Cruciali per la scienza sono solo gli scienziati

 

Roberto Fonte

 

 

 

A molti la realtà appare come un insieme inspiegabile

 

di fenomeni che non obbediscono alle leggi liberamente

 

stabilite dall’uomo e per ciò stesso credute vere.

 

Anonimo

 

 

 

Introduzione

 

 

In altri articoli di questo numero dei “Quaderni” vengono presentati dei convincenti argomenti di ordine epistemologico per sostenere una tesi ben precisa che così può essere espressa: non è possibile esprimersi sulla validità di una teoria scientifica in forza di risultati sperimentali.

Su questo punto va citata una netta affermazione di Kuhn: «Nessun processo messo in luce finora dallo studio storico dello sviluppo scientifico assomiglia minimamente allo stereotipo metodologico della invalidazione di una teoria mediante un suo confronto diretto con la natura1

L’attività sperimentale è invece utilissima, e talvolta necessaria, per l’ac­quisizione di metodi e tecniche d’indagine sempre più sofisticati, per una migliore definizione dei modelli interpretativi delle conoscenze scientifiche; a mio avviso, soltanto dopo una congrua attività di ricerca sperimentale si può avere titolo per contribuire ad una analisi critica dello sviluppo scientifico ed in definitiva a fare della seria epistemologia. Insomma si può essere “filosofi della natura”, nell’accezione originaria del termine, solo conoscendo e prati­cando l’indagine scientifica anche con gli strumenti e i metodi sperimentali.

La divisione tra filosofi e fisici e poi tra fisici sperimentali e fisici teorici e poi tra fisici teorici delle particelle e fisici teorici nucleari (e non è detto che sia finita!) ci ha dato tanta tecnologia e tante posizioni di potere (e perché no anche quattrini per qualcuno) ma non credo che ci abbia poi fatto progredire così tanto nella conoscenza della realtà fisica nella quale siamo immersi.

Non posso certamente escludere che in certe specifiche aree non si siano ottenuti dei notevoli risultati ma mi pare che questa esasperata superspecializzazione determini una sempre crescente incomunicabilità tra gli scien­ziati che ci fa pagare un alto prezzo in termini di rigore di linguaggio (fondamentale nella scienza più che nella vita quotidiana) e di frammentazione della comunità scientifica in un arcipelago di microcomunità sempre più chiuse ed inevitabilmente sempre più lontane da una conoscenza organica della natura.

Per rendere l’idea di organicità voglio citare un sondaggio che “La Do­menica del Corriere” fece molti anni fa per conoscere i gusti dei suoi lettori in fatto di bellezza femminile. Invece di chiedere di indicare quale donna dello spettacolo incarnasse il loro ideale di bellezza, fu chiesto ai lettori di indicare quali occhi, quali labbra, etc. fossero per loro i più belli. La com­posizione con la tecnica del fotokit dette come risultato una donna mostro che certamente nessuno avrebbe mai corteggiato.

Cercherò comunque di dimostrare che, quand’anche si volesse confutare la tesi all’inizio accennata, ci si scontrerebbe con una sostanziale inaffida­bilità dei fisici sperimentali la quale renderebbe improponibile un nesso tra esperimento e falsificabilità di una teoria. Con questo non voglio dire che essi siano inaffidabili in assoluto, ma solo rispetto alla pretesa di potere realizzare esperimenti cosiddetti cruciali2 che avrebbero come ambiziosissimo obiettivo quello di seppelire o di glorificare, per non dire canonizzare, una teoria scien­tifica. Peraltro, come mostrano Di Mauro, Notarrigo e Pagano nella storia critica dell’esperimento di Michelson e Morley, un esperimento cosiddetto cruciale dipende da tanti parametri (a loro volta cruciali per l’esperimen­to cruciale) la cui individuazione e valutazione è spesso “model-dependent” specialmente quando, come generalmente accade, i fisici sperimentali non si sognano nemmeno di fare la teoria dell’apparato sperimentale. Si spiega qu­indi perché ritengo che una esperienza di fisico sperimentale sia propedeutica per l’avvio di un discorso epistemologico. E per quanto i fisici sperimentali possano essersi sforzati (come ad onor del vero spesso avviene) di produrre dei risultati affetti il meno possibile da errori, restano tutti interi i proble­mi legati all’interpretazione dei risultati stessi. Cercherò di spiegare questo punto con una storiella divertente ma estremamente seria nella sua “morale”.

Un giorno fu trovato un quaderno nel quale veniva così descritto un esperimento sulla capacità dei ragni di saltare: “Ho preso un ragno, gli ho staccato una delle sue otto zampette e gli ho ordinato di saltare: esso ha saltato; gli ho staccato un’altra zampetta e gli ho ordinato di saltare: esso ha saltato; ... gli ho staccato la ottava ed ultima zampetta e gli ho ordinato di saltare: esso non ha saltato. Conclusione tratta dall’esperimento: quando ad un ragno vengono staccate tutte le zampette, esso diventa sordo”.

