Il caos
epistemologico intorno a
“caso” e
“complessità”
Nella pubblicistica dei nostri giorni vanno
emergendo delle entità metafisiche, alcune vecchie quanto il mondo, come il “caso”
ed il “caos”, altre di nuovo conio, come la “complessità”.
Queste entità prendono posto entro quella che
viene chiamata la terza rivoluzione
scientifica, dopo la relatività e la meccanica
quantistica,1 cioè la
cosiddetta nuova scienza del caos.
Qui la confusione, o caos linguistico, è
massima. Non è chiaro se tale nuova scienza del caos è una teoria, un modello,
un paradigma, o una mera raccolta di fatti empirici, malamente interpretati.
C’è chi parla di nuovi “modelli caotici”, chi di una nuova teoria, chi di un
nuovo paradigma.2
Tutti questi termini, cioè scienza, teoria,
modello, fatto, paradigma, ecc., questi sì, sono il più sovente impiegati “a
caso”, con significati molto fluidi ed interscambiabili, ma più spesso senza
significato alcuno.
Si scrive con grande sicumera della crisi del
determinismo, inneggiando al nuovo indeterminismo nelle scienze naturali. Ma
non viene mai esplicitamente spiegato se deterministico o indeterministico è
il mondo o se lo sono le teorie, i modelli, o i paradigmi.
Spesso “caos” e “caso”, vengono ad essere,
appunto, delle nuove entità teologiche, e, poiché in realtà non si sa cosa
siano, diventano gli dei creatori dei processi naturali!
“Il caos
genera i frattali in modo naturale”, si
scrive.3
Riportiamo qui alcuni emblematici brani di
due tra i più noti e autorevoli moderni demiurghi della moderna scienza dove
la confusione, o caos concettuale, è piuttosto grande e che mi permetterò di
commentare filosoficamente.
“Michel Serres
ha ricordato recentemente che i primi
atomisti si erano così tanto occupati dei flussi turbolenti che sembra
legittimo considerare la turbolenza come una fondamentale fonte di ispirazione
della fisica lucreziana. A volte, scrive Lucrezio, in tempi e luoghi incerti,
una deviazione minima, il clinamen, turba la caduta eterna e universale degli atomi. Dal vortice
che ne risulta, nasce un mondo e la totalità delle cose naturali. Il clinamen,
deviazione spontanea, senza causa, è stato spesso criticato come una delle più
grosse debolezze della fisica lucreziana, come un postulato assurdo, un
artificio introdotto ad hoc. Ma questa conoscenza non traduce forse al
contrario, il fatto che il flusso lamellare può cessare di essere stabile e dar
luogo spontaneamente all’organizzazione dei vortici? Gli idrodinamici moderni
sottomettono il flusso continuo allo stesso test introducendo una perturbazione
che esprime l’effetto del disordine molecolare che si aggiunge al flusso
normale. Non siamo tanto lontani dal clinamem di Lucrezio!
Per molto
tempo la turbolenza è stata identificata con il disordine, il rumore. Tuttavia
oggi sappiamo che non è cosi. Mentre il moto turbolento sembra irregolare e
caotico su scala macroscopica, su scala microscopica è, al contrario, altamente
organizzato. La molteplicità delle scale spazio-temporali corrisponde al
comportamento coerente di milioni di milioni di molecole. Da questo punto di
vista il passaggio dal flusso lamellare alla turbolenza è un processo di
auto-organizzazione. Una parte dell’energia del sistema, che nel flusso
lamellare era nel moto termico della molecola, è stata trasferita al moto
microscopico organizzato.
È interessante
notare che questo corrisponde molto bene alla visione di Lucrezio: il clinamen
come base del ‘mondo organizzato’. Ma l’essenziale per noi e che viene in luce
uno stretto legame tra auto-organizzazione e distanza dall’equilibrio.
L’instabilità
detta di ‘Bénard’ è un altro esempio lampante di come l’instabilità di uno
stato stazionario dia luogo ad un fenomeno di auto-organizzazione spontanea.
L’instabilità è dovuta ad un gradiente verticale di temperatura imposto ad uno
strato orizzontale liquido. La superficie inferiore dello strato è portata
fino ad una data temperatura, più elevata di quella della superficie superiore.
L’asimmetria di queste condizioni al limite determina un flusso di calore
permanente dal basso verso l’alto. Quando il gradiente imposto oltrepassa una
valore-soglia, lo stato di riposo del fluido, vale a dire lo stato stazionario
in cui il calore viene trasmesso per diffusione senza effetti di convezione,
diventa instabile. Si instaura allora un fenomeno di convezione, di moto
coerente delle molecole del liquido, che accelera la trasmissione del calore.
Dunque per valori assegnati del gradiente di temperatura, la produzione di
entropia del sistema aumenta, in contrasto con il teorema di minima produzione
di entropia. L’instabilità di Bénard è un fenomeno spettacolare. Il moto di
convezione che si instaura consiste in una complessa organizzazione spaziale
del sistema. Milioni di milioni di molecole si muovono coerentemente, formando
cellule di convezione esagonale di taglia caratteristica…
Nel caso
dell’instabilità di Bénard, una fluttuazione, una corrente microscopica di
convezione, si è arnplificata fino a divenire una corrente macroscopica che
invade l’intero sistema. Al di là del valore critico del gradiente imposto, si
è dunque stabilito spontaneamente un nuovo ordine molecolare, in corrispondenza
di una fluttuazione divenuta gigante e stabilizzata dagli scambi di energia
con il mondo esterno, dal gradiente che continua ad alimentarla.
In condizioni
lontane dall’equilibrio, il concetto di probabilità che soggiace al principio
d’ordine di Boltzmann non è più valido.”4
Leggendo questa lunga citazione scopriamo
intanto che il “clinamen” di Lucrezio viene identificato con la “turbolenza”,
forse semplicemente perché “turba la caduta ...”. Ma non basta! Secondo Prigogine
il clinamen è “deviazione spontanea e senza causa”, quindi è casuale, è il
“caso”, infatti viene assimilato a “una perturbazione che esprime l’effetto del
disordine molecolare che si aggiunge al flusso normale”. Ma subito dopo
apprendiamo che la turbolenza, e quindi anche il clinamen, e quindi anche il
caso, non si deve identificare con il disordine e con il rumore, cose che
tutti dicono essere fenomeni caratteristici del caso. Non ci resta altra scelta
che identificare il caso, il clinamen e la turbolenza con una nuova dea
dell’Olimpo, misteriosa e onnipotente, capace di innescare meccanismi di
auto-organizzazione che danno origine al mondo vivente.
Per non dire dei riferimenti a Lucrezio di
cui diremo in un capitolo a parte.
Infatti come nella mitologia greca il caos è
creatore del mondo ordinato, è il padre degli dei:
“Al caos
indifferente dell’equilibrio segue un caos creatore simile a quello evocato da
alcuni presocratici, un caos fecondo, da cui potenzialmente possono uscire
differenti strutture”.5
Quindi:
“Storia e
complessità: due dimensioni parimenti assenti dal mondo che il demone di
Laplace contempla. La dinamica classica suppone una natura nello stesso tempo amnesica,
senza storia e completamente determinata dal suo passato; una natura
indifferente in cui ogni stato è equivalente, una natura senza ombre e luci,
piatta ed omogenea, quasi l’incubo di un universale non-senso. Il tempo di
questa fisica è il tempo del dispiegarsi progressivo di una legge eterna,
segnata una volta per tutte, e completamente espressa da un qualsiasi stato del
mondo.”6
Questo significa che Galileo e Newton hanno
sbagliato tutto perchè non hanno tenuto conto di questo diavoletto “turbolento”
che capricciosamente si introduce nella dinamica per fare cose da pazzi! Resta
sottinteso che per sapere come agirà il diavoletto dobbiamo chiedere a
Prigogine, che con esso è capace di spiegare anche la storia e la complessità,
anch’esse figlie del caso. Siamo ritornati alle teogonie dei miti orfici!
E ancora:
“Le celle di
Bénard ci riservano altre sorprese. ... Non appena
Δ T supera leggermente Δ Tc
(la soglia critica), sappiamo perfettamente che appariranno le celle; questo
fenomeno è dunque soggetto ad uno stretto determinismo. Al contrario, la
direzione delle celle è impredicibile e incontrollabile: solo il caso, sotto
forma della particolare perturbazione che ha prevalso al momento
dell’esperimento, può decidere se una certa cella è destrogira o levo-gira.
