Le implicazioni filosofiche del concetto di numero

(Con un saggio di Peano, in Appendice)

 

Giuseppe Boscarino

 

 

 

 

 

Premessa

 

“Da tempo immemorabile la filosofia s’è posta la domanda: che cos’è un numero naturale? Tale domanda è oggi viva non meno che nel passato, poiché nessuna delle molte risposte che si è tentato di darle può dirsi pienamente soddisfacente”.1

È proprio vero!

Fin dall’antichità si sono avute infinite discussioni sull’“essenza” dei numeri.

Anche oggi, con una frequenza che non accenna a decrescere, si scrivono libri su libri che riguardano l’argomento. Ma con una profonda differenza rispetto al passato: in tempi meno recenti si potevano registrare diverse concezioni dei numeri e si scrivevano libri ed articoli di riviste dove i vari autori vi esponevono le proprie idee in aperta polemica tra di loro; quindi, indipendentemente dal giudizio che si voglia dare sulle diverse proposte filosofiche, si può certamente dire che tali autori facevano un lavoro creativo, se non altro, al fine di trovare la loro risposta “pienamente soddisfacente”, cioè in accordo con la propria personale visione del mondo; oggi, invece, sembra che tutti i nuovi scrittori si ritrovino d’accordo nel proclamare che le idee di Dedekind e di Cantor si sono affermate per la ragione che, a parte piccoli dettagli, costoro rappresentano il pensiero più maturo e coerente che, finalmente, ha sistemato le cose, rimaste immutate per millenni dopo Euclide; il quale ultimo, a loro dire, le aveva sì messe in una pregevole forma, ma ancora per qualche verso difettosa; solo con la nuova concezione dell’“assiomatica” si son potuti mettere in chiaro tali difetti.

Poiché tale pretesa chiarezza dell’assiomatica moderna non è mai riuscita a farmi capire, non dico l’“essenza” dei numeri, ma nemmeno a cosa mai potessero servire e, pensando che ciò fosse dovuto al fatto che i vari autori che andavo leggendo non erano sufficientemente esaurienti, anche a ragione della mia formazione prevalentemente filosofica, ho continuato a inseguire questi vari dossografi moderni nei loro difficili discorsi; finché, un bel giorno, mi sono chiesto: ma, se la cosa ormai è così assodata e così chiara, perché mai tutta questa profusione di libri che sembrano dire la stessa cosa? e perché il lettore, alla fine, ne sa meno di prima?

Dopo qualche riflessione mi son convinto che i numeri erano solo il prete­sto perché ognuno potesse proclamare la propria metafisica senza, peraltro, dirlo molto chiaramente, in modo da non far scoprire il trucco; scoperta che, ovviamente, avrebbe potuto far crollare tutto il castello di parole “difficili”, mettendo in chiara evidenza, alla fine, la banalità della “cosa in sé”.

Sia Euclide, sia Dedekind sono stati ora elogiati e ora rimproverati per il loro presunto platonismo (naturalmente a seconda dei punti di vista dei vari critici).

Avevo letto che Dedekind ha separato i numeri dalle grandezze e li ha qualificati come libere “creazioni” dell’intelletto umano (ho, in seguito, verificato che tali affer­mazioni appartenevano allo stesso Dedekind, che parlava di eine freie Schöpfung).2

Mi son chiesto: ammesso che tale separazione sia possibile, senza aver prima concretamente sperimentato con la realtà fisica, basterebbe tale “creazione” per ricevere la qualifica di platonico? Riandando alle mie antiche letture di Platone e di Aristotele, mi pareva che si dovesse qualificare il Dedekind come anti-platonico, dal momento che Platone, e questo viene confermato dal suo allievo Aristotele, dava i numeri come già esistenti, anche se a mezza strada tra il mondo sensibile e quello iperuraneo, per cui non avrebbero avuto bisogno di alcuna creazione.

Secondo l’interpretazione di Peano, leggendo Euclide (e io penso che lo stesso valga per Pitagora e per Archimede), i numeri ci si presentano come semplici rapporti di grandezze omogenee a una comune grandezza assunta come unità di misura. Se così fosse la filosofia di Euclide rappresenterebbe l’esatto contrario di quella di Platone e anche di quella di Dedekind, per quelle cose che quest’ultimo possa avere in comune con Platone, e tuttavia si legge, anche, che lo stesso Euclide era un platonico.3

Ho concluso che il concetto di numero non è questione che riguardi la scienza, sia pur essa la matematica, ma la metafisica; per cui ho pensato che il problema fosse alla mia portata e così ho cercato di capire, intanto, le polemiche avutesi, nell’antichità, in merito alla questione. Anche perché ho intuito che la sostanza della questione è molto più importante di quanto si possa pensare a prima vista; ciò in quanto tale problematica coinvolge questioni essenziali e di grande rilevanza sociale e politica, e cioè il rapporto tra la matematica e le altre scienze e quindi il rapporto tra queste e la società.

Questo spiegherebbe il fatto che, ancora oggi, si stampano valanghe di libri di­vulgativi in cui vengono magnificate le conquiste della scienza moderna, le quali vengono, invariabilmente, attribuite a questo miracoloso cambio di paradigma re­gistratosi in seguito alle meno antiche battaglie svoltesi a cavallo tra i due ultimi secoli.

Nelle molte chiacchiere che oggi si ripetono, con uniforme ossessività (tali da stomacare anche il più ben disposto lettore, al sentire che finalmente si è trovata la “verità”), viene asserita la “necessità” di tale “nuova” concezione, la quale è tardata a venire solo a causa della resistenza opposta dai pregiudizi di scienziati filosoficamente ritardatari; e, tra questi, viene spesso annoverato il Peano insieme a tutta la sua scuola.4

Per cui, la maggior parte dei filosofi moderni tende a sottovalutare i contributi che tale scuola ha dato, anche a livello puramente filosofico, in relazione ai fonda­menti della matematica.

