Il caos epistemologico intorno a

“caso” e “complessità”

Giuseppe Boscarino

 

 

 

 

Un nuovo aristotelismo

 

Nella pubblicistica dei nostri giorni vanno emergendo delle entità meta­fisiche, alcune vecchie quanto il mondo, come il “caso” ed il “caos”, altre di nuovo conio, come la “complessità”.

Queste entità prendono posto entro quella che viene chiamata la terza rivoluzione scientifica, dopo la relatività e la meccanica quantistica,1 cioè la cosiddetta nuova scienza del caos.

Qui la confusione, o caos linguistico, è massima. Non è chiaro se tale nuova scienza del caos è una teoria, un modello, un paradigma, o una mera raccolta di fatti empirici, malamente interpretati. C’è chi parla di nuovi “modelli caotici”, chi di una nuova teoria, chi di un nuovo paradigma.2

Tutti questi termini, cioè scienza, teoria, modello, fatto, paradigma, ecc., questi sì, sono il più sovente impiegati “a caso”, con significati molto fluidi ed interscambiabili, ma più spesso senza significato alcuno.

Si scrive con grande sicumera della crisi del determinismo, inneggiando al nuovo indeterminismo nelle scienze naturali. Ma non viene mai esplicita­mente spiegato se deterministico o indeterministico è il mondo o se lo sono le teorie, i modelli, o i paradigmi.

Spesso “caos” e “caso”, vengono ad essere, appunto, delle nuove entità teologiche, e, poiché in realtà non si sa cosa siano, diventano gli dei creatori dei processi naturali!

“Il caos genera i frattali in modo naturale”, si scrive.3

Riportiamo qui alcuni emblematici brani di due tra i più noti e auto­revoli moderni demiurghi della moderna scienza dove la confusione, o caos concettuale, è piuttosto grande e che mi permetterò di commentare filosofi­camente.

“Michel Serres ha ricordato recentemente che i primi atomisti si era­no così tanto occupati dei flussi turbolenti che sembra legittimo considerare la turbolenza come una fondamentale fonte di ispirazione della fisica lucre­ziana. A volte, scrive Lucrezio, in tempi e luoghi incerti, una deviazione minima, il clinamen, turba la caduta eterna e universale degli atomi. Dal vortice che ne risulta, nasce un mondo e la totalità delle cose naturali. Il clinamen, deviazione spontanea, senza causa, è stato spesso criticato come una delle più grosse debolezze della fisica lucreziana, come un postulato as­surdo, un artificio introdotto ad hoc. Ma questa conoscenza non traduce forse al contrario, il fatto che il flusso lamellare può cessare di essere stabile e dar luogo spontaneamente all’organizzazione dei vortici? Gli idrodinamici moderni sottomettono il flusso continuo allo stesso test introducendo una perturbazione che esprime l’effetto del disordine molecolare che si aggiunge al flusso normale. Non siamo tanto lontani dal clinamem di Lucrezio!

Per molto tempo la turbolenza è stata identificata con il disordine, il rumore. Tuttavia oggi sappiamo che non è cosi. Mentre il moto turbolento sembra irregolare e caotico su scala macroscopica, su scala microscopica è, al contrario, altamente organizzato. La molteplicità delle scale spazio-temporali corrisponde al comportamento coerente di milioni di milioni di molecole. Da questo punto di vista il passaggio dal flusso lamellare alla turbolenza è un processo di auto-organizzazione. Una parte dell’energia del sistema, che nel flusso lamellare era nel moto termico della molecola, è stata trasferita al moto microscopico organizzato.

È interessante notare che questo corrisponde molto bene alla visione di Lucrezio: il clinamen come base del ‘mondo organizzato’. Ma l’essenziale per noi e che viene in luce uno stretto legame tra auto-organizzazione e distanza dall’equilibrio.

L’instabilità detta di ‘Bénard’ è un altro esempio lampante di come l’instabilità di uno stato stazionario dia luogo ad un fenomeno di auto-organizzazione spontanea. L’instabilità è dovuta ad un gradiente verticale di temperatura imposto ad uno strato orizzontale liquido. La superficie in­feriore dello strato è portata fino ad una data temperatura, più elevata di quella della superficie superiore. L’asimmetria di queste condizioni al limite determina un flusso di calore permanente dal basso verso l’alto. Quando il gradiente imposto oltrepassa una valore-soglia, lo stato di riposo del fluido, vale a dire lo stato stazionario in cui il calore viene trasmesso per diffusione senza effetti di convezione, diventa instabile. Si instaura allora un fenomeno di convezione, di moto coerente delle molecole del liquido, che accelera la trasmissione del calore. Dunque per valori assegnati del gradiente di tem­peratura, la produzione di entropia del sistema aumenta, in contrasto con il teorema di minima produzione di entropia. L’instabilità di Bénard è un fenomeno spettacolare. Il moto di convezione che si instaura consiste in una complessa organizzazione spaziale del sistema. Milioni di milioni di molecole si muovono coerentemente, formando cellule di convezione esagonale di taglia caratteristica…

Nel caso dell’instabilità di Bénard, una fluttuazione, una corrente microscopica di convezione, si è arnplificata fino a divenire una corrente macroscopica che invade l’intero sistema. Al di là del valore critico del gradiente imposto, si è dunque stabilito spontaneamente un nuovo ordine molecolare, in corrispondenza di una fluttuazione divenuta gigante e stabiliz­zata dagli scambi di energia con il mondo esterno, dal gradiente che continua ad alimentarla.

In condizioni lontane dall’equilibrio, il concetto di probabilità che sog­giace al principio d’ordine di Boltzmann non è più valido.”4

Leggendo questa lunga citazione scopriamo intanto che il “clinamen” di Lucrezio viene identificato con la “turbolenza”, forse semplicemente perché “turba la caduta ...”. Ma non basta! Secondo Prigogine il clinamen è “de­viazione spontanea e senza causa”, quindi è casuale, è il “caso”, infatti viene assimilato a “una perturbazione che esprime l’effetto del disordine moleco­lare che si aggiunge al flusso normale”. Ma subito dopo apprendiamo che la turbolenza, e quindi anche il clinamen, e quindi anche il caso, non si de­ve identificare con il disordine e con il rumore, cose che tutti dicono essere fenomeni caratteristici del caso. Non ci resta altra scelta che identificare il caso, il clinamen e la turbolenza con una nuova dea dell’Olimpo, misteriosa e onnipotente, capace di innescare meccanismi di auto-organizzazione che danno origine al mondo vivente.

