d’acciaio dello strumento con una base di pino bianco, per accertare se l’ipotesi della contrazione di Lorentz - FitzGerald potesse dipendere dal tipo di materiale, e che trovarono un piccolo effetto positivo, leggermente maggiore di quello trovato precedentemente, tale da escludere la ipotizzata dipendenza.

Un nuovo, più perfezionato, apparato fu costruito nel 1904, con il quale furono fatti i successivi esperimenti.

Esperimenti furono eseguiti nel 1904 e nel 1905 da Morley e Miller, con valori dello spostamento positivi e leggermente maggiori dei precedenti.

Con l’intervento della teoria della relatività, che prevedeva uno sposta­mento nullo, lo scopo dell’esperimento cambiò. Ora si trattava di verificare se i risultati diversi da zero erano solo dovuti a fluttuazioni casuali e incontrol­labili o se erano dovuti ad effetti sistematici, che avrebbero potuto infirmare le ipotesi della teoria della relatività.

Questo significava che, per avere una risposta sulla nuova questione, un solo esperimento non era più sufficiente, ma bisognava eseguire tutta una serie di esperimenti spaziati nel tempo, per accertare eventuali sistematicità che potessero permettere di individuare un moto assoluto del sistema solare nel sistema delle stelle fisse.

Il termine “etere” non è più necessario per interpretare il risultato del­l’esperimento.

Diverse osservazioni furono compiute col nuovo apparato sia sul monte Wilson che a Cleveland, negli anni dal 1921 al 1926 da parte di Morley e Miller e successivamente solo da Miller.

Quest’ultimo, nell’articolo citato nella nota precedente, asserisce che gli scopi degli esperimenti sono cambiati nel corso del tempo.

Prima del 1925 gli esperimenti erano effettuati per verificare una singola determinata ipotesi: il moto relativo della terra rispetto all’etere, considera­to completamente stazionario e quindi non trascinato dal moto della terra, assumendo il sistema solare fermo rispetto all’etere o al più in moto verso la costellazione di Ercole, con una velocità di diciannove chilometri al secondo.

I risultati non si accordavano con tali ipotesi, ma l’attenzione era quasi totalmente rivolta a questo e nessun tentativo fu rivolto a determinare il punto esatto verso il quale si dirigeva il sistema solare (apice).

L’esperimento fu applicato anche a verificare l’ipotesi della contrazione di Lorentz - FitzGerald, ma anche in questo caso la risposta dell’esperimento fu negativa, nel senso che nessuna sensibile differenza si osservava per corpi di diverse proprietà elettriche e magnetiche.

Tuttavia persisteva costantemente, in tutti gli esperimenti, un piccolo effetto che non era stato spiegato, nonostante si sostenesse che l’interfero­metro era perfettamente idoneo a rivelare il moto assoluto della terra e del sistema solare nello spazio.

Dal 1925 in poi Miller si propose di verificare l’esistenza di un tale moto assoluto, per far questo occorreva fare diverse osservazioni in diverse ore del giorno e in diversi mesi dell’anno, corrispondenti alle diverse posizioni della terra lungo la sua orbita e nel suo moto di rotazione.

La teoria per la determinazione dell’apice fu fatta da J. J. Nassau e P. M. Morse, pubblicata in Astrophysical Journal, 65, 73(1927).

In base a tale teoria, sulla base di diverse centinaia di pagine di singole letture della posizione delle frange di tutte le osservazioni fatte prima del 1925, mediante un’analisi statistica sulle loro componenti di Fourier (di cui il Miller era un esperto, infatti si era a lungo occupato di acustica musicale e aveva publicato un libro sull’argomento, al quale rinviava per una descrizione dei metodi adoperati), egli conclude che “gli esperimenti davano un’evidenza conclusiva di un effetto reale che era sistematico anche se piccolo in grandezza”, ­per cui era necessario riprendere le osservazioni con lo scopo in vista di accertare tali sistematicità.