Ma, a ben guardare, si scopre che le cosiddette “nuove frontiere” della mate­matica non sono tanto nuove, visto che dagli stessi divulgatori si fanno risalire a Platone e ad Aristotele.

Dopo qualche fatica mi è sembrato di essere riuscito a mettere un po’ d’ordine nelle mie idee e ho sentito la necessità di parteciparle ad altri, cogliendo l’occasione di una decisione, già da molto tempo presa, di andare pubblicando sui Quaderni di Mondotre alcuni significativi brani, tratti dalle opere di Peano, che oggi non sono più facilmenti reperibili per lo studioso non specialista, il quale volesse rimeditare au­tonomamente su tali questioni, che oggi, invece, vengono date come definitivamente risolte dalla miracolosa scienza del Novecento.

 

 

Pitagora e Platone

(ovvero del numero ideale e del numero matematico).

 

La prima cosa che val la pena chiarire è il rapporto tra Platone e la tradizione pitagorica.

Su tale problema le opinioni sono molto discordi, stante la difficile interpreta­zione delle fonti. Come è stato riportato nella nota3, dalle opere di Platone ben poco se ne può cavare; e poiché Proclo è massimamente inaffidabile, non ci resta che rivolgerci al giudizio del discepolo stesso di Platone e, cioè, Aristotele:

“La dottrina di Platone, la quale per molti aspetti si ricollega alle dottrine pitagoriche, possiede anche una propria originalità, che la separa dalla filosofia degli Italici ...” (Metafisica 987a, 30-32);

“Platone ha introdotto, come cosa nuova, soltanto il termine partecipazione, giacché mentre i Pitagorici asseriscono che le cose esistono per imitazione dei numeri, egli dice che esistono per partecipazione, limitandosi a cambiare solo il nome. Ma di qual natura fosse mai l’imitazione o partecipazione delle forme ideali, è una questione che essi hanno lasciata insoluta. Platone aggiunge ancora che, oltre gli oggetti e le forme ideali, esistono, come qualcosa di intermedio, le entità matematiche, le quali differiscono dalle cose sensibili, perché sono eterne ed immobili, e differiscono dalle forme ideali perché c’è una pluralità di enti matematici che si somigliano, mentre ogni forma ideale è di per sé unica, individuale e singolare ...” (Metafisica 987b, 10-19);

..... egli [Platone] afferma che i numeri esistono al di fuori degli oggetti sensibili, mentre i Pitagorici sostengono che gli stessi oggetti sono numeri, e non pongono gli enti matematici come qualcosa di intermedio tra forme e oggetti sensibili. La concezione della trascendenza dell’uno e dei numeri rispetto alle cose concezione diversa da quella dei Pitagorici e l’introduzione della dottrina delle idee furono il risultato delle sue ricerche di carattere logico ...”(Metafisica 987b, 28-32).

Da questi brani aristotelici sembra emergere che, secondo lo Staginita, Platone si distacca dalla concezione pitagorica dei numeri, almeno in un punto; e cioè nel concepire una diversa relazione tra i numeri e le cose sensibili.

Anche se, polemicamente, Aristotele fa finta di sottovalutare le differenze tra le due concezioni che (secondo le sue parole) si ridurrebbe ad un semplice cambiamento di nome, quando non si definisca esattamente il significato di imitazione e partecipa­zione, tuttavia nota che, alla divisione aristotelica tra oggetti e forme ideali, Platone vi sistema nel mezzo le entità matematiche.

Certo per Aristotele era assurdo, come in altri passi delle sue opere afferma, identificare i numeri con le cose come, ingenuamente a suo giudizio, facevano i pita­gorici, ma ben più assurda era la pretesa platonica di triplicare le cose; ad Aristotele bastava il semplice sdoppiamento.

Le tre concezioni, qui delineate, hanno un’enorme rilevanza in merito al rapporto tra scienza e mondo reale.

Nella filosofia degli Italici, dalla quale Platone si distacca, il mondo sensibile è mera apparenza, semplicemente Caos, la vera realtà coincide con la nostra ricostru­zione razionale, effettuata con procedimenti puramente logici e matematici. Quindi i numeri, in quanto rapporti tra grandezze, sono la “realtà” stessa. Oltre tali rapporti non c’è e non ci può essere nient’altro che non siano le informi e mutevoli sensazioni, sulle quali niente si può dire se non cantare le oscure odi eraclitee.

Platone assegna loro tre distinti gradi di realtà, gerarchicamente sistemati: in alto il mondo delle idee, ineffabile; in basso il mondo sensibile, volgare; nel mezzo la matematica che però non serve per capire il mondo sensibile che, d’altronde, non merita tale attenzione, ma solo per sollecitare il ricordo del mondo iperuraneo della perfezione assoluta.

Per Aristotele, invece, la vera realtà coincide con il mondo dei sensi, i nomi delle cose, li inventiamo noi per classificare le nostre esperienze e, anche se li usiamo in molti sensi, essi ne hanno uno proprio che si identifica con 1’essenza” della cosa.

“Ora, tra gli oggetti di cui si dà la definizioneossia tra le essenze ce ne sono alcuni che si presentano nello stesso modo del camuso, altri nello stesso modo del concavo. E la differenza tra questi due gruppi di cose sta nel fatto che il camuso viene concepito insieme con la materia (giacché il camuso è un naso curvo), mentre il concavo prescinde dalla materia sensibile. Se, allora, tutti i termini fisici sono usati in un’accezione simile a quella di camuso ad esempio, naso, occhio, viso, carne, osso e, in genere, animale, oppure foglia, radice, corteccia e, in genere, pianta (e in realtà ciascuna di queste cose non può essere definita ove si prescinda dal movimento, e quindi possiede sempre una materia) —, risulta allora evidente il modo in cui si deve ricercare l’essenza e formulare la definizione nell’ambito delle cose naturali e per quale motivo rientri nel compito del fisico estendere l’indagine anche su certi aspetti dell’anima che non siano concepibili come indipendenti dalla materia.” (Metafisica 1025b, 31-37; 1026a, 1-7).

