IL NOME DELLA COSA
Giuseppe Boscarino
Per uno come me, che
quotidianamente ha il problema di tentare di spiegare ai giovani studenti gli
elementi concettuali della storia del pensiero, cercando di dire solo cose che facilmente
si possano capire e che, nello stesso tempo, abbiano un significato che non sia
solo il solito gioco di parole, la soluzione del problema risulta senz’altro
non facile, specialmente quando si è costretti a confrontarsi con quei concetti
(?) confusi e diffusi che si incontrano nei moderni libri di testo.
La prima questione che si
deve affrontare, assolutamente trascurata, in quasi tutti i libri di testo, è
quella di distinguere le proprietà puramente “formali” dei nomi, dalle loro proprietà “reali”.
Il Peano1 ne fornisce una chiara descrizione: “Le proprietà
dei vocaboli sono reali [de re] se
riguardano l’oggetto, ovvero l’idea che il vocabolo indica, esse sono formali [de forma] se riguardano solo la
forma di quel vocabolo che indica una determinata idea”; le proprietà formali,
quindi, non hanno niente a che fare con l’idea stessa ma solo col nome. Cioè le
dette proprietà riguardano solo il “nome della cosa”e non la “cosa” stessa.
Anche in logica e in
matematica si hanno proprietà puramente formali, tuttavia le costanti della
logica e della matematica hanno ben precisi significati reali che si possono
sempre riferire ad operazioni fisiche elementari (o, per meglio dire, si
dovrebbero sempre riferire), le quali quasi sempre si possono compiere
disegnando appropriate figure con carta e matita.
Ma, nella grammatica, le
cose stanno alquanto diversamente. Dopo un’accurata analisi, Peano conclude:
“La grammatica, tormento dei
fanciulli, è quasi sempre inutile.
……
Tuttavia non è sempre
inutile quando la soppressione delle flessioni dovesse confondere il singolare
con il plurale, il passato con il futuro, l’attivo col passivo; si può sempre
cambiare la forma della proposizione” (facendo, in ogni caso, scomparire le
flessioni, che, peraltro, spesso sono molto ambigue).
Le difficoltà che
l’insegnante di filosofia deve affrontare, molto spesso, hanno la loro origine
nella grammatica, la quale, a sua volta, affonda le sue radici nella tradizione
filosofica, cioè nella logica (?) grammaticale di Platone e di Aristotele, come
analizzeremo in seguito.
Cominciamo con l’esempio più
banale che si possa considerare:
“Il cane abbaia.”
“Il cane è un sostantivo.”
Tutte e due le proposizioni sono
vere, ma, naturalmente, nessuno ha mai visto abbaiare un sostantivo. E’
evidente che nella prima frase il predicato si riferisce all’idea che io ho del
cane e nella seconda frase alla forma grammaticale con la quale esprimo
quell’idea. In una lingua, e ne esistono a dire dei glottologi, in cui non si
conoscano le “parti del discorso”, la seconda frase non avrebbe alcun senso.
E, tuttavia, poniamo un po’
d’attenzione a quello che si legge nelle grammatiche ad uso delle nostre
scuole:
“Nome è un lessema di norma
declinabile, descrivente una realtà o una nozione, provvisto di sesso fittizio,
vale a dire di un proprio genere, che però per gli esseri inanimati è più
spesso immotivato” (A. Ghiselli - G. Conciolini, Lingua e comunicazzone, Sansoni, p. 281.)
Come col latino di Don
Abbondio, per spiegare una cosa semplice si ricorre ad una parola difficile,
“lessema”, per poi suggerire che la proprietà puramente formale di genere ha a
che fare con il sesso, anche se “fittizio” (naturalmente il nostro grammatico
fa eccezione per gli esseri inanimati; ma con l’aquila come la mettiamo?
Potrebbe anche darsi che questo uccello sia inanimato, infatti non ha l’anima e
non può andare in paradiso, ma il grammatico ha sicuramente un’ anima e,
tuttavia, può essere di sesso femminile anche se di genere maschile).
Ma speculiamo ancora su
questa esilarante definizione.
Lessema, secondo gli autori,
è monema lessicale (questo vale solo per alcuni linguisti ma, naturalmente, non
per tutti!). Monema è l’unità minima significativa, continuano gli autori,
(minima rispetto a quale grandezza? o, in ogni caso, rispetto a quale
ordinamento?). Ora l’unità minima significativa viene ad essere “di norma
declinabile”. D’altra parte, il significato di “cane” può essere diverso o lo
stesso del significato di “cani”, p. es.
“Ieri un cane mi ha morso.”
“Il cane abbaia.”
“I cani abbaiano.”
Nella prima frase il cane è
uno e compare come singolare, nella seconda i cani sono molti, tutta la classe,
ma compare come singolare, nella terza “cani” ha lo stesso significato che
“cane” ha nella seconda nonostante vi compaia al singolare. Ad un non
grammatico potrebbe sembrare che siano i sostantivi ad essere declinati e non
le unità significative, altrimenti potrebbe chiedersi se i “cani”, che sono
molti, debbano essere “mon-emi” o “poli-emi”!
Rileggiamo, invece, ancora
Peano:
“La grammatica è formale. Le voci «sostantivo, aggettivo, verbo, nominativo,
genitivo, comparativo, indicativo, infinitivo, astratto, avverbio», ecc,
indicano proprietà delle forme, non delle idee. La grammatica espone l’uso, non
la logica. Nelle scuole noi attribuiamo importanza eccessiva alla grammatica.” (G. Peano,
Opere Scelte, II, Ed. Cremonese p. 481).
Ma riflettiamo un momento su
alcuni termini della grammatica che hanno maggiore rilevanza filosofica.
Nelle grammatiche si legge:
uomo, nome comune concreto di persona.
È assolutamente impossibile
riuscire ad immaginare un “nome comune” che nello stesso tempo sia “concreto”.
Se comune vuol dire che è comune a molti individui, anzi a tutti gli individui
che hanno la proprietà di essere “uomo”, allora, anche quando dico “un uomo”,
non intendo un qualcosa di concreto ma semplicemente un individuo che ha la
proprietà di essere uomo. Difficile pensare che le “proprietà”, o “classi” che
dir si voglia, inventate dalla ragione umana, possano essere oggetti concreti.