Ma chi è in fondo quest’ometto in camice bianco che pretende di ponti­ficare sulle teorie scientifiche a colpi di grafici, tabelle, simulazioni al calco­latore, seminari e congressi?

 

 

Dal gioco ai primi anni di ricerca

 

Dalle piccole confidenze ricevute dai miei colleghi durante tutti questi anni di attività penso di potere dedurre questa affermazione: il modo di fare ricerca è fortemente correlato all’educazione generale ricevuta prima di diventare un ricercatore. Questo forse può sembrare un asserto banale, ed in una qualche misura lo sarà, ma il punto essenziale è che esso viene generalmente trascurato privilegiando altri fattori di condizionamento (che verranno accennati in seguito).

Molto spesso si dimentica che il ricercatore (di qualunque epoca) dovreb­be assommare in sé: buone dosi di senso critico e capacità di sostenere po­sizioni minoritarie, un minimo di grinta, facilità nei rapporti umani, un po’ di orgoglio nella difesa delle proprie idee ed infine anche un sano distacco da certe prebende (quali la carriera e la notorietà pubblica) che tendono a tenere legato un ricercatore ai paradigmi affermati e dominanti e quindi lo limitano nell’analisi critica che invece, proprio in quanto ricercatore, egli dovrebbe porre a fondamento del suo lavoro. Quegli aspetti del carattere si formano già durante l’infanzia nei processi di socializzazione mediante i giochi e nell’educazione famigliare “tout court”.

Ma il ragazzino imparerà presto che lo spirito critico, che ovviamente per inesperienza non sa “dosare”, gli procura più fastidi che gratificazioni. Imparerà subito che la cosa più importante è capire cosa gli altri vogliano sentirsi dire ed egli lo impara presto e bene, aiutato in questo dalla famiglia alla ricerca del buon risultato scolastico. E tutto ciò diventa sempre più vero a mano a mano che il giovane va avanti negli studi.

Proviamo ora a seguirlo sin dalla sua iniziazione nel tempio sacro della ricerca: l’Università. Io credo che sia sempre difficile stabilire quali debbano essere i concetti e le metodologie da possedere per incominciare proficuamente un’attività professionale ed immagino le estenuanti discussioni che avranno dovuto sostenere coloro i quali hanno, a suo tempo, stabilito i curricula stu­diorum per conseguire le varie lauree e diplomi. Si può lecitamente sospettare che le scelte possano talvolta essere state dettate da esigenze ben diverse da quelle che comunemente sono ritenute prioritarie e, ben sapendo quanto poi sia difficile cambiare alcunché nelle nostre università, è facile capire quanto delicata sia l’operazione di fissare i “titoli” del “sapere necessario minimo” per abilitare un giovane allo svolgimento di quella professione.

Non a caso ho utilizzato la parola “titoli”, ed infatti, a causa delle nostre norme ipergarantiste, nulla può dirsi sui reali contenuti delle materie di in­segnamento giacché ogni docente si ritiene “il migliore” e non riconoscerà a nessuno “l’autorità” per potere, non dico giudicare, ma nemmeno dare con­sigli sui contenuti dell’insegnamento. E chi si batte per il coordinamento dei corsi è (talvolta a ragione) sospettato di ritenersi “il migliore tra i migliori”!

Alle nostre latitudini non è possibile divenire un ricercatore di un ente pubblico se non si è forniti di una laurea (che ovviamente è solo condizione necessaria ma per nulla sufficiente). Nessun particolare titolo di studio è richiesto per diventare docente universitario. Quindi chi farà ricerca è stato “formato” nelle università e si trascinerà dietro per molti anni (taluni per sempre) tutte le contraddizioni e le storture eventuali che avranno caratteriz­zato il suo curriculum. Accade insomma qualcosa di analogo alle cosiddette iatropatie, quelle malattie cioè che si prendono negli ospedali, laddove si va per curarsi.

Qui non parlerò di queste storture perché meritano una lunga riflessione e non possono essere trattate con poche parole. Purtuttavia è opportuno dare loro un nome ed una definizione. Le chiamerò “accademiopatie” e le definisco come “l’insieme dei difetti della classe docente e dell’amministrazione che concorrono ad influire negativamente sul rapporto tra il ricercatore futuro e la ricerca di verità scientifiche” .3

Andrebbe pure citato il problema dei testi universitari e dei manuali: chi li legge tende a valorizzare più del dovuto quanto vi è esposto perché gli argomenti non sono presentati in modo diacronico e critico, per cui sembrano possedere una coerenza interna molto affascinante che appiattisce gli elementi di differenziazione tra i vari ricercatori del passato. E invece proprio l’analisi di queste differenziazioni che può fornire elementi utili alla ricerca (basata sulla critica) che solo nei momenti di crisi dei paradigmi correnti può piena­mente manifestarsi. Cioè lo sforzo di sintesi che fanno i redattori dei manuali determina oggettivamente un forte conservatorismo il quale può da un lato essere utile nelle applicazioni ingegneristiche della scienza, ma dall’altro esse­re nocivo alla ricerca fondamentale. E per questo che concordo con chi ritiene che la fisica debba essere studiata solo all’interno di corsi di storia della fisica rinviando invece alla fine degli studi la lettura dei cosiddetti manuali. Ma ciò è faticoso (e non mi riferisco agli studenti!).