Per non dire dei riferimenti a Lucrezio di cui diremo in un capitolo a parte.

Infatti come nella mitologia greca il caos è creatore del mondo ordinato, è il padre degli dei:

“Al caos indifferente dell’equilibrio segue un caos creatore simile a quel­lo evocato da alcuni presocratici, un caos fecondo, da cui potenzialmente possono uscire differenti strutture”.5

Quindi:

“Storia e complessità: due dimensioni parimenti assenti dal mondo che il demone di Laplace contempla. La dinamica classica suppone una natura nello stesso tempo amnesica, senza storia e completamente determinata dal suo passato; una natura indifferente in cui ogni stato è equivalente, una natura senza ombre e luci, piatta ed omogenea, quasi l’incubo di un universale non-senso. Il tempo di questa fisica è il tempo del dispiegarsi progressivo di una legge eterna, segnata una volta per tutte, e completamente espressa da un qualsiasi stato del mondo.”6

Questo significa che Galileo e Newton hanno sbagliato tutto perchè non hanno tenuto conto di questo diavoletto “turbolento” che capricciosamente si introduce nella dinamica per fare cose da pazzi! Resta sottinteso che per sapere come agirà il diavoletto dobbiamo chiedere a Prigogine, che con esso è capace di spiegare anche la storia e la complessità, anch’esse figlie del caso. Siamo ritornati alle teogonie dei miti orfici!

E ancora:

“Le celle di Bénard ci riservano altre sorprese. ... Non appena  Δ T supera leggermente Δ Tc (la soglia critica), sappiamo perfettamente che ap­pariranno le celle; questo fenomeno è dunque soggetto ad uno stretto determi­nismo. Al contrario, la direzione delle celle è impredicibile e incontrollabile: solo il caso, sotto forma della particolare perturbazione che ha prevalso al momento dell’esperimento, può decidere se una certa cella è destrogira o levo-gira. Arriviamo così a una notevole cooperazione fra determinismo e caso... Vediamo che lontano dall’equilibrio, ovvero quando il vincolo è sufficiente­mente forte, il sistema si adatta a ciò che lo circonda in molti modi diversi, o per essere meno antropomorfici, diciamo che più soluzioni sono possibili per gli gli stessi valori parametrici. Solo il caso deciderà quale di queste solu­zioni verrà realizzata. Il fatto che, fra molte scelte solo una venga realizzata conferisce al sistema una dimensione storica, una sorta di ‘memoria’ di un evento passato che ha avuto luogo in un momento critico e che inciderà sulla sua ulteriore evoluzione.”7

Come si vede in Prigogine il caso e la necessità, il caos e l’ordine, natural­mente accoppiate alla complessità, diventano vere e proprie entità ontologiche che decidono come deve evolvere il sistema, generano il nuovo, il complesso, la storia, ma nello stesso tempo quello che si deve ripetere, cioè il vecchio. Dentro questa sua fisica o metafisica o teologia (come chiamarla?) Prigogine riscopre Nietzsche, Bergson, Hegel, e guarda caso, Aristotele!

Infatti:

“Si è detto spesso, ed abbiamo già avuto occasione di ripeterlo, che la scienza moderna è nata quando si è abbandonato lo spazio aristotelico, che si ispirava in particolare all’organizzazione e alla solidarietà delle funzioni biologiche, per rimpiazzarlo con lo spazio omogeneo ed isotropo di Euclide. Tuttavia la teoria delle strutture dissipative ci riconduce ad una concezione più vicina a quella di Aristotele. ... Quando in seguito ad una instabilità compare una direzione privilegiata, lo spazio cessa di essere isotropo. Pas­siamo dallo spazio eudideo ad uno spazio aristotelico!”8

Ma qui scopriamo l’arma segreta di Prigogine, egli prende i “fatti empiri­ci”, per i quali vale la concezione aristotelica dello spazio e crede con questi di “confutare” alcuni “modelli teorici”, nei quali, essendo delle “idealizzazioni”, vale invece la concezione eucidea dello spazio. Siamo di fronte alla stessa confusione di linguaggi con presunta “confutazione” tra Simplicio e Salviati dei dialoghi di Galileo. In realtà, come nel caso di Simplicio e Salviati, che in seguito analizzeremo in dettaglio, ci troviamo di fronte a due “paradigmi” diversi che danno definizioni inconciliabili di quello che è un “fatto” e non si limitano solo a dare diverse interpretazioni del fatto.

Naturalmente Prigogine presenta questo suo guazzabuglio filosofico con formule matematiche e fisiche, tali da abbagliare il lettore, sprovvisto di tali conoscenze. Maschera sotto veste scientifica una vecchia e trita filosofia, pre­sentata come “nuova”, che aiuterebbe a capire e ad interpretare l’emergere del “nuovo” nella natura e nella storia. Ma forse a Prigogine manca il signi­ficato dei termini “vecchio e nuovo”. In questo suo miscuglio di erudizione forse la conoscenza di un vecchio adagio dell’Ecclesiaste lo avrebbe aiutato a capire: “C’è forse qualcosa di cui si possa dire: ‘Ecco questa è nuova’? Proprio questa è già stata nei secoli prima di noi. Non c’è più ricordo delle cose passate, come non ci sarà delle cose avvenire presso coloro che dopo vivranno.” (versi 10 e 11).

“Vecchio e nuovo” riguardano la realtà o la nostra conoscenza della real­tà? Anche Popper, come vedremo, confonde l’una con l’altra facendo, della nostra conoscenza della realtà, la realtà stessa.