Ma che significa “concreto”? Forse che lo posso vedere e toccare? Allora,
l’atomo è concreto?! Nessuno ha mai toccato o visto un atomo e, per giunta, la
fisica ci dice che non si potrà mai toccare e nemmeno vedere, ne possiamo solo
vedere le conseguenze all’interno di una determinata “teoria”.
Non sarebbe meglio, e più
produttivo, anche nella grammatica, cominciare a dare i significati, mediante
meditate descrizioni e opportuni esempi, dei “concetti” di: “segno”, “simbolo”,
“nome”, “idea”, “concetto”, “astratto”, “concreto”, ecc. invece di introdurre
termini quali “lessema”, “monema”, et similia, che sono termini di linguaggi
fin troppo specialistici e, spesso, influenzati, fin dalle fondamenta, da ben
determinate metafisiche, non sempre evidenti agli stessi specialisti, che le
ritengono verità ultime e definitive, come, del resto, è naturale che avvenga?
Ma già per codesti termini
di uso comune la faccenda non è per niente facile, specialmente nella
confusione linguistica attuale.
A mio giudizio, per evitare
tali abbagli, ovvero tali ridicole distorsioni dei significati delle parole, si
dovrebbe introdurre, fin dalle scuole elementari, l’ideografia di Peano. Solo
quando i ragazzi abbiano capito i “significati” delle parole (ed io ho
sperimentato che non è per niente difficile, per la mente ancora libera, cioè
priva di condizionamenti di ogni sorta, dei giovani) potranno meglio apprezzare
l’uso della grammatica e, soprattutto, quell’andar fuori di proposito dalle
sue regole, come sempre hanno fatto i grandi poeti ed i grandi scrittori; ma,
specialmente oggi sempre più necessario, i giovani verrebbero messi anche in
grado di capire la matematica e le altre scienze, cosa notoriamente difficile
per la maggior parte dei ragazzi che escono dalle nostre scuole, a meno che
esse non vengano ridotte a pura tassonomia, come di solito accade.
Abbiamo già detto che i guai
della grammatica e della filosofia si devono far risalire a Platone e ad
Aristotele, vediamone il perché.
A conferma dell’asserto
citiamo una comunissima affermazione che si sente sempre ripetere dai logici
moderni:
“La principale realizzazione di Aristotele fu la fondazione della
scienza della logica. Fornendo leggi corrette al ragionamento matematico i
Greci avevano posto le basi per la logica, ma toccò ad Aristotele codificare e
sistematizzare queste leggi in una disciplina separata. Gli scritti di Aristotele chiariscono al di là di
ogni dubbio che egli derivò la logica dalla matematica.” (M. Kline, Storia del pensiero matematico, Vol. I,
Torino, 1991, p. 66.)
Per poter fare cotali
affermazioni si dovrebbe poter avere una base sicura che permetta di negare
l’affermazione di diversi dossografi, i quali attribuiscono a Democrito,
provetto in cose di matematica e uno dei pochissimi predecessori menzionati dal
grande Archimede, delle opere sulla logica.
Viceversa, abbiamo una
precisa opinione espressa da Peano, il quale di logica e di matematica se ne
intendeva, che nega ad Aristotele tale supposta paternità:
“E’ noto che la logica scolastica [che come tutti sanno si appellava a quella
di Aristotele] non è di sensibile utilità
nelle dimostrazioni matematiche, poiché in queste mai si menzionano le
classificazioni e le regole del sillogismo, e d’altra parte vi si fa uso di
ragionamenti, del tutto convincenti, ma non riduttibili alle forme considerate
in Logica. Per queste ragioni alcuni matematici, fra cui Cartesio, proclamano
essere l’evidenza l’unico criterio per riconoscere l’esattezza di un
ragionamento. Ma questo principio lascia alla sua volta a desiderare…” (Peano, O. S., II, p. 81).
Per non parlare del concetto
aristotelico di definizione:
“Aristotele, Topici, I, 8, pone la regola:
che Boezio
tradusse “per genus proximum et differentiam specificam” ed è riprodotta come
regola assoluta in tutti i trattati di logica. L’esempio classico di questa
proprietà, è la definizione:
homo = animal rationale.
Qui “animal” e “razionale” indicano due classi. Fra quelle due classi è sottintesa
l’operazione detta congiunzione dai grammatici, moltiplicazione logica dopo
Boole, indicata in genere da “et” nel linguaggio comune, in logica matematica
dal segno ∩, quindi la regola
di Aristotele direbbe che ogni definizione ha la forma:
x = A ∩ B
ove A e B sono classi note,
dette genere e specie, e x è la classe che si definisce.
Qualche definizione matematica soddisfa
alla regola di Aristotele. Tale è la definizione 22 di Euclide, che può
tradursi:
quadrato = quadrilatero ∩ equilatero ∩ equiangolo.
Ma questa definizione si può applicare al più alla definizione di una classe.
Essa non è vera per la definizione 2 = 1 + 1, per definizioni di enti che non
sono classi. Anche le definizioni di classi non hanno necessariamente la forma
precedente. Per esempio, nella definizione:
numero composto = (numero maggiore di 1) ´ (numero maggiore di 1)
fra le due
classi, che in questo caso sono identiche, non è posto il segno di congiunzione
∩,
ma il segno di moltiplicazione.
I cultori della logica classica rispondono che nelle definizioni: “2 =
somma di 1 con 1”, “numero composto = prodotto di
due numeri , “e = limite di ...”, il genere è rappresentato dalle parole
somma, prodotto, limite. Ma queste parole non indicano classi, bensì funzioni;
ogni numero è somma e prodotto e limite. La classe corrisponde alla prima
categoria ουσìα di Aristotele, mentre la funzione
appartiene alla quarta πρός τι.” (Peano, O.
S., II, pp. 426 - 427.).