Arriviamo così a una notevole cooperazione fra determinismo e caso... Vediamo
che lontano dall’equilibrio, ovvero quando il vincolo è sufficientemente
forte, il sistema si adatta a ciò che lo circonda in molti modi diversi, o per
essere meno antropomorfici, diciamo che più soluzioni sono possibili per gli
gli stessi valori parametrici. Solo il caso deciderà quale di queste soluzioni
verrà realizzata. Il fatto che, fra molte scelte solo una venga realizzata
conferisce al sistema una dimensione storica, una sorta di ‘memoria’ di un
evento passato che ha avuto luogo in un momento critico e che inciderà sulla
sua ulteriore evoluzione.”7
Come si vede in Prigogine il caso e la
necessità, il caos e l’ordine, naturalmente accoppiate alla complessità,
diventano vere e proprie entità ontologiche che decidono come deve evolvere il sistema, generano il nuovo, il
complesso, la storia, ma nello stesso tempo quello che si deve ripetere, cioè
il vecchio. Dentro questa sua fisica o metafisica o teologia (come chiamarla?)
Prigogine riscopre Nietzsche, Bergson, Hegel, e guarda caso, Aristotele!
Infatti:
“Si è detto
spesso, ed abbiamo già avuto occasione di ripeterlo, che la scienza moderna è
nata quando si è abbandonato lo spazio aristotelico, che si ispirava in
particolare all’organizzazione e alla
solidarietà delle funzioni biologiche, per rimpiazzarlo con lo spazio omogeneo
ed isotropo di Euclide. Tuttavia la teoria delle strutture dissipative ci
riconduce ad una concezione più vicina a quella di Aristotele. ... Quando in seguito ad una instabilità compare una direzione
privilegiata, lo spazio cessa di essere isotropo. Passiamo dallo spazio
eudideo ad uno spazio aristotelico!”8
Ma qui scopriamo l’arma segreta di Prigogine, egli prende i “fatti empirici”, per i quali vale la concezione aristotelica dello spazio e crede con questi di “confutare” alcuni “modelli teorici”, nei quali, essendo delle “idealizzazioni”, vale invece la concezione eucidea dello spazio. Siamo di fronte alla stessa confusione di linguaggi con presunta “confutazione” tra Simplicio e Salviati dei dialoghi di Galileo. In realtà, come nel caso di Simplicio e Salviati, che in seguito analizzeremo in dettaglio, ci troviamo di fronte a due “paradigmi” diversi che danno definizioni inconciliabili di quello che è un “fatto” e non si limitano solo a dare diverse interpretazioni del fatto.
Naturalmente Prigogine presenta questo suo guazzabuglio
filosofico con formule matematiche e fisiche, tali da abbagliare il lettore,
sprovvisto di tali conoscenze. Maschera sotto veste scientifica una vecchia e
trita filosofia, presentata come “nuova”, che aiuterebbe a capire e ad
interpretare l’emergere del “nuovo” nella natura e nella storia. Ma forse a
Prigogine manca il significato dei termini “vecchio e nuovo”. In questo suo
miscuglio di erudizione forse la conoscenza di un vecchio adagio dell’Ecclesiaste lo avrebbe aiutato a capire: “C’è forse qualcosa di cui si possa dire: ‘Ecco questa è nuova’?
Proprio questa è già stata nei secoli prima di noi. Non c’è più ricordo delle
cose passate, come non ci sarà delle cose avvenire presso coloro che dopo
vivranno.” (versi 10 e 11).
“Vecchio e nuovo” riguardano la realtà o la
nostra conoscenza della realtà? Anche Popper, come vedremo, confonde l’una con
l’altra facendo, della nostra conoscenza della realtà, la realtà stessa.
Siamo di fronte ad un nuovo aristotelismo,
per il quale la realtà empirica coincide con la realtà fisica, per cui se gli
“ingredienti
essenziali della complessità sono: la comparsa di biforcazioni in condizioni
lontane dall’equilibrio, e in
presenza di opportune non -linearità; il verificarsi di rotture di simmetria
oltre la biforcazione; e la
formazione e il mantenimento di correlazioni di raggio macroscopico”9
allora questi stessi epifenomeni diventano la stessa realtà fisica.
Termini con mero significato formale o
linguistico assumono significato reale (“semplice e complesso” sono termini con
i quali classifichiamo la nostra comprensione delle cose, di volta in volta
definiti dentro un dato contesto linguistico, tranne che si vogliano assumere
esplicitamente come “paradigmi” o “regole filosofiche”, come fa Newton nei suoi
Principia).
Prigogine è alla ricerca della scienza della
“complessità”, come Aristotele è alla ricerca della scienza della “sostanza” .10 “Exploring the complessity” titola infatti uno dei suoi ultimi
libri.
Possiamo concludere che non è la teoria delle
strutture dissipative che ci ha portato ad Aristotele, ma, al contrario è
l’aristotelismo di Prigogine che lo ha portato alla sua particolare
interpretazione della teoria.
In questo miscuglio non manca poi una forte
dose di platonismo. Si passa dal più piatto empirismo al più ardito
platonismo, per cui modelli pur essi fisico-matematici vengono scambiati per
“fatti naturali”. Il tutto è chiaramente frutto di un miscuglio filosofico ed
epistemologico, mera ideologia.
Poichè le assurdità di Prigogine su Lucrezio,
influenzato dallo scritto di Michel Serres11,
sono molto diffuse nella letteratura filosofica e scientifica dedicherò
un capitolo a parte al significato del “clinamen” nell’opera di Lucrezia.
Per il momento esaminiamo cosa pensa un altro
importante demiurgo della nostra epoca, cioè il “convertito” Popper
(convertito, poiché è passato dalla sua primitiva adesione al determinismo12 alla difesa ad oltranza dell’indeterminismo).
Leggiamo cosa scrive a proposito della sua conversione all’indeterminismo:
“Personalmente ritengo che la dottrina dell’indeterminismo sia vera e che il determinismo sia privo di qualsiasi fondamento.
La ragione
principale della mia convinzione è l’argomento intuitivo che la creazione di una nuova
opera, come la sinfonia in sol minore di Mozart, non può essere prevista, in
tutti i suoi dettagli, da un fisico, o da un fisiologo, che studi
minuziosamente il corpo di Mozart - specialmente
il suo cervello -e il suo ambiente
fisico... Vi sono efficaci argomenti filosofici, in parte logici e in parte
metafisici, contro il determinismo; argomenti che, molti anni fa, mi convinsero
della debolezza del determinismo ‘scientifico’.
Io vedo le
teorie scientifiche come invenzioni umane - reti
progettate da noi per catturare il mondo. Certamente, esse differiscono dalle
invenzioni dei poeti e pure dalle invenzioni dei tecnologi. Le teorie non sono
solo strumenti. La nostra meta è la verità: noi con trolliamo le nostre teorie
nella speranza di eliminare quelle che non sono vere. In questo modo possiamo
riuscire a perfezionare le nostre teorie - anche come strumenti: a costruire reti sempre più adatte a catturare il
nostro pesce, il mondo reale. Esse non saranno mai, tuttavia, strumenti
perfetti per questo fine. Esse sono reti razionali da noi stessi prodotte, e
non si dovrebbero scambiare per una rappresentazione completa del mondo reale
in tutti i suoi aspetti, neppure se sono coronate da grande successo e neppure se sembrano produrre
eccellenti approssimazioni alla realtà.
Se abbiamo ben
chiaro in mente che le teorie sono opera nostra, che noi siamo fallibii e che
le nostre teorie riflettono la nostra fallibilità, allora dubiteremo del fatto
che i tratti generali di esse, come la loro semplicità, o il loro carattere
prima facie deterministico, corrispondano a tratti del mondo reale.... La teoria di Newton, consistente della legge di inerzia, della legge di
gravità, ecc., può essere vera, o molto vicina alla verità; il mondo può essere
come asserisce la teoria. Ma in essa non vi è alcuna asserzione deterministica;
in nessuna parte essa asserisce che il mondo è deterministico; è piuttosto la
teoria in quanto tale ad avere il carattere che ho definito ‘prima facie
deterministico’. …
È la teoria a
decidere cosa appartiene allo stato del sistema (posizioni, masse, velocità) e cosa non vi appartiene (ad esempio,
i diametri dei pianeti; le loro temperature; le loro qualità termiche; le loro
proprietà chimiche e magnetiche).