Siamo di fronte ad un nuovo aristotelismo, per il quale la realtà empirica coincide con la realtà fisica, per cui se gli

“ingredienti essenziali della complessità sono: la comparsa di biforcazioni in condizioni lontane dall’equilibrio, e in presenza di opportune non -linearità; il verificarsi di rotture di simmetria oltre la biforcazione; e la formazione e il mantenimento di correlazioni di raggio macroscopico”9

allora questi stessi epifenomeni diventano la stessa realtà fisica.

Termini con mero significato formale o linguistico assumono significato reale (“semplice e complesso” sono termini con i quali classifichiamo la nostra comprensione delle cose, di volta in volta definiti dentro un dato contesto linguistico, tranne che si vogliano assumere esplicitamente come “paradigmi” o “regole filosofiche”, come fa Newton nei suoi Principia).

Prigogine è alla ricerca della scienza della “complessità”, come Aristotele è alla ricerca della scienza della “sostanza” .10 “Exploring the complessity” titola infatti uno dei suoi ultimi libri.

Possiamo concludere che non è la teoria delle strutture dissipative che ci ha portato ad Aristotele, ma, al contrario è l’aristotelismo di Prigogine che lo ha portato alla sua particolare interpretazione della teoria.

In questo miscuglio non manca poi una forte dose di platonismo. Si pas­sa dal più piatto empirismo al più ardito platonismo, per cui modelli pur essi fisico-matematici vengono scambiati per “fatti naturali”. Il tutto è chiara­mente frutto di un miscuglio filosofico ed epistemologico, mera ideologia.

Poichè le assurdità di Prigogine su Lucrezio, influenzato dallo scritto di Michel Serres11, sono molto diffuse nella letteratura filosofica e scientifi­ca dedicherò un capitolo a parte al significato del “clinamen” nell’opera di Lucrezia.

Per il momento esaminiamo cosa pensa un altro importante demiurgo della nostra epoca, cioè il “convertito” Popper (convertito, poiché è passato dalla sua primitiva adesione al determinismo12 alla difesa ad oltranza del­l’indeterminismo). Leggiamo cosa scrive a proposito della sua conversione all’indeterminismo:

“Personalmente ritengo che la dottrina dell’indeterminismo sia vera e che il determinismo sia privo di qualsiasi fondamento.

La ragione principale della mia convinzione è l’argomento intuitivo che la creazione di una nuova opera, come la sinfonia in sol minore di Mozart, non può essere prevista, in tutti i suoi dettagli, da un fisico, o da un fisiologo, che studi minuziosamente il corpo di Mozart - specialmente il suo cervello -e il suo ambiente fisico... Vi sono efficaci argomenti filosofici, in parte logici e in parte metafisici, contro il determinismo; argomenti che, molti anni fa, mi convinsero della debolezza del determinismo ‘scientifico’.

Io vedo le teorie scientifiche come invenzioni umane - reti progettate da noi per catturare il mondo. Certamente, esse differiscono dalle invenzioni dei poeti e pure dalle invenzioni dei tecnologi. Le teorie non sono solo strumenti. La nostra meta è la verità: noi con trolliamo le nostre teorie nella speranza di eliminare quelle che non sono vere. In questo modo possiamo riuscire a perfezionare le nostre teorie - anche come strumenti: a costruire reti sempre più adatte a catturare il nostro pesce, il mondo reale. Esse non saranno mai, tuttavia, strumenti perfetti per questo fine. Esse sono reti razionali da noi stessi prodotte, e non si dovrebbero scambiare per una rappresentazione completa del mondo reale in tutti i suoi aspetti, neppure se sono coronate da grande successo e neppure se sembrano produrre eccellenti approssimazioni alla realtà.

Se abbiamo ben chiaro in mente che le teorie sono opera nostra, che noi siamo fallibii e che le nostre teorie riflettono la nostra fallibilità, allora dubiteremo del fatto che i tratti generali di esse, come la loro semplicità, o il loro carattere prima facie deterministico, corrispondano a tratti del mondo reale.... La teoria di Newton, consistente della legge di inerzia, della legge di gravità, ecc., può essere vera, o molto vicina alla verità; il mondo può essere come asserisce la teoria. Ma in essa non vi è alcuna asserzione deterministica; in nessuna parte essa asserisce che il mondo è deterministico; è piuttosto la teoria in quanto tale ad avere il carattere che ho definito ‘prima facie deterministico’. …

È la teoria a decidere cosa appartiene allo stato del sistema (posizioni, masse, velocità) e cosa non vi appartiene (ad esempio, i diametri dei pianeti; le loro temperature; le loro qualità termiche; le loro proprietà chimiche e magnetiche).

In secondo luogo, la teoria ci dice quale dimensione dei ‘pianeti’ si possa trascurare (i meteoriti, ad esempio) . In altre parole, è del tutto ingenuo pensare che ‘ogni compito predittivo’ si riferisca ad ogni stato del mondo, o evento nel mondo concepibile: ogni compito predittivo che si possa ritenere spiegabile, opera sulla base di un modello semplificatore. È il risultato del­l’atto di vedere il mondo alla luce di una teoria sempliflcatrice; e qualunque cosa non venga illuminata da questo riflettore resta oscura: viene tralasciata. …

Noi cerchiamo di esaminare il mondo esaustivamente attraverso le nostre reti; ma le loro maglie lasceranno sempre sfuggire qualche pesciolino: ci sarà sempre abbastanza spazio per l’indeterminismo.”13

Nel discorso di Popper c’è grande confusione. Se le “teorie fisiche” so­no reti, attraverso, le quali catturiamo parte della realtà fisica, lasciandone fuori altra, per cui c’è sempre “spazio per l’indeterminismo”, per l’impre­visto, perché nel nostro “modello fisico” non potremo mai considerare tutte le variabili di essa, l’indeterminismo è della realtà fisica o della nostra co­noscenza, delle nostre teorie (o modelli) o dell’universo fisico, riguarda il mondo oggettivo fuori di noi o la nostra conoscenza di esso? Per Popper, visto che lo scarto tra il modello teorico e la realtà fisica è incolmabile, il mondo fisico è indeterministico. Bella conclusione! Perché invece non de­durne che la nostra conoscenza resta sempre incompleta, rispetto al mondo reale? “Determinismo e indeterminismo” riguardano i modelli fisici, le teorie, i nuclei metafisici o i paradigmi delle teorie, o i fatti fisici o piuttosto qualche relazione tra alcuni di questi? Tutto questo non è chiaro in Popper. Tutto quello che si può desumere dal suo discorso è che saremmo obbligati a conce­pire solo modelli indeterministici per catturare la realtà, vale a dire che senza l’introduzione del “caso” non potremo mai spiegarci la realtà. Ancora una volta si confonde la realtà empirica con la “realtà” alla quale non importa un bel niente di quello che sappiamo su di essa!