Poiché Democrito, Eudosso,
Euclide, Archimede adoperavano ben altra logica, bisogna congetturare che già
fra gli antichi popoli di lingua greca si fronteggiarono due modi diversi di
intendere la logica, quello platonico-aristotelico e quello
pitagorico-parmenideo-democriteo; il primo fondato sulle ambiguità del
linguaggio comune, che è tramite per la logica grammaticale e per le assurdità
metafisiche, dove distinzioni puramente morfologiche assumono il senso di
distinzioni logiche, o peggio empiriche; il secondo che, invece, cerca di
capire il senso delle nostre espressioni linguistiche mediante un’analisi
logica che riguardi i concetti e non le loro espressioni verbali.
Certamente, per le esigenze
della comunicazione tra gli uomini, il linguaggio comune è costretto a dare
nomi alle cose, ma acciocché le cose si tramutino in concetti scientifici, che
sono la vera realtà secondo Parmenide, bisogna astrarre dalle cose sensibili e
dai loro nomi e stabilire quelle regole che possamo instaurare i giusti
rapporti tra le proprietà reali che i nomi si limitano semplicemente ad
esprimere.
Infatti Parmenide dice:
“Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero
né l’abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa lungo
questa via,
a usar l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba di suoni illusori
e la lingua, ma giudica col raziocinio la pugnace disamina che io ti
espongo
… …
E’ la stessa cosa pensare e pensare che è:
perché senza l’essere, in ciò che è detto, non troverai il pensare
… …
... Perciò saranno tutte soltanto
parole,
quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero
il nascere e il perire, essere
o non essere,
cambiamento di luogo e mutazione del brillante colore.”
Democrito ci dice che “principi delle cose sono le idee” e
molti dossografi ci dicono che Democrito chiama “idee” gli elementi e gli atomi.
Negli estratti delle opere
di linguistica di Peano, riportati qui, in Appendice, si sottolinea come Max
Müller argomenti sul fatto che le dieci categorie logiche di Aristotele non
sono altro che le dieci parti del discorso della lingua greca. Peano elabora
ulteriormente tale ipotesi e noi siamo costretti a concludere che la tanto
decantata logica di Aristotele non è altro che analisi grammaticale, che
riguarda pure questioni morfologiche e
non ha niente da dire sulle relazioni tra le idee.
Non è del concetto di “uomo”
l’essere “sostanza prima” o “seconda”, distinzione, che solo con qualche
benevolo sforzo potremmo ricondurre a quella tra “individuo” e “classe” della
logica di Peano.
Consideriamo le due
proposizioni seguenti:
1. uomo è razionale.
2. uomo è classe.
Nella 1. “uomo” figura come classe
(sottoclasse della classe “razionale”, cioe “sostanza seconda”, nella seconda
lo stesso termine figura come individuo, cioè “sostanza prima” (individuo
della classe “classe”).
Dal momento che lo stesso
termine può essere sia sostanza prima che seconda si deve concludere che tale
classificazione aristotelica è puramente formale e non reale, cioè si riferisce
unicamente al ruolo che il termine ha nella proposizione (o, più probabilmente,
la distinzione aristotelica non ha alcun significato, nè formale nè reale).
Seguendo la logica
aristotelica necessariamente si devono confondere le proprietà reali dei nomi
con le loro distinzioni puramente linguistiche.
Non è della “cosa” l’essere
“individuo o classe”, “sostanza prima o seconda”, ma solo del “nome della
cosa”.
“Ogni nome comune, o nome di una classe, è il nome proprio della
classe” (Peano,
0. S., p. 380.)
“Nous n’avons jamais défini
l’individu, ni introduit un signe pour le représenter. Tout object x
est considéré comme un individu, lorsqu’il figure come subject dans la
proposition x Î u; la u est alors une K (classe).
Une classe u figure comme individu lorsqu’elle figure dans une proposition u Î v ; alors la classe v a pour
individus des classes; elle est donc KK, une classe de classes. On peut aussi
considerer des KKK, ou classe de classes de classes, etc.” (ibidem, p. 161).
Aristotele in “De
Interpretatione” definisce:
“Il nome è così voce significante per convenzione, prescinde dal tempo e nessuna sua parte è significante
se presa separatamente ...
‘Non -
uomo’ peraltro non è nome, non solo, ma
non vi è neppure un nome col quale chiamarlo, in realtà non è né un discorso né
una negazione. Lo consideriamo piuttosto come un nome indefinito. (De
Interpretatione, 2).
……
Verbo è quello che consignifica inoltre una determinazione temporale,
nessuna delle sue parti ha significato se presa separatamente, ed è sempre
segno di ciò che si dice di altro ...
Similmente poi ‘correrà’ o ‘correva’ non sono verbi, quanto piuttosto
flessioni del verbo. Essi differiscono dal verbo per il fatto che il verbo
unisce al suo significato il tempo presente, mentre le flessioni uniscono al
loro significato i tempi fuori del presente.” (De Interpretatione, 3).
La confusione fra nome e
cosa è evidente. “Uomo” significa e percio è nome, ma, invece, “non-uomo”,
stranamente non significa e, per di più, non è nemmeno un nome. Per cercare di
capire la ragione di tali assurdità si deve fare l’ipotesi che per Aristotele
il termine “uomo” è nome e significa solo se è individuo, come se fosse un nome
proprio e non un nome comune, o, nel linguaggio aristotelico, sostanza prima,
ma la sua negazione non può mai essere un individuo ma solo una classe,
sostanza seconda, e perciò non significa e non è nome. Evidentemente Aristotele
confonde la tradizione linguistica, che non ha inventato una singola forma
linguistica per il concetto “non-uomo”, con il significato dei termini. Sarebbe
interessante sapere se levando il trattino o ponendo l’alfa privativa, cioè ‘nonuomo’
o ‘auomo’, si otterrebbe un nome significante oppure no!
Quanta differenza tra la
logica aristotelica e la logica pitagorica! I pitagorici, in base alla loro
teoria dei contrari, dicevano che di qualunque nome se ne può fare il contrario
e se l’uno significa allora significa anche l’altro, o, in altri termini, di
qualunque classe ne esiste la complementare e, se una della due non è l’assurdo
o il banale, allora entrambe hanno individui con le proprietà complementari.
Ma la confusione va oltre il
ridicolo nella definizione aristotelica di verbo. Solo il presente è verbo!