In secondo
luogo, la teoria ci dice quale dimensione dei ‘pianeti’ si possa trascurare (i
meteoriti, ad esempio) . In altre parole, è del tutto
ingenuo pensare che ‘ogni compito predittivo’ si riferisca ad ogni stato del mondo,
o evento nel mondo concepibile: ogni compito predittivo che si possa ritenere
spiegabile, opera sulla base di un modello semplificatore. È il risultato dell’atto
di vedere il mondo alla luce di una teoria sempliflcatrice; e qualunque cosa non venga illuminata
da questo riflettore resta oscura: viene tralasciata. …
Noi cerchiamo
di esaminare il mondo esaustivamente attraverso le nostre reti; ma le loro
maglie lasceranno sempre sfuggire qualche pesciolino: ci sarà sempre abbastanza
spazio per l’indeterminismo.”13
Nel discorso di Popper c’è grande confusione.
Se le “teorie fisiche” sono reti, attraverso, le quali catturiamo parte della
realtà fisica, lasciandone fuori altra, per cui c’è sempre “spazio per
l’indeterminismo”, per l’imprevisto, perché nel nostro “modello fisico” non
potremo mai considerare tutte le variabili di essa, l’indeterminismo è della
realtà fisica o della nostra conoscenza, delle nostre teorie (o modelli) o
dell’universo fisico, riguarda il mondo oggettivo fuori di noi o la nostra
conoscenza di esso? Per Popper, visto che lo scarto tra il modello teorico e la
realtà fisica è incolmabile, il mondo fisico è indeterministico. Bella
conclusione! Perché invece non dedurne che la nostra conoscenza resta sempre
incompleta, rispetto al mondo reale? “Determinismo e indeterminismo” riguardano
i modelli fisici, le teorie, i nuclei metafisici o i paradigmi delle teorie, o
i fatti fisici o piuttosto qualche relazione tra alcuni di questi? Tutto questo
non è chiaro in Popper. Tutto quello che si può desumere dal suo discorso è che
saremmo obbligati a concepire solo modelli indeterministici per catturare la
realtà, vale a dire che senza l’introduzione del “caso” non potremo mai
spiegarci la realtà. Ancora una volta si confonde la realtà empirica con la
“realtà” alla quale non importa un bel niente di quello che sappiamo su di
essa!
Abbiamo detto sopra che le presunte
confutazioni di Prigogine e la confutazione del determinismo da parte di
Popper somigliano molto alle confutazioni da parte dell’aristotelico Simplicio
delle affermazioni del galileiano Salviati.
È bene quindi rileggere assieme alcuni passi
significativi del dialogo galileiano.
Al proposito bisogna dire che si è molto
discusso nella letteratura filosofico - epistemologica su un
presunto “platonismo” di Galileo.14
Si dice che Galileo, come già Platone,
avrebbe dato realtà ontologica agli enti matematici, sino a farne l’essenza
della natura sensibile, apparente e volgare. Ciò in base al famoso detto
galileiano che la natura è scritta con i caratteri della matematica.
D’altra parte il presunto platonismo di
Galileo è stato rigettato muovendo da diversi punti di vista.15
Voglio qui esporre il mio personale punto di
vista sulla questione.
A mio giudizio, Galileo si muove dentro una
tradizione di pensiero, che brevemente aggettiverò “pitagorico-democritea”, che
era profondamente alternativa alla tradizione “platonico-aristotelica”.
I principi
filosofico - epistemologici delle due tradizioni sono stati illustrati
in altri scritti miei e degli altri collaboratori di questa rivista pubblicati
nei numeri precedenti16, principi
che nel seguito di questa nota verranno riassunti.
Nella letteratura filosofica odierna
raramente viene colta la profonda differenza epistemologica tra le due
tradizioni e si tende a considerare i cosiddetti
presocratici come dei bambini balbuzienti, in seguito superati da Platone ed
Aristotele.
Per cui nell’interpretazione della filosofia
di Galileo succede quello che succede nell’interpretazione della filosofia di
Marx.
Marx per farsi leggere e capire dai suoi
contemporanei, imbevuti di cultura hegeliana, è costretto a “civettare” con il
linguaggio di Hegel17 allo
stesso modo Galileo, per farsi leggere e capire dai suoi contemporanei,
imbevuti di platonismo, è costretto a “civettare” con la cultura e il
linguaggio di Platone. Ma tanto Marx che Galileo si muovono dentro una
tradizione di pensiero profondamente diversa da quella platonico-aristotelica.
Basta qui ricordare che per Platone e Aristotele, pur con motivazioni
metafisiche diverse, la matematica non serve per fare scienza della natura,
viceversa nella tradizione pitagorico‑democritea, che passa attraverso
Euclide, Archimede, fino ad arrivare a Galileo, la matematica è strumento
indispensabile per costruire la scienza della natura. Qui la diversità tra
Galileo, da un lato, e Platone e Aristotele, dall’altro, è abissale.
Cercherò ora di approfondire quegli aspetti
filosofico - epistemologici, che sono alla base vuoi dello scontro di
Galileo con platonici e aristotelici, vuoi delle tante incomprensioni, anche
con spunti molto interessanti, di certa letteratura storiografica fatta da
epistemologi, quali Popper, Kuhn e Feyerabend, vuoi della tanta confusione
intorno a problemi, quali “caso”, “caos”, “complessità” e “indeterminismo”,
oggi diffusi in parte della letteratura filosofico - epistemologica,
ma sopratutto nella pubblicistica.
Lo scontro, le incomprensioni e la confusione
epistemologica, tutte nascono, a mio parere, per il diverso significato da
attribuire a termini quali “Teoria”, “Modello”, “Realtà fisica”, “fatto”, e quindi
dalle relazioni che si fanno intercorrere tra questi termini, e tra questi e la
“Realtà sensibile”, spesso confusa con la “Realtà fisica”, che a sua volta
viene identificata con la “Realtà”, tout court.
Nella tradizione pitagorico-democritea, che
passa attraverso Galileo, intanto la “realtà empirica” non viene confusa con
la “realtà fisica”; il significato della prima è quello di un qualcosa di
puramente sensibile, soggettivo e superficiale, di complesso e caotico, perché
ricco di innumerevoli e aggrovigliate connessioni, mentre quello della seconda
invece è quello di un qualcosa, che si pone fuori dal soggetto conoscente, di
indipendente, ma che è ricostruito da esso, frutto delle sue elaborazioni
concettuali, quindi di un qualcosa di semplice e ordinato, in quanto alcune
relazioni tra le cose sensibili sono considerate, mentre altre vengono
scartate, e le prime vengono studiate a partire da “enti logici o ideali”,
definiti muovendo da proprietà e relazioni tra proprietà. Non essendoci altro
oltre queste due dobbiamo concludere che la “realtà” è tutto quello che
assumiamo stia fuori del soggetto conoscente, e che, d’altronde, è conforme con
il nostro modo di usare aggettivi e sostantivi, per cui il sostantivo viene
delimitato dagli aggettivi “empirica” o “sensibile” e “fisica” o “razionale”.
Nella concezione, che abbiamo chiamato
“platonico-aristotelica”, la “realtà fisica” è la stessa cosa della “realtà
empirica”, la realtà fisica viene a coincidere con quanto osserviamo e
misuriamo, viceversa per la concezione, che abbiamo chiamato
“pitagorico-parmenidea”, la “realtà empirica” non e la “realtà fisica”, poiché
questa è un cosmo concettuale, i cui enti sono enti ideali, non visibili (gli
atomi di Democrito, le sfere e i piani perfettamente lisci di Galileo, ecc.),
che però servono a capire la realtà empirica, visibile, superficiale e
soggettiva. Non si può insomma fare scienza fisica o “teoria fisica” senza un
uso preliminare di “modelli” entro i quali si seleziona e si stabilisce ciò che
è la “res fisica”.
Lo scontro tra Galileo e gli aristotelici
riguarda proprio il significato da attribuire ai termini “esperienza” e “ente
fisico”, come altrove ho chiarito.18
Riguarda, inoltre, l’uso dei modelli nelle scienze empiriche e il loro
significato.
L’aristotelico rifiuta, in linea di
principio, l’uso di modelli nella spiegazione dei fenomeni empirici, salvo poi
a farne uso per confutare l’avversario, senza però esserne cosciente, appunto
perché crede che tali “modelli”, che per lui sono “fatti”, sono la “realtà
fisica”.
È quanto emerge dallo scontro tra Salviati
(Galileo) e Simplicio (l’aristotelico) nel Dialogo
sopra i due massimi sistemi del mondo a proposito del primo argomento
addotto da quest’ultimo contro il movimento della Terra attorno a se stessa.