Dalle analisi di Sutherland, Hicks e Righi, noi sappiamo che non è possi­bile derivare, da una misura degli spostamenti delle frange, un valore assoluto per la velocità del sistema solare rispetto allo spazio assoluto, ma è possibile accertare la direzione ed il verso del vettore velocità.

Miller sa perfettamente questo e fa riferimento alle formule generali ri­cavate da Hicks, scrivendo: “Il Prof. W. M. Hicks dell’università di Sheffield, ha fatto un’elaborata discussione della teoria, usando metodi che non solo sono rigorosi ma anche generali. Nella teoria di Hicks viene mostrato che quando si riescono ad osservare variazioni periodiche nelle fasi relative dei due fasci [di luce], con gli specchi come aggiustati in pratica, si introduce un effetto addizionale che ha una periodicità di un intero giro dello strumento.”

Tale effetto è legato alla larghezza delle frange, sfortunatamente in tutti gli esperimenti non si tenne conto di questo e non si misurò la larghezza delle frange, tuttavia un valore approssimato si è potuto ricavare dal numero delle frange che comparivano nel campo visuale, che era un numero che spesso veniva registrato. Un confronto di tali dati verificava perfettamente la teoria di Hicks.

Miller scrive:

“Questo ci dà per la prima volta una determinazione quantitativa del moto assoluto del sistema solare e una rivelazione positiva dell’effetto del moto orbitale della terra, con l’uso dell’interferometro.”

Il risultato finale è così riassunto:

“La locazione dell’apice così determinata è nella costellazione Dorado, Pesce Spada, ed è circa 20° a sud della stella Canopo, la seconda stella più brillante nel cielo. È nel mezzo della famosa Grande Nube di Magellano di stelle. L’apice è solo circa dal polo dell’eclittica e solo 6° circa dal polo del piano invariante del sistema solare; cosicché il moto indicato del sistema solare è quasi  perpendicolare a tale piano invariante.”

Possiamo concludere che le osservazioni di Miller verificano punto per punto le teorie di Sutherland, di Hicks e di Righi.

Vediamo quali conclusioni si possono trarre da tali teorie, in larga parte confermate da Miller:

1) Nel modello adoperato da Michelson l’effetto deve essere nullo. Quindi tale modello non è adatto ad accertare l’esistenza o meno di un moto assoluto e l’“esperimento cruciale” risulta assolutamente “irrilevante”.

2) Una teoria corretta più generale dell’esperimento può dare indicazioni sul moto assoluto ma, nonostante la teoria esistesse, nessuno si è preoccupato di misurare i dati necessari alla bisogna.

3) Un moto assoluto si vede anche se non si può determinare interamente il vettore velocità, ma solo la direzione ed il verso di essa.

Ma poiché nessuno si e occupato seriamente di questi quattro signori il risultato dell’esperimento è servito solo a discriminare tra due teorie, mec­canica newtoniana e meccanica einsteiniana, problema che si è sovrapposto a quello originale dell’etere stazionario, che, per le misure effettuate, dove­vano dare esattamente lo stesso risultato. Tutto questo con buona pace del principio di falsificabilità di Popper!

 

 

Un nuovo paradigma si afferma e si rafforza

 

Miller esplicitamente asserisce che il risultato di Michelson e Morley del 1887 non è in contrasto con la serie di tutti gli esperimenti, ma che si inserisce perfettamente in essi. Nota che gli esperimenti successivamente compiuti da altri autori e che “conducono a risultati che sono generalmente considerati in contrasto con le conclusioni di questo articolo”, di fatto non possono cer­tamente dire niente sul moto assoluto per la ragione che in nessuno di tali esperimenti “le osservazioni sono state di tale estensione e di tale continuità da determinare l’esatta natura delle variazioni diuturne e stagionali.”