Naturalmente in italiano dove, al di là delle sue flessioni, si usa nominare il
verbo con l’infinito, bisognerebbe dire che solo l’infinito è verbo!
Eppure ci sono tanti
“scienziati” della logica che fanno riferimento ad Aristotele come loro
progenitore. Ma, come si dice, tale padre tale figlio!
E, dagli scolastici figli di
Aristotele, sono nate le assurde discussioni sugli “universali”.
Un’altra prova della
confusione aristotelica tra forme linguistiche e significati logici si ha nel
supporre che solo alle proposizioni dichiarative si applichino le nozioni di
vero o di falso.
“Tuttavia non ogni discorso è dichiarativo, ma quello cui appartiene il
vero o il falso; e ciò non appartiene a tutti i discorsi: la preghiera, per
esempio, è discorso, ma non è ne vero nè falso.” (De Interpretatione, 4)
Questa opinione è rimasta
immutata presso tutti i logici moderni.
Ma consideriamo la
preghiera: “chiudi la porta”, allora delle due l’una, o essa ha significato o
non ne ha. Se ha significato traduciamola in una forma linguistica più aderente
al suo significato, che del resto è la forma consigliata dal galateo, “io ti
prego di chiudere la porta”. Questa proposizione che ha l’identico significato
della precedente è ora in forma dichiarativa e può essere vera o falsa.
Ma che significa vera o
falsa? Se ci riferiamo al fatto che io ho profferito la preghiera, è senz’altro
vero che io l’ho fatto. Ma può anche darsi che io sia stato costretto a
profferirla nonostante il mio desiderio fosse quello di lasciare la porta
aperta. Il vero e il falso non hanno niente a che vedere con la logica. La
logica può solo conoscere il deducibile e il non deducibile, a partire dalle
ipotesi e osservando le regole deduttive.
Anche la grammatica ha le
sue regole ma non si riferiscono ai concetti ma ai nomi.
Le assurdità di Aristotele
hanno la loro radice nel suo maestro Platone, anche se l’allievo lo ha in parte
ripudiato.
Infatti, ascoltiamo il
maestro:
“Siamo soliti, non è vero, porre un’unica singola idea per ciascun
gruppo di molti oggetti ai quali attribuiamo l’identico nome.” (Platone, Republica, 596a.)
Il nome della classe viene
usato per indicare i singoli individui, per cui, per poter parlare della
classe, Platone ha bisogno di inventare l’idea che, a sua volta, diventa un
individuo concreto, anche se nel mondo iperuraneo. Ancora una volta il nome
della cosa è diventato la cosa.
In base a tali continui
slittamente semantici, Platone crede di poter contestare la ferrea logica
parmenidea:
“LO STRANIERO: E’ cosa che fa ridere, in un certo senso, ammettere che
ci siano due nomi senza porre altro che una sola cosa.
TEETETO: Come no?
LO STR: Ed anche sarebbe senza senso accettare senz’altro che uno affermi
che vi è un qualche nome.
TEET: Perché?
LO STR: Ponendo il nome della cosa, uno parla, comunque, di due cose.
TEET: È vero.” (Sofista, 244,c,d)
La logica di Platone diventa
stringente quando si assuma, come Platone assume, l’identità: “parlare=profferire=significare”.
Con tale assunto egli fa subito concludere allo straniero, con l’incantata
approvazione di Teeteto, che se il nome è identico alla cosa allora o è niente
o è il nome di qualcosa e tale qualcosa non può essere altro che il nome
stesso. Naturalmente non gli balena nemmeno nella mente che il nome appartiene
al mondo delle parole e la cosa al mondo delle idee, perché per Platone il nome
è anche idea e, quindi, la cosa ed il suo nome sono due ed insieme stanno
nell’unico mondo delle idee, come il Padre e lo Spirito Santo, ed entrambe
producono il sensibile, come Cristo in terra.
Più avanti fa dire allo
straniero che “c’è un duplice genere dei
nostri segni fonici che indicano l’essere di qualcosa”: il “nome” ed il
“verbo”, ed identifica la proprietà logica di “essere individuo” con il nome,
che per lui è un essere , e la proprietà logica di “essere
predicato”, cioè “classe”, con il verbo, il quale rappresenterebbe un altro
“essere”. Non c’è più alcuna differenza tra grammatica, logica ed ontologia. Ma
dobbiamo concludere nello stesso tempo, seguendo la logica di Platone, che dal
momento che questi “enti” hanno nomi diversi devono avere “essenze” diverse.
Difficile districarsi in questo pateracchio.
Con tale miscuglio di parole
senza senso Platone crede alla fine di poter demolire l’inoppugnabile logica di
Parmenide.
“LO STR: Lo sai che noi abbiamo abbandonato Parmenide e siamo andati
assai al di là del suo divieto?
TEET: E perché?
LO STR: Più di quello ch’egli ci proibì di prendere in esame, noi ricercammo,
procedendo oltre il limite e anche più avanti, e gliene demmo dimostrazione.
TEET: Ma come fu?
LO STR: Perché egli in qualche luogo dice:
Tu infatti mai costringerai ad essere ciò che non è,
tu invece da questa via, nel tuo cercare, tieni lontano il pensiero.
TEET: Parmenide si esprime proprio così.
LO STR: E noi invece abbiamo dimostrato che sono le cose che sono, ma
siamo giunti persino a
scoprire quel
genere che è proprio di ciò che non è. Dimostrando infatti che la natura del
diverso è ed è distribuita a tutte quelle cose che sono e che hanno rapporti
reciproci, noi osammo affermare che ciascuna parte di questa natura in quanto
contrapposta a una parte di “ciò che è”, proprio essa è realmente “ciò che non
è”.
TEET: Ed io,
straniero, penso che noi abbiamo detto il vero, assolutamente.” (Sofista, 258, c, d, e).
Questa autoconsolazione,
nella credenza di avere finalmente trovato la verità assoluta, appare davvero
comica quando si esamini la sostanza della dimostrazione platonica e
specialmente quando la si confronti con la logica di Parmenide.
Il succo della dimostrazione
è: il “ciò che non è” è diverso dal “ciò che è” , con ciò affermiamo che
esso “è diverso” e quindi “è”!