Questo scontro non sarebbe potuto sorgere tra
Galileo e i platonici, perché Platone aveva negato, in linea di principio, la
possibilità stessa di una scienza della natura, cioè di un qualcosa di
imperfetto, poiché la scienza si occupa solo di cose perfette.
Ma leggiamo il testo di Galileo:
“Simplicio. …Il primo argomento comincia qui: ‘Et primo,
si opinio Copernici recipiatur, criterium naturalis philosophiae, ni prorsus
tollatur, vehementer saltem labefactari videtur’. Il qual criterio vuole,
secondo l’opinione di tutte le sette de’ filosofi, che il senso e l’esperienza
siano le nostre scorte nel filosofare; ma nella posizione del Copernico i sensi
vengono a ingannarsi grandemente, mentre visibilmente scorgono da vicino, i mezi
purissimi, i corpi gravissimi
scender rettamente a perpendicolo, né mai deviar un sol capello dalla linea
retta; con tutto ciò per il Copernico la vista in cosa tanto chiara s’inganna, e quel moto non è altrimenti retto,
ma misto di retto e circolare.
Salviati.
Questo è il primo argomento che Aristotele e Tolomeo e tutti i lor seguaci producono: al quale si è abbondantemente risposto,
e mostrato il paralogismo, ed assai apertamente dichiarato come il moto comune
a noi ed a altri mobili è come se non fusse. Ma perché le conclusioni vere
hanno mille favorevoli rincontri che le confermano, voglio, in grazia di questo
filosofo, aggiunger qualche altra cosa; e voi, signor Simplicio, facendo la
parte sua, rispondetemi alle domande. E prima, ditemi: che effetto fa in voi
quella pietra la quale, cadendo dalla cima della torre, è cagione che voi di
tal movimento vi accorgiate? perché se ‘1 suo cadere nulla di più o di nuovo
operasse in voi di quello che si operava alla sua quiete in cima alla torre,
voi sicuramente non vi accorgereste della sua scesa, né distinguereste il suo
muoversi dal suo star ferma.
Simplicio.
Comprendo il suo discendere in relazione alla torre, perché or la veggo a canto
a un tal segno di essa torre, poi ad un basso, e così successivamente, sin che
la scorgo giunta in terra.
Sal. Adunque,
se quella pietra fusse caduta da gli artigli d’una volante aquila e scendesse
per la semplice aria invisibile, e voi non aveste altro oggetto visibile e
stabile con chi far parallelo di quella, non potreste il suo moto comprendere?
Simpl. Anzi pur me n’accorgerei, poiché, per vederla mentre è altissima, mi converrebbe alzar la testa, e secondo ch’ella venisse calando, mi bisognerebbe abbassarla, ed in somma muover continuamente o quella o gli occhi, secondo il suo moto.
Sal. Ora avete
data la vera risposta. Voi conoscete dunque la quiete di quel sasso, mentre
senza muover punto l’occhio ve lo vedete sempre avanti, e conoscete ch’ei si
muove, quando, per non lo perder di vista, vi convien muover l’organo della
vista, cioè l’occhio. Adunque, tuttavoltaché senza muover mai l’occhio voi vi
vedeste continuamente un oggetto nell’istesso aspetto, sempre lo giudichereste
immobile.
Simpl. Credo che
cosi bisognasse necessariamente.
Sai.
Figuratevi ora d’esser in una nave, e d’aver fissato l’occhio alla punta
dell’antenna: credete voi che, perché la nave si muovesse anco velocissimamente,
vi bisognasse muover l’occhio per mantener la vista sempre alla punta
dell’antenna e seguitare il suo moto?
Simpl. Son
sicuro che non bisognerebbe far mutazione nessuna, e che non solo la vista, ma
quando io v’avessi drizzato la mira d’un archibuso, mai per qualsivoglia moto
della nave non mi bisognerebbe muoverla un pelo per mantenervela aggiustata.
Sal. E questo
avviene perché il moto che conferisce la nave all’antenna, lo conferisce anche
a voi ed al vostro occhio, si che non vi conviene muoverlo punto per rimirar la
cima dell’antenna; ed in conseguenza ella vi apparisce immobile. E tanto è che
il raggio della vista vadia dall’occhio all’antenna, quanto se una corda fusse
legata tra due termini della nave: ora, cento corde sono a diversi termini
fermate, e negli stessi posti
si conservano, muovasi la nave o stia ferma. Ora trasferite questo discorso
alla vertigine della Terra ed al sasso posto in cima della torre, nel quale voi
non potete discernere il moto, perché quel movimento che bisogna per seguirlo,
l’avete voi comunemente con lui dalla Terra, né vi convien muover l’occhio;
quando poi gli sopraggiunge il moto all’ingiù,
che è suo particolare, e non vostro, e che si mescola co ’1 circolare, la parte
del circolare che è comune della pietra e dell’occhio, continua d’esser
impercettibile, e solo si fa sensibile il retto, perché per seguirla vi convien
muover l’occhio abbasandolo.
……
Sal. Oh io ne
vorrei dedur precetti più e più sicuri, imparando ad esser più circuspetto e
men confidente circa quello che a prima giunta ci vien rappresentato da i
sensi, che ci possono facilmente ingannare; e non vorrei che questo autore si
affanasse tanto in volerci far comprender co ’1 senso, questo moto de i gravi
descendenti esser semplice retto e non di altra sorte, né si risentisse ed
esclamasse perché una cosa tanto chiara manifesta e patente venga messa in
difficultà; perché in questo modo dà indizio di credere che a quelli che dicon, paia di veder sensatamente quel
sasso andar in arco, già che egli invita più il loro senso che il loro discorso
a chiarirsi di tal effetto: il che non è vero, signor Simplicio, perché, si
com’io, che sono indifferente tra queste opinioni e solo a guisa di comico mi
immaschero da Copernico in queste rappresentazioni nostre, non ho mai veduto,
né mi è parso di veder, cader quel sasso altrimenti che a perpendicolo, cosi
credo che a gli occhi di tutti gli archi si rappresenti l’istesso. Meglio è
dunque che, deposta l’apparenza, nella quale tutti convenghiamo, facciamo forza
co ’1 discorso, o per confermar la realtà di quella, o per iscoprir la sua fallacia.”19
Dal testo qui riportato chiaramente si
evince:
1) che Galileo e Simplicio mostrano due
metafisiche diverse sul significato di “esperienza” e di “ente fisico”;
2) che i due interlocutori hanno due “modelli o paradigmi” di universo fisico, profondamente diversi. Il “modello” dell’aristotelico è quello di un universo con la terra immobile al centro e, intorno al suo asse, ruotano gli astri con moto circolare uniforme, mentre quello del copericano è quello di un universo fisico con il sole al centro, con la terra che gira attorno al suo asse e anche attorno al sole.
3) ultimo, e più importante, l’uno crede che
il “fatto” sia quello che vede e che analizza con un vocabolario inadeguato,
l’altro ritiene che il “fatto” sia la ricostruzione razionale del fenomeno con
un linguaggio che parta da “principi” razionali o logici.
Il “modello”, o “paradigma”, non è
filosoficamente neutro; esso è il frutto di inveterate e millenarie concezioni
metafisiche e religiose, di “esperienze sensibili” così come concepite e
selezionate dal senso comune e dal pensiero filosofico attraverso il tempo.
Il “paradigma” precede la “teoria” e i
particolari “modelli fisici”, che a partire da essa si possono costruire, esso
racchiude una particolare concezione del mondo. La “teoria” si limita ad
assumerlo come vero, a “postularlo”, con tutto quanto è in esso sedimentato,
per poi cercare di spiegare per mezzo di esso quanto di regolare o di
irregolare avviene o si manifesta.
Racconta Simplicio (V secolo d. C.) che il
filosofo Platone, a causa delle notevoli irregolarità riscontrate dagli
astronomi nel movimento dei pianeti, avrebbe posto ai matematici del suo tempo
il seguente quesito: Quali sono i
movimenti uniformi e ordinati che si devono assumere per giustificare il moto
apparentemente irregolare dei pianeti?, con ciò stimolando
la ricerca scientifica. Si afferma da parte di molti storici, che la teoria
delle sfere omocentriche di Eudosso ne sia stata la risposta più immediata.
Quindi Platone impone il paradigma, Eudosso ne costruisce la teoria.
Per la verità Gemino (I secolo a. C.)
racconta che il quesito sarebbe già stato posto dentro le comunità pitagoriche.20
Ma il “paradigma” dei pitagorici doveva
essere profondamente diverso, se è vero che già Iceta ed Ecfanto siracusani,
pitagorici, sostennero il moto della terra attorno a se stessa nel V secolo a.