 

 

Galileo, gli aristotelici e i platonici

 

Abbiamo detto sopra che le presunte confutazioni di Prigogine e la con­futazione del determinismo da parte di Popper somigliano molto alle con­futazioni da parte dell’aristotelico Simplicio delle affermazioni del galileiano Salviati.

È bene quindi rileggere assieme alcuni passi significativi del dialogo ga­lileiano.

Al proposito bisogna dire che si è molto discusso nella letteratura filo­sofico - epistemologica su un presunto “platonismo” di Galileo.14

Si dice che Galileo, come già Platone, avrebbe dato realtà ontologica agli enti matematici, sino a farne l’essenza della natura sensibile, apparente e volgare. Ciò in base al famoso detto galileiano che la natura è scritta con i caratteri della matematica.

D’altra parte il presunto platonismo di Galileo è stato rigettato muoven­do da diversi punti di vista.15

Voglio qui esporre il mio personale punto di vista sulla questione.

A mio giudizio, Galileo si muove dentro una tradizione di pensiero, che brevemente aggettiverò “pitagorico-democritea”, che era profondamente al­ternativa alla tradizione “platonico-aristotelica”.

I principi filosofico - epistemologici delle due tradizioni sono stati illustra­ti in altri scritti miei e degli altri collaboratori di questa rivista pubblicati nei numeri precedenti16, principi che nel seguito di questa nota verranno riassunti.

Nella letteratura filosofica odierna raramente viene colta la profonda differenza epistemologica tra le due tradizioni e si tende a considerare i co­siddetti presocratici come dei bambini balbuzienti, in seguito superati da Platone ed Aristotele.

Per cui nell’interpretazione della filosofia di Galileo succede quello che succede nell’interpretazione della filosofia di Marx.

Marx per farsi leggere e capire dai suoi contemporanei, imbevuti di cul­tura hegeliana, è costretto a “civettare” con il linguaggio di Hegel17 allo stesso modo Galileo, per farsi leggere e capire dai suoi contemporanei, imbevuti di platonismo, è costretto a “civettare” con la cultura e il linguaggio di Plato­ne. Ma tanto Marx che Galileo si muovono dentro una tradizione di pensiero profondamente diversa da quella platonico-aristotelica. Basta qui ricordare che per Platone e Aristotele, pur con motivazioni metafisiche diverse, la ma­tematica non serve per fare scienza della natura, viceversa nella tradizione pitagorico‑democritea, che passa attraverso Euclide, Archimede, fino ad ar­rivare a Galileo, la matematica è strumento indispensabile per costruire la scienza della natura. Qui la diversità tra Galileo, da un lato, e Platone e Aristotele, dall’altro, è abissale.

Cercherò ora di approfondire quegli aspetti filosofico - epistemologici, che sono alla base vuoi dello scontro di Galileo con platonici e aristotelici, vuoi delle tante incomprensioni, anche con spunti molto interessanti, di certa letteratura storiografica fatta da epistemologi, quali Popper, Kuhn e Feyera­bend, vuoi della tanta confusione intorno a problemi, quali “caso”, “caos”, “complessità” e “indeterminismo”, oggi diffusi in parte della letteratura filo­sofico - epistemologica, ma sopratutto nella pubblicistica.

Lo scontro, le incomprensioni e la confusione epistemologica, tutte nasco­no, a mio parere, per il diverso significato da attribuire a termini quali “Te­oria”, “Modello”, “Realtà fisica”, “fatto”, e quindi dalle relazioni che si fanno intercorrere tra questi termini, e tra questi e la “Realtà sensibile”, spesso confusa con la “Realtà fisica”, che a sua volta viene identificata con la “Realtà”, tout court.

Nella tradizione pitagorico-democritea, che passa attraverso Galileo, in­tanto la “realtà empirica” non viene confusa con la “realtà fisica”; il signi­ficato della prima è quello di un qualcosa di puramente sensibile, soggettivo e superficiale, di complesso e caotico, perché ricco di innumerevoli e ag­grovigliate connessioni, mentre quello della seconda invece è quello di un qualcosa, che si pone fuori dal soggetto conoscente, di indipendente, ma che è ricostruito da esso, frutto delle sue elaborazioni concettuali, quindi di un qualcosa di semplice e ordinato, in quanto alcune relazioni tra le cose sensibili sono considerate, mentre altre vengono scartate, e le prime vengono studiate a partire da “enti logici o ideali”, definiti muovendo da proprietà e relazioni tra proprietà. Non essendoci altro oltre queste due dobbiamo concludere che la “realtà” è tutto quello che assumiamo stia fuori del soggetto conoscente, e che, d’altronde, è conforme con il nostro modo di usare aggettivi e sostantivi, per cui il sostantivo viene delimitato dagli aggettivi “empirica” o “sensibile” e “fisica” o “razionale”.

Nella concezione, che abbiamo chiamato “platonico-aristotelica”, la “re­altà fisica” è la stessa cosa della “realtà empirica”, la realtà fisica viene a coincidere con quanto osserviamo e misuriamo, viceversa per la concezione, che abbiamo chiamato “pitagorico-parmenidea”, la “realtà empirica” non e la “realtà fisica”, poiché questa è un cosmo concettuale, i cui enti sono enti ideali, non visibili (gli atomi di Democrito, le sfere e i piani perfettamente lisci di Galileo, ecc.), che però servono a capire la realtà empirica, visibile, superficiale e soggettiva. Non si può insomma fare scienza fisica o “teoria fisica” senza un uso preliminare di “modelli” entro i quali si seleziona e si stabilisce ciò che è la “res fisica”.