Quando viene completato il curriculum (che in latino vuol dire sia corso che corsa) si può essere cooptati da qualcuno il cui “potere di cooptazione” è in generale proporzionale al suo grado di fedeltà ai paradigmi culturali dominanti in quella università in quel momento storico. Sebbene il giovane aspirante ricercatore si renda subito conto che la sua cooptazione e stata essenzialmente dovuta alla sua capacità di rendersi utile al cooptante, gli resta per molto tempo una sorta di subordinazione psicologica dovuta alla gratitudine che certamente condizionerà le sue scelte per un certo numero di anni.

Disgraziatamente nelle università e nei centri di ricerca esiste il problema della carriera che fa ammalare il giovane ricercatore a causa di quella che io chiamo la “patologia di Boscarino” che si può descrivere con le sue stesse parole: «Qualunque problema mi ponessi ero costretto a rinviarlo a dopo il diploma, per scoprire, in seguito, che dovevo ancora rinviarlo a dopo la laurea, e poi ancora a dopo l’esame di abilitazione, a dopo il concorso a cattedra, a dopo ...!»4 .

Mutatis mutandis si può avere un’idea degli effetti di questa patologia nell’arcipelago Ricerca.

Certamente qualcuno può legittimamente obiettare che uno spirito libero troverà il modo di guarire della patologia di Boscarino sapendo però che: «Di fatto la comunità scientifica è gerarchizzata così come le altre, con la possibile eccezione di qualche Chiesa. Essa è, nei fatti, fondata sulla ineguaglianza delle persone impegnate nella scienza: uno studioso con un “nome famoso” può ripetere per dieci volte di seguito le stesse idee ma troverà sempre senza difficoltà un editore; un giovane, invece, può anche avere idee molto piè profonde ma sarà ignorato. In realtà, i seguaci dei differenti approcci teorici lottano l’uno contro l’altro non mediante l’uso di argomenti quanto piuttosto cercando di pervenire al monopolio delle posizioni chiave nel mondo delle istituzioni scientifiche»5.

 

 

Gli imbrogli scientifici

 

Ancora una volta occorre avere ben presente una cosa banale: i ricer­catori non sono persone selezionate sulla base di quei valori già elencati, che dovrebbero essere i fondamenti della ricerca scientifica, ma sulla base della loro capacità di risolvere quelli che Kuhn chiama i “rompicapo”. E que­sta capacità si trova anche in persone che non esiteranno ad imbrogliare la comunità scientifica per vari motivi, sino ai più abietti.

Citerò alcuni casi riportati in un libro di F. Di Trocchio.6 Cominciamo dall’esperimento di Millikan: «L’apparecchio utilizzato da Millikan era costi­tuito essenzialmente da uno spruzzatore (che in origine era un vaporizzatore di profumo) che lanciava delle minuscole goccioline d’olio tra due piastre metalliche collegate ad una batteria in modo da generare un campo elettri­co. Queste goccioline naturalmente cadevano verso il basso per la forza di gravità ma quando erano sottoposte all’azione di una forza elettrica, diret­ta verso l’alto, tornavano in su o rimanevano in equilibrio .... Il fenomeno più interessante era però quello delle goccioline che rimanevano in equilibrio perché in quel caso era possibilire ricavare la carica elettrica posseduta dal­la goccia, una volta nota la sua massa .... Calcolando le cariche elettriche delle sue gocce Millikan scoprì che esse erano sempre multipli interi di una quantità “e” che dunque rappresentava il “quanto”, cioè l’unità minima di carica elettrica. L’articolo più importante nel quale Millikan fornì la misura­zione più precisa del valore di “e” venne pubblicato nel 1913 ed era basato sui dati calcolati su cinquantotto gocce di olio. Egli precisava inoltre che “questo non è un gruppo selezionato di gocce, ma rappresenta tutte le gocce studiate per sessanta giorni consecutivi ...”. Ora esaminati i quaderni di laboratorio di Millikan, lo storico della fisica Gerald Holton ha scoperto che questa affermazione è falsa. Millikan in realtà aveva lavorato in totale su 140 gocce ma aveva deciso di pubblicare i dati relativi a cinquantotto di esse che, ovviamente, erano quelle che avevano dato i risultati più approssimati al valore cercato».

 

Un caso differente, attinente alla disonestà verso un collega, ci riguarda un poco più da vicino per i personaggi e per l’ambiente nel quale esso e scoppiato.