C. Anzi doveva essere diverso il significato stesso del termine “paradigma”, da
essi coniato. A partire dal paradigma platonico, che pretendeva la regolarità
dei movimenti per la natura divina degli astri, si sviluppa la teoria
astronomica antica, attraverso l’uso di epicicli, equanti, eccentrici, ecc,
tutti escogitati per “salvare i fenomeni” entro tale paradigma.
A proposito del potere del paradigma
platonico, Plutarco nella vita di Nicia, nelle sue Vite parallele, a
proposito di un improvviso eclisse di sole, che causò terrore nelle truppe del
generale Nicia, in battaglia, racconta che Nicia e tutti i suoi compagni,
ignoranti e superstiziosi, a sufficienza per essere terrorrizzati da simili
fenomeni, furono colti da grande paura. Si riteneva che l’eclisse fosse un
fenomeno miracoloso, un segnale di grandi sventure mandato da dio.
Dice Plutarco che il primo ad esporre per
iscritto la teoria più chiara e spregiudicata sulle fasi lunari fu Anassagora;
ma egli non aveva l’autorità che viene ad uno scrittore dagli anni, e la sua
teoria era poco nota, anzi era ancora segreta. Solo poche persone la
conoscevano e se la tramandavano con un certo sospetto, più che con piena
fiducia.
Dice Plutarco che gli scienziati o astrologi
come li chiamavano non erano visti di buon occhio dalla gente comune, perché
riducevano l’opera divina nel mondo a cause naturali e razionali, a forze
imprevedibili e ad un determinismo assoluto. Protagora fu mandato in esilio per
questo motivo; Anassagora evitò per poco il carcere grazie all’intervento di
Pericle; e Socrate, benché non avesse alcun rapporto con questo genere di
studi, perdette ugualmente la vita a causa delle sue teorie.
“Solo più
tardi, continua
Plutarco, la gloria radiosa di Platone,
proveniente dalla sua vita non meno dall’aver egli subordinato le leggi
fisiche a principi divini e trascendenti, spazzò via il sospetto da cui erano
circondati questi studi e aprì alle scienze una via per diffondersi tra tutti
gli uomini.”.
Concludo che la teoria fisica in quanto tale
è neutra, perché si limita ad assumere il paradigma, entro cui spiegare i
fenomeni. È nella contrapposizione tra “paradigmi”, che avviene quella che si
suole chiamare la “confutazione”, come si dice impropriamente.
È vero comunque, nello scontro tra Salviati e
Simplicio, tra Galileo e gli aristotelici, che la “confutazione” avviene sul
piano dei paradigmi, in quanto “modelli standard” con cui ingabbiare la realtà.
I due possono “confutarsi”, togliendo o aggiungendo qualcosa nel paradigma di
universo fisico dell’altro. L’uno può accusare di “fallacia” il discorso
dell’altro, grazie appunto ad un diverso “modello” concreto concepito a partire
da un dato “paradigma” di universo. Togliere o aggiungere qualcosa nel
paradigma non è frutto di una semplice operazione logica, ma implica molteplici
motivazioni metafisiche e religiose, che Galileo in parte critica nel suo
dialogo nel tentativo di far accogliere il suo personale paradigma.
Popper, Kuhn e Feyerabend, il quale ultimo
discute questo stesso episodio del “Dialogo...’ nella sua opera Contro il metodo, hanno, a ragione,
evidenziato il ruolo della metafisica o di altre concezioni nella costruzione
della scienza, in contrapposizione a positivisti e neopositivisti, ma, a mio
parere, non ben riuscendo a precisare il significato di “teoria fisica”, di “modello
fisico”, di “fatto” e le loro reciproche relazioni. Il termine “paradigma”, che
tanta fortuna ha avuto nella letteratura filosofico - epistemologica e che Kuhn
ha introdotto, è molto vago, poiché non si riesce a capire a quale livello si
colloca nella struttura del discorso scientifico. Nel vocabolario di questi
filosofi è molto vago il significato del termine “modello fisico”, ne si sa
quale ruolo svolge precisamente nello stesso discorso scientifico. Per essi
pare che esistano solo le teorie e i fatti, anche se questi sono “impregnati”
di teoria, come dice Popper. La confusione tra “paradigma” e “teoria” li porta
inoltre a pensare che le teorie siano “confutabili” (Popper) o
“incommensurabili” (Kuhn e Feyerabend).
Abbiamo visto sopra che il clinamen di Lucrezio
è diventato il progenitore della “turbolenza” e del “caso” e, in un certo
senso, è anche vero, come diremo.
Poiché l’idea che il clinamen sia frutto del
“caso” è uno tra i più madornali fraitendimenti sulla filosofia di Lucrezio, è
bene spendere qualche parola in proposito.
Ma bisogna notare che il più grosso
fraintendimento riguarda il senso complessivo dell’opera di Lucrezio. Il più
delle volte si traduce il titolo latino della sua opera, De rerum natura, con La
natura, qualche traduttore, più avveduto, traduce invece La natura delle cose,
ma l’ambiguità tuttavia rimane. Per cui, chi non avesse letto direttamente
l’opera di Lucrezio, è portato a pensare ad un poema sulla natura, ad un’opera
di filosofia naturale, di spiegazione dei fenomeni fisici. Di fatto l’opera di
Lucrezio è un’opera di filosofia generale circa l’origine e l’essenza, non solo
delle cose naturali, ma in generale, di tutte le cose, naturali e umane, che
sono oggetto di conoscenza umana. La “res” in Lucrezio non è la “cosa fisica”,
ma la “cosa in generale” in senso filosofico. Ed infatti Lucrezio vuole
spiegare non solo la natura delle cose fisiche (il tuono, il lampo, la pioggia,
il terremoto, la grandezza dell’universo, ecc.), ma anche la natura degli dei,
della religione, dell’anima, della volontà, della guerra, della civiltà, della
libertà, del linguaggio, della proprietà, delle leggi civili (communia foedera
pacis, Libro V, verso 1155), dello Stato, ecc.
Ciò è chiaramente detto fin da principio.
Nei versi 54-55 del I libro cosi scrive:
“Nam tibi de
summa caeli ratione deumque
disserere
incipiam et de rerum primordia
pandam”
Cioè: Pertanto comincerò ad esporti la vera scienza del cielo e degli dei e ti svelerò i principi delle cose.
Nel lessico filosofico lucreziano valgono le
seguenti uguaglianze: natura rerum = ratio rerum = vera ratio (= vera scienza = filosofia senza aggettivi).
Ancora nei versi 127-131 dello stesso libro
scrive:
nobis est ratio,
solis lunaeque meatus
qua fiant ratione, et qua vi quaeque gerantur
in terris, tunc cum primis ratione sagaci
unde anima atque animi constet natura videndum”
Cioè: E perciò come dobbiamo rettamente darci
ragione delle cose celesti, di quale sia la causa del corso del sole e della
luna e quale sia la natura e ciò che si produce in terra, così, anzitutto, con
accorto giudizio dobbiamo guardare donde viene la vita e di che natura è la
mente.
Nello libro primo divide tutte le cose che
hanno un nome (quaecumque cluent) in coniuncta
ed eventa, i primi sono i
principi delle cose, primordia o
principia rerum, che sono la materia costituita da corpora solidissima,
cioè senza pori come diceva Empedocle, ed il vuoto, vacuum quod inane vocamus. Proprietà essenziale (coniunctum) della materia è quella di
toccare ed essere toccata, tangere et
tangi, mentre proprietà
essenziale del vuoto è, al contrario, quella di non poter essere toccato, intactus. Per costruire il mondo fisico
non è necessario ricorrere ad altro, nemmeno all’intervento divino.
Tali proprietà essenziali o coniuncta non devono essere intese come
proprietà sensibili, apparenti, ma come proprietà razionali, ideali; esse sono
la vera res, la ratio vera. Le une (coniuncta)
sono la ratio,
la natura o essenza delle cose, le altre (quorum adventu manet incolumis natura abituque, haec soliti sumus, ut
par est, eventa vocare), sono pura apparenza, il divenire delle
cose, ciò che accade nel tempo, le res
gestas, che perciò non esistono per sé come i corpi, né possiamo dire che
siano come il vuoto, solo possiamo chiamarli eventi dei corpi e dei luoghi ove
avvengono.
“non ita uti
corpus per se constare neque esse,
nec ratione cluere eadem qua conste inane,
sed magis ut merito
possis eventa vocare
corporis atque
loci, res in quo quaeque gerantur.”