Lo scontro tra Galileo e gli aristotelici riguarda proprio il significato da attribuire ai termini “esperienza” e “ente fisico”, come altrove ho chiarito.18 Riguarda, inoltre, l’uso dei modelli nelle scienze empiriche e il loro significato.

L’aristotelico rifiuta, in linea di principio, l’uso di modelli nella spiega­zione dei fenomeni empirici, salvo poi a farne uso per confutare l’avversario, senza però esserne cosciente, appunto perché crede che tali “modelli”, che per lui sono “fatti”, sono la “realtà fisica”.

È quanto emerge dallo scontro tra Salviati (Galileo) e Simplicio (l’aristo­telico) nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo a proposito del primo argomento addotto da quest’ultimo contro il movimento della Terra attorno a se stessa.

Questo scontro non sarebbe potuto sorgere tra Galileo e i platonici, perché Platone aveva negato, in linea di principio, la possibilità stessa di una scienza della natura, cioè di un qualcosa di imperfetto, poiché la scienza si occupa solo di cose perfette.

Ma leggiamo il testo di Galileo:

“Simplicio.  …Il primo argomento comincia qui: ‘Et primo, si opinio Copernici recipiatur, criterium naturalis philosophiae, ni prorsus tollatur, vehementer saltem labefactari videtur’. Il qual criterio vuole, secondo l’opi­nione di tutte le sette de’ filosofi, che il senso e l’esperienza siano le nostre scorte nel filosofare; ma nella posizione del Copernico i sensi vengono a ingan­narsi grandemente, mentre visibilmente scorgono da vicino, i mezi purissimi, i corpi gravissimi scender rettamente a perpendicolo, né mai deviar un sol capello dalla linea retta; con tutto ciò per il Copernico la vista in cosa tanto chiara s’inganna, e quel moto non è altrimenti retto, ma misto di retto e circolare.

Salviati. Questo è il primo argomento che Aristotele e Tolomeo e tutti i lor seguaci producono: al quale si è abbondantemente risposto, e mostrato il paralogismo, ed assai apertamente dichiarato come il moto comune a noi ed a altri mobili è come se non fusse. Ma perché le conclusioni vere hanno mille favorevoli rincontri che le confermano, voglio, in grazia di questo filosofo, aggiunger qualche altra cosa; e voi, signor Simplicio, facendo la parte sua, rispondetemi alle domande. E prima, ditemi: che effetto fa in voi quel­la pietra la quale, cadendo dalla cima della torre, è cagione che voi di tal movimento vi accorgiate? perché se ‘1 suo cadere nulla di più o di nuovo operasse in voi di quello che si operava alla sua quiete in cima alla torre, voi sicuramente non vi accorgereste della sua scesa, né distinguereste il suo muoversi dal suo star ferma.

Simplicio. Comprendo il suo discendere in relazione alla torre, perché or la veggo a canto a un tal segno di essa torre, poi ad un basso, e così successivamente, sin che la scorgo giunta in terra.

Sal. Adunque, se quella pietra fusse caduta da gli artigli d’una volante aquila e scendesse per la semplice aria invisibile, e voi non aveste altro oggetto visibile e stabile con chi far parallelo di quella, non potreste il suo moto comprendere?

Simpl. Anzi pur me n’accorgerei, poiché, per vederla mentre è altissima, mi converrebbe alzar la testa, e secondo ch’ella venisse calando, mi bisogne­rebbe abbassarla, ed in somma muover continuamente o quella o gli occhi, secondo il suo moto.

Sal. Ora avete data la vera risposta. Voi conoscete dunque la quiete di quel sasso, mentre senza muover punto l’occhio ve lo vedete sempre avan­ti, e conoscete ch’ei si muove, quando, per non lo perder di vista, vi con­vien muover l’organo della vista, cioè l’occhio. Adunque, tuttavoltaché sen­za muover mai l’occhio voi vi vedeste continuamente un oggetto nell’istesso aspetto, sempre lo giudichereste immobile.

Simpl. Credo che cosi bisognasse necessariamente.

Sai. Figuratevi ora d’esser in una nave, e d’aver fissato l’occhio alla punta dell’antenna: credete voi che, perché la nave si muovesse anco velocis­simamente, vi bisognasse muover l’occhio per mantener la vista sempre alla punta dell’antenna e seguitare il suo moto?

Simpl. Son sicuro che non bisognerebbe far mutazione nessuna, e che non solo la vista, ma quando io v’avessi drizzato la mira d’un archibuso, mai per qualsivoglia moto della nave non mi bisognerebbe muoverla un pelo per mantenervela aggiustata.

Sal. E questo avviene perché il moto che conferisce la nave all’antenna, lo conferisce anche a voi ed al vostro occhio, si che non vi conviene muoverlo punto per rimirar la cima dell’antenna; ed in conseguenza ella vi apparisce immobile. E tanto è che il raggio della vista vadia dall’occhio all’antenna, quanto se una corda fusse legata tra due termini della nave: ora, cento corde sono a diversi termini fermate, e negli stessi posti si conservano, muovasi la nave o stia ferma. Ora trasferite questo discorso alla vertigine della Terra ed al sasso posto in cima della torre, nel quale voi non potete discernere il moto, perché quel movimento che bisogna per seguirlo, l’avete voi comune­mente con lui dalla Terra, né vi convien muover l’occhio; quando poi gli sopraggiunge il moto all’ingiù, che è suo particolare, e non vostro, e che si mescola co ’1 circolare, la parte del circolare che è comune della pietra e del­l’occhio, continua d’esser impercettibile, e solo si fa sensibile il retto, perché per seguirla vi convien muover l’occhio abbasandolo.