Sarebbe inutile chiedere ad Aristotele cos’è mai tale essenza. Se ne uscirebbe con altre parole il cui significato riuscirebbe ancora più oscuro; ma, in ogni caso, egli rifiuta ogni intermediario tra parole e cose e non vede alcuna necessità di creare un mondo a parte per le entità matematiche. Esse di per sé stesse sono forme ideali perfette e, in quanto tali, non possono applicarsi alle cose terrene (“...gli enti matematici, tranne quelli che hanno a che fare con l’astronomia, sono privi di movimento” Metafisica 989b, 31). Ma su questo punto si ritrova d’accordo con Platone.

Ma è proprio questo punto che segna il distacco profondo tra i pitagorici, da un lato, che sostengono l’unità di essere e di pensiero e, dall’altro lato, la molteplicità dei mondi (trina o bina che sia) di Platone e di Aristotele.

Ed è su questa fondamentale discriminante che, nel corso dei secoli, si e mani­festata la battaglia sulla concezione della scienza.

Naturalmente sarebbe importante capire il significato che Platone e Aristotele attribuiscono al termine “esistenza” (risultando, invece, chiaro il significato che gli attribuiscono gli Italici, come sottolinea lo stesso Aristotele).5

Ma questo ci condurrebbe a una lunga maratona, data la “vaghezza” con cui tali autori adoperano il termine, in tutte le loro opere; e non solo in riferimento al “numero” ma, soprattutto, in riferimento alla cosiddetta “teoria delle idee” o delle “forme ideali”. Per cui ci conviene lasciar correre!

Aristotele nella molto ambigua, e perciò misteriosa, frase: c’è una pluralità…” sembra voler dire che per Platone i numeri preesistano all’atto stesso del pensare, anche se non allo stesso modo delle idee, data la pluralità che ha ogni numero in contrasto con la singolarità dell’idea.

Notiamo, a questo punto, che per Dedekind invece i numeri cominciano ad esistere proprio e solo in virtù dell’atto stesso del pensare, per cui dobbiamo ancora trovare il punto di congiunzione tra Platone e Dedekind e, soprattutto, tra Platone ed Euclide; dal momento che, dalla lettura dei suoi “Elementi”, quest’ultimo non sembra avere una concezione diversa da quella che Aristotele, attribuisce ai Pitagorici; per non menzionare il fatto che Peano, come si vedrà dai brani qui riportati in appendice, elucidando la teoria delle grandezze di Euclide, ne mostra una grande ammirazione e, nello stesso tempo, mostra che, per quanto c’è di vero, quella di Dedekind è indistinguibile da quella di Euclide; mentre, in altre occasioni, mostra di avere una non troppo alta stima di Platone, quantomeno per quanto riguarda la matematica, come abbiamo visto nella citazione che abbiamo riportato in nota3.

Ma vediamo quali erano gli intendimenti di Dedekind:

“considero il concetto di numero del tutto indipendente dalle rappresentazioni o intuizioni dello spazio e del tempo, e lo ritengo piuttosto una emanazione diretta delle leggi del pensiero”

E nel suo più famoso lavoro6 scrive:

“Finora di norma per introdurre i numeri irrazionali ci si richiamava diretta­mente al concetto di grandezza estensiva che però a sua volta non è mai stato rigorosamente definito e si definivano quei numeri come il risultato della misura­zione di una grandezza per mezzo di un’altra grandezza omogenea. Io invece credo che l’aritmetica si sviluppi da se stessa”.

Ecco il principale obbiettivo di Dedekind: svincolarsi dalle grandezze e, quindi, dalla fisica!

Personalmente, non ho mai capito questo imperioso desiderio dei matematici e dei logici a svincolarsi dalla fisica e di volere definire nominalmente ogni cosa. Il tentativo dei logici medioevali ha prodotto le interminabili discussioni sul sesso degli angeli.

Ma la storia è molto più antica!

Testimonia Porfirio:7

“Inoltre i Pitagorici dicono che Platone e Aristotele, Speusippo, Aristosseno, Senocrate, si appropriarono di tutto ciò ch’era fruttuoso nella dottrina e con poca fatica, mentre invece raccolsero insieme e aggiudicarono alla scuola pitagorica, come suo proprio, tutto quello ch’era superficiale e vano o tutto quello ch’era stato affer­mato da maligni calunniatori per dileggiare la scuola stessa”.

Per sapere a quale scopo fecero questo, forse, è utile leggere questa satira di Ateneo:8

“A. Che dire di Platone, e di Speusippo e Menedemo? a che attendono ora? quali cure, quale discorso è oggetto del loro investigare? Questo saggiamente, se qualcosa ne sai, dimmi, per la terra ... — B. So chiaramente che dire di loro: vidi infatti alle Panatee la schiera di quei giovani nei ginnasi dell’Accademia tenervi discorsi indicibili, assurdi. Dando definizioni sulla natura, separando la natura degli animali e quella delle piante e le specie dei vegetali. Poi fra questi la zucca presero in esame, di che genere sia. — A. E che definizione diedero del genere a cui appartiene la pianta? Spiegamelo, se lo sai. — B. Dapprima tutti, muti, stettero intenti e curvi e rifletterono per lungo tempo. Poi d’improvviso, mentre ancora erano curvi e investigavano i giovani, uno di loro disse che è un vegetale rotondo, uno ch’è verdura, un altro ch’è albero. Ascoltando ciò un medico venuto dalla Sicilia si rivoltò contro dicendo che deliravano. — A. Si adirarono allora per la derisione e gridarono? Far così in una riunione è sconveniente. — B. Non se la presero molto i giovani. Platone poi, ch’era presente, molto dolcemente e senza adirarsi, fece loro di nuovo la zucca dall’inizio esaminare per definirne il genere: ed essi procedettero alla divisione.”