Questo caso mostra altresì quanto possa essere edificante l’esistenza di un premio che, al di là delle buone intenzioni di Nobel, ha inquinato, e se­condo me continuerà a farlo, il mondo della ricerca scientifica. Leggiamo il Di Trocchio: «Sicuramente una brutta storia è quella del premio Nobel per la scoperta dell’antiprotone, attribuito nel 1959 ad Emilio Segrè e ad Owen Chamberlain. Diciotto anni dopo il conferimento del Nobel, Segrè fu cita­to in giudizio di fronte alla Suprema corte della contea di Alameda dal suo connazionale Oreste Piccioni, il quale sosteneva di essere il vero ideatore dell’esperimento che aveva portato alla scoperta e chiedeva centoventicinquemila dollari di risarcimento oltre ad una dichiarazione ufficiale di Segrè e Cham­berlain che gli riconoscesse la paternità dell’esperimento. Il tribunale dette torto a Piccioni ma solo perché aveva lasciato trascorrere troppi anni prima di denunciare il fatto anche se egli aveva fornito, nel corso del dibattimento, una spiegazione più che plausibile del ritardo». Infatti Piccioni era stato così ingenuo da ritenere che gente di quel tipo avrebbe potuto mantenere le varie promesse fattegli per soffocare lo scandalo sul nascere.

L’avere aspettato tanto tempo gli è stato fatale e, a mio avviso, ha avuto quello che meritava perché aveva tentato, peraltro maldestramente, di barattare il diritto fondamentale di paternità scientifica (che nel nostro ambiente ha un ché di sacrale) con delle prebende più o meno interessanti.

Ma quello che più si presta ad essere analizzato alla luce della “cru­cialità”, anche per i suoi aspetti tragicomici, è il caso dei raggi N di René Blondlot. «Nel 1878 sir Wilhiam Crookes aveva dimostrato l’esistenza dei raggi catodici provocando una scarica elettrica all’interno di un tubo nel quale era stato fatto il vuoto. “Le pareti del tubo divenivano fosforescenti a causa … di un raggio di molecole volanti” ...

Nel 1892 Heinnich Hertz aveva dimostrato che i raggi catodici possono attraversare dei sottili fogli metallici. Due anni dopo Philip Lenard costruì un particolare tubo a raggi catodici le cui pareti non erano completamente di vetro ma avevano qua e là sottili fogli di alluminio che costituivano delle specie di finestre attraverso le quali i raggi potevano uscire dal tubo dal momento che, come era già stato dimostrato, essi potevano attraversare sottili strati di metallo. La loro esistenza poteva così essere messa in evidenza attraverso schermi di materiale fosforescente posti fuori dal tubo, che infatti si illuminavano non appena i raggi li colpivano. Si scoprì però che questi raggi sono in grado di viaggiare solo per pochi centimetri fuori dal tubo nel quale sono emessi.

Nel 1895 Roentgen, un cinquantenne professore dell’Università di Wurz­burg che fino ad allora non si era segnalato per alcuna eclatante scoperta, volle verificare se era possibile evidenziare la fuoniscita dei raggi catodici anche da tubi privi di “finestre” di alluminio. Gli era infatti venuto il dubbio che la fosforescenza che si verificava in questi casi sulle pareti del tubo im­pedisse di osservare la debole fluorescenza che poteva essere prodotta sullo schermo esterno dall’eventuale fuoriuscita di raggi catodici. Per verificare questa sua ipotesi, egli coprì un tubo catodico (privo di finestre di allumi­nio) con della carta nera. A questo punto stava per accendere le luci per sistemare lo schermo fosforescente che aveva preparato. Voleva infatti vedere se, ponendolo a pochi centimetri dal tubo, i raggi riuscivano ad attraversare anche le pareti di vetro e la carta. Fu proprio in quel momento che notò, a parecchia distanza dal tavolo sul quale stava lavorando, un punto luminoso. In un primo momento pensò che la carta con la quale aveva avvolto il tubo lasciasse uno spiraglio che gli veniva riflesso da uno spechio. Poi però si ricor­dò che nel laboratorio non c’era nessuno specchio. Allora rinviò la corrente al tubo e vide riapparire la luce nello stesso punto. Sempre più incuriosito accese le luci ed andò a vedere che cosa fosse l’oggetto che si illuminava ....

Roentgen lavorò intensamente per oltre un mese per capire di che si trattava e poi, il 28 dicembre 1895, pubblicò un articolo intitolato “Un nuovo tipo di raggi” ... che chiamò raggi X (proprio perché non era ancora in grado di determinarne la natura) ....

Nel concitato clima creato da questa scoperta i fisici per otto anni sembrarono impazziti: lavorarono freneticamente sia per scoprire la natu­ra dei raggi X sia per individuarne degli altri…

Ma tra tante scoperte genuine se ne insinuò una fasulla: quella dei rag­gi N, fatta da René Blondlot ... Lo scopo originario degli esperimenti di Blondlot era quello di verificare se realmente, come fino ad allora si era sostenuto, i raggi X non potevano essere polarizzati…

Per rilevare la polarizzazione, Blondlot si proponeva di disporre sul tra­gitto dei raggi X un rivelatore costituito da una coppia di fili appuntiti fra le cui estremità egli faceva scoccare una scarica elettrica. Se la linea lungo la quale si produceva la scarica elettrica veniva orientata in modo da giacere sul piano di polarizzazione dei raggi X questi avrebbero dovuto rinforzare la scarica elettrica e far aumentare la sua luminosità.