Egli afferma che nemmeno una maggiore sensibilità degli strumenti, rispetto a quelli da lui impiegati, potrebbe dire qualcosa sul problema finché non si rilevino le variazioni sistematiche dovute alle varie componenti del moto della terra e che, invece, molti esperimenti di altra natura compiuti dagli astronomi danno indicazione di un moto assoluto del sistema solare in perfetto accordo con i risultati della sua analisi.

Miller muore nel 1941 dopo decenni di duro lavoro dedicato al problema del moto assoluto, per via interferometrica, con grande dedizione e grande onestà intellettuale.

Oggi egli è praticamente sconosciuto: raramente viene menzionato nei libri di fisica che parlano dell’esperimento di Michelson e Morley, il suo nome non risulta nell’elenco di “Scienziati e Tecnologi” degli Annali della Scienza e della Tecnica della Mondadori, lo stesso dicasi per molte enciclopedie di natura più generale; in qualcuna di queste figura solo come un esperto di acustica musicale.

Lo stesso dicasi di Sutherland e Hicks. Righi viene menzionato solo per gli altri notevoli contributi da lui dati ai fenomeni elettromagnetici.

Tuttavia sembra che nel 1955 si discutesse ancora sui risultati di Miller, come si ricava da un articolo di alcuni fisici,21inteso a rivedere i calcoli di Miller.

Essi infatti asseriscono che le deviazioni dallo zero dello spostamento delle frange non hanno ancora ricevuto un’interpretazione adeguata e “poiché l’interesse in esse è continuato” hanno voluto rifare le analisi statistiche di Miller, approfittando del fatto che avevano a disposizione, a Cleveland, i quaderni dove, a suo tempo, Miller aveva registrato i dati dell’esperimento.

A questo punto, qualcuno si potrebbe chiedere, perché non rifare gli esperimenti di Miller?

La risposta è facile. Tali esperimenti avevano bisogno di un’alta tecno­logia e di una grande pazienza nel raccogliere i dati. Infatti solo pochissimi si sono cimentati nell’impresa dopo la triade Michelson, Morley, Miller.

Ma sentiamo cosa scrivono Shankland et al. nell’Abstract del loro arti­colo e confrontiamolo con quanto invece scrivono nel testo.

Nell’Abstract leggiamo (traducendo dall’inglese):

“Per quasi trent’anni i risultati dell’esperimento di Michelson - Morley ottenuti da Dayton C. Miller sul monte Wilson sono stati in contrasto con tutte le altre ripetizioni dell’esperimento. L’interesse nei risultati di Miller è continuato fino ad ora, e poiché i dati originali sono disponibili ai presenti autori, ci è sembrato appropriato assoggettare le osservazioni a una nuova analisi. Viene mostrato che il piccolo spostamento periodico delle frange trovato da Miller è in parte dovuto a fluttuazioni statistiche nella lettura della posizione delle frange in un esperimento molto difficile. Il rimanente effetto sistematico viene ascritto alle condizioni locali di temperatura.”

Dall’analisi deducono, in accordo con le analisi di Miller, che si ha un forte effetto sistematico per quanto riguarda la prima e la seconda armonica, mentre le tre armoniche superiori sono solo di un ordine di grandezza più alte dell’errore standard e che il valor medio è solo un tredicesimo del valore aspettato, con la teoria usuale (ricordiamo che ciò è in accordo con le teorie di Sutherland, Hicks e Righi, che i predetti autori si guardano bene dal menzionare!).

Concludono che non vi è dubbio che le sole fluttuazioni statistiche non sono sufficienti per spiegare la perodicità dello spostamento.

Ma scrivono che, poiché non ritengono valida l’ipotesi del moto cosmico di Miller (non si capisce bene su quali argomenti è fondata la loro credenza), non si sono imbarcati a rifare l’analisi statistica su tale base, ma hanno concentrato i loro sforzi su un’interpretazione dei risultati di Miller basata sull’ipotesi di disturbi locali causati da effetti meccanici o di temperatura. Tali possibili cause erano state elencate da Miller, che si era preoccu­pato di studiare sperimentalmente e accuratamente, insieme a Morley, tali disturbi prendendo le opportune precauzioni, ma i predetti autori sulla base della semplice lettura dei dati sembra che siano in grado di fare meglio degli sperimentatori.