Con tale stupidata Platone ha
“superato” Parmenide, e molti parlano di “parricidio”! Al più si può
considerare un “patrignicidio”.
Prima di confrontarlo con
Parmenide esaminiamo il grossolano errore di Platone.
Esaminiamo le seguenti
proposizioni:
“Platone è filosofo”
“filosofo è uomo”
“uomo e classe”.
Secondo la forma linguistica
tutte e tre le proposizioni hanno la “forma”: soggetto, copula, predicato; ma,
secondo il significato logico, il soggetto della prima (Platone) indica un
“individuo” che è membro di una “classe” (filosofo), indicata dal predicato.
Il soggetto della seconda (filosofo) indica una “classe” che è parte di
un’altra “classe” (uomo) la quale compare come predicato. Nella terza il
soggetto è ancora una classe che però compare come “individuo” di una “classe”
che funziona da predicato, ma in questo caso il predicato “classe” coincide con
il nome “classe”, ma per il resto niente di particolare dal punto di vista
logico (dal punto di vista formale bisognerebbe aggiungere un altro assioma ma
qui sorvoliamo2).
Notiamo che la proprietà di
essere individuo o di essere classe non è una proprietà del nome o della cosa,
ma solo della funzione che la cosa o il nome della cosa, in questo caso la
distinzione è irrilevante, assumono nella proposizione.
La copula “è” ha lo stesso significato nella
prima e nella terza (in esse si lega un inviduo a una classe con la stessa
relazione logica, indicata da Peano con il segno Î), nella seconda il significato della copula è,
invece, diverso (in essa si lega una classe ad un’altra classe colla
particolare relazione di inclusione, indicata da Peano con il segno É).
Da queste importanti
distinzioni logiche deriva che alcuni sillogismi sono corretti, altri sono
scorretti (e, purtuttavia, la conclusione può essere vera, naturalmente per
puro caso).
1) “Platone è filosofo” e
“filosofo è uomo”, quindi, “Platone è uomo”.
Corretto, perchè noi
assumiamo l’assioma filosofo É uomo, quindi,
per chiunque ritenga che Platone sia un filosofo allora la conclusione è anche
vera, oltre che corretta, per chi non ritiene che Platone sia un filosofo, la
conclusione resta corretta ma falsa, perché è falsa l’ipotesi (in realtà per
tirare la conclusione occorre un altro assioma, ma qui sorvoliamo2)
2) “filosofo è uomo” e “uomo
è classe”, quindi, “filosofo è classe”.
Corretto, perché noi
assumiamo l’assioma che una sottoclasse è anche una classe. In questo caso la
conclusione è sempre vera per una pura convenzione linguistica.
3) “Platone è filosofo” e
“filosofo è classe”, quindi, “Platone è classe”.
Scorretto ed assurdo, perché
abbiamo confuso le due relazioni Î e É, cosa che sistematicamente
fa Platone.
Ora possiamo capire la
logica di Parmenide.
Il mondo sensibile è solo
apparenza, contrariamente alle opinioni
dei mortali, le quali si possono esporre soltanto con un ingannevole andamento delle parole originate
dall’abitudine che nasce dalle mutevoli
esperienze e perciò spesso costringe a
usar l’occhio che non vede e l’orecchio che rimbomba di suoni illusori e la
lingua senza raziocinio.
Anche il reale, lo possiamo
esprimere soltanto con le parole, ma solo con quelle che seguano il sentiero della Persuasione, giacché questa
tien dietro alla Verità, cioè la via della logica, la quale ci costringe a
dire che il dire e il pensare sia
l’essere, mentre il nulla non è.
Se io penso qualcosa e la dico, quella cosa “è”
e non è possibile che non sia, perché il non essere ne lo puoi pensare (non è
infatti possibile), nè lo puoi esprimere.
Senza di questo saranno soltanto parole il nascere ed il
perire, l’essere e il non essere, il cambiamento di stato e la mutazione del
brillante colore.
Quindi bisogna allontanarsi
da quelli per cui l’essere e il non
essere sono ritenuti identici e non identici, come noi abbiamo visto che fa
Platone, perchè cotali mortali nulla
sanno e vanno errando, gente dalla doppia testa. Perché è proprio l’incapacità
che è nel loro petto che dirige l’errante mente; ed essi vengono trascinati
insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi.
Se noi diciamo che qualcosa
“è”, ciò è equivalente a dire che “è una cosa” o che “è un essere”, e non
specifichiamo nessun altro attributo, vogliamo semplicemente dire che il
qualcosa “è definito da una qualche proprietà la quale definisce, a sua volta, una
classe”, e non diciamo niente altro. Una tale proposizione è banale e perciò
sempre vera. Al posto di “cosa” o di “essere” possiamo mettere un simbolo
qualsiasi, p. es. Ú, definito come quella
classe che includa ogni altra classe. Ma, “necessariamente”, l’“essere”
così definito risulterà ingenerato,
imperituro, tutto intero, unico, immobile e senza fine, e non potrai dire
di esso che era o che sarà, perché è ora
e tutto insieme, uno, continuo, non può avere né passato, né futuro, difatti quale origine gli vuoi cercare? Come
e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò nè di dirlo nè di
pensarlo. Infatti non si può nè dire nè pensare ciò che non è.
Né alcun altro attributo gli
possiamo dare, non può essere né più grande, né più piccolo, nè che abbondi da
un lato o che sia di meno dall’altro, perché non appena gli avremo dato un
qualsiasi attributo, esso cessa di essere l’“essere indeterminato” e diventa
“essere determinato”, e tutto ciò che non è quell’essere determinato sarà
ancora un essere determinato ma determinato dall’attributo contrario, perché i mortali furono del parere di
nominare due forme, tuttavia dell’essere indeterminato, del Ú, c’è una sola forma, l’altra i mortali non
dovevano nominarla e in questo sono
andati errati, infatti, il complemento della proprietà banale di essere una
qualche cosa è la proprietà di non essere alcuna cosa, cioè la proprietà
assurda, il nulla.