……

Sal. Oh io ne vorrei dedur precetti più e più sicuri, imparando ad esser più circuspetto e men confidente circa quello che a prima giunta ci vien rappresentato da i sensi, che ci possono facilmente ingannare; e non vorrei che questo autore si affanasse tanto in volerci far comprender co ’1 senso, questo moto de i gravi descendenti esser semplice retto e non di altra sorte, né si risentisse ed esclamasse perché una cosa tanto chiara manifesta e patente venga messa in difficultà; perché in questo modo dà indizio di credere che a quelli che dicon, paia di veder sensatamente quel sasso andar in arco, già che egli invita più il loro senso che il loro discorso a chiarirsi di tal effetto: il che non è vero, signor Simplicio, perché, si com’io, che sono indifferente tra queste opinioni e solo a guisa di comico mi immaschero da Copernico in queste rappresentazioni nostre, non ho mai veduto, né mi è parso di veder, cader quel sasso altrimenti che a perpendicolo, cosi credo che a gli occhi di tutti gli archi si rappresenti l’istesso. Meglio è dunque che, deposta l’apparenza, nella quale tutti convenghiamo, facciamo forza co ’1 discorso, o per confermar la realtà di quella, o per iscoprir la sua fallacia.”19

Dal testo qui riportato chiaramente si evince:

1) che Galileo e Simplicio mostrano due metafisiche diverse sul significato di “esperienza” e di “ente fisico”;

2) che i due interlocutori hanno due “modelli o paradigmi” di universo fisico, profondamente diversi. Il “modello” dell’aristotelico è quello di un universo con la terra immobile al centro e, intorno al suo asse, ruotano gli astri con moto circolare uniforme, mentre quello del copericano è quello di un universo fisico con il sole al centro, con la terra che gira attorno al suo asse e anche attorno al sole.

3) ultimo, e più importante, l’uno crede che il “fatto” sia quello che vede e che analizza con un vocabolario inadeguato, l’altro ritiene che il “fatto” sia la ricostruzione razionale del fenomeno con un linguaggio che parta da “principi” razionali o logici.

Il “modello”, o “paradigma”, non è filosoficamente neutro; esso è il frutto di inveterate e millenarie concezioni metafisiche e religiose, di “esperienze sensibili” così come concepite e selezionate dal senso comune e dal pensiero filosofico attraverso il tempo.

Il “paradigma” precede la “teoria” e i particolari “modelli fisici”, che a partire da essa si possono costruire, esso racchiude una particolare concezione del mondo. La “teoria” si limita ad assumerlo come vero, a “postularlo”, con tutto quanto è in esso sedimentato, per poi cercare di spiegare per mezzo di esso quanto di regolare o di irregolare avviene o si manifesta.

Racconta Simplicio (V secolo d. C.) che il filosofo Platone, a causa delle notevoli irregolarità riscontrate dagli astronomi nel movimento dei pianeti, avrebbe posto ai matematici del suo tempo il seguente quesito: Quali sono i movimenti uniformi e ordinati che si devono assumere per giustificare il moto apparentemente irregolare dei pianeti?, con ciò stimolando la ricerca scientifica. Si afferma da parte di molti storici, che la teoria delle sfere omo­centriche di Eudosso ne sia stata la risposta più immediata. Quindi Platone impone il paradigma, Eudosso ne costruisce la teoria.

Per la verità Gemino (I secolo a. C.) racconta che il quesito sarebbe già stato posto dentro le comunità pitagoriche.20

Ma il “paradigma” dei pitagorici doveva essere profondamente diverso, se è vero che già Iceta ed Ecfanto siracusani, pitagorici, sostennero il moto della terra attorno a se stessa nel V secolo a. C. Anzi doveva essere diverso il significato stesso del termine “paradigma”, da essi coniato. A partire dal paradigma platonico, che pretendeva la regolarità dei movimenti per la natura divina degli astri, si sviluppa la teoria astronomica antica, attraverso l’uso di epicicli, equanti, eccentrici, ecc, tutti escogitati per “salvare i fenomeni” entro tale paradigma.

A proposito del potere del paradigma platonico, Plutarco nella vita di Nicia, nelle sue Vite parallele, a proposito di un improvviso eclisse di sole, che causò terrore nelle truppe del generale Nicia, in battaglia, racconta che Nicia e tutti i suoi compagni, ignoranti e superstiziosi, a sufficienza per essere terrorrizzati da simili fenomeni, furono colti da grande paura. Si riteneva che l’eclisse fosse un fenomeno miracoloso, un segnale di grandi sventure mandato da dio.

Dice Plutarco che il primo ad esporre per iscritto la teoria più chiara e spregiudicata sulle fasi lunari fu Anassagora; ma egli non aveva l’autorità che viene ad uno scrittore dagli anni, e la sua teoria era poco nota, anzi era ancora segreta. Solo poche persone la conoscevano e se la tramandavano con un certo sospetto, più che con piena fiducia.

Dice Plutarco che gli scienziati o astrologi come li chiamavano non erano visti di buon occhio dalla gente comune, perché riducevano l’opera divina nel mondo a cause naturali e razionali, a forze imprevedibili e ad un determinismo assoluto. Protagora fu mandato in esilio per questo motivo; Anassagora evitò per poco il carcere grazie all’intervento di Pericle; e Socrate, benché non avesse alcun rapporto con questo genere di studi, perdette ugualmente la vita a causa delle sue teorie.

“Solo più tardi, continua Plutarco, la gloria radiosa di Platone, prove­niente dalla sua vita non meno dall’aver egli subordinato le leggi fisiche a principi divini e trascendenti, spazzò via il sospetto da cui erano circondati questi studi e aprì alle scienze una via per diffondersi tra tutti gli uomini.”.

Concludo che la teoria fisica in quanto tale è neutra, perché si limita ad assumere il paradigma, entro cui spiegare i fenomeni. È nella contrapposi­zione tra “paradigmi”, che avviene quella che si suole chiamare la “confuta­zione”, come si dice impropriamente.

È vero comunque, nello scontro tra Salviati e Simplicio, tra Galileo e gli aristotelici, che la “confutazione” avviene sul piano dei paradigmi, in quanto “modelli standard” con cui ingabbiare la realtà. I due possono “confutarsi”, togliendo o aggiungendo qualcosa nel paradigma di universo fisico dell’altro. L’uno può accusare di “fallacia” il discorso dell’altro, grazie appunto ad un diverso “modello” concreto concepito a partire da un dato “paradigma” di universo. Togliere o aggiungere qualcosa nel paradigma non è frutto di una semplice operazione logica, ma implica molteplici motivazioni metafisiche e religiose, che Galileo in parte critica nel suo dialogo nel tentativo di far accogliere il suo personale paradigma.