Ma solo “sembra”! Infatti i detti autori scrivono:

“Nel seguito, noi interpreteremo gli effetti sistematici su tale base, ma dobbiamo ammettere che una diretta e generale correlazione fra ampiezza e fase della osservata seconda armonica da un lato e le condizioni termiche dall’altro non è stata stabilita. La ragione di tale fallimento sta nell’inerente inadeguatezza, al nostro scopo, dei dati delle temperature a noi disponibili.”

Può sembrare incredibile che si possa asserire un’ipotesi sulla base del fatto che non si hanno dati sufficienti per asserirla!

La deontologia popperiana può andare a farsi benedire!

Nelle conclusioni si enumerano le inferenze che si possono dedurre dalla spiegazione dei risultati in base all’ipotesi delle supposte variazioni di tempe­ratura, che, naturalmente, portano a confermare il tanto decantato risultato nullo dell’esperimento, che secondo l’interpretazione più comune sarebbe una prova a favore della relatività e contro ogni ipotesi di moto assoluto. Ma, co­me abbiamo visto, la teoria di Righi prevede un risultato nullo per il modello usuale dell’esperimento e, quindi non può discriminare tra il moto assoluto e la teoria della relatività, il disallineamento dell’apparato insieme ai risultati di Miller “falsificherebbero” la relatività. Ma il risultato di Righi non è stato mai menzionato nemmeno per criticarlo.

Avendo, attraverso l’analisi di questa lunghissima serie di esperimenti, capito che non si può prestar fede al falsificazionismo di Popper (qualunque cosa si possa pensare sul caso concreto analizzato, non vi è dubbio che non si può chiamare “cruciale” un esperimento che pone diversi punti “cruciali” per la sua comprensione22), cosa possiamo dire sui “paradigmi” di Kuhn?

 

 

Un paradigma per i paradigmi

 

La Masterman23 riesce a raccogliere, dal libro di Kuhn, da noi citato a nota 2, ben ventuno significati diversi per il termine “paradigma”; forse que­sta ambiguità del termine è la ragione del suo successo, come generalmente avviene per le opere d’arte: ognuno vi può trovare il suo significato.

La prima volta che si incontra tale termine nel libro di Kuhn si può leggere (pag. 10):

“Con tale termine voglio indicare conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca.”

Dal momento che Kuhn non ha dato una definizione di “scienza” dob­biamo dedurre che egli sappia, ma noi no, che cosa siano le “conquiste scien­tifiche universalmente riconosciute”.

Ma è proprio il riconoscimento di tali conquiste come scientifiche che definisce la “scienza”, per chi non li riconosce come tali, esse non saran­no ne “conquiste” né “scientifiche” e per questa ragione non possono essere “universalmente riconosciute”, a meno di non cambiare il significato di “uni­versalmente” o quello di “riconosciute”.

Questa banale osservazione comporta che, se i paradigmi definiscono la scienza, prima dobbiamo formarci un paradigma di paradigma; ma per questa via, si può arrivare solamente al “tutto può andar bene” di Feyerabend, che, appunto, è uno dei paradigmi interpretativi del termine “scienza”.

Su questo punto ha ragione Popper, se non definiamo il significato del termine “scienza” non possiamo parlare sulla scienza.

Certamente il significato popperiano di scienza è tale che non è possibile trovare nessuna linea di demarcazione tra proposizioni scientifiche e propo­sizioni non scientifiche, come giustamente fa notare il Lakatos24, il quale propone di abbandonare la “falsificabilità dogmatica”.