Ora capiamo l’errore logico
di Platone, il quale, non riuscendo a capire la distinzione puramente logica
tra individuo e proprietà (infatti, come abbiamo visto, la distinzione
grammaticale tra soggetto e predicato non solo non è sufficiente ma non ha
niente a che vedere né con la logica né con la realtà) confonde il verbo essere
con una sostanza, come poi Aristotele chiamerà l’idea-nome di Platone, e arriva
alla conclusione assurda che abbiamo visto, la quale nella sostanza significa
che della stessa cosa si può tranquillamente affermare che è e che non è, nello
stesso tempo. Allora: Evviva la grammatica! Abbasso la logica!
Note
APPENDICE
Tratto da DE
DERIVAZIONE di G. Peano.
(Academia pro Interlingua. Discussiones, torno III,
1912, pp. 20 - 43)
Nostra traduzione in italiano dall’originale in
Interlingua
In questo scritto vengono considerati i principali
suffissi della derivazione nelle lingue europeee e si esamina se essi siano
necessari. Non bisogna, tuttavia, confondere necessari con utili. Il
vino, la carne, i vestiti, la casa, non sono necessari, infatti Diogene non li aveva; ma la gente li ritiene utili e non dannosi.
LE PARTI DEL DISCORSO
sono sostantivo,
aggettivo, pronome, verbo, ecc. La grammatica latina in generale ne
considera nove; qualche grammatica ne ha un numero minore. La grammatica greca
ne ha dieci, cioè quelle del latino con in più l’articolo. Anche la grammatica
francese ne enumera dieci; nella grammatica italiana il loro numero è alquanto
variabile.
Secondo Max Müller, The science of tought, London 1887, le categorie grammaticali
derivano da Aristotele, il quale separa i vocaboli greci in dieci classi. La
traduzione latina dei nomi delle categorie, secondo i filosofi scolastici, è:
“1 substantia, 2 quantum, 3 quale, 4 ad aliqui, 5 ubi, 6 quando, 7 situm esse, 8 se habere, 9
agere, 10 pati”.
M. Müller
sostiene che esse corrispondono nella nomenclatura attuale a:
1 sostantivo, 2 aggettivo di quantità, 3 aggettivo
di qualità, 4 aggettivo relativo, 5 avverbio di luogo, 6 avverbio di tempo, 7 e
8 verbo intransitivo, 9 verbo transitivo attivo, 10 verbo passivo.
Esempi tratti da Aristotele:
1 uomo, cavallo; 2 di due metri; 3 bianco; 4
duplice, maggiore; 5 a casa; 6 ieri; 7 giacere, stare; 8 essere caldo; 9 tagliare, bruciare;
10 essere tagliato. Müller nota che tale classificazione è relativa al greco;
la classificazione dei vocaboli nella lingua semita o in quella cinese è
diversa.
Nelle lingue neolatine, la traduzione degli esempi
2, 5, 8, 10 è stata resa con delle frasi e non con singoli vocaboli.
Le categorie di Aristotele, modificate, fuse,
suddivise, originano le 10 categorie grammaticali posteriori.
Dal fatto che tali categorie grammaticali valgono
per il greco e per le lingue affini, ma non per le altre lingue, se ne deduce
che tale classificazione e di natura formale. Le proprietà dei vocaboli sono reali, “de re”, se riguardano l’oggetto ovvero l’idea
indicata dal vocabolo, esse sono formali,
“de forma”, se riguardano la
forma di un vocabolo che indica una qualche idea. Per esempio nelle seguenti
proposizioni:
1. l’uomo è razionale,
2. uomo e
bisillabo,
1. il cane ha quattro zampe,
2. cane ha quattro lettere,
1. la stella è luminosa,
2. stella è di genere femminile,
è
evidente che le proposizioni 1 esprimono proprietà reali, e le proposizioni 2
esprimono proprietà formali di uomo,
cane, stella. Ora noi siamo in grado di dire se la proposizione “uomo, cane, stella sono sostantivi”
esprima proprietà reali o formali.
La distinzione tra proprietà reali e formali è ben
nota ai matematici. Delle due proposizioni:
2/3 è una frazione minore di uno,
2/3 è una frazione irriducibile,
la
prima esprime una proprietà reale e la seconda una proprietà formale: la prima
resta vera se a 2/3 noi sostituiamo l’uguale frazione 4/6, sostituzione che,
invece, falsifica la seconda proposizione.
Si può riconoscere se la proprietà di un nome è
reale o formale, sostituendo il nome con un altro nome equivalente della
stessa lingua o di altra lingua.
Le proposizioni 1 rimangono vere se sostituiamo a uomo, cane, stella le voci equivalenti man, dog, astro, mentre le proposizioni
2 non rimangono vere.
Homo in latino è sostantivo,
infatti viene declinato: homo, hominis,
homini, ecc.; ed è detto sostantivo anche nelle lingue moderne, che
conservano l’antica nomenclatura, nonostante abbiano perso la declinazione.
Ma abbiamo detto che Müller afferma che tale
classificazione non si può applicare al semitico o al cinese. M. Bréal, Essai de sémantique, Paris 1899,
afferma: “Vi sono lingue che non distinguono le categorie”; e simili
affermazioni vengono fatte da tutti i glottologi. Risulta che la proposizione
“uomo è sostantivo e non verbo” non è vera in tutte le lingue, trattandosi qui
di proprietà formali dei vocaboli e non reali.
Ma non è necessario ricorrere alle lingue orientali.
Abbiamo degli esempi anche nelle nostre lingue. In italiano: “la nota, la
forma, la prova, la cura, la figura”, ma anche “egli nota, egli forma, egli
prova, egli cura”; in francese: “la note, la forme, la figure” e “il note, il
forme, il figure”; lo stesso vocabolo, a seconda dei casi, viene considerato
ora come sostantivo, ora come verbo. Una tale situazione è molto più comune
nell’inglese. Per esempio:
“I ink a pen, I pen a word, I word a thing”
(io
metto l’inchiostro nella penna, io scrivo una parola, io esprimo una cosa), le
voci ink, pen, word corrispondono sia
ai sostantivi, sia ai verbi delle lingue neolatine. In generale, qualunque
vocabolo inglese è, al contempo, sostantivo, aggettivo e verbo.