Infatti, anche oggi, dopo la “grande svolta epistemologica” anche la matema­tica è diventata tassonomia; non si contano più gli “spazi”, sono innumerevoli le “geometrie” e di “assiomatiche” ne abbiamo a bizzeffe!

Il problema delle definizioni era oggetto di interminabili discussioni tra i discepoli di Platone; alcuni, come Speusippo, interpretando malamente le affermazioni dei Pi­tagorici, negavano in principio la possibilità stessa di poter definire alcunché, perché per definire qualcosa bisognava prima conoscere tutte le cose del mondo; altri, come Aristotele, sosteneva che ciò era invece possibile per successive dicotomizzazioni.

Sentiamo, in proposito, l’opinione dell’aristotelico Eustrato:9

“Ma poiché Speusippo sembra aver voluto sostenere con un ragionamento credibile il principio per cui tentava di distruggere dalle radici la scienza della definizione e dimostrava come sia impossibile definire alcunché, occorre non trascurare il suo discorso senza esaminano, come se fosse uno scherzo gettato là a intralcio del pro­cedere della scienza, ma rimuoverlo dal nostro cammino, con confutazioni basate sulla verità. Lo scopo del definire, egli dice, consiste nello stabilire l’essenza speci­fica dell’oggetto definito; e questo non potrebbe avvenire in altro modo se non col distinguerlo per mezzo del ragionamento da tutte le altre cose. Non potrebbe però fare queste distinzioni chi non conoscesse tutte le differenze nella loro singolarità. E non potrebbe conoscere tutte le differenze nella loro singolarità chi non conoscesse tutte le realtà individue. Perciò chi definisce qualcosa deve, in pari tempo, conoscere tutte le realtà individue. Ma è chiaro che deve necessariamente sapere le differenze dei singoli oggetti colui che voglia distinguerli gli uni dagli altri mediante definizione. Se non vi è differenza delle realtà individue fra di loro, non vi è alcuna differenza reciproca (è per la differenza che il differente è tale); se poi non vi è differenza re­ciproca, ne consegue che le realtà individue sono uguali l’una all’altra. Invece esse sono altre reciprocamente, e quindi la differenza esiste. Se esiste si deve poterla co­noscere: altrimenti non si saprà come le cose differiscano le une dalle altre, né alcuno potrà formulare un ragionamento che separi il medesimo dagli altri. E perciò, per poter definire qualcosa, bisogna conoscere tutte le cose. Questo è il ragionamento di Speusippo, mediante il quale sembra ch’egli negasse la stessa possibilità di definire”.

Dopo questa lunga disamina dei ragionamenti di Speusippo, Eustrato conclude rifacendosi all’autorità di Aristotele, il quale dice:

“…non occorre affatto che chi definisce e opera le divisioni conosca tutti gli oggetti reali. Senonché, affermano alcuni, è impossibile conoscere le differenze tra un oggetto e ciascuno degli altri oggetti, senza conoscere ciascuno di questi altri oggetti; ma non è neppure possibile conoscere tali oggetti, se non se ne conoscono le differenze rispetto all’oggetto in questione: due oggetti sono infatti identici, quando tra di essi non sussiste una differenza, e sono diversi, quando tale differenza sussiste. Ora, ciò anzitutto è falso, poiché due oggetti non risultano diversi in virtù di una qualsiasi differenza.” (Anal. Post., 97a, 7).

Come risolve Dedekind questo problema?

Già Kronecker gli aveva aperto la strada dichiarando che i numeri interi li aveva creati Dio e tutto il resto era stato creato dall’uomo; per cui, visto che c’era la possibilità di tali creazioni, Dedekind ha creato i numeri reali asserendone l’esistenza per “assioma” (ma, come si legge in Appendice, Peano nega che possa essere un assioma e, d’altra parte, non può essere una definizione; sembra che la sola possibilità che rimaneva a Dedekind era la “creazione dal nulla”, a immagine e somiglianza di Dio); ma Cantor lo ha superato “creando” i numeri transfiniti, d’allora in poi, le “creazioni” non si contano più.

Ma vediamo cli capire gli assunti metafisici che stanno alla base delle varie po­sizioni che, come abbiamo visto, sono vecchie quanto il mondo.

Per far questo ci serviremo dell’ideografia di Peano.

Con il termine “differenze” (διαφοράί) deve intendersi “proprietà, classe, nome comune…”, con il termine “realtà individue” (‘έχαστον) deve intendersi “individui”.

La relazione tra individuo e proprietà è ideografata con x Î a, dove x è l’individuo, a la proprietà, Î (è un) è la relazione esistente tra i due concetti.

Dato un gruppo di proprietà si può generare tutto un “reticolo” di proprietà,10 ordinate dalla relazione di inclusione É . Gli “atomi” del reticolo (cioè le proprietà che si riferiscono a un singolo individuo) sono da Peano chiamati “elementi” e in­dicati con ι x . Usando la terminologia di Leibniz, il ragionamento di Speusippo si può rendere nel seguente modo: Non si può costruire una proprietà mediante la sua “estensione”, cioè a partire dagli “individui” x, in quanto questi sono cono­sciuti solo quando ne conosciamo gli “elementi” ι x, cioè per “intensione”; ma per conoscere gli “elementi” occorrerà conoscere tutte le proprietà del reticolo, che sole le possono rendere, per “intersezione logica”; ma, per conoscere tutte le proprietà, per l’ipotesi che abbiamo fatto che esse sono conosciute solo mediante gli individui, dobbiamo conoscere tutti gli individui e così abbiamo chiuso un circolo vizioso. Se ne deve concludere che gli individui non sono definibili e, si potrebbe aggiungere, devono esistere autonomamente nel mondo iperuraneo delle idee. Fiat individuum et individuum fuit.