Se guardiamo ai grandi scienziati antichi di lingua greca, con l’ausilio della “logica matematica” del Peano, possiamo accettare una proposta del Lakatos:25 “la verità si propaga solo verso l’alto, la falsità si propaga solo verso il basso”.

In altre parole, se asseriamo un certo numero di proposizioni di base, logicamente indipendenti, e, a partire da esse, formiamo tutte le possibili proposizioni col solo uso della “disgiunzione inclusiva” e della “negazione”, formeremo un reticolo di inclusioni (secondo la definizione matematica di re­ticolo). Se in basso poniamo la proposizione “assurda”, al primo livello le “proposizioni base” (gli “atomi” del reticolo), e ai livelli superiori tutte le pro­posizioni derivate, fino ad arrivare alla proposizione “banale” che è implicata da ogni proposizione del reticolo, è chiaro che l’asserzione delle proposizioni di base assicura la verità di tutte le proposizioni di livello superiore, ma la verità di una proposizione di livello superiore niente ci può dire sulla verità delle proposizioni di livello inferiore. Per la falsità il cammino è proprio l’in­verso: la falsità di una proposizione di livello superiore ci assicura la falsità di almeno una delle proposizioni di base.

Ma, in ogni caso, niente possiamo dire sulla verità o falsità delle propo­sizioni di base, con nessuna verifica empirica.

Da questo discende che le proposizioni di base devono essere vere indi­pendentemente da qualunque criterio deduttivo. E, poiché non è possibile dimostrare la coerenza interna di un sistema deduttivo, bisogna che le pro­posizioni di base devono avere un modello concreto direttamante verificabile con semplicissimme operazioni fisiche “elementari”, gli stessi assiomi della logica devono obbedire a tale criterio. Gli assiomi della logica di Peano vi obbediscono, gli assiomi delle logiche moderne non vi obbediscono, perché si pongono uno scopo diverso: o quello di tentare di simulare l’ambiguo lin­guaggio naturale, o quello di giustificare i numeri di Dedekind e di Cantor, che non possono essere giustificati sulla base dei canoni di Peano.

Come da molti è stato osservato con tali canoni bisognerebbe buttare a mare gran parte di quello che tradizionalmente si chiama scienza e, con essa, anche gran parte dei canoni epistemologici moderni, ecco perché sembra necesssario introdurre il concetto di “paradigma”. Ma bisognerebbe anche inventare un “paradigma” per l’interpretazione del concetto di “paradigma”!

 

 

NOTE

 

1   Il libro fu publicato in italiano da Einaudi nel 1970 ma la prima edizione tedesca risale al 1934 e la prima traduzione inglese al 1959.   TORNA

2   Il libro fu publicato in italiano da Einaudi nel 1969, l’edizione inglese risale al 1962.   TORNA

3   Vedi H. Schecker, The paradigmatic change in Mechanics: Implications of historical  processes for Physics Education, in Science & Education, vol. 1, No. 1, 1992.   TORNA

4   Maggiori dettagli sull’argomento si possono trovare nella tesi di laurea in fisica di uno degli autori del presente saggio: Dr. P. Di Mauro, Analisi degli esperimenti del tipo ‘Michelson e Morley’ e loro interpretazione, Tesi di laurea, Univ. di Catania, relatori: Prof. S. Notarrigo, Dr. A. Pagano.   TORNA

5   Sembra che tale distinzione sia molto più antica, infatti si ritrova in Sozionc, maestro di Seneca.   TORNA

6   Sir Edmund Whittaker, A history of  the theories of aether and electricity. vol. I The classical  theories. vol. II The modern  theories, Tomash Publ., 1951.   TORNA