Come si scoprì in seguito l’aumento di luminosità osservato da Blondlot non esisteva e di conseguenza non avrebbe dovuto essere usato come prova dell’avvenuta polarizzazione. Era frutto di un’illusione ottica ....

Non solo, subito dopo “scoprì” che la radiazione che aveva il potere di rendere più luminosa la scintilla veniva deviata quando attraversava un prisma di quarzo. Ora si sapeva bene ... che i raggi X non vengono deviati quando attraversano un prisma di quel tipo. Invece di pensare a qualche errore, Blondlot si convinse di trovarsi esattamente nella stessa situazione nella quale si era ritrovato Roentgen .... Fu così che nel 1903 egli annunciò trionfalmente al mondo scientifico la scoperta di una nuova radiazione che, in onore dell’università nella quale insegnava, Nancy, chiamò “raggi N”…

Come nel caso dei raggi X furono anche scoperti una serie di effetti fisiologici potenzialmente molto importanti per la medicina. Il primo fu in­dividuato dallo stesso Blondlot il quale verificò che in presenza di raggi N aumentava l’acuità visiva delle persone ....

Naturalmente ci fu qualche criticone che mise in dubbio l’attendibilità delle osservazione sulle quali si basava la teoria di Blondlot ....

Uno dei critici più agguerriti era il tedesco Heinrich Rubens il quale aveva ricevuto dal suo governo l’incarico di verificare l’esistenza dei raggi N e non vi era riuscito. Fu proprio Rubens che nell’estate del 1904, nel corso di un congresso di fisici che si tenne a Cambridge, organizzò un piano destinato a smascherare i supposti esperimenti sui quali si basava la scoperta dei nuovi raggi ...A quel congresso Rubens incontrò la persona giusta. Era R.W. Wood, ... un esperto di ottica e di spettroscopia che era anche un implacabile smascheratore di impostori…

Fu così che verso la metà del settembre 1904 Wood andò a trovare Blondlot nel suo laboratorio a Nancy per osservare da vicino i famosi espe­rimenti sui raggi N…

Tanto per cominciare Wood, che conosceva il francese, si rivolse al suo collega parlando solo in tedesco in modo che questi si sentisse libero di parlare in francese con il suo assistente ....

Ma il trucco decisivo Wood lo mise a segno nel corso dell’esperimento più significativo. Blondlot volle ripetere sotto i suoi occhi l’esperienza nel corso della quale si vedeva come i raggi N venivano deviati quando attraversano un prisma d’alluminio .... Perché l’aumento di luminosità fosse apprezzabile, l’esperimento doveva essere eseguito al buio. Wood ne approflttò .... Non appena furono spente le luci, Wood tolse dalla sua posizione il prisma di alluminio. Furono fatti emettere di nuovo i supposti raggi N e Blondlot rilesse le stesse misure di prima nonostante il fatto che i raggi questa volta non erano sicuramente potuti passare attraverso il prisma. Prima che la luce fosse riaccesa Wood rimise a posto il prisma ....

Wood fece finta di nulla. Salutò cordialmente i due e prese un treno della notte per Parigi. La mattina dopo scrisse di getto l’articolo nel quale raccontava tutto e lo inviò a “Nature”».

Altri casi di imbroglio sono riportati nel libro del Di Trocchio riguardanti tutti i più importanti settori della ricerca nelle varie epoche storiche.

Per noi è più interessante l’imbroglio alla Millikan piuttosto che i casi rispecchianti totale malafede (che per essere molto diffusa è anche banale) i quali sono più facilmente smascherabili. Il primo tipo infatti è più difficile da censire nel contesto di una storia della scienza perché se l’assunto teorico è ben fondato (e ciò rischia di essere sempre più vero andando indietro nel tempo per la serietà di fondo degli scienziati del passato) esso sarà in qualche misura confermato da vari esperimenti tra loro indipendenti. In questo caso l’imbroglio potrebbe non essere mai scoperto. Il caso di Millikan è emblema­tico: se il suo quaderno di appunti fosse andato distrutto noi non avremmo mai saputo nulla del suo imbroglio. E, sul piano logico, così come solo una bassa percentuale di crimini comuni vengono scoperti, la strada dello svi­luppo scientifico è presumibilmente “lastricata” di imbrogli. E ciò è tanto più difficile da portare alla luce quanto più la storia della scienza viene stu­diata da storici o filosofi piuttosto che da scienziati con esperienza nel campo sperimentale.

Un’ultima considerazione va fatta sulla complessità degli esperimenti moderni specialmente in fisica delle particelle elementari.

Nel passato, un minimo di sicurezza sulla correttezza e affidabiltà degli esperimenti poggiava sulla loro riproducibiltà che significava pure la possi­bilità per gli scienziati di ripetere gli esperimenti dei loro colleghi. Oggi ciò sarebbe ancora teoricamente possibile ma improponibile in concreto. I costi degli esperimenti e la loro complessità sono tali che raramente lo stesso esperimento può essere fatto contemporaneamente o almeno ripetuto.

In conclusione oggi più di ieri dobbiamo affidarci all’onestà oltre che alla preparazione tecnico- scientifica degli scienziati.