Aristotele si limita a dire che tale ragionamento è erroneo dichiarando la falsità dell’assunto, in quanto gli sembra evidente il contrario; ma, come sempre, non offre alcuna spiegazione alternativa, anche perché non riesce a vedere la differenza tra “individuo” ed “elemento” e continua a frullare dei termini scarsamente definiti come: “principio, sostanza, essenza, sostrato, causa, idea, forma, ecc.. Infatti:

“Ci sono, però, alcuni che, come i Pitagorici e Speusippo, ritengono che il bello e il bene, nel loro sommo grado, non risiedano nel principio, perché a loro avviso, i principi delle piante e degli animali sono cause, mentre la bellezza e la perfezione risiedono soltanto in ciò che dai principi viene prodotto. Ma siffatte credenze sono errate. In realtà, il seme proviene da altri esseri anteriori che sono già perfetti, e la prima cosa non è affatto il seme, ma ciò che è già perfetto; così, ad esempio, si può dire che anteriore al seme è l’uomo, non, però, quello che proviene dal seme, bensì un altro da cui il seme stesso proviene.” (Metafisica 1072b, 30 e sg.).

Sistematicamente Aristotele, quando parla dei Pitagorici, si riferisce al ritratto che di loro fanno i Platonici, che si dicono i loro veri continuatori, e li contesta con una miscela esplosiva di empirismo estremo e di estremo razionalismo. Intuisce che oltre l’uomo prodotto dal seme c’è qualche cosa d’altro, ma non riconoscendo che quest’altro è il “concetto di uomo”, o proprietà di essere uomo che dir si voglia, fa derivare dal concetto di uomo il concetto di seme, come dire che il nome del seme deriva dal nome dell’uomo.

La filosofia dei Pitagorici, invece, è sommamente dialettica (nel senso moderno del termine): non esistono le idee nel mondo iperuraneo, non esistono le cose nel mondo delle sensazioni, le idee sono, semplicemente, la nostra ricostruzione razionale (= logica = matematica) del mondo, il quale ci bombarda con innumerevoli sensa­zioni informi. Senza le sensazioni non possono esistere le idee (= cose), senza le idee (= cose) non potrebbero esistere i numeri, il mondo e le cose non sono separati, le cose sono i numeri stessi.

Ecco, dopo le conseguenze disastrose delle diatribe tra platonici ed aristotelici, che hanno portato alle elaborate teorie sul sesso degli angeli, sono arrivati i vari Keplero, Galilei, Cavalieri, Newton, ecc., che sono ritornati agli antichi, attraverso il grande Archimede.

Ma, come si sa, il bello dura poco; e così sono venuti fuori i vari Dedekind, Cantor, Hilbert, ecc. che ritornano a Platone e ad Aristotele, senza però ricono­scerlo; come, invece, fecero i primi con l’esternare la loro profonda riconoscenza ad Archimede.

La ricostruzione ideografica di molti libri degli Elementi di Euclide, fatta dal Peano, si ispira a questa più antica, e più autenticamente scientifica, filosofia:

“la determinazione dei postulati fondamentali, si può fare seguendo la solita via. Si scrivano tutte le proprietà che risultano dall’osservazione del moto fisico. Si scindano queste proposizioni in tante affermazioni semplici; e poi si esamini quali di queste affermazioni sono già implicitamente contenute nelle rimanenti. Procedendo avanti in questo esame, finché sarà pòssibile, troveremo un gruppo di affermazioni esprimenti verità irriduttibili tra loro, e che costituiscono i postulati del moto.” (Opere Scelte, vol. III, p. 142).

Ecco risolto ogni problema di definizione, di assiomatizzazione e di dimostra­zione.

Separando tra loro matematica e fisica, logica e filosofia, si può solo parlare del sesso degli angeli.

Ma leggiamo ora direttamente il commento di Peano all’opera di Dedekind con­siderata in relazione all’opera di Euclide.

E curioso notare che nel Formulario Mathematico, dove Peano e collaboratori con incredibile pignoleria registrano accanto ad ogni formula l’autore che ne viene accredidato come il primo scopritore, non compare invece assolutamente il nome di Dedekind, mentre si dà credito a Cantor della definizione di potenza (= cardinalità); ma la ragione di ciò emerge chiaramente dai passi riportati in Appendice.

Ma, per concludere questa mia breve introduzione, cercherò di rispondere alla mia domanda iniziale. E’ Dedekind un platonico? Lo è Euclide?

Se per “platonico” si intende colui che pensa che abbia o possa avere “esistenza ontologica” qualcosa oltre il sensibile allora Dedekind è certamente un platonico, ma Euclide non lo è perché quest’ultimo si limitava all’asserzione di una “esistenza logica” come chiarita da Parmenide e come in tutta la tradizione Italica, come rico­nosciuto dallo stesso Aristotele.

Se si restringe l’estensione dell’aggettivo, escludendo gli atti di creazione da parte degli uomini, allora Dedekind non lo è; e nemmeno sarebbe classificabile nel novero dei mistici, in quanto questi usano riservare le creazioni solo a Dio.

 

NOTE

1.       Tratto da T. Viola, Introduzione alla teoria degli insiemi, Boringhieri, 1965, p. 124 TORNA

2.       “Noi siamo di stirpe divina e certamente abbiamo facoltà di creare non soltanto cose materiali (ferrovie, telegrafi), ma  tipicamente cose mentali” da una lettera di Dedekind a Weber, in J.W.R. Dedekind, Scritti sui fondamenti della matematica, a cura di F. Gana, Bibliopolis, 1982). TORNA

3.       “Non è qio il caso di esporre ampiamente una veduta che a nostro avviso è difficilmente confutabile: l’affermazione che il pensiero filosofico che è stato presente a Euclide nella coposizione dei suoi Elementi è quello di Platone soprattutto. La tradizione, d’altra parte, dipinge Euclide come un platonico…” tratto da A. Frajese, Attraverso la storia della matematica, Le Monnier, 1977, p. 106. A leggere questo libro uno riceve l’impressione che la matematica sia una creazione di Platone, restavano solo i numeri da creare e ci ha pensato Dedekind! Ma c’è stato qualcuno che ha avuto l’ardire di mettere in dubbio questa “veduta difficilmente confutabile”: “Alcuni autori attribuiscono a Platone degli studi sugli irrazionali (Baltzer, Elem. D. Mathem. A. 1885 p. 100; Encyclop. p. 49). Invero nei dialoghi di questo filosofo trovansi qua e là dei termini matematici, ma riuniti in modo così incerto da farli ritenere come parole difficili con cui un interlocutore cerca confondere l’avversario; all’incirca come nei giornali politici del giorno d’oggi sta scritto incommensurabile invece di grandissimo. Il passo più volte citato, nella Πολιτεία  VIII  546 è considerato dai commentatori Jowett and Campbell, Oxford a. 1894, come un riddle. Al più da un passo del Θεαίτήτος 143 E, si può dedurre, e ciò parmi la cosa più importante contenuta in quelle opere su questo soggetto.”, G.Peano, Opere Scelte, vol. III, Ed. Cremonese, Roma, 1958, p. 249. Ma come si è permesso Peano di scrivere tali cose! Con quale autorità!  TORNA

4.       Si leggano gli incredibili giudizi tranciati da C. Mangione nella Storia del pensiero…di Geymonat, sui quali ho già avuto modo di commentare sul n. 4-5 dei Quaderni di Mondotre. TORNA

5.       “…i cosiddetti Pitagorici si dedicarono per primi alle scienze matematiche, facendole progredire; e poiché trovarono in esse il loro nutrimento, furono del parere che i principi di queste si identificassero con i principi di tutte le cose…credevano di scorgere in quelli, più che nel fuoco o nella terra o nell’acqua, un gran numero di somiglianze con le cose che esistono…e, insomma, pareva loro evidente che tutte le altre cose modellassero sui numeri la lro intera natura e che i numeri fossero l’essenza primordiale di tutto l’universo fisico;” (Metafisica 985b, 23 – 35); “A certuni sembra che i limiti del corpo – ossia la superficie, la linea, il punto e la monade – siano sostanze, e lo siano persino in modo più autentico che non il corpo o il solido.” (Metafisica 1028b, 16 – 18). TORNA

6.       Stetigkeit und irrazionale Zahhlen (vedi a pag. 68 del citato libro a cura di Gana); la citazione precedente si trova a p. 79-80.  TORNA

7.       Porph. Vita Pythag. 53, p. 46, riportato in Speusippo – Frammenti, a cura di M. Isnardi Parente, Bibliopolis, 1980, p. 145.  TORNA

8.       Athen. Deipnosoph. II 59 d-f, riportato in Speusippo …, p. 145.  TORNA

9.       Eustrat. Arist. Anal. Post., p. 202. Riportato in Speusippo …, p. 151.  TORNA

10.   Vedi l’articolo sui Presocratici di Notarrigo nel numero 4-5 dei Quaderni di Mondotre.  TORNA

 

 

APPENDICE

 

G. Peano: Definizione dei numeri irrazionali secondo Euclide

(Traduz. dall’interlingua, originale in Boll. Mathesis, VII, Aprile, 1915, p. 31).

 

 

Euclide espone le proprietà dei numeri irrazionali in parecchi suoi libri; in par­ticolare nel libro X. La trattazione comincia nel libro V. Trascrivo la definizione N. 5, con traduzione interlineare.

I vocaboli composti “se-dic . . . de-singulo” corrispondono ad un solo vocabolo nell’originale greco. La traduzione latina di Heiberg (editore Taubner) sopprime i vocaboli “per quoqumque multiplicato singulo de-singulo” [per qualunque moltiplica­zione termine a termine]. Nessuna traduzione può essere del tutto fedele. Bisogne­rebbe leggere i libri in originale; la traduzione può solo aiutare nella lettura.

Diamo ora alla proposizione precedente una costruzione simile a quella delle lingue neolatine; otteniamo:

“Si dice che, date quattro grandezze, il rapporto tra la prima e la seconda è uguale al rapporto tra la terza e la quarta, quando presi i multipli della prima e della terza secondo un numero arbitrario, e i multipli della seconda e della quarta secondo un altro numero arbitrario, se i multipli della prima sono maggiori, uguali o minori dei multipli della seconda, allora rispettivamente i multipli della terza sono maggiori, uguali o minori della quarta”.

Se usiamo i simboli algebrici e scriviamo la proposizione sotto la forma a/b = c/d, otteniamo:

“Date quattro grandezze a, b, c, d, si dice che a/b = c/d quando, scelti ad arbitrio due numeri m, n, si ha che se ma > nb allora mc > nd; se ma= nb allora mc = nd; se ma <nb allora mc < nd”.

Usiamo ora i simboli della logica matematica, che oggi sono di uso internazionale, per opera di Couturat in Francia, di Russell e Whitehead in Inghilterra, di Huntington e di Moore in America.

Tali simboli sono:

Î, che indica la proposizione individuale,

É, che indica la proposizione universale o deduzione.

La definizione di Euclide assume la forma:

a, b, c, d Î grandezza . É \  a/b =c/d=:

m,n Î numero        .ma > nb.  Ém,n  .mc > nd :

                           .ma = nb.  Ém,n  .mc = nd :

                           .ma < nb.  Ém,n  .mc < nd .

I tre punti \ dividono la proposizione in tre parti; la prima parte consta delle ipotesi “a,b,c,d sono grandezze” e del segno di deduzione É “implica”.

La seconda parte è un’uguaglianza separata da due punti (:) nel primo mem­bro abbiamo a/b = c/d e il segno uguale sta per “significa”. Il secondo membro è l’asserzione simultanea di tre proposizioni separata dai :, mentre le singole propo­sizioni sono separate da punti semplici, “se m, n sono numeri e se ma > nb, allora per ogni m, n, si ha mc> nd”.

Nell’ultima espressione della definizione di Euclide compaiono i due termini “grandezza” e “numero”. Il termine “numero”, traduzione del greco ’αριθμός, signi­fica quello che oggi si chiama “numero intero positivo” indicato nel Formulario mathematico con il segno N (N1). Euclide non usa i termini  equivalenti  al nostro  “numero  razionale”;    ma  scrive   sempre  λόγος  ‘όν  πρός  ’αριθμόν  ’έχει  “rapporto di un numero ad un altro numero”; in simboli N/N.

Né Euclide usa il termine “numero reale (razionale o irrazionale)”; ma parla sempre di rapporto tra due grandezze. Le grandezze di cui se ne considera il rapporto sono omogenee; la condizone di omogeneità viene data da Euclide nella definizione 4, che precede quella da noi considerata.

Quindi se al posto di ma > nb scriviamo a/b > n/m, se al posto di a/b e c/d scriviamo x e y, e al posto di n/m scriviamo z; risulta che x e y sono quantità reali (Q nel Formulario), e z è un numero razionale (R nel Formulario). La definizione assume ora la forma:

x, y Î Q . É \  x = y  . =:  z Î R . z < x. Éz  .z < y :

                                                 . z = x. Éz  .z = y :

                                                 . z > x. Éz  .z > y :

 “Si dice che due numeri reali x e y sono uguali, se ogni numero razionale z minore di x è anche minore di y; e ogni razionale maggiore di x è maggiore di y; e se da z = x risulta anche z = y”.

E, più brevemente:

“Due numeri reali (irrazionali) sono, per definizione, uguali quando ogni numero razionale minore del primo è minore del secondo e viceversa”.

o

“quando la classe dei numeri razionali minori del primo coincide con la classe dei razionali minori del secondo”.

In logica matematica si usa il segno ', per indicare l’operazione inversa di Î. Il segno ∩ significa “e”. Quindi R z ' (z < x) significa “z è razionale e tale che z < x”.

Quindi la definizione di Euclide assume la forma:

x, y Î Q . É :  x = y  . = . R z ' (z < x) = R z ' (z < y)

come scritta nel Formulario mathematico, Ediz. V, 1908, pag. 105, Prop. 2.1.

Quindi ogni numero reale x separa i razionali in due classi, i razionali minori di x, e i razionali maggiori di x. Tale separazione viene chiamata sezione (Schnitt in Dedekind, 1872). Euclide assume per definizione che due numeri reali sono uguali, quando vi corrisponde l’identica sezione di razionali.

Delle due classi di razionali è sufficiente considerare solo la prima; dal momento che la seconda non è altro che la complementare della prima. La prima classe, cioè la classe dei razionali minori di un numero reale dato, è chiamata “segmento” (Strecke in Pasch, 1872). Per cui Euclide, in sostanza, dice che due numeri reali sono uguali quando sono l’estremo dello stesso segmento.

Quello che abbiamo scritto sopra è la pura e semplice traduzione della definizione di Euclide. Noi ci siamo limitati a tradurre dal greco in interlingua e dal linguaggio matematico di quel tempo in quello di oggi.

Quello che non si trova in Euclide è l’affermazione dell’esistenza degli irrazionali. Euclide considera solo quegli irrazionali che vengono fuori da qualche costruzione geometrica, cioè per ripetute estrazioni di radici quadrate; l’esistenza delle grandezze ci viene assicurata dalla geometria.

In Euclide non si trovano proposizioni del tipo:

“Ad ogni sezione di razionali corrisponde un numero reale”,

o  “ogni segmento di razionali ha un limite superiore razionale o irrazionale”,

o “ogni frazione decimale illimitata rappresenta un numero reale”, ecc. ecc.

Le proposizioni esistenziali precedenti, che si scrivono dopo l’introduzione della teoria dei numeri razionali, contengono l’idea, non precedentemente definita, di “nu­mero reale irrazionale” e, quindi, non possono essere considerati dei postulati, i quali sono relazioni tra idee che si suppongono già note.

Nè possono essere definizioni, poiché non hanno la forma:

numero reale = espressione composta con idee già introdotte…

 

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G. Peano: Sui fondamenti dell’analisi

(Tratto da: Bollettino Mathesis, II, Giugno 1910, p. 31)

 

 

... Uno dei punti più controversi, e a cui mi limiterò, è l’introduzione delle varie specie di numeri, naturali, negativi, fratti, irrazionali e immaginarii. E qui fini­sce; poiché le definizioni dei varii numeri complessi, quaternioni e sostituzioni, non presentano più difficoltà.

La difficoltà nella definizione di questi varii enti è in parte linguistica. Introdotta la parola numero, come versione dell’ ’αριθμός di Euclide, o numero naturale, la frase numero primo indica e in grammatica e in matematica, una classe di numeri, come uomo bianco indica una classe di uomini. Invece la seconda frase numero negativo, non indica una classe di numeri, secondo la grammatica, ma bensì una classe più ampia di quella dei numeri. Qui l’aggettivo non restringe la classe cui si applica, ma la dilata. Così numero razionale indica una classe non contenuta, ma contenente la seconda, e numero reale indica una quarta classe più ampia della terza. Questa nomenclatura, contraria all’uso comune, non si trova in Euclide, quantunque i più interessanti calcoli sugli irrazionali vi siano sviluppati. Essa è abbastanza recente. In conseguenza si volle per forza che la frase «numero negativo» indicasse un numero, e così si fabbricò il «principio di permanenza» dall’HANKEL nel 1867.

Vediamolo in azione. Si sogliono premettere le proposizioni, su cui non cade alcun dubbio:

Non esiste alcun numero (della serie 0, 1, 2, ...) che aggiunto a 1 dia per resultato 0.

Non esiste un numero (intero), che moltiplicato per 2 dia 1.

Non esiste numero (razionale), il cui quadrato sia 2.

Non esiste numero (reale), il cui quadrato sia —1.

Allora si dice: per ovviare siffatto inconveniente, noi estendiamo il concetto di numero, cioè introduciamo, fabbrichiamo, creiamo, (wir erschaffen, dice DEDEKIND), un nuovo ente, un nuovo numero, un nuovo segno, un Zeichen - Verknüpfung, ecc., che diremo -1 o 1/2, o , o , che soddisfi alle condizioni imposte. Cioè:

-1   = quel numero x tale che ,

1/2   =                                ,

  =                               ,

=                               .

Se nel secondo membro, per numero si intende ciò che fino a quell’istante ha quel nome, gli enti considerati sono contraddittorii in sé; quindi si sono dati varii nomi all’ente non ente. Ovvero nel secondo membro per numero s’intende un nuovo ente, e allora resulta definito l’ingnoto per l’ingnoto; e il dire che esso è «ganz verschieden von allen Zahlen», dice ciò che esso non è, e non ciò che è. È poi naturale il domandarsi, perché qui si creano nuovi enti, e in altri casi di impossibilità, no. Non esiste il massimo numero primo; per la generalità dell’aritmetica, fabbrichiamo un numero primo ideale, maggiore di tutti i numeri primi. Due rette parallele non hanno punto euclideo comune, e si imagina il punto all’infinito; due rette sghembe non hanno punto comune; per togliere tutte le eccezioni attribuiamo loro un punto transinfinito comune. «Ecquis risum teneat», dice GAUSS a proposito di questa introduzione degli immaginarii. «Hoc esset verbis ludere seu potius abuti».

 

Il principio di permanenza pervenne al suo apogeo con SCHUBERT, nella «Enciclopädie der Mathematischen Wissenschaften», il quale afferma che si deve «beweisen dass für die Zahlen in erweiterten Sinne dieselben Sätze gelten, wie für die Zahlen in noch nicht erweiterten Sinne».

 

Ora se tutte le proposizioni che valgono pegli enti di una categoria, valgono pure per quelli di una seconda, le due categorie sono identiche; quindi, se si potesse provare ciò, i numeri fratti saranno interi. Nell’edizione francese dell’«Encyclopédie», le cose furono messe a posto. Si dice che si deve essere «guidé par le souci de conserver autant que possible les lois formelles». Così il principio di permanenza acquista il valore di un principio non di logica, ma di pratica, e della massima importanza nella scelta delle notazioni. Precisamente fondandosi su questo principio, caso particolare di quello che il MACH chiamò principio dell’economia del pensiero, i proff. BURALI-­FORTI e MARCOLONGO riuscirono a districare l’arruffata matassa delle notazioni del calcolo vettoriale, ove tutto era arbitrario, e molti credono ancora che le notazioni siano necessariamente arbitrarie.

 

Gli enti prima considerati -1, 1/2, , , si possono definire, cercandoli in una categoria nota che li contenga. Risultano per astrazione, ovvero come operazioni.

 

 

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G. Peano: Sulla definizione di limite

(Tratto da: Atti della Reale Acc. delle Scienze di Torino, Vol. XLVIII, A. 1912-13, p. 750)

 

 

Ogni numero reale produce nella classe dei razionali una sezione, o Schnitt dei matematici tedeschi, o coupure dei francesi; dice la definizione Euclidea, che due numeri reali sono eguali, se ad essi corrisponde la stessa sezione.

Perciò la sezione dei numeri razionali, che individua un numero reale, popola­rizzata da Dedekind nel 1872, che però già si trova in trattati precedenti, si può far rimontare ad Euclide.

Ciò che manca in Euclide, è l’affermazione che ad ogni sezione corrisponde un numero reale esistente. E ciò non si trova mai in Euclide, poiché le grandezze che egli considera sono tutte costruibili con riga e compasso. Quindi Dedekind dice che se non esiste il razionale che produce quella sezione, noi creiamo «wir erschaffen» un nuovo numero che ha quelle proprietà.

Questa creazione di nuovi numeri presenta delle difficoltà. Alcuni autori am­mettono la proposizione esistenziale precedente come un postulato, che alcuno, e a torto, chiama postulato di Dedekind. Ma questa proposizione esistenziale contiene l’ente nuovo «numero reale» che si vuol definire; e perciò ha i caratteri d’una de­finizione. E alcuni autori la chiamano definizione, e scrivono «noi conveniamo che...». Ora essa non ha la forma d’una definizione, poiché non è un’eguaglianza il cui primo membro è il segno nuovo, che si definisce, ed il secondo è un gruppo di segni noti. ...