Le
implicazioni filosofiche del concetto di numero
(Con un saggio
di Peano, in Appendice)
“Da tempo immemorabile la filosofia s’è posta la domanda: che cos’è un
numero naturale? Tale domanda è oggi viva non meno che nel passato, poiché
nessuna delle molte risposte che si è tentato di darle può dirsi
pienamente soddisfacente”.1
È proprio
vero!
Fin dall’antichità si sono
avute infinite discussioni sull’“essenza”
dei numeri.
Anche oggi, con una
frequenza che non accenna a decrescere, si scrivono libri su libri che
riguardano l’argomento. Ma con una profonda differenza rispetto al passato: in
tempi meno recenti si potevano registrare diverse concezioni dei numeri e si
scrivevano libri ed articoli di riviste dove i vari autori vi esponevono le
proprie idee in aperta polemica tra di loro; quindi, indipendentemente dal
giudizio che si voglia dare sulle diverse proposte filosofiche, si può
certamente dire che tali autori facevano un lavoro creativo, se non altro, al
fine di trovare la loro risposta “pienamente
soddisfacente”, cioè in accordo con la propria personale visione del mondo;
oggi, invece, sembra che tutti i nuovi scrittori si ritrovino d’accordo nel
proclamare che le idee di Dedekind e di Cantor si sono affermate per la ragione
che, a parte piccoli dettagli, costoro rappresentano il pensiero più maturo e
coerente che, finalmente, ha sistemato le cose, rimaste immutate per millenni
dopo Euclide; il quale ultimo, a loro dire, le aveva sì messe in una pregevole
forma, ma ancora per qualche verso difettosa; solo con la nuova concezione dell’“assiomatica” si son potuti mettere
in chiaro tali difetti.
Poiché tale pretesa
chiarezza dell’assiomatica moderna non è mai riuscita a farmi capire, non dico l’“essenza” dei numeri, ma nemmeno a
cosa mai potessero servire e, pensando che ciò fosse dovuto al fatto che i vari
autori che andavo leggendo non erano sufficientemente esaurienti, anche a
ragione della mia formazione prevalentemente filosofica, ho continuato a
inseguire questi vari dossografi moderni nei loro difficili discorsi; finché,
un bel giorno, mi sono chiesto: ma, se la cosa ormai è così assodata e così
chiara, perché mai tutta questa profusione di libri che sembrano dire la stessa
cosa? e perché il lettore, alla fine, ne sa meno di prima?
Dopo qualche riflessione mi
son convinto che i numeri erano solo il pretesto perché ognuno potesse
proclamare la propria metafisica senza, peraltro, dirlo molto chiaramente, in
modo da non far scoprire il trucco; scoperta che, ovviamente, avrebbe potuto
far crollare tutto il castello di parole “difficili”,
mettendo in chiara evidenza, alla fine, la banalità della “cosa in sé”.
Sia Euclide, sia Dedekind
sono stati ora elogiati e ora rimproverati per il loro presunto platonismo
(naturalmente a seconda dei punti di vista dei vari critici).
Avevo letto che Dedekind ha
separato i numeri dalle grandezze e li ha qualificati come libere “creazioni” dell’intelletto umano (ho,
in seguito, verificato che tali affermazioni appartenevano allo stesso
Dedekind, che parlava di eine freie
Schöpfung).2
Mi son chiesto: ammesso che
tale separazione sia possibile, senza aver prima concretamente sperimentato con
la realtà fisica, basterebbe tale “creazione”
per ricevere la qualifica di platonico? Riandando alle mie antiche letture
di Platone e di Aristotele, mi pareva che si dovesse qualificare il Dedekind
come anti-platonico, dal momento che Platone, e questo viene confermato dal suo
allievo Aristotele, dava i numeri come già esistenti, anche se a mezza strada
tra il mondo sensibile e quello iperuraneo, per cui non avrebbero avuto bisogno
di alcuna creazione.
Secondo l’interpretazione di
Peano, leggendo Euclide (e io penso che lo stesso valga per Pitagora e per
Archimede), i numeri ci si presentano come semplici rapporti di grandezze
omogenee a una comune grandezza assunta come unità di misura. Se così fosse la
filosofia di Euclide rappresenterebbe l’esatto contrario di quella di Platone e
anche di quella di Dedekind, per quelle cose che quest’ultimo possa avere in
comune con Platone, e tuttavia si legge, anche, che lo stesso Euclide era un
platonico.3
Ho concluso che il concetto di
numero non è questione che riguardi la scienza, sia pur essa la matematica, ma
la metafisica; per cui ho pensato che il problema fosse alla mia portata e così
ho cercato di capire, intanto, le polemiche avutesi, nell’antichità, in merito
alla questione. Anche perché ho intuito che la sostanza della questione è molto
più importante di quanto si possa pensare a prima vista; ciò in quanto tale
problematica coinvolge questioni essenziali e di grande rilevanza sociale e
politica, e cioè il rapporto tra la matematica e le altre scienze e quindi il
rapporto tra queste e la società.
Questo spiegherebbe il fatto
che, ancora oggi, si stampano valanghe di libri divulgativi in cui vengono
magnificate le conquiste della scienza moderna, le quali vengono, invariabilmente,
attribuite a questo miracoloso cambio di paradigma registratosi in seguito
alle meno antiche battaglie svoltesi a cavallo tra i due ultimi secoli.
Nelle molte chiacchiere che
oggi si ripetono, con uniforme ossessività (tali da stomacare anche il più ben
disposto lettore, al sentire che finalmente si è trovata la “verità”), viene asserita la “necessità” di tale “nuova” concezione, la quale è tardata a venire solo a causa della
resistenza opposta dai pregiudizi di scienziati filosoficamente ritardatari; e,
tra questi, viene spesso annoverato il Peano insieme a tutta la sua scuola.4
Per cui, la maggior parte
dei filosofi moderni tende a sottovalutare i contributi che tale scuola ha
dato, anche a livello puramente filosofico, in relazione ai fondamenti della
matematica.