7   Citiamo ancora dalle pagg. 5-6 di Whittakcr (vedi nota precedente), che parlando della filosofia di Cartesio dice: “Ora uno dei problemi della filosofia naturale era quello di spiegare l’azione trasmessa tra corpi non in contatto tra di loro, come quella indicata dal comportamento dei magneti o la connessione tra la posizione della luna, da un lato, e la caduta delle maree, dall’altro. Accettare questi fatti come dovuti a influenze “occulte” sarebbe stato contrario ai suoi [di Cartesio] principi; ed egli concluse che essi devono attribuirsi ad agenti dei soli tipi di azione tra corpi che fossero perfettamente intellegibili, pressione ed urto. Questo implicava che i corpi possono agire tra loro solo quando essi sono contigui; in altre parole, egli negava l’azione a distanza; e questo ha, come ulteriore conseguenza, che lo spazio tra la luna e la terra, e invero l’intero spazio, non può essere vuoto. Esso è occupato in parte da cose materiali ordinarie, aria ed altri corpi tangibili; ma gli interstizi fra le particelle di essi, e il totale del rimanente spazio, deve essere riempito da particelle di un genere molto più sottile, che premono da ogni parte, o collidono una sull’altra: questo è il meccanismo introdotto per spiegare tutti gli accadimenti fisici. Lo spazio così, per Descartes, è un plenum, occupato da un mezzo che sebbene impercettibile ai sensi, è capace di trasmettere forza, ed esercita effetti sui corpi materiali immersi in esso, l’etere, come viene chiamato. Tale parola (αίθήρ) originariamente significava il cielo azzurro o gli strati alti dell’aria (in quanto distinti dagli strati bassi a livello della terra), che gli scrittori latini hanno preso a prestito da quelli greci, e che, succesivamente, passò a quelli francesi ed inglesi nel medioevo.”   TORNA

8 Citiamo sempre dal Whittaker a pag. 8: “La materia, nella filosofia di Cartesio, non è caratterizzata dall’impenetrabilità, né da qualunque altra proprietà riconoscibile mediante i sensi, ma semplicemente dall’estensione; l’estensione costituisce la materia, e la materia costituisce lo spazio. La base di ogni cosa è il primitivo, elementare, unico tipo di materia, sensa limiti in estensione e infinitamente divisibile. Nel processo di evoluzione dell’universo si originarono tre forme distinte di questa materia, corrispondenti rispettivamente alla materia luminosa del sole, la materia trasparente degli spazi interplanetari, e la materia densa ed opaca della terra.” Quindi continua a descrivere la forma che le particelle dei tre tipi devono avere, in modo non dissimile da quello usato dai dossografi per descrivere le idee degli Ionici.   TORNA

9   Citiamo sempre dal Whittaker, dalle pagg. 12, 13: “Gassendi, professore al collegio di ­Francia in Parigi, un seguace di Copernico e Galilei, reintrodusse la dottrina degli antichi atomisti, cioè che l’universo è formato di atomi materiali, eterni ed immutabili, che si muovono nello spazio che, a  parte la loro presenza, è vuoto. L’obiezione più formidabile al nuovo insegnamento era che nel mondo greco - romano esso era associato con le vedute morali e teologiche di Epicuro e di Lucrezio. ... Dopo una dura controversia con Descartes nel 1641 - 6, egli ebbe un tale successo che, come vedremo, la sua dottrina fu accettata non molto tempo dopo da Newton e, infatti, divenne il punto di partenza di tutta la susseguente filosofia naturale. Un grande vantaggio di essa fu che poiché lo spazio ora non era pieno non vi era alcuna necessità per le particelle di muoversi in modo da formare catene chiuse, e si poteva fare a meno dei vortici di Cartesio. Come dato di fatto la maggior parte degli sviluppi ulteriori della teoria postulavano un etere (o qualche volta più di uno) e cosi, in qualche senso, tornavano all’idea di uno spazio pieno; ma questi eteri erano concepiti come qualcosa che non offriva resistenza alcuna al moto della materia ordinaria attraverso di essi, cosicché le particelle materiali potevano essere trattate come se si trovassero nel vuoto.”   TORNA

10 Newton, Scritti di ottica, a cura di A. Pala, Utet, 1978, pag. 213. Vedi anche Whittaker, op. cit., pag. 19, dove riferendosi alle posizioni di Newton scrive: “L’intero spazio è permeato da un mezzo elastico o etere, capace di propagare le vibrazioni allo stesso modo in cui l’aria propaga le vibrazioni del suono, ma con velocità molto maggiore.