 

 

Le illusioni cognitive

 

La complessità degli esperimenti conduce ad altre gravi conseguenze. Infatti le tecnologie richieste sono tali che la preparazione e l’esecuzione degli esperimenti è spesso disarticolata in tante piccole “isole specializzate” (elet­tronica di gestione dei dati, rivelatori, hardware, software, ...) all’interno delle quali vi sono ulteriori ripartizioni. È quindi abbastanza normale che solo alcuni fisici, coordinatori di gruppi di varie decine di tecnici (ho qualche perplessità a chiamarli scienziati), abbiano una visione d’insieme di tutto l’esperimento; ciò non significa però che essi stessi non siano costretti ad accettare per buono quanto viene prodotto da queste “catene di montaggio scientifiche”. È quasi impossibile, per chi non ha fatto fisica sperimentale, rendersi conto, per esempio, di quanti calcoli si facciano fare ai calcolatori per “correggere” i dati sperimentali e per simulare il comportamento dell’ap­parato sperimentale stesso. Tutto ciò generalmente viene fatto utilizzando dei modelli che andrebbero a loro volta opportunamente testati con degli esperimenti!

Chi pensa che la fisica si faccia in equipe si sbaglia se pensa ad una equipe come un gruppo in grado di discutere nella sua collegialità l’esperimento come un tutto. Il singolo specialista lavora tutto sommato in una grande solitudine e, per quanto si possa sforzare, non potrà ovviamente rendere conto ai colleghi dei singoli dettagli del suo lavoro. La fiducia reciproca giuoca un ruolo fondamentale ed è sconfortante vedere valenti ricercatori che non sanno quasi nulla della fisica che sottostà al loro lavoro quotidiano.

In questa sua solitudine il ricercatore si porta inevitabilmente dietro tutti i limiti della mente umana che solo un vero lavoro d’equipe potrebbe, in buona parte, compensare.

Tra quei limiti ve ne sono alcuni che, se sono dannosi per chiunque, pos­sono invalidare seriamente le conclusioni alle quali perviene un ricercatore durante la sua attività: essi sono chiamati illusioni cognitive e sono diffusa­mente trattati in un libro di Piattelli Palmarini7 dal quale ho tratto i brani che seguono.

«Senza nostra colpa, semplicemente perché apparteniamo alla specie umana, tutti noi veniamo al mondo equipaggiati con certi “paraocchi” men­tali (i bias o tunnel) e tendiamo spontaneamente a mettere in atto certe astuzie (o euristiche), delle quali siamo solo in parte consapevoli, nel tenta­tivo di trarci da certi impacci. Gli effetti concreti di queste euristiche e di questi tunnel sono solo in parte noti, e vengono sussunti, come abbiamo già detto, sotto l’etichetta generica di illusioni cognitive.»

Secondo il nostro autore, se ne sa abbastanza per dire che tra l’altro esse sono:

generali, perché riscontrabili in tutti gli esseri umani ....

sistematiche, perché riproducibili quasi esattamente in molte situazioni tra loro affini per natura e livello di complessità;

orientate, perché producono effetti sempre in una stessa direzione e non si tratta quindi di semplici fluttuazioni di opinione che possono “tirarci” indifferentemente da una parte o dall’altra;

specifiche, perché riscontrabili in problemi e in scelte che hanno certe caratteristiche particolari, non in ogni e qualsiasi “caso della vita”;

soggettivamente incorreggibili, perché non basta “annunciare” al soggetto che è spontaneamente portato a commettere certi errori per veder di colpo sparire in lui la tendenza a commetterli ....

indipendenti dall’intelligenza e dalla cultura, perché anche econo­misti, matematici ed esperti collaudati mostrano, qualitativamente, le stesse illusioni cognitive del novizio, qualora si aumenti opportunamente la difficoltà apparente del problema.”

Che l’autore non abbia incluso anche i fisici tra gli intelligenti e colti che possono cadere in quelle “trappole” non mi tranquillizza per nulla anche perché ne conosco abbastanza (me compreso ovviamente) per aggiungerli io “d’ufficio”. Non posso dimenticare infatti il fiorire di tanti volumetti editi negli anni cinquanta e sessanta ricchi di falsi paradossi, riguardanti la Rela­tività di Einstein e la Meccanica quantistica; i quali hanno buggerato anche dei fisici.

La cosa, a dir poco sconfortante, è che, invece di sospettare di teorie che si prestano così facilmente a fornire paradossi, spesso certi fisici considerano queste “stravaganze” un sintomo di genialità!

Piattelli Palmarini raggruppa queste “illusioni cognitive” in sette gruppi che egli chiama scherzosamente “i sette peccati capitali”.

Di queste “illusioni cognitive” ne citerò due che possono incidere sul lavo­ro del ricercatore e che ho spesso notato personalmente nel nostro ambiente. Esse sono state chiamate dall’autore: Sicumera e Senno di poi.

Per analizzare la prima illusione cognitiva, la “sicumera”, furono poste ad un certo numero di persone alcune domande di carattere generale e si chiedeva loro, inoltre, di dichiarare in quale misura essi fossero certi del­l’esattezza delle loro risposte.