Nelle definizioni delle parti del discorso si dice
“i sostantivi hanno declinazione, i verbi hanno coniugazione” (così, per
esempio, nelle grammatiche latine di Vanicek, Schultz, Zambaldi). È ovvio che tali definizioni
sono formali, cioè morfologiche. Tale studio si chiama morfologia. Sopprimendo
la declinazione e la coniugazione noi veniamo a sopprimere ogni distinzione tra
sostantivo e verbo.
Qualche grammatico definisce le parti del discorso
in una forma che sembra riferirsi al reale.
Nel Larousse si ha:
“Nome sostantivo: parola che designa persona o
cosa”.
“Nome aggettivo: parola che serve a qualificare una
persona o una cosa.”
Ora, se noi consideriamo la frase latina “Petrus est
bonus, Petrus est poëta”, le voci bonus e
poëta
egualmente qualificano e designano la persona Pietro, quindi, stando al
Larousse, entrambi sarebbero sostantivi ed aggettivi; ma secondo la grammatica
latina, bonus, bona, bonum concorda
con il soggetto, invece poëta no; quindi, in latino, bonus è aggettivo, poëta è sostantivo.
Se noi sopprimiamo la concordanza, come nell’inglese, noi avremo soppresso
l’aggettivo. L’Enciclopedia Britannica, in un articolo riprodotto in “Discussiones”
t. II, pag. 42, specifica: “La distinzione fra nome e aggettivo non è
applicabile nella grammatica inglese”. L’usuale frase “aggettivo invariabile”,
che si incontra in alcuni libri sulle lingue internazionali, è autocontraddittoria.
. . . . . . .
Studiamo
ora i suffissi che trasformano una determinata parte del discorso in un’altra.
AGGETTIVO DA VERBO, A - V ,
§1. - Se al tema di un verbo, per
esempio, stude, aggiungiamo il suffisso
-nte, otteniamo l’aggettivo studente, participio presente attivo
relativo a stude....
Dall’uguaglianza:
studente = che studia,
risulta
che il suffisso -nte ha lo stesso
valore della voce che; quindi il
suffisso -nte del participio non
è necessario.
Molti
altri suffissi hanno un identico valore o comunque molto simile: attore = che
agisce, attivo = che agisce, fugage = che fugge, rapace = che rapisce, valido =
che vale, fulgido = che fulge, fluido = che fluisce, nocivo = che nuoce,
pendolo = che pende, vivo = che vive, medico = che medica.
Possiamo indicare il vocabolo che, ed ogni suffisso ad esso equivalente, il quale trasforma un
verbo in aggettivo, con il simbolo A - V, da leggere
“aggettivo meno verbo”:
A - V
= che = (stude)nte = (udi)tore = (rap)ace = (val)ido =
(noc)ivo = (pend)olo = (viv)o = (med)ico.
VERBO DA AGGETTIVO, V - A ,
§2. - Se aggiungiamo è ad un
aggettivo derivato da un verbo con l’operazione A - V , riotteniamo il verbo primitivo:
è studente = studia.
Quindi:
è [uno] che studia = [uno] studia, e, d’altra parte, [uno] che studia = [uno]
studente.
Possiamo
scrivere, come in algebra, il segno + tra i due elementi, indicando con 0
un’espressione con valore nullo, avremo
è + che = che + è = 0.
Se
davanti ad un aggettivo poniamo è, otteniamo un verbo. Esempi: aiuta = è
aiutante, agisce = è agente, chiama = è chiamante, ecc.
O
similmente, amministra = è amministratore, agisce = è attore, ecc.
. . . . . .
Possiamo
indicare con il simbolo V - A, la voce è,
che ha valore opposto A - V. Si ha:
è = V - A (V
- A)+ (A
- V)
= 0.
L’ugualianza “è + che =0” ci dirà che il
participio presente di è ha valore nullo. Infatti non esiste nel latino
classico.
Tuttavia esiste in greco sotto la forma ont-, da cui ontologia, che Quintiliano, nell’anno 100, trasforma in ente, vocabolo che è rimasto in
italiano, ente o essere, e in francese, être; in
modo simile viene costruito l’inglese being.
Tale vocabolo è di uso comune nella filosofia.
Si
verifica subito il suo valore nullo:
inglese: “man is a rational being = man is
rational”,
italiano:
“l’uomo è un ente razionale = l’uomo è razionale”.
Consideriamo
la proposizione (in interlingua):
“me
es praesente, tu es absente” (io sono presente, tu sei assente)
essa
consta degli elementi:
“me es prae es -ente, te es ab es -ente”
sopprimiamo
es + -ente = 0 e avremo
“me es prae, te es ab”.
La grammatica considera absente come aggettivo e ab come
preposizione; concludiamo che l’aggettivo vale come preposizione. Possiamo
trasformare l’ab della proposizione precedente con
l’italiano lungi o col francese loin, che la grammatica classifica come
avverbi, e ancora ne risulta l’identità di aggettivo, avverbio, preposizione.
§3. — Il
latino spesso tace il verbo est. Nella
proposizione “ars longa vita brevis” gli aggettivi longa, brevis fungono da predicato, cioè, da verbo: est longa, est brevis. Quindi, aggettivo
= verbo.
Qualche grammatico dice che la frase “vita brevis” è
ellittica, manca del verbo est. Il
che significa che est non è scritto, ma cio non
significa che “vita brevis” è un’abbreviazione della più antica “vita est
brevis”. Infatti l’introduzione del verbo esse
è più recente. Frasi senza esse sono
frequenti in latino, in greco, in slavo, nel russo moderno, in arabo, ecc. M.
Müller ricorda che
“Tutti i verbi ausiliari sono semplicemente le ombre
di verbi che originariamente significavano crescere, risiedere, rivoltare,
respirare.”
Dunque l’uso della copula tra soggetto e attributo è
posteriore.
Secondo Aristotele, uomo (ánthropos) è un nome (ónoma),
e bianco (leucón) è un verbo (rhéma), mentre la grammatica
moderna ci dice che bianco è
aggettivo.
Nella frase di Plauto “homo homini lupus”, il
sostantivo lupus ha la funzione di
verbo.