Ma, a ben guardare, si
scopre che le cosiddette “nuove
frontiere” della matematica non sono tanto nuove, visto che dagli stessi
divulgatori si fanno risalire a Platone e ad Aristotele.
Dopo qualche fatica mi è sembrato
di essere riuscito a mettere un po’ d’ordine nelle mie idee e ho sentito la
necessità di parteciparle ad altri, cogliendo l’occasione di una decisione, già
da molto tempo presa, di andare pubblicando sui Quaderni di Mondotre alcuni
significativi brani, tratti dalle opere di Peano, che oggi non sono più
facilmenti reperibili per lo studioso non specialista, il quale volesse
rimeditare autonomamente su tali questioni, che oggi, invece, vengono date
come definitivamente risolte dalla miracolosa scienza del Novecento.
(ovvero del numero ideale e del numero matematico).
La prima cosa che val la
pena chiarire è il rapporto tra Platone e la tradizione pitagorica.
Su tale problema le opinioni
sono molto discordi, stante la difficile interpretazione delle fonti. Come è
stato riportato nella nota3, dalle opere di Platone ben poco se ne
può cavare; e poiché Proclo è massimamente inaffidabile, non ci resta che
rivolgerci al giudizio del discepolo stesso di Platone e, cioè, Aristotele:
“La dottrina di Platone, la quale per molti aspetti si ricollega alle
dottrine pitagoriche, possiede anche una propria originalità, che la separa
dalla filosofia degli Italici ...”
(Metafisica 987a, 30-32);
“Platone ha introdotto, come cosa nuova, soltanto il termine partecipazione, giacché mentre i Pitagorici asseriscono che le cose
esistono per imitazione dei numeri, egli dice che
esistono per partecipazione, limitandosi a cambiare solo il nome. Ma di qual natura fosse mai
l’imitazione o partecipazione
delle forme ideali, è una questione che essi hanno lasciata insoluta. Platone
aggiunge ancora che, oltre gli oggetti e
le forme ideali, esistono,
come qualcosa di intermedio, le entità matematiche, le quali differiscono dalle
cose sensibili, perché sono eterne ed immobili, e differiscono dalle forme ideali perché c’è una pluralità di enti
matematici che si somigliano, mentre ogni forma ideale è di per sé unica,
individuale e singolare ...” (Metafisica 987b, 10-19);
..... egli [Platone] afferma che i
numeri esistono al di fuori degli oggetti sensibili, mentre i Pitagorici
sostengono che gli stessi oggetti sono numeri, e non pongono gli enti matematici come qualcosa di intermedio tra forme e
oggetti sensibili. La concezione della
trascendenza dell’uno e dei numeri rispetto alle cose — concezione diversa da
quella dei Pitagorici — e l’introduzione della dottrina delle idee
furono il risultato delle sue ricerche di carattere logico ...”(Metafisica 987b, 28-32).
Da questi brani aristotelici
sembra emergere che, secondo lo Staginita, Platone si distacca dalla concezione
pitagorica dei numeri, almeno in un punto; e cioè nel concepire una diversa
relazione tra i numeri e le cose sensibili.
Anche se, polemicamente,
Aristotele fa finta di sottovalutare le differenze tra le due concezioni che
(secondo le sue parole) si ridurrebbe ad un semplice cambiamento di nome,
quando non si definisca esattamente il significato di imitazione e partecipazione,
tuttavia nota che, alla divisione aristotelica tra oggetti e forme ideali,
Platone vi sistema nel mezzo le entità matematiche.
Certo per Aristotele era
assurdo, come in altri passi delle sue opere afferma, identificare i numeri con
le cose come, ingenuamente a suo giudizio, facevano i pitagorici, ma ben più
assurda era la pretesa platonica di triplicare le cose; ad Aristotele bastava
il semplice sdoppiamento.
Le tre concezioni, qui
delineate, hanno un’enorme rilevanza in merito al rapporto tra scienza e mondo
reale.
Nella filosofia degli Italici,
dalla quale Platone si distacca, il mondo sensibile è mera apparenza,
semplicemente Caos, la vera realtà coincide con la nostra ricostruzione
razionale, effettuata con procedimenti puramente logici e matematici. Quindi i
numeri, in quanto rapporti tra grandezze, sono la “realtà” stessa. Oltre tali rapporti non c’è e non ci può essere
nient’altro che non siano le informi e mutevoli sensazioni, sulle quali niente
si può dire se non cantare le oscure odi eraclitee.
Platone assegna loro tre distinti
gradi di realtà, gerarchicamente sistemati: in alto il mondo delle idee,
ineffabile; in basso il mondo sensibile, volgare; nel mezzo la matematica che
però non serve per capire il mondo sensibile che, d’altronde, non merita tale
attenzione, ma solo per sollecitare il ricordo del mondo iperuraneo della
perfezione assoluta.
Per Aristotele, invece, la
vera realtà coincide con il mondo dei sensi, i nomi delle cose, li inventiamo
noi per classificare le nostre esperienze e, anche se li usiamo in molti sensi,
essi ne hanno uno proprio che si identifica con 1’“essenza” della cosa.
“Ora, tra gli oggetti di cui si dà la definizione — ossia
tra le essenze — ce ne sono alcuni che si presentano nello stesso modo del camuso, altri
nello stesso modo del concavo. E la differenza tra questi due gruppi di cose
sta nel fatto che il camuso viene concepito insieme con la materia (giacché il
camuso è un naso curvo), mentre il concavo prescinde dalla materia sensibile.