«Ebbene, i risultati ottenuti ... attestano che esiste una tendenza dif­fusa e tenace alla “sicumera” (overconfidence).

Questo ed altri studi hanno anche dimostrato che la divergenza tra ac­curatezza di giudizio e grado di sicumera aumenta quando il “giudice” (cioè il soggetto stesso, n.d.r.) “ne sa di più”. Quando si sa poco, o quando il giudizio è semplice, si ha minor tendenza e essere “overconfident”. Quando, invece il giudizio diventa elaborato, richiede lunghi ragionamenti e si basa su molte conoscenze specialistiche, il grado di accuratezza aumenta, certo, ma aumenta “molto di più” il grado di sicumera.

È importante, quindi, imparare a diffidare della nostra sicumera, in quanto questa è massima nei campi di competenza professionale di ciascuno di noi, quindi proprio laddove rischiamo di fare il massimo danno.»

Vediamo adesso la illusione cognitiva “Senno di poi”. «L’esperimento tipico in questo settore consiste nel chiedere a un soggetto con quale pro­babilità crede che avrebbe potuto prevedere un certo fatto, che si sa essere avvenuto, date certe premesse o sintomi. Si forniscono a questo soggetto: 1) una descrizione precisa di un fatto che si dà per certo essere avvenuto ... 2) una serie di dati rilevanti, anteriori a questo fatto. Gli psicologi ... quindi hanno dato ad alcuni soggetti dei dati reali, seguiti dal loro esito effettivo, ma ad altri soggetti quegli stessi dati, seguiti dall’esito opposto a quello effettivo (ovviamente, anche in questo caso, al soggetto veniva sempre detto che gli abbinamenti erano quelli giusti). Hanno poi registrato il grado di sicumera con il quale il soggetto pensava di poter prevedere il risultato, disponendo di quei dati. Si è anche analizzato quali erano le sue giustificazioni, quale ragionamento avrebbe seguito, e cosi via.

Ne esce che tutti pensiamo, col senno di poi, e in perfetta buona fede, che avremmo potuto prevedere quello che è successo “sapendo” (o credendo di sapere) quello che è effettivamente successo. Gli psicologi non hanno trovato differenze degne di nota tra la sicumera di coloro ai quali era stata fornita la sequenza giusta, effettiva, degli eventi, e coloro ai quali era stata, invece, data la sequenza opposta, sbagliata .... Per ovvi motivi, gli storici sono particolarmente pronti a commettere questo peccato capitale

Ed infatti l’autore scrive tra l’altro: «...sofismi dello storico:

-    Di fatto è successo l’opposto di quello che avevo previsto nella mia mo­nografia del 1978, ma vi posso spiegare benissimo il perché proprio adottando quel mio modello.

-    Le previsioni del mio esimio collega si sono rivelate corrette, ma è un puro caso, in quanto vi posso dimostrare che il suo modello è comunque sbagliato.».

Possiamo perdonare all’autore l’uso improprio della parola “sofisma”, certi che i veri sofisti greci ed italici lo perdonerebbero. Ma quello che voglio sottolineare e molto più serio e cioè che l’ultimo “sofisma” si può talvolta udire nei congressi scientifici (specialmente quelli dei fisici teorici) ed anzi oso aggiungere che qualcosa di simile è stata detta personalmente al nostro collega Notarrigo a proposito di un problema fondamentale di Meccanica quantistica!

 

 

Conclusioni

 

Quella che ho voluto tentare con queste note non è, malgrado le apparen­ze, una operazione di denigrazione della ricerca sperimentale. Essa, ribadisco, è molto utile e, generalmente, ben fatta. Non bisogna però chiederle qualcosa che non può dare: la crucialità ai fini della falsificabilità di una teoria o, se si preferisce, di un paradigma.

Il confronto tra i prodotti dell’intelligenza umana deve essere omogeneo, nel senso che una teoria può essere confrontata solo con un’altra teoria sulla base di termini definiti una volta per tutte e sulla base di regole logiche di elaborazione delle asserzioni in esse contenute.

Deve essere chiaro che appena estraiamo da una teoria un certo numero di conseguenze che vogliamo confrontare con un esperimento (e non vedo come si potrebbe fare altrimenti) abbiamo “ipso facto” prodotto un modello che esso, ed esso solo, può essere legittimamente falsificato. Non ha senso prendere solo “parti” di una teoria o, comunque, approssimarla. È invece la procedura di costruzione di un modello che implica, di per sé, la necessità di fare delle approssimazioni (più o meno “forti” a seconda di quanto, per forza di cose, ci allontaniamo da un esperimento ideale) ed è inoltre fondamentale che, prima ancora di fare un esperimento, si faccia una “teoria dell’esperi­mento” per essere certi che esso sia in grado di rispondere alle domande che ci siamo poste e che riguardano solo ed esclusivamente il modello.