Popper, Kuhn e Feyerabend, il quale ultimo discute questo stesso epi­sodio del “Dialogo...’ nella sua opera Contro il metodo, hanno, a ragione, evidenziato il ruolo della metafisica o di altre concezioni nella costruzione della scienza, in contrapposizione a positivisti e neopositivisti, ma, a mio parere, non ben riuscendo a precisare il significato di “teoria fisica”, di “mo­dello fisico”, di “fatto” e le loro reciproche relazioni. Il termine “paradigma”, che tanta fortuna ha avuto nella letteratura filosofico - epistemologica e che Kuhn ha introdotto, è molto vago, poiché non si riesce a capire a quale livello si colloca nella struttura del discorso scientifico. Nel vocabolario di questi filosofi è molto vago il significato del termine “modello fisico”, ne si sa quale ruolo svolge precisamente nello stesso discorso scientifico. Per essi pare che esistano solo le teorie e i fatti, anche se questi sono “impregnati” di teoria, come dice Popper. La confusione tra “paradigma” e “teoria” li porta inoltre a pensare che le teorie siano “confutabili” (Popper) o “incommensurabili” (Kuhn e Feyerabend).

 

 

Lucrezio, il clinamen e la teoria dei foedera

 

Abbiamo visto sopra che il clinamen di Lucrezio è diventato il progeni­tore della “turbolenza” e del “caso” e, in un certo senso, è anche vero, come diremo.

Poiché l’idea che il clinamen sia frutto del “caso” è uno tra i più mador­nali fraitendimenti sulla filosofia di Lucrezio, è bene spendere qualche parola in proposito.

Ma bisogna notare che il più grosso fraintendimento riguarda il senso complessivo dell’opera di Lucrezio. Il più delle volte si traduce il titolo la­tino della sua opera, De rerum natura, con La natura, qualche traduttore, più avveduto, traduce invece La natura delle cose, ma l’ambiguità tuttavia rimane. Per cui, chi non avesse letto direttamente l’opera di Lucrezio, è por­tato a pensare ad un poema sulla natura, ad un’opera di filosofia naturale, di spiegazione dei fenomeni fisici. Di fatto l’opera di Lucrezio è un’opera di filosofia generale circa l’origine e l’essenza, non solo delle cose naturali, ma in generale, di tutte le cose, naturali e umane, che sono oggetto di conoscenza umana. La “res” in Lucrezio non è la “cosa fisica”, ma la “cosa in genera­le” in senso filosofico. Ed infatti Lucrezio vuole spiegare non solo la natura delle cose fisiche (il tuono, il lampo, la pioggia, il terremoto, la grandezza dell’universo, ecc.), ma anche la natura degli dei, della religione, dell’anima, della volontà, della guerra, della civiltà, della libertà, del linguaggio, della proprietà, delle leggi civili (communia foedera pacis, Libro V, verso 1155), dello Stato, ecc.

Ciò è chiaramente detto fin da principio.

Nei versi 54-55 del I libro cosi scrive:

“Nam tibi de summa caeli ratione deumque

disserere incipiam et de rerum primordia pandam”

Cioè: Pertanto comincerò ad esporti la vera scienza del cielo e degli dei e ti svelerò i principi delle cose.

Nel lessico filosofico lucreziano valgono le seguenti uguaglianze: natura rerum = ratio rerum = vera ratio (= vera scienza = filosofia senza aggettivi).

Ancora nei versi 127-131 dello stesso libro scrive:

“Quapropter bene cum superis de rebus habenda

 nobis est ratio, solis lunaeque meatus

qua fiant ratione, et qua vi quaeque gerantur

in terris, tunc cum primis ratione sagaci

unde anima atque animi constet natura videndum”

Cioè: E perciò come dobbiamo rettamente darci ragione delle cose ce­lesti, di quale sia la causa del corso del sole e della luna e quale sia la natura e ciò che si produce in terra, così, anzitutto, con accorto giudizio dobbiamo guardare donde viene la vita e di che natura è la mente.

Nello libro primo divide tutte le cose che hanno un nome (quaecumque cluent) in coniuncta ed eventa, i primi sono i principi delle cose, primordia o principia rerum, che sono la materia costituita da corpora solidissima, cioè senza pori come diceva Empedocle, ed il vuoto, vacuum quod inane vocamus. Proprietà essenziale (coniunctum) della materia è quella di toccare ed essere toccata, tangere et tangi, mentre proprietà essenziale del vuoto è, al contrario, quella di non poter essere toccato, intactus. Per costruire il mondo fisico non è necessario ricorrere ad altro, nemmeno all’intervento divino.

Tali proprietà essenziali o coniuncta non devono essere intese come proprietà sensibili, apparenti, ma come proprietà razionali, ideali; esse sono la vera res, la ratio vera. Le une (coniuncta) sono la ratio, la natura o essenza delle cose, le altre (quorum adventu manet incolumis natura abitu­que, haec soliti sumus, ut par est, eventa vocare), sono pura apparenza, il divenire delle cose, ciò che accade nel tempo, le res gestas, che perciò non esistono per sé come i corpi, né possiamo dire che siano come il vuoto, solo possiamo chiamarli eventi dei corpi e dei luoghi ove avvengono.

“non ita uti corpus per se constare neque esse,

 nec ratione cluere eadem qua conste inane,

sed magis ut merito possis eventa vocare

corporis atque loci, res in quo quaeque gerantur.”

Quindi “eventa” sono la libertà, la povertà, la ricchezza, ecc.

Il tempo stesso non esiste per sé, ma sono le cose stesse a crearci l’illu­sione del tempo, per via del movimento dei corpi. È il movimento che crea il tempo e non viceversa.