Quindi “eventa” sono la libertà, la povertà,
la ricchezza, ecc.
Il tempo stesso non esiste per sé, ma sono le cose stesse a crearci l’illusione del tempo, per via del movimento dei corpi. È il movimento che crea il tempo e non viceversa.
Ora se la libertà è un “eventum”, quindi mera
apparenza, giammai essenza delle cose, come conciliare questa concezione di Lucrezio
con quell’altra molto diffusa tra molti filosofi, per la quale il clinamen,
cioè la deviazione dell’atomo, starebbe a fondamento della sua libertà (e
quindi a fondamento della stessa libertà umana), permettendogli di spezzare i
decreti del fato, foedera fati,
che imporrebbero allo stesso di cadere verso il basso in linea retta?
Notiamo che il termine “atomo” per la verità
non viene mai impiegato da Lucrezio, esso è stato usato da Cicerone, editore
del De rerum natura.
Ma, intanto, ha senso una caduta verso il
basso dell’atomo nell’universo fisico di Lucrezio, infinito, quindi privo di
punti di riferimento assoluti?
Troviamo invece questa proprietà dell’atomo,
attribuita ad Epicuro, nell’opera di Cicerone De natura deorum. Scrive Cicerone in questa sua opera:
“Epicuro,
avendo notato, che, se gli atomi si muovessero verso il basso per effetto del
loro peso (si atomi ferrentur in locum inferiorem suopte pondere), nulla
sarebbe in nostro potere, perché il loro moto sarebbe certo e necessario
(certus et necessarius), trovò il modo di evitare la necessità, cosa che era
evidentemente sfuggita a Democrito: dice che l’atomo, quando è portato dal peso
e dalla gravità in linea retta verso il basso (deorsus), devia un pochino
(paululum)” (Libro
I, 25,69).
Forse il contributo che Cicerone ha dato alle
successive balorde interpretazioni del testo lucreziano è molto maggiore di
quanto possa emergere dalla precedente citazione.
Nell’edizione UTET del De rerum natura a pag. 42 si legge:
“Il
‘Chronicon’ di San Girolamo (sec. IV-V d.C.) pone la nascita del poeta in
alcuni codici all’anno 96 a. C., in altri al 94, e ci informa che Lucrezio, divenuto pazzo per effetto di un
filtro amatorio, compose negli intervalli di lucidità ‘aliquot libros, quos
postea Cicero emendavit’, e si diede la morte all’età di 43 anni. I libri di
cui parla San Girolamo sono evidentemente i sei che costituiscono il poema
della natura. Quanto all’‘emendatio’ ciceroniana, essa non si può intendere se
non nel senso che Cicerone, soggiogato dalla grandezza della poesia lucreziana,
abbia contribuito alla pubblicazione del poema, pur disapprovando il contenuto
dottrinale e l’intento
proselitistico dell’opera.”
Mi sembra che l’autore del brano citato forzi
molto il significato di ‘emendavit’. Stando alla testimonianza di Gerolamo,
Cicerone non solo pubblica l’opera di Lucrezio, ma anche la “emenda”, cioè la
corregge, l’aggiusta, la manipola, togliendo e/o aggiungendo qualcosa. Almeno
questo è il significato di ‘emendavit’ nei dizionari latini!
Ora lo stesso Lucrezio è perfettamente
conscio della difficoltà di esporre compiutamente il suo pensiero in versi
latini, infatti nei versi 136-139 scrive che è difficile tradurre in latino il
pensiero dei Greci per cui dovrà spesso coniare nuovi termini, in quanto la
lingua latina non è adeguata per esprimere idee talmente nuove.
Niente di strano che Cicerone, anche senza
intenzione, all’interno della sua cultura eclettica, corregga qualcosa perché
non ne afferra il senso e, in verità, i versi latini, dove Lucrezio tratta il
tema del ‘clinamen’ non sono molto chiari, come del resto scopriamo nel
confrontare le molte traduzioni in lingua italiana, a mio parere, abbastanza
infelici, tutte però attaccate all’interpretazione ciceroniana.
Tuttavia credo che il senso originale si
possa desumere se si guarda con attenzione a tutto quanto Lucrezio espone nel
secondo libro.
L’argomento del moto dei corpi viene
affrontato da Lucrezio nel secondo libro a partire dal verso 62.
Egli si propone di spiegare come a partire
dal moto degli atomi che velocemente attraversano il vuoto si creino le
apparenze sensibili dei corpi che nascono e muoiono.
La materia sensibile, spiega, non è
continuamente compatta, altrimenti non ci sarebbe possibilità per il movimento,
ma noi vediamo che i corpi crescono, diminuiscono e muoiono.
Dice che è sbagliato pensare che gli atomi
possano star fermi e generare il mondo sensibile, essi sono trasportati nel
vuoto e si aggruppano per effetto di forze interne attrattive (gravitate) e si
diradano per effetto di forze esterne dovute ad urti reciproci.
E per meglio comprendere questo ricorda che
l’universo è senza fine e non vi è un posto dove gli atomi si possano fermare.
Per dare un’idea di tale turbinoso movimento
ricorre all’immagine del pulviscolo che si intravede in un raggio di luce. Che,
osserviamo, è un’immagine molto lontana dagli atomi di Cicerone che cadono
verso il basso! Notiamo che l’idea di Cicerone può essere espressa con le
parole di Simplicio, in testa alla citazione che sopra abbiamo riportato.
Quando l’aggrovigliamento e il numero degli
atomi è cresciuto abbastanza i corpi
diventano visibili all’occhio umano.
Alcuni, ignoranti della verità, credono che
ciò che accade nel mondo avviene per volere divino, ma questo è un errore,
perché da quando vediamo si deve arguire che il mondo non è fatto per noi,
tanto è il male che lo attraversa.
Riprendendo il discorso sul movimento,
Lucrezio osserva che nessun corpo può sollevarsi in alto per sua forza (si
deve intendere sulla terra) e non possiamo farci ingannare dalle fiamme che
vanno in alto perchè esse sono sospinte da una qualche forza, allo stesso modo
che le travi immerse nell’acqua vengono risospinte in alto. Tutte queste cose
cadrebbero in basso se attorno ad essi fosse fatto il vuoto.
Tali corpi che vanno verso il basso per
effetto del loro proprio peso (notiamo che qui quasi tutti i traduttori parlano
di “atomi” o di “corpi primi”, mentre nel testo latino si parla solo di
“corpora cum deorsum rectum per inane feruntur ponderis propriis”, e tali corpi
sono esattamente quelli di cui prima ha discorso, avendo, per pura ipotesi,
immaginato di avervi fatto il vuoto attorno; è la stessa idea del famoso “tubo
di Newton”), anche se noi non riusciamo a vederlo, data la sua piccolezza,
subiscono un lieve spostamento in un istante e in un punto a noi ignoti
(“incerto tempore ferme incertisque loci spatio depellere paulum”), quel tanto
che basta perchè si possa dire che il loro movimento è mutato.
Senza tale deviazione tutte le cose (si
intende anche le fiamme e le travi nell’acqua) cadrebbero nel vuoto profondo
come gocce di pioggia e la natura non avrebbe potuto mai nulla creare.
Ciò per la stessa ragione che non è nemmeno
possibile pensare che i corpi più pesanti possano, nel vuoto, sopraggiungere i
più leggeri, perchè nel vuoto, che non oppone alcuna resistenza ai corpi, come
invece osserviamo per l’aria e per l’acqua, tutti i corpi devono cadere con lo
stesso movimento indipendentemente dal proprio peso.
Perciò è necessario che i corpi (anche quando
sulla terra si muovono per effetto del loro peso) debbano deviare dal loro
cammino almeno per poco anche se noi non possiamo scorgerlo.
Altrimenti come spiegare la volontà, negli
uomini e anche negli animali, che sembra interrompere i decreti del fato, foedera fati?
Bisogna dunque ammettere che oltre agli urti e al peso, (che con linguaggio moderno chiameremmo “forze esterne”), vi sia un’altra causa di moto per gli atomi, dal momento che abbiamo ammesso che nulla può nascere dal nulla.
Infatti abbiamo visto che il peso non può
generarla perchè non è capace di fare urtare i corpi tra loro (nel vuoto),
quindi tale forza deve essere interna ai corpi stessi (“forza di inerzia”, che
è sempre uguale alla “forza acceleratrice”, come dirà Newton), la stessa mente
ha un tale interno (“intestinum”) movente, la cui causa si deve attribuire a
quella piccola deviazione degli atomi (“exiguum clinamen pricipiorum”) anche se
noi non sappiamo né il tempo, nè il luogo in cui essa si manifesta (“nec regione
loci certa nec tempore certo”, versi 288 - 293).