Il consocio Vacca, valente matematico, filosofo,
glottologo e viaggiatore nella Cina, cita la frase “ΛΛΛ” che potremmo leggere “uomo
uomo uomo”, che significa “l’uomo umaneggia con gli umani”; il vocabolo “uomo”
corrisponderebbe ad un sostantivo, ad un verbo e ad un aggettivo della nostra
lingua; ma in realtà non appartiene ad alcuna categoria grammaticale.
SOSTANTIVO ASTRATTO, DA VERBO, S - V ,
§4. -Dal verbo temo deriva l’astratto timore, che aggiunto ad ha, nella frase “ha timore”, riproduce temo. Consideriamo prima i sostantivi
astratti che con ha riproducono il
verbo. Es.: ha ardore, dolore, fervore, ...
Dall’esempio “ha ardore = arde”, deriva che possiamo
indicare con S - V
il suffisso -ore e ogni altro
suffisso equivalente, e con V - S, il suo opposto, ha. Si avrà:
ha + -ore =
0.
. . . . . . .
SOSTANTIVO ASTRATTO, DA
AGGETTIVO, S - A ,
§12.
- Dall’aggettivo libero
deriva il sostantivo astratto libertà,
che soddisfa la relazione:
ha libertà = è libero
se operiamo con che,
opposto di è, si ha:
libero = che ha libertà = con libertà.
Equivalentemente:
giovane
= che ha gioventù
ampio
= che ha ampiezza
triste
= che ha tristezza
ricco
= che ha ricchezza.
Indichiamo con il simbolo S - A, che leggeremo “sostantivo meno
aggettivo”, l’elemento grammaticale
espresso dai suffissi -tà, -tù, -ezza, ed equivalenti, e col simbolo A - S il suo opposto:
A - S = che ha = con.
Dalle
uguaglianze che = A - V e ha =
V - S, in accordo con le
regole dell’algebra, risulta:
A - S = (A - V) + (V - S).
La
differenza tra libero e libertà è formale, cioè grammaticale. Il
primo termine segue ad è, il secondo termine segue ad ha; possiamo dire che il primo concorda
con è, l’altro con ha.
Notiamo
la coincidenza di è ed ha nella
proposizione:
“il
bue è quadrupede” = “il bue ha quattro piedi”.
Tratto
da INTERLINGUA di G. Peano
Terza ed., tip. Foà, Torino,
1927.
Nostra traduzione in italiano dall’originale in
Interlingua
LINGUA SENZA GRAMMATICA
La grammatica, tormento della fanciullezza, è quasi sempre inutile. Consideriamo, per esempio, l’italiano:
Io scrivo. Tu leggi. Noi abbiamo una lingua e due orecchi. La lingua internazionale ieri era un’utopia, domani sarà la verità.
Riscriviamo tutti i vocaboli nella forma riportata dal vocabolario, sopprimendo
gli elementi inutili; otterremo un italiano senza grammatica:
Io scrivere. Tu
leggere. Noi avere una lingua e due orecchio. Lingua internazionale ieri essere
utopia, domani essere verità.
Questa lingua è altrettanto chiara quanto una lingua con grammatica.
Se, aiutandoci con un vocabolario italiano - francese, traduciamo tutti i vocaboli, otterremo un francese senza grammatica:
Je écrire. Tu lire. Nous avoir un langue et deux oreille.
Langue international hier être utopie, demain être vérité.
Tale lingua è il “petit négre”, comodo per coloro
che non possono occupare anni della loro vita per studiare le 2265 forme
diverse dei verbi della lingua francese (Lemaire, Leçons sur Ilo, 1909).
Inglese senza grammatica:
I write. You read. We have one tongue and two ear.
Questo è veramente inglese con l’eccezione di ear-s. Infatti la lingua inglese ha poca
grammatica.
La lingua cinese non ha
grammatica. Le formule matematiche, come 2 + 3 = 5, sono proposizioni senza
grammatica.
La lingua senza grammatica è di immediata
interpretazione con il solo aiuto del vocabolario. Un viaggiatore in una nazione
straniera, che conosce 100 vocaboli, può parlare nella lingua senza grammatica
e la gente lo potrà capire.
Tuttavia non è decente pubblicare un libro in una
lingua nazionale senza grammatica o addirittura contro la grammatica, allo
stesso modo che non è decente camminare in pubblico con vestiti contrari al
costume corrente.
Noi non temiamo l’indignazione di Cicerone e di
Orazio e perciò possiamo ridurre ogni vocabolo al suo semplice tema e ne
risulterà il “latino sine flessione”:
Me scribe. Te
lege. Nos habe uno lingua et duo aure. Lingua internationale heri es utopia,
cras veritate.
Ma la grammatica non è sempre inutile. Se la
soppressione delle flessioni dovesse confondere il singolare con il plurale, il
passato con il futuro, l’attivo con il passivo, allora bisognerà cambiare la
forma della proposizione.
B. Russell, The principles of mathematics, Cambridge,
1903, ritiene che:
“L’eccellenza delle grammatiche, in quanto regole di
logica, è inversamente proporzionale al numero delle flessioni, perché ciò
denota un elevato grado di analisi che è stato effettuato sul linguaggio
considerato”.
La distinzione delle parti del discorso “sostantivo,
aggettivo, verbo, avverbio, preposizione”, riguarda solo le lingue con le
flessioni; e non ha alcun valore logico; ciò è arcinoto ai linguisti. Tutta la
nomenclatura della grammatica risulta essere senza alcun valore.
. . . . . . .
Occupiamoci ora della grammatica latina e delle
lingue moderne.
Il caso latino è morto ...
Si può sempre sopprimere il plurale nelle
proposizioni che i logici chiamano “universali”: I leoni sono forti = Il leone
è forte.
Quando il plurale ha valore logico si può sostituire
con un apposito vocabolo: Il padre ha figli = Il padre ha più di un figlio.
L’articolo non esiste in latino ed in russo
ed è quasi sempre inutile: Il tempo è moneta = Tempo è moneta.
Quando ha valore logico significa quello: Dammi il libro = Dammi quel
libro. . .
Il genere se è artificiale è un’inutile complicazione,
se è naturale si aggiunge maschio o femmina: il cane = cane maschio, la
cagna = cane femmina.
La concordanza di aggettivo e sostantivo non esiste
in inglese ed è inutile. . .