Ora se la libertà è un “eventum”, quindi mera apparenza, giammai es­senza delle cose, come conciliare questa concezione di Lucrezio con quell’altra molto diffusa tra molti filosofi, per la quale il clinamen, cioè la deviazione dell’atomo, starebbe a fondamento della sua libertà (e quindi a fondamen­to della stessa libertà umana), permettendogli di spezzare i decreti del fato, foedera fati, che imporrebbero allo stesso di cadere verso il basso in linea retta?

Notiamo che il termine “atomo” per la verità non viene mai impiegato da Lucrezio, esso è stato usato da Cicerone, editore del De rerum natura.

Ma, intanto, ha senso una caduta verso il basso dell’atomo nell’universo fisico di Lucrezio, infinito, quindi privo di punti di riferimento assoluti?

Troviamo invece questa proprietà dell’atomo, attribuita ad Epicuro, nel­l’opera di Cicerone De natura deorum. Scrive Cicerone in questa sua opera:

“Epicuro, avendo notato, che, se gli atomi si muovessero verso il bas­so per effetto del loro peso (si atomi ferrentur in locum inferiorem suopte pondere), nulla sarebbe in nostro potere, perché il loro moto sarebbe certo e necessario (certus et necessarius), trovò il modo di evitare la necessità, co­sa che era evidentemente sfuggita a Democrito: dice che l’atomo, quando è portato dal peso e dalla gravità in linea retta verso il basso (deorsus), devia un pochino (paululum)” (Libro I, 25,69).

Forse il contributo che Cicerone ha dato alle successive balorde interpre­tazioni del testo lucreziano è molto maggiore di quanto possa emergere dalla precedente citazione.

Nell’edizione UTET del De rerum natura a pag. 42 si legge:

“Il ‘Chronicon’ di San Girolamo (sec. IV-V d.C.) pone la nascita del poeta in alcuni codici all’anno 96 a. C., in altri al 94, e ci informa che Lucre­zio, divenuto pazzo per effetto di un filtro amatorio, compose negli intervalli di lucidità ‘aliquot libros, quos postea Cicero emendavit’, e si diede la morte all’età di 43 anni. I libri di cui parla San Girolamo sono evidentemente i sei che costituiscono il poema della natura. Quanto all’‘emendatio’ ciceroniana, essa non si può intendere se non nel senso che Cicerone, soggiogato dalla grandezza della poesia lucreziana, abbia contribuito alla pubblicazione del poema, pur disapprovando il contenuto dottrinale e l’intento proselitistico dell’opera.”

Mi sembra che l’autore del brano citato forzi molto il significato di ‘emen­davit’. Stando alla testimonianza di Gerolamo, Cicerone non solo pubblica l’opera di Lucrezio, ma anche la “emenda”, cioè la corregge, l’aggiusta, la manipola, togliendo e/o aggiungendo qualcosa. Almeno questo è il significato di ‘emendavit’ nei dizionari latini!

Ora lo stesso Lucrezio è perfettamente conscio della difficoltà di esporre compiutamente il suo pensiero in versi latini, infatti nei versi 136-139 scrive che è difficile tradurre in latino il pensiero dei Greci per cui dovrà spesso coniare nuovi termini, in quanto la lingua latina non è adeguata per esprimere idee talmente nuove.

Niente di strano che Cicerone, anche senza intenzione, all’interno della sua cultura eclettica, corregga qualcosa perché non ne afferra il senso e, in verità, i versi latini, dove Lucrezio tratta il tema del ‘clinamen’ non sono molto chiari, come del resto scopriamo nel confrontare le molte traduzioni in lingua italiana, a mio parere, abbastanza infelici, tutte però attaccate all’interpretazione ciceroniana.

Tuttavia credo che il senso originale si possa desumere se si guarda con attenzione a tutto quanto Lucrezio espone nel secondo libro.

L’argomento del moto dei corpi viene affrontato da Lucrezio nel secondo libro a partire dal verso 62.

Egli si propone di spiegare come a partire dal moto degli atomi che velocemente attraversano il vuoto si creino le apparenze sensibili dei corpi che nascono e muoiono.

La materia sensibile, spiega, non è continuamente compatta, altrimenti non ci sarebbe possibilità per il movimento, ma noi vediamo che i corpi crescono, diminuiscono e muoiono.

Dice che è sbagliato pensare che gli atomi possano star fermi e generare il mondo sensibile, essi sono trasportati nel vuoto e si aggruppano per effetto di forze interne attrattive (gravitate) e si diradano per effetto di forze esterne dovute ad urti reciproci.

E per meglio comprendere questo ricorda che l’universo è senza fine e non vi è un posto dove gli atomi si possano fermare.

Per dare un’idea di tale turbinoso movimento ricorre all’immagine del pulviscolo che si intravede in un raggio di luce. Che, osserviamo, è un’im­magine molto lontana dagli atomi di Cicerone che cadono verso il basso! Notiamo che l’idea di Cicerone può essere espressa con le parole di Simplicio, in testa alla citazione che sopra abbiamo riportato.

Quando l’aggrovigliamento e il numero degli atomi è cresciuto abbastan­za i corpi diventano visibili all’occhio umano.

Alcuni, ignoranti della verità, credono che ciò che accade nel mondo avviene per volere divino, ma questo è un errore, perché da quando vediamo si deve arguire che il mondo non è fatto per noi, tanto è il male che lo attraversa.

Riprendendo il discorso sul movimento, Lucrezio osserva che nessun cor­po può sollevarsi in alto per sua forza (si deve intendere sulla terra) e non possiamo farci ingannare dalle fiamme che vanno in alto perchè esse sono sospinte da una qualche forza, allo stesso modo che le travi immerse nel­l’acqua vengono risospinte in alto. Tutte queste cose cadrebbero in basso se attorno ad essi fosse fatto il vuoto.

Tali corpi che vanno verso il basso per effetto del loro proprio peso (notiamo che qui quasi tutti i traduttori parlano di “atomi” o di “corpi primi”, mentre nel testo latino si parla solo di “corpora cum deorsum rectum per inane feruntur ponderis propriis”, e tali corpi sono esattamente quelli di cui prima ha discorso, avendo, per pura ipotesi, immaginato di avervi fatto il vuoto attorno; è la stessa idea del famoso “tubo di Newton