Questa deviazione non altera la compattezza
della materia nè aumenta gli intervalli tra le sue parti, poichè la materia né
può aumentare, né diminuire. Per cui tale movimento sarà ora esattamente lo
stesso come nel passato e come lo sarà nel futuro secondo i decreti della
natura (“foedera naturai”).
Non esiste forza che possa mutare il corso
dell’universo, né esiste luogo dove possa fuggire parte della materia, nè
esiste luogo da dove possa venire nuova energia che possa sconvolgere il moto
dell’universo.
Quindi, da quanto abbiamo esposto, si deduce
che il “clinamen” è una forza propria degli atomi, cioè della “materia
solidissima”, che permette loro di aggrupparsi, per dare origine ai corpi
sensibili, pur nel loro vorticoso movimento, e non si deve pensare che gli
atomi possano star fermi attaccati tra loro, ma le parti del corpo restano
assieme pur rimanendo in moto, per effetto di tale deviazione, che è piccola
per cui non possiamo osservarla tra due corpi che cadessero sulla terra nel
vuoto. Niente di diverso da quanto Simplicio attribuisce a Democrito citando
Aristotele.21
Trascurando il contesto in cui Lucrezio parla
del “clinamen”, si possono dedurre solo cose che non hanno senso, attribuendo a
Lucrezio cose assolutarnente lontane dal suo pensiero.
Non c’è dubbio che il clinamen di Lucrezio
possa spiegare la “turbolenza” di Prigogine, perché è un concetto molto più generale,
ma altrettanto vero è che non abbiamo bisogno dei fenomeni di turbolenza per
dedurre che è necessario il clinamen, cioè l’attrazione universale tra i corpi,
per spiegare la realtà fisica.
Per Lucrezio, la natura non è soggetta ai
voleri capricciosi degli dei, ai “foedera fati”, a leggi indotte dall’esterno
ad essa, ma opera “sponte sua forte”, grazie cioè a sue leggi, che sono i
“foedera naturai”.
Non c’è alcun “caos creatore” o “caso che
decide” l’ordine o la ratio della natura, che è sempre la stessa (simili
ratione, verso 299), nella quale ogni cosa che soleva nascere nascerà nella stessa condizione (eadem conditione), e
vivrà e crescerà raggiungendo il pieno vigore, nei limiti a ogni cosa assegnati
dai decreti della natura.
In realtà l’oggetto polemico dell’opera di
Lucrezio, come di tutto 1’epicureismo, è lo stoicismo, per il quale, leggiamo
nelle testimonianze di Diogene Laerzio, il fato è dio, che regola il mondo a
suo piacimento, secondo una sua ratio (“logos” in lingua greca).
Scrive infatti Diogene Laerzio:
“Che tutto
avviene secondo il fato è tesi sostenuta da Crisippo nel
suo trattato ‘Del fato’, da Posidonio nel suo secondo libro ‘Del fato’, da
Zenone e da Boeto nel primo libro ‘Del Fato’. Il fato è una
concatenazione di cause di ciò che è
oppure la ragione (logos) che dirige e
governa il cosmo.” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro settimo, 149).
E in un altro passo ancora:
“Secondo gli
stoici, i principi dell’universo sono due, l’attivo e il passivo. Il principio passivo è l’essenza senza qualità, la materia;
il principio attivo è la ragione nella materia, cioè dio. E dio, che è eterno, è il demiurgo creatore di ogni cosa
nel processo della materia.” (ibidem 134).
E più avanti:
“Dio è un’unica sostanza sia che si chiami
mente o fato o Zeus, ma è
designato anche con molti altri nomi.” (ibidem 135).
È questo “dio = fato = logos = ratio esterna
alla natura” che Lucrezio critica, come prima aveva fatto Epicuro, come d’altra
parte emerge dal seguente brano di Cicerone, nella sua opera De natura deorum, quando fa dire a C.
Velleio, epicureo, che critica il fatalismo degli stoici:
“E chi non
avrebbe paura di un dio curioso e intrigante
(curiosum et plenum negotii), che a tutto pensa e provvede, che tutto osserva e
ritiene che tutto lo riguardi? Da qui derivò prima di tutto la necessità del
fato (fatalis necessitas) che chiamate ‘heimarméne’: ogni evento, secondo voi,
prenderebbe origine dalla realtà eterna e da un concatenamento di cause. Ma
questa filosofia deve apparire assai valida a chi, come le vecchiette (ma
quelle ignoranti!), ritiene che tutti gli avvenimenti siano determinati dal
fato! Segue poi la vostra ‘mantiké’, che in latino è detta
‘divinazione’, per la quale saremmo totalmente imbevuti di superstizione, che,
se volessimo dar ragione a voi, dovremmo venerare gli aruspici, gli auguri, gli astrologi, gli indovini, gli intepreti dei sogni. Epicuro
ci ha liberati da queste paure e ci
ha liberati dalla schiavitù, per cui non temiamo quegli dei che, come capiamo,
non creano fastidio a se stessi e non
ne procurano agli altri, e veneriamo
con devozione e con reverenza una natura eccellente e superiore.” (ibidem
libro I, 54, 55 e 56).
La natura opera per l’epicureo con le sue
leggi, i foedera naturai di Lucrezio,
che non sono le leggi o i voleri di un dio ‘curiosum et plenum negotii’, che a
guisa di ‘fatalis necessitas’ regola le vicende umane.
L’attacco di Lucrezio non è solo alla superstitio, ma anche alla religio, essendo già chiara al suo tempo la distinzione dei due
termini, come espressa, d’altra parte, dallo stesso Cicerone in un brano
dell’opera citata.22
Ma allora qual è il senso del clinamen di Lucrezio?
Intanto bisogna ancora premettere che negli
scritti di Epicuro, che ci sono rimasti, e in testimonianze su Epicuro, anche
abbastanza ampie, che ci sono pervenute, quale quella ad esempio di Diogene
Laerzio, tranne in Cicerone, non si fa cenno alcuno al clinamen.
L’interpretazione del moto dell’atomo, per cui nel suo moto secondo una linea
retta verso il basso, devia, “declinat sine causa”, spezzando così la necessità
del fato, salvando quindi la libertà umana, nasce da un’idea di Cicerone.
Scrive infatti nel suo De fato:
“Epicuro pensa
di evitare la necessità del fato (necessitatem fati) per mezzo della
declinazione dell’atomo. In tal modo si origina un terzo tipo di movimento
oltre a quello del peso e dell’urto, quando l’atomo declina di un intervallo
minimo - chiama questo “eláchiston”; che tale
declinazione si produca senza causa, è costretto ad ammetterlo nei fatti, se
non a parole. Infatti un atomo non declina in quanto urtato da un altro. Come
possono urtarsi gli uni con gli altri, se i corpi individuali sono portati
dalla gravità perpendicolarmente in linea retta, come piace ad Epicuro? Ne
segue che, se non si respingono tra loro, non possono toccarsi. Pertanto,
ammesso, che esista e che declina, declinerà senza causa. Il motivo per cui Epicuro introdusse tale dottrina (rationem) era la sua preoccupazione
che non restasse nessun margine di libertà in noi qualora gli atomi si
muovessero di un moto naturale e necessario dovuto alla loro gravità
(gravitate), visto che pure i moti
dell’anima sono determinati dal moto atomico. Invece Democrito, l’inventore
degli atomi, preferì ammettere che tutto accade per necessità piuttosto che
privare i corpi individuali (corpora individua) del loro moto naturale.” (ibidem
10, 22-23).
La fisica di Lucrezio non è una fisica
empirista, ma una fisica costruita a partire da enti razionali e ideali,
secondo la tradizione pitagorico-democritea, perseguita da Galileo e
successivamente da Newton. Il paradigma empirista, incapace di capire la fisica
lucreziana, interpreta “incerto tempore” e “incertis locis” di Lucrezio, come
l’intervento del “caso” o della “libertà” nella realtà fisica, sino ad allora
retta dalla dura necessità e dai decreti del fato. Questa lettura, in verità, è
partita da Cicerone e si è trasmessa lungo i secoli, sino al nostro Prigogine.