Queste considerazioni fanno perciò cadere la nozione stessa di “cruciali­tà” che non può, per semplici ragioni di buon senso, poggiare, come sempre avviene, su una serie, più o meno numerosa, di punti a loro volta cruciali per l’esecuzione e l’interpretazione dell’esperimento stesso dato che non si può fare a meno di fare delle approssimazioni (e sorvoliamo sul modo in cui vengono trattati gli errori di misura!).

Nella formazione del futuro ricercatore non vi è quasi completamente spazio per affrontare questi problemi ed egli viene generalmente selezionato in quanto capace di risolvere i “rompicapo” di Kuhn. Ogni giovane ricercatore riceve il “testimone” da uno anziano per procedere in una corsa a staffetta verso direzioni che sono, a mio avviso, mal definite e comunque rigidamente fissate dai paradigmi dominanti. Così come si fa della cattiva politica senza una profonda conoscenza della storia delle società, si rischia di fare della cattiva ricerca senza una adeguata conoscenza della sua storia con tutte le contraddizioni e gli errori che umanamente i ricercatori di tutti i tempi hanno fatto.

Ricerca dovrebbe essere innanzi tutto critica e confronto tra idee messe sotto forma di teorie scientifiche avendo ben chiaro che non saranno né i virtuosismi da “softwarista”, né una mera abilità sperimentale (per quanto necessaria) a rispondere ai quesiti che, talvolta mal formulati, ci poniamo.

Vorrei concludere riportando un importantissimo esempio di ciò che pro­duce l’ostinazione a considerare come criterio di accettazione di un paradigma scientifico la sua “aderenza” ai fatti sperimentali. Esso è tratto proprio da un prestigioso manuale di Meccanica quantistica avvertendo altresì che in questo punto esso non differisce dagli altri:8 «La luce si presenta sotto i due aspetti ondulatorio e corpuscolare, ciascuno di questi aspetti potendo appa­rire in maniera più o meno manifesta a seconda del fenomeno considerato. ... L’esistenza di questa dualità onda-corpuscolo è incompatibile con la dottrina classica. Non è possibile considerare la luce né come un fascio di corpusco­li classici né come una sovrapposizione di onde classiche senza trovarsi in contraddizione con i fatti sperimentali (sic!).»

Ma cosa significa . . . trovarsi in contraddizione con i fatti sperimentali? Per me fatto sperimentale non può che essere sinonimo di “misurazione di grandezze fisiche” che possono essere fatte, come è stato già detto, solo rife­rendosi ad un modello. Trovo quindi del tutto normale che i risultati di un esperimento consistente nell’eseguire misure da confrontare con le previsioni di un modello, non possano essere utilizzati per confronti con altri modelli.

Solo se non si tiene conto di questo aspetto possono nascere le contraddi­zioni. Si tenga inoltre presente che ogni processo di misurazione si riduce alla estrazione di valori medi di grandezze fisiche. Occore quindi tenere ben presente quali siano le grandezze delle quali sto facendo la media e i limiti entro i quali essa viene fatta. P. es.: in una catena di oscillatori accoppiati si vedono “classicamente” sia “onde” che “corpuscoli”!

È necessario essere molto cauti nell’accettare supinamente delle afferma­zioni come quella sopra riportata verso la quale io sono personalmente molto critico perché ad essa imputo quasi tutto ciò che di insoddisfacente rilevo nella ricerca fisica degli ultimi decenni.

 

NOTE

 

1          T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi 1969, Torino, pag. 103   TORNA

2          Bacone, costruendo nel suo Novum Organum i fondamenti del metodo induttivo, viene enumerando le varie specie di fenomeni che possono essere adoperati come prove, e fra essi dà particolare importanza ai “fenomeni di crocevia”, alle “instantiae crucis”, trasferendo il vocabolo da quelle croci indicatrici che erette nei bivi indicano e segnano le separazioni delle vie. - tratto da: B. Migliorini, Profili di parole, Firenze 1968.   TORNA

3          Bisognerebbe dare una definizione di “verità scientifica” ed in tal caso la presente nota dovrebbe essere molto più lunga dell’intero articolo che sto scrivendo. Poiché ritengo che tuttavia sia diritto di chi legge queste note avere comunque un’idea di ciò che io intendo con quelle parole, dirò che per me verità scientifica è sinonimo di verità logica perché solo la logica mi può consentire di fare affermazioni vere o false. Per esempio la frase “se Mario B. è il marito di Carla D., Carla D. è la moglie di Mario B.” è una verità logica (a patto che discutendo discutendo non si modifichi la definizione di marito e di moglie). La condizione espressa in parentesi non è per nulla banale!   TORNA

4          G. Boscarino, Perché..., Mondotre/Quadcrni, N. 4-5, pag.5, 1989.   TORNA

5          L. Nowak, La scienza: la ricerca della verità come strumento di dominio, Quaderni di “Laboratorio”, pag.9, 1985   TORNA

6          F. Di Trocchio, Le bugie della scienza, Mondadori 1993, Milano.   TORNA

7          M. Piattelli Palmarini, L’illusione di sapere, Arnoldo Mondadori 1993, Milano.   TORNA

8          A. Messiah, Mécanique quantique, Dunod 1962, Paris, pag. 17.   TORNA