     L’etere pervade i pori di tutti i corpi materiali ed è la causa della coesione; la sua densità varia da un corpo ad un altro ed è maggiore negli spazi interplanetari liberi. Non necessariamente è una singola sostanza uniforme, ma così come l’aria contiene va­pore acqueo, così l’etere può contenere vari “spiriti eterei”, atti a produrre i fenomeni dell’elettricità, del magnetismo e della gravitazione.

Le vibrazioni dell’etere non possono, per le ragioni già menzionate, costituire per se stesse la luce. La luce perciò deve essere “qualcosa di un genere diverso, propagata dai corpi lucidi. Chi vuole può supporre che essi siano un aggregato di qualità peripatetiche. Altri supporranno che siano costituiti da corpuscoli inimmaginabilmente piccoli e veloci di varie dimensioni che originano dai corpi lucenti a grandi distanze l’uno dall’altro; ma ancora senza un sensibile intervallo di tempo e continuamente sollecitate in avanti da un principio di moto, che all’inizio li accelera, finché la resistenza del mezzo etereo eguaglia la forza di gravità. Ma quelli a cui questo non piace possono supporre che la luce sia qualche altra emanazione corporea, o qualche impulso di moto di qualche altro mezzo o spirito etereo diffuso dai corpi principali dell’etere, o qualunque cosa possano immaginare a tale proposito. Per evitare ogni disputa e rendere l’ipotesi più generale, lasciamo ad ognuno le sue fantasie (fancy), solamente, qualunque cosa la luce possa essere, supporrò che essa consista di raggi che differiscono l’uno dall’altro per circostanze contingenti come grandezza, forma o vigore”.   TORNA

11 J. C. Maxwell, Trattato di elettricità e magnetismo, UTET, 1973, pag. 129 e segg.   TORNA

12 A. A. Michelson, Am. Jou. Sci., 22, 120(1881).   TORNA

13 A. A. Michelson, E. W. Morlcy, Phil. Mag., 24, 449(1987).   TORNA

14 D. C. Miller, Rev. Mod. Phys., 5, 203(1933).   TORNA

15 H. A. Lorentz, The theory of electrons and its applications to the phenomena of  light and radiant heat, Teubner, 1909.   TORNA

16 W. Sutherland, Phil. Mag., 23(1898).   TORNA

17 W. M. Hicks, Phil. Mag., 9(1902).   TORNA

18 A. Righi, Nuovo Cimento, XVI, 213(1918), XVIII, 91(1919), XIX, 141(1920), XXI, 187(1921).   TORNA

19 G. Valle, Nuovo Cimento, II, 1925, pag. 39 e pag. 171.   TORNA

20 Cfr. L. S. Swenson, Jr., The ethereal aether, Univ. of Texas Press, 1972, dove alla nota 5 a pag. 193 si cita in proposito una lettera di E. Merritt a G. E. Hale. Del resto gli articoli di Righi sono citati da D. C. Miller nell’articolo riassuntivo del suo lavoro sperimentale in Rev. Mod. Phys., 203(1933).   TORNA

21 R. S. Shankland, S. W. McCuskey, F. C. Leone, G. Kuerti, Rev. Mod. Phys., 27, 167(1955).   TORNA

22 Dobbiamo questa osservazione al nostro collega R. Fonte.   TORNA

23 M. Masterman, La natura di un paradigma, in Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, pag. 129, 1976.   TORNA

24 I. Lakatos, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici, in Critica e crescita ..., op. cit.   TORNA

25 I. Lakatos, Matematica, scienza e epistemologia. Scritti filosofici II , Il Saggiatore, 1985.   TORNA