Tale assurda concezione porta i traduttori a
parlare di “atomi” quando nel testo lucreziano si parla di “corpi” , cioè non
si parla di “atomi” ma di “corpi composti”. Inoltre, “alto e basso” in Lucrezio
hanno un chiaro significato, quando riferiti alla nostra sensazione qui sulla
terra e che invece non possono più avere in un universo infinito. Tali
assurdità invece emergono dai brani citati di Cicerone del De fato e del De natura
deorum, dove tra l’altro si trova il nesso curioso tra il tema del clinamen
e della libertà umana, che è l’oggetto dei versi lucreziani 251- 293, dove
invece si indica una semplice analogia.
Sino al verso 250, Lucrezio si è limitato a
parlare solo del moto dei “corpora”, ovvero di “corpi composti” da primordia
rerum, dal verso 251 comincia a parlare invece del moto dei “primordia” (verso
253), dei “semina” (verso 284), e non ha senso trasferirli là dove si parla del
moto verso il basso dei “corpi composti”, che i “primordia” o “semina” non
hanno, poiché “multimodis volitent”, come dice Lucrezio nel verso 1055.
Nel libro I la libertà, come abbiamo visto, è
un “eventum”, quindi mera apparenza, in tale assurda interpretazione diventa
invece un “coniunctum”, cioè una proprietà essenziale dell’atomo.
La declinazione degli atomi spezza i decreti
dei fato, foedera fati, che vengono sostituiti dalle leggi della natura,
foedera naturai, non lasciando spazio alcuno al “caso”, all’emergere del
“nuovo”, dell’imprevisto.
Come si possa inserire il tema della libertà
umana, argomento di carattere morale, entro un discorso prettamente fisico, come
quello del libro II, mi riesce difficile da comprendere.
Una simile confusione come quella di legare
il “caso” con la “libertà umana” è difficilmente comprensibile per una mente
razionale, essa poteva solo essere il parto di una mente eclettica, quale
quella di Cicerone. Per Democrito, che è poi la mente ispiratrice di Epicuro e
dello stesso Lucrezio:
“Gli uomini si
sono foggiati l’idolo del caso, come una scusa per la propria mancanza di
senno. Perché raramente il caso viene in contrasto con la saggezza, mentre il
più delle volte nella vita è lo sguardo acuto dell’uomo intelligente quello che
sa dirigere le cose.”23
A partire da questa confusione è chiaro che
tante altre possibili interpretazioni si possono avanzare.
La filosofia naturale di Lucrezio può essere riassunta con le seguenti parole di Newton:
“L’estensione,
la durezza, l’impenetrabilità, la mobilità e la forza d’inerzia del tutto nasce dall’estensione, dalla
durezza, dall’impenetrabilità, dalla mobilità e dalle forze d’inerzia delle
parti; di qui concludiamo che tutte le
minime parti di tutti i corpi sono estese e dure, impenetrabili, mobili e
dotate di forza d’inerzia. E questo è il fondamento dell’intera filosofia.”24
Se nella scienza newtoniana e laplaciana è
chiaro il significato del “caso”, che altro non è che la nostra ignoranza sulle
cause ultime di un fenomeno, non si capisce più cosa esso significhi nelle
teorie (?!) scientifiche cosiddette moderne.
In Prigogine, come già ricordato, il caso addirittura “decide” come debba evolvere, ad esempio, in punti di biforcazione, una determinata realtà fisica, chimica, biologica, storica, ecc. Come decide, chi decide, perché decide in un modo o in un altro, di tutto questo non si dice. È il caso, nuovo “deus absconditus” o “deus ex machina”, che dirige le sorti del mondo!
Così invece di denunciare il limite della
nostra conoscenza, la nostra ignoranza su come evolve il mondo, denuncia che ci
inviterebbe a proseguire nella ricerca, si nasconde tale ignoranza sotto il
pomposo e misterioso nome del “caso”, che, come Dio, ci acqueta e ci soddisfa.
La stessa cosa avviene nelle società
clericalizzate a proposito del “miracolo”. Scrive il filosofo Spinoza: “Non fanno che cianciare a vuoto coloro che,
quando ignorano una cosa, fanno appello alla volontà di Dio: modo, questo,
davvero ridicolo di confessare la propria ignoranza.” (Cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Utet, 1972,
p. 493).
“Caso” e “miracolo” sono il frutto di un
identico atteggiamento, di una identica filosofia. Del resto già Leibniz li
accomunava come espressione di una medesima visione metafisica.
“Secondo me, scrive Leibniz, tutto è connesso nell’universo, in virtù
delle ragioni metafisiche per le quali il presente è gravido dell’avvenire,
onde nessuno stato è naturalmente spiegato se non per mezzo dello stadio che
l’ha immediatamente preceduto. Se lo si nega, il mondo avrebbe discontinuità,
il che obbligherebbe, nella spiegazione dei fenomeni, a ricorrere ai miracoli e
al caso.” (Cfr. G. W. Leibniz, Lettera a Varignon sul principio di
continuità in Scritti filosofici, Utet, l968,p.768 )
In una società laicizzata nella propria
cultura, quale quella contemporanea (si dice!), come spiegare “certi eventi”?
Sarebbe da folli spiegarli con il “miracolo”. Si preferisce, con un altro nome,
ricorrere al “caso che decide”!
Il fatto più grave, direi più sconcertante,
di certa metafisica del caso, non è tanto questa mistificazione, quanto che, se
è vera l’ipotesi per cui il caso è la nostra ignoranza, questo, quasi per
incanto, diventa il principio di tutte le cose. Infatti, se è vero che il caso
“decide” in larghissima parte dell’evoluzione del mondo ed esso è la nostra
ignoranza, questa alla fine diventa il principio di tutte le cose.
Così non è più vero neanche il detto bibblico
che il “Logos” è al principio di tutte le cose e da esso furono create! Invece
ci siamo avvicinati di nuovo al “caos primordiale” a mezzo di questa teologia o
metafisica del “caso”!
1 Cfr. a questo proposito l’introduzione di
Giulio Casati al volume Il caos. Le leggi
del disordine, Le Scienze S.p.A editore, 1991. TORNA
2 Di un nuovo paradigma ha parlato D. Ruelle in Caso e caos, Bollati Boringhieri, 1991,
p. 75. TORNA
3 Cfr. il volume citato Il caos. ... p. 29. TORNA
4 Cfr. I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della
scienza, Einaudi, 1993, pp. 146-147. TORNA
5 ibidem p. 174. TORNA
6 ibidem p. 80. TORNA
7 Cfr. Grégoire Nicolis e Ilya Prigogine, La complessità, Einaudi, 1987, pp.
16-17. TORNA
8 Cfr. I. Prigogine, La nuova alleanza. p. 165. TORNA
9 In La
complessità, p. 92. TORNA
10 Sul significato della scienza aristotelica della sostanza si veda quanto ho scritto nel N.8 della Rivista “Mondotre”. TORNA
11 M. Serres, La
naissance de la physique dans le texte de Lucrèce, Minuit, Paris 1977. TORNA
12 Cfr. K.Popper, La logica della scoperta scientifica, pp.269-274, Einaudi, 1970. TORNA
13 Cfr. K. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, pp. 55-60., Il saggiatorc, 1984. TORNA
14 Cfr., ad esempio, A. Koyré, Studi galileani, Einaudi, 1976. TORNA
15 L. Geymonat discute l’interpretazione platonica
del pensiero galileano nel suo libro Galileo
Galilei, Einaudi, 1969, pp.13l-l38. TORNA
16 Cfr. Quaderni di Mondotre, Ripensando Peano e la sua scuola, 1989, Grandezze fisiche e numeri matematici, 1991, La logica della grammatica e la grammatica della logica, 1992, Teorie interpretative ed esperimenti
cruciali, 1993. TORNA
17 Nel poscritto alla seconda edizione de “Il
capitale”, Marx difende Hegel, trattato dalla critica come un “cane morto”,
aggiungendo che Nella sua forma
mistificata, la dialettica era diventata una moda tedesca.... TORNA
18 Cfr.
G. Boscarino, Sul significato di
“significalo fisico”, in Mondotre, 1993. TORNA
19 Il brano citato si trova nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, giornata seconda, in
Opere di Galileo Galilei, Utet, Vol. I, pp. 307-316. TORNA
20 Cfr.
Gemino, Elementa astron.,
ed. Manitius, p.11 TORNA
21 Diels-Kranz,
I Presocratici, Laterza, 1983, p.
681. TORNA
22 Cfr.
M. T. Cicerone, De natura deorum, libro
II, 71, 72. TORNA
23 Cfr. I presocratici , 68, B, 119, Laterza. TORNA
24 Cfr.
I.Newton, Principi matematici della
filosofia naturale, libro III, Utet, 1965. TORNA