Se, allora, tutti i termini fisici sono usati in un’accezione simile a quella
di camuso — ad esempio, naso, occhio, viso, carne, osso
e, in genere, animale, oppure foglia, radice, corteccia e, in genere, pianta (e in realtà ciascuna di queste cose non può essere definita ove si
prescinda dal movimento, e quindi possiede sempre una materia) —, risulta
allora evidente il modo in cui si deve ricercare l’essenza e formulare la definizione
nell’ambito delle cose naturali e per quale motivo rientri nel compito del
fisico estendere l’indagine anche su certi aspetti dell’anima che non siano
concepibili come indipendenti dalla materia.” (Metafisica 1025b, 31-37;
1026a, 1-7).
Sarebbe inutile chiedere ad
Aristotele cos’è mai tale essenza. Se
ne uscirebbe con altre parole il cui significato riuscirebbe ancora più oscuro;
ma, in ogni caso, egli rifiuta ogni intermediario tra parole e cose e non vede
alcuna necessità di creare un mondo a parte per le entità matematiche. Esse di
per sé stesse sono forme ideali perfette e, in quanto tali, non possono
applicarsi alle cose terrene (“...gli enti matematici, tranne quelli che hanno a che fare con l’astronomia,
sono privi di movimento” — Metafisica
989b, 31). Ma su questo punto si ritrova d’accordo con Platone.
Ma è proprio questo punto che segna il distacco profondo tra i pitagorici, da un lato, che sostengono l’unità di essere e di pensiero e, dall’altro lato, la molteplicità dei mondi (trina o bina che sia) di Platone e di Aristotele.
Ed è su questa fondamentale
discriminante che, nel corso dei secoli, si e manifestata la battaglia sulla
concezione della scienza.
Naturalmente sarebbe
importante capire il significato che Platone e Aristotele attribuiscono al
termine “esistenza” (risultando,
invece, chiaro il significato che gli attribuiscono gli Italici, come
sottolinea lo stesso Aristotele).5
Ma questo ci condurrebbe a
una lunga maratona, data la “vaghezza” con
cui tali autori adoperano il termine, in tutte le loro opere; e non solo in
riferimento al “numero” ma, soprattutto,
in riferimento alla cosiddetta “teoria
delle idee” o delle “forme ideali”. Per
cui ci conviene lasciar correre!
Aristotele nella molto ambigua, e perciò
misteriosa, frase: “c’è una
pluralità…” sembra voler dire che per Platone i numeri preesistano all’atto
stesso del pensare, anche se non allo stesso modo delle idee, data la pluralità
che ha ogni numero in contrasto con la singolarità dell’idea.
Notiamo, a questo punto, che
per Dedekind invece i numeri cominciano ad esistere proprio e solo in virtù
dell’atto stesso del pensare, per cui dobbiamo ancora trovare il punto di
congiunzione tra Platone e Dedekind e, soprattutto, tra Platone ed Euclide; dal
momento che, dalla lettura dei suoi “Elementi”,
quest’ultimo non sembra avere una concezione diversa da quella che
Aristotele, attribuisce ai Pitagorici; per non menzionare il fatto che Peano,
come si vedrà dai brani qui riportati in appendice, elucidando la teoria delle
grandezze di Euclide, ne mostra una grande ammirazione e, nello stesso tempo, mostra
che, per quanto c’è di vero, quella di Dedekind è indistinguibile da quella di
Euclide; mentre, in altre occasioni, mostra di avere una non troppo alta stima
di Platone, quantomeno per quanto riguarda la matematica, come abbiamo visto
nella citazione che abbiamo riportato in nota3.
Ma vediamo quali erano gli
intendimenti di Dedekind:
“considero il concetto di numero del tutto indipendente dalle
rappresentazioni o intuizioni dello spazio e del tempo, e lo ritengo piuttosto una emanazione diretta delle leggi del pensiero”
E nel suo più famoso lavoro6 scrive:
“Finora di norma per introdurre i numeri irrazionali ci si richiamava direttamente
al concetto di grandezza estensiva —
che però a sua volta non è mai stato
rigorosamente definito — e si definivano quei numeri come il
risultato della misurazione di una grandezza per mezzo di un’altra grandezza
omogenea. Io invece credo che l’aritmetica si sviluppi da se stessa”.
Ecco il principale
obbiettivo di Dedekind: svincolarsi dalle grandezze e, quindi, dalla fisica!
Personalmente, non ho mai
capito questo imperioso desiderio dei matematici e dei logici a svincolarsi
dalla fisica e di volere definire nominalmente ogni cosa. Il tentativo dei
logici medioevali ha prodotto le interminabili discussioni sul sesso degli
angeli.
Ma la storia è molto più
antica!
Testimonia Porfirio:7
“Inoltre i Pitagorici dicono che Platone e Aristotele, Speusippo,
Aristosseno, Senocrate, si appropriarono di tutto ciò ch’era fruttuoso nella
dottrina e con poca fatica, mentre invece raccolsero
insieme e aggiudicarono alla
scuola pitagorica, come suo proprio, tutto quello ch’era superficiale e vano o tutto quello ch’era
stato affermato da maligni calunniatori per dileggiare la scuola stessa”.
Per sapere a quale scopo
fecero questo, forse, è utile leggere questa satira di Ateneo:8
“A. Che dire di Platone, e di
Speusippo e Menedemo? a che
attendono ora? quali cure, quale discorso è oggetto del loro investigare?
Questo saggiamente, se qualcosa ne sai, dimmi, per la terra ... — B. So chiaramente che dire
di loro: vidi infatti alle Panatee la schiera di quei giovani nei ginnasi
dell’Accademia tenervi discorsi indicibili, assurdi. Dando definizioni sulla natura, separando la natura degli
animali e quella delle piante e le specie dei vegetali. Poi fra questi la zucca
presero in esame, di che genere sia. —
A. E che definizione diedero del
genere a cui appartiene la pianta? Spiegamelo, se lo sai. — B. Dapprima tutti, muti, stettero intenti e curvi e rifletterono per lungo tempo. Poi d’improvviso, mentre
ancora erano curvi e investigavano i giovani, uno di loro disse che è un vegetale rotondo, uno ch’è verdura, un
altro ch’è albero. Ascoltando ciò un medico venuto dalla Sicilia si rivoltò
contro dicendo che deliravano. — A. Si adirarono allora per la derisione e
gridarono? Far così in una riunione è sconveniente. — B. Non se la presero molto
i giovani. Platone poi, ch’era presente,
molto dolcemente e senza adirarsi, fece loro di nuovo la zucca
dall’inizio esaminare per definirne il genere: ed essi procedettero alla
divisione.”
Infatti, anche oggi, dopo la
“grande svolta epistemologica” anche la matematica è diventata tassonomia; non
si contano più gli “spazi”, sono
innumerevoli le “geometrie” e di “assiomatiche” ne abbiamo a bizzeffe!
Il problema delle
definizioni era oggetto di interminabili discussioni tra i discepoli di
Platone; alcuni, come Speusippo, interpretando malamente le affermazioni dei Pitagorici,
negavano in principio la possibilità stessa di poter definire alcunché, perché
per definire qualcosa bisognava prima conoscere tutte le cose del mondo; altri,
come Aristotele, sosteneva che ciò era invece possibile per successive
dicotomizzazioni.
Sentiamo, in proposito,
l’opinione dell’aristotelico Eustrato:9
“Ma poiché Speusippo sembra aver voluto sostenere con un ragionamento
credibile il principio per cui tentava di distruggere dalle radici la scienza
della definizione e dimostrava
come sia impossibile definire alcunché, occorre non trascurare il suo discorso
senza esaminano, come se fosse uno scherzo gettato là a intralcio del procedere
della scienza, ma rimuoverlo dal nostro cammino, con confutazioni basate sulla
verità. Lo scopo del definire, egli dice, consiste nello stabilire l’essenza
specifica dell’oggetto definito; e questo non
potrebbe avvenire in altro modo se non col distinguerlo per mezzo del
ragionamento da tutte le altre cose. Non potrebbe però fare queste distinzioni
chi non conoscesse tutte le differenze nella loro singolarità. E non
potrebbe conoscere tutte le differenze nella loro singolarità chi non conoscesse
tutte le realtà individue. Perciò chi definisce qualcosa deve, in pari tempo,
conoscere tutte le realtà individue. Ma è chiaro che deve necessariamente
sapere le differenze dei singoli oggetti colui che voglia distinguerli gli uni
dagli altri mediante definizione. Se non vi è differenza delle realtà individue
fra di loro, non vi è alcuna differenza reciproca (è per la differenza che il
differente è tale); se poi non vi è differenza reciproca, ne consegue che le
realtà individue sono uguali l’una all’altra. Invece esse sono altre
reciprocamente, e quindi la differenza esiste. Se esiste si deve poterla conoscere:
altrimenti non si saprà come le cose differiscano le une dalle altre, né alcuno
potrà formulare un ragionamento che separi il medesimo dagli altri. E perciò,
per poter definire qualcosa, bisogna conoscere tutte le cose. Questo è il
ragionamento di Speusippo, mediante il quale sembra ch’egli negasse la stessa
possibilità di definire”.
Dopo questa lunga disamina
dei ragionamenti di Speusippo, Eustrato conclude rifacendosi all’autorità di
Aristotele, il quale dice:
“…non occorre affatto che chi definisce e opera le divisioni conosca tutti
gli oggetti reali. Senonché, affermano alcuni, è impossibile conoscere le
differenze tra un oggetto e ciascuno degli altri oggetti, senza conoscere
ciascuno di questi altri oggetti; ma non è neppure possibile
conoscere tali oggetti, se non se ne conoscono le differenze rispetto
all’oggetto in questione: due oggetti sono infatti identici, quando tra di essi
non sussiste una differenza, e sono diversi, quando tale differenza
sussiste. Ora, ciò anzitutto è falso, poiché due oggetti non risultano
diversi in virtù di una qualsiasi differenza.” (Anal. Post., 97a, 7).
Come risolve Dedekind questo
problema?
Già Kronecker gli aveva
aperto la strada dichiarando che i numeri interi li aveva creati Dio e tutto il
resto era stato creato dall’uomo; per cui, visto che c’era la possibilità di
tali creazioni, Dedekind ha creato i numeri reali asserendone l’esistenza per “assioma” (ma, come si legge in
Appendice, Peano nega che possa essere un assioma e, d’altra parte, non può
essere una definizione; sembra che la sola possibilità che rimaneva a Dedekind
era la “creazione dal nulla”, a
immagine e somiglianza di Dio); ma Cantor lo ha superato “creando” i numeri transfiniti, d’allora in poi, le “creazioni” non si contano più.
Ma vediamo cli capire gli
assunti metafisici che stanno alla base delle varie posizioni che, come
abbiamo visto, sono vecchie quanto il mondo.
Per far questo ci serviremo
dell’ideografia di Peano.
Con il termine “differenze”
(διαφοράί) deve intendersi “proprietà, classe, nome comune…”, con
il termine “realtà individue”
(‘έχαστον) deve intendersi “individui”.
La relazione tra individuo e
proprietà è ideografata con x Î a, dove
x è l’individuo, a la
proprietà, Î (è un) è la relazione esistente tra i due concetti.
Dato un gruppo di proprietà
si può generare tutto un “reticolo” di
proprietà,10 ordinate dalla
relazione di inclusione É . Gli “atomi” del reticolo (cioè le proprietà che si riferiscono a un
singolo individuo) sono da Peano chiamati “elementi”
e indicati con ι x . Usando la terminologia di Leibniz, il
ragionamento di Speusippo si può rendere nel seguente modo: Non si può costruire
una proprietà mediante la sua “estensione”, cioè a partire dagli “individui” x, in quanto questi sono
conosciuti solo quando ne conosciamo gli “elementi”
ι x, cioè per “intensione”; ma per conoscere gli
“elementi” occorrerà conoscere tutte
le proprietà del reticolo, che sole le possono rendere, per “intersezione logica”; ma, per conoscere
tutte le proprietà, per l’ipotesi che abbiamo fatto che esse sono conosciute
solo mediante gli individui, dobbiamo conoscere tutti gli individui e così
abbiamo chiuso un circolo vizioso. Se ne deve concludere che gli individui non
sono definibili e, si potrebbe aggiungere, devono esistere autonomamente nel
mondo iperuraneo delle idee. Fiat individuum et individuum fuit.
Aristotele si limita a dire
che tale ragionamento è erroneo dichiarando la falsità dell’assunto, in quanto
gli sembra evidente il contrario; ma, come sempre, non offre alcuna spiegazione
alternativa, anche perché non riesce a vedere la differenza tra “individuo” ed “elemento” e continua a frullare dei termini scarsamente definiti
come: “principio, sostanza, essenza,
sostrato, causa, idea, forma, ecc.. Infatti:
“Ci sono, però, alcuni che, come i Pitagorici e Speusippo, ritengono
che il bello e
il bene, nel loro sommo grado, non
risiedano nel principio, perché a loro avviso, i principi delle piante e degli
animali sono cause, mentre la bellezza e la perfezione risiedono soltanto in
ciò che dai principi viene prodotto. Ma siffatte credenze sono errate. In
realtà, il seme proviene da altri esseri anteriori che sono già perfetti, e la prima cosa non è affatto il seme, ma ciò che è già perfetto; così, ad
esempio, si può dire che anteriore al seme è l’uomo, non, però, quello che
proviene dal seme, bensì un altro
da cui il seme stesso proviene.” (Metafisica
1072b, 30 e sg.).
Sistematicamente Aristotele,
quando parla dei Pitagorici, si riferisce al ritratto che di loro fanno i
Platonici, che si dicono i loro veri continuatori, e li contesta con una
miscela esplosiva di empirismo estremo e di estremo razionalismo. Intuisce che
oltre l’uomo prodotto dal seme c’è qualche cosa d’altro, ma non riconoscendo
che quest’altro è il “concetto di uomo”, o
proprietà di essere uomo che dir si voglia, fa derivare dal concetto di uomo il
concetto di seme, come dire che il nome del seme deriva dal nome dell’uomo.
La filosofia dei Pitagorici,
invece, è sommamente dialettica (nel senso moderno del termine): non esistono
le idee nel mondo iperuraneo, non esistono le cose nel mondo delle sensazioni,
le idee sono, semplicemente, la nostra ricostruzione razionale (=
logica = matematica) del mondo, il quale ci bombarda con innumerevoli sensazioni
informi. Senza le sensazioni non possono esistere le idee (=
cose), senza le idee (= cose) non potrebbero esistere i
numeri, il mondo e le cose non sono separati, le cose sono i numeri stessi.
Ecco, dopo le conseguenze
disastrose delle diatribe tra platonici ed aristotelici, che hanno portato alle
elaborate teorie sul sesso degli angeli, sono arrivati i vari Keplero, Galilei,
Cavalieri, Newton, ecc., che sono ritornati agli antichi, attraverso il grande
Archimede.
Ma, come si sa, il bello
dura poco; e così sono venuti fuori i vari Dedekind, Cantor, Hilbert, ecc. che
ritornano a Platone e ad Aristotele, senza però riconoscerlo; come, invece,
fecero i primi con l’esternare la loro profonda riconoscenza ad Archimede.
La ricostruzione ideografica
di molti libri degli Elementi di
Euclide, fatta dal Peano, si ispira a questa più antica, e più autenticamente
scientifica, filosofia:
“la determinazione dei postulati fondamentali, si può fare seguendo la solita via. Si scrivano tutte le proprietà che risultano
dall’osservazione del moto fisico. Si scindano queste proposizioni in
tante affermazioni semplici; e poi si
esamini quali di queste affermazioni sono già implicitamente contenute nelle
rimanenti. Procedendo avanti in questo esame, finché sarà pòssibile, troveremo un gruppo di affermazioni esprimenti verità irriduttibili tra loro, e che
costituiscono i postulati del moto.” (Opere Scelte, vol. III, p. 142).
Ecco risolto ogni problema
di definizione, di assiomatizzazione e di dimostrazione.
Separando tra loro
matematica e fisica, logica e filosofia, si può solo parlare del sesso degli
angeli.
Ma leggiamo ora direttamente
il commento di Peano all’opera di Dedekind considerata in relazione all’opera
di Euclide.
E curioso notare che nel Formulario Mathematico, dove Peano e
collaboratori con incredibile pignoleria registrano accanto ad ogni formula
l’autore che ne viene accredidato come il primo scopritore, non compare invece
assolutamente il nome di Dedekind, mentre si dà credito a Cantor della
definizione di potenza (= cardinalità); ma la ragione di ciò emerge chiaramente
dai passi riportati in Appendice.
Ma, per concludere questa
mia breve introduzione, cercherò di rispondere alla mia domanda iniziale. E’
Dedekind un platonico? Lo è Euclide?
Se per “platonico” si intende colui che pensa che abbia o possa avere “esistenza ontologica” qualcosa oltre il
sensibile allora Dedekind è certamente un platonico, ma Euclide non lo è perché
quest’ultimo si limitava all’asserzione di una “esistenza logica” come chiarita da Parmenide e come in tutta la
tradizione Italica, come riconosciuto dallo stesso Aristotele.
Se si restringe l’estensione
dell’aggettivo, escludendo gli atti di creazione da parte degli uomini, allora
Dedekind non lo è; e nemmeno sarebbe classificabile nel novero dei mistici, in
quanto questi usano riservare le creazioni solo a Dio.
NOTE
1.
Tratto
da T. Viola, Introduzione alla teoria degli insiemi, Boringhieri, 1965,
p. 124 TORNA
2.
“Noi siamo di stirpe divina e certamente abbiamo facoltà di creare non
soltanto cose materiali (ferrovie, telegrafi), ma tipicamente cose mentali” da una lettera di Dedekind a Weber, in J.W.R.
Dedekind, Scritti sui fondamenti della matematica, a cura di F. Gana,
Bibliopolis, 1982). TORNA
3.
“Non è qio il caso di esporre ampiamente una veduta che a nostro avviso
è difficilmente confutabile: l’affermazione che il pensiero filosofico che è
stato presente a Euclide nella coposizione dei suoi Elementi è quello di
Platone soprattutto. La tradizione, d’altra parte, dipinge Euclide come un
platonico…” tratto
da A. Frajese, Attraverso la storia della matematica, Le Monnier, 1977,
p. 106. A leggere questo libro uno riceve l’impressione che la matematica sia
una creazione di Platone, restavano solo i numeri da creare e ci ha pensato
Dedekind! Ma c’è stato qualcuno che ha avuto l’ardire di mettere in dubbio
questa “veduta difficilmente confutabile”: “Alcuni autori
attribuiscono a Platone degli studi sugli irrazionali (Baltzer, Elem. D.
Mathem. A. 1885 p. 100; Encyclop. p. 49). Invero nei dialoghi di
questo filosofo trovansi qua e là dei termini matematici, ma riuniti in modo
così incerto da farli ritenere come parole difficili con cui un interlocutore
cerca confondere l’avversario; all’incirca come nei giornali politici del
giorno d’oggi sta scritto incommensurabile invece di grandissimo. Il passo più
volte citato, nella Πολιτεία VIII 546 è considerato
dai commentatori Jowett and Campbell, Oxford a. 1894, come un riddle. Al più da
un passo del Θεαίτήτος 143 E, si
può dedurre, e ciò parmi la cosa più importante contenuta in
quelle opere su questo soggetto.”, G.Peano, Opere Scelte, vol. III,
Ed. Cremonese, Roma, 1958, p. 249. Ma come si è permesso Peano di scrivere tali
cose! Con quale autorità! TORNA
4.
Si
leggano gli incredibili giudizi tranciati da C. Mangione nella Storia del
pensiero…di Geymonat, sui quali ho già avuto modo di commentare sul n. 4-5
dei Quaderni di Mondotre. TORNA
5.
“…i cosiddetti Pitagorici si dedicarono per primi alle scienze
matematiche, facendole progredire; e poiché trovarono in esse il loro
nutrimento, furono del parere che i principi di queste si identificassero con i
principi di tutte le cose…credevano di scorgere in quelli, più che nel fuoco o
nella terra o nell’acqua, un gran numero di somiglianze con le cose che
esistono…e, insomma, pareva loro evidente che tutte le altre cose modellassero
sui numeri la lro intera natura e che i numeri fossero l’essenza primordiale di
tutto l’universo fisico;” (Metafisica 985b, 23 – 35); “A certuni sembra che i limiti del
corpo – ossia la superficie, la linea, il punto e la monade – siano sostanze, e
lo siano persino in modo più autentico che non il corpo o il solido.” (Metafisica
1028b, 16 – 18). TORNA
6.
Stetigkeit und irrazionale Zahhlen (vedi a pag. 68 del citato libro a cura di
Gana); la citazione precedente si trova a p. 79-80. TORNA
7.
Porph.
Vita Pythag. 53, p. 46, riportato in Speusippo – Frammenti, a
cura di M. Isnardi Parente, Bibliopolis, 1980, p. 145. TORNA
8.
Athen.
Deipnosoph. II 59 d-f, riportato in Speusippo …, p. 145. TORNA
9.
Eustrat.
Arist. Anal. Post., p. 202. Riportato in Speusippo …, p.
151. TORNA
10.
Vedi
l’articolo sui Presocratici di Notarrigo nel numero 4-5 dei Quaderni di
Mondotre. TORNA
G. Peano: Definizione dei numeri irrazionali secondo Euclide
(Traduz. dall’interlingua,
originale in Boll. Mathesis, VII, Aprile, 1915, p. 31).
Euclide espone le proprietà
dei numeri irrazionali in parecchi suoi libri; in particolare nel libro X. La
trattazione comincia nel libro V. Trascrivo la definizione N. 5, con traduzione
interlineare.
I vocaboli composti “se-dic . . . de-singulo” corrispondono
ad un solo vocabolo nell’originale greco. La traduzione latina di Heiberg
(editore Taubner) sopprime i vocaboli “per
quoqumque multiplicato singulo de-singulo” [per qualunque moltiplicazione
termine a termine]. Nessuna traduzione può essere del tutto fedele. Bisognerebbe
leggere i libri in originale; la traduzione può solo aiutare nella lettura.
Diamo ora alla proposizione
precedente una costruzione simile a quella delle lingue neolatine; otteniamo:
“Si dice che, date quattro grandezze, il rapporto tra la prima e la
seconda è uguale al rapporto tra la terza e la quarta, quando presi i multipli
della prima e della terza secondo un numero arbitrario, e i multipli della
seconda e della quarta secondo un altro numero arbitrario, se i multipli della
prima sono maggiori, uguali o minori dei multipli della seconda, allora
rispettivamente i multipli della terza sono maggiori, uguali o minori della
quarta”.
Se usiamo i simboli
algebrici e scriviamo la proposizione sotto la forma a/b = c/d, otteniamo:
“Date quattro grandezze a, b, c, d, si dice che a/b = c/d quando,
scelti ad arbitrio due numeri m, n, si ha che se ma > nb allora mc > nd; se ma= nb allora mc = nd; se ma <nb allora mc < nd”.
Usiamo ora i simboli della
logica matematica, che oggi sono di uso internazionale, per opera di Couturat
in Francia, di Russell e Whitehead in Inghilterra, di Huntington e di Moore in
America.
Tali simboli sono:
Î, che
indica la proposizione individuale,
É, che indica la proposizione universale o
deduzione.
La definizione di Euclide
assume la forma:
a, b, c, d Î grandezza . É \ a/b
=c/d=:
m,n Î numero .ma > nb. Ém,n .mc > nd :
” .ma = nb. Ém,n .mc = nd :
” .ma < nb. Ém,n .mc <
nd .
I tre punti \ dividono la proposizione in tre
parti; la prima parte consta delle ipotesi “a,b,c,d
sono grandezze” e del segno di deduzione É “implica”.
La seconda parte è
un’uguaglianza separata da due punti (:)
nel primo membro abbiamo a/b =
c/d e il segno uguale sta per “significa”.
Il secondo membro è l’asserzione simultanea di tre proposizioni separata
dai :, mentre le singole proposizioni sono separate da punti semplici, “se m, n sono numeri e se ma > nb, allora per ogni m, n, si ha mc> nd”.
Nell’ultima espressione
della definizione di Euclide compaiono i due termini “grandezza” e “numero”. Il
termine “numero”, traduzione del
greco ’αριθμός,
significa quello che oggi si chiama “numero
intero positivo” indicato nel Formulario
mathematico con il segno N (N1).
Euclide non usa i termini
equivalenti al nostro “numero razionale”; ma scrive sempre
λόγος
‘όν
πρός
’αριθμόν ’έχει “rapporto di un numero ad un altro numero”; in
simboli N/N.
Né Euclide usa il termine “numero reale (razionale o irrazionale)”; ma
parla sempre di rapporto tra due grandezze. Le grandezze di cui se ne considera
il rapporto sono omogenee; la condizone di omogeneità viene data da Euclide
nella definizione 4, che precede quella da noi considerata.
Quindi se al posto di ma >
nb scriviamo a/b > n/m, se al posto di a/b e c/d scriviamo x
e y, e al posto di n/m scriviamo
z; risulta che x e y
sono quantità reali (Q nel Formulario), e z è un numero razionale (R nel Formulario). La definizione assume ora la forma:
x, y Î Q . É \ x = y . =: z Î R . z < x.
Éz .z < y :
” . z = x. Éz .z = y :
” . z > x. Éz .z > y :
“Si dice che due numeri
reali x e y sono uguali, se ogni numero razionale z minore di x è anche minore
di y; e ogni razionale maggiore di x è maggiore di y; e se da z = x risulta
anche z = y”.
E, più brevemente:
“Due numeri reali (irrazionali) sono, per definizione, uguali quando ogni numero razionale minore del primo è minore del secondo e viceversa”.
o
“quando la classe dei numeri razionali minori del primo coincide con la
classe dei razionali minori del secondo”.
In logica matematica si usa
il segno ', per indicare l’operazione
inversa di Î. Il segno ∩ significa “e”. Quindi R ∩ z ' (z < x) significa “z è razionale e tale che z < x”.
Quindi la definizione di Euclide
assume la forma:
x, y Î Q . É : x = y
. = . R ∩ z ' (z < x) = R ∩ z ' (z < y)
come scritta nel Formulario mathematico, Ediz. V, 1908, pag. 105, Prop. 2.1.
Quindi ogni numero reale x
separa i razionali in due classi, i razionali minori di x, e i razionali
maggiori di x. Tale separazione viene chiamata sezione (Schnitt in Dedekind, 1872). Euclide
assume per definizione che due numeri reali sono uguali, quando vi corrisponde
l’identica sezione di razionali.
Delle due classi di
razionali è sufficiente considerare solo la prima; dal momento che la seconda
non è altro che la complementare della prima. La prima classe, cioè la classe
dei razionali minori di un numero reale dato, è chiamata “segmento” (Strecke in Pasch, 1872). Per cui Euclide, in sostanza,
dice che due numeri reali sono uguali quando sono l’estremo dello stesso
segmento.
Quello che abbiamo scritto
sopra è la pura e semplice traduzione della definizione di Euclide. Noi ci
siamo limitati a tradurre dal greco in interlingua e dal linguaggio matematico
di quel tempo in quello di oggi.
Quello che non si trova in
Euclide è l’affermazione dell’esistenza degli irrazionali. Euclide considera
solo quegli irrazionali che vengono fuori da qualche costruzione geometrica,
cioè per ripetute estrazioni di radici quadrate; l’esistenza delle grandezze ci
viene assicurata dalla geometria.
In Euclide non si trovano
proposizioni del tipo:
“Ad ogni sezione di razionali corrisponde un numero reale”,
o “ogni segmento di razionali ha un limite superiore razionale o
irrazionale”,
o “ogni frazione decimale
illimitata rappresenta un numero reale”, ecc. ecc.
Le proposizioni esistenziali
precedenti, che si scrivono dopo l’introduzione della teoria dei numeri
razionali, contengono l’idea, non precedentemente definita, di “numero reale irrazionale” e, quindi,
non possono essere considerati dei postulati, i quali sono relazioni tra idee
che si suppongono già note.
Nè possono essere
definizioni, poiché non hanno la forma:
numero reale = espressione composta con idee già
introdotte…
***
G. Peano: Sui fondamenti dell’analisi
(Tratto da: Bollettino
Mathesis, II,
Giugno 1910, p. 31)
... Uno
dei punti più controversi, e a cui mi limiterò, è l’introduzione delle varie specie
di numeri, naturali, negativi, fratti, irrazionali e immaginarii. E qui finisce;
poiché le definizioni dei varii numeri complessi, quaternioni e sostituzioni,
non presentano più difficoltà.
La difficoltà nella
definizione di questi varii enti è in parte linguistica. Introdotta la parola
numero, come versione dell’ ’αριθμός
di Euclide, o numero naturale, la
frase numero primo indica e in
grammatica e in matematica, una classe di numeri, come uomo bianco indica una classe di uomini. Invece la seconda frase numero negativo, non indica una classe
di numeri, secondo la grammatica, ma bensì una classe più ampia di quella dei
numeri. Qui l’aggettivo non restringe la classe cui si applica, ma la dilata.
Così numero razionale indica una
classe non contenuta, ma contenente la seconda, e numero reale indica una quarta classe più ampia della terza. Questa
nomenclatura, contraria all’uso comune, non si trova in Euclide, quantunque i
più interessanti calcoli sugli irrazionali vi siano sviluppati. Essa è
abbastanza recente. In conseguenza si volle per forza che la frase «numero
negativo» indicasse un numero, e così si fabbricò il «principio di permanenza»
dall’HANKEL nel 1867.
Vediamolo in azione. Si
sogliono premettere le proposizioni, su cui non cade alcun dubbio:
Non esiste alcun numero
(della serie 0, 1, 2, ...) che
aggiunto a 1 dia per resultato 0.
Non esiste un numero
(intero), che moltiplicato per 2 dia 1.
Non esiste numero
(razionale), il cui quadrato sia 2.
Non esiste numero (reale),
il cui quadrato sia —1.
Allora si dice: per ovviare
siffatto inconveniente, noi estendiamo il concetto di numero, cioè
introduciamo, fabbrichiamo, creiamo, (wir erschaffen, dice DEDEKIND), un nuovo
ente, un nuovo numero, un nuovo segno, un Zeichen - Verknüpfung, ecc., che
diremo -1 o
1/2, o , o , che soddisfi alle
condizioni imposte. Cioè:
-1 = quel numero x tale che ,
1/2
= ” ” ,
= ” ” ,
= ” ” .
Se nel secondo membro, per numero si intende ciò che fino a
quell’istante ha quel nome, gli enti considerati sono contraddittorii in sé;
quindi si sono dati varii nomi all’ente non ente. Ovvero nel secondo membro per
numero s’intende un nuovo ente, e allora resulta definito l’ingnoto per
l’ingnoto; e il dire che esso è «ganz verschieden von allen Zahlen», dice ciò
che esso non è, e non ciò che è. È poi naturale il domandarsi, perché qui
si creano nuovi enti, e in altri casi di impossibilità, no. Non esiste il
massimo numero primo; per la generalità dell’aritmetica, fabbrichiamo un numero
primo ideale, maggiore di tutti i numeri primi. Due rette parallele non hanno
punto euclideo comune, e si imagina il punto all’infinito; due rette sghembe
non hanno punto comune; per togliere tutte le eccezioni attribuiamo loro un
punto transinfinito comune. «Ecquis risum teneat», dice GAUSS a proposito di
questa introduzione degli immaginarii. «Hoc esset verbis ludere
seu potius abuti».
Il principio di permanenza pervenne al suo apogeo con SCHUBERT, nella
«Enciclopädie der Mathematischen Wissenschaften», il quale afferma che si deve
«beweisen dass für die Zahlen in erweiterten Sinne dieselben Sätze gelten, wie
für die Zahlen in noch nicht erweiterten Sinne».
Ora se tutte le proposizioni
che valgono pegli enti di una categoria, valgono pure per quelli di una
seconda, le due categorie sono identiche; quindi, se si potesse provare ciò, i
numeri fratti saranno interi. Nell’edizione francese dell’«Encyclopédie», le
cose furono messe a posto. Si dice che si deve essere
«guidé par le souci de conserver autant que possible les lois formelles». Così il principio di
permanenza acquista il valore di un principio non di logica, ma di pratica, e
della massima importanza nella scelta delle notazioni. Precisamente fondandosi
su questo principio, caso particolare di quello che il MACH chiamò principio
dell’economia del pensiero, i proff. BURALI-FORTI e MARCOLONGO riuscirono a
districare l’arruffata matassa delle notazioni del calcolo vettoriale, ove
tutto era arbitrario, e molti credono ancora che le notazioni siano
necessariamente arbitrarie.
Gli enti prima considerati -1, 1/2, , , si possono definire, cercandoli in una categoria nota che
li contenga. Risultano per astrazione, ovvero come operazioni.
***
G. Peano: Sulla definizione di limite
(Tratto da: Atti della Reale
Acc. delle Scienze di Torino, Vol. XLVIII, A. 1912-13, p. 750)
Ogni numero reale produce
nella classe dei razionali una sezione, o
Schnitt dei matematici tedeschi, o coupure dei francesi; dice la
definizione Euclidea, che due numeri reali sono eguali, se ad essi corrisponde
la stessa sezione.
Perciò la sezione dei numeri
razionali, che individua un numero reale, popolarizzata da Dedekind nel 1872,
che però già si trova in trattati precedenti, si può far rimontare ad Euclide.
Ciò che manca in Euclide, è
l’affermazione che ad ogni sezione corrisponde un numero reale esistente. E ciò
non si trova mai in Euclide, poiché le grandezze che egli considera sono tutte
costruibili con riga e compasso. Quindi Dedekind dice che se non esiste il
razionale che produce quella sezione, noi creiamo «wir erschaffen» un nuovo
numero che ha quelle proprietà.
Questa creazione di nuovi
numeri presenta delle difficoltà. Alcuni autori ammettono la proposizione
esistenziale precedente come un postulato, che alcuno, e a torto, chiama
postulato di Dedekind. Ma questa proposizione esistenziale contiene l’ente
nuovo «numero reale» che si vuol definire; e perciò ha i caratteri d’una definizione.
E alcuni autori la chiamano definizione, e
scrivono «noi conveniamo che...».
Ora essa non ha la forma d’una definizione, poiché non è un’eguaglianza il cui
primo membro è il segno nuovo, che si definisce, ed il secondo è un gruppo di
segni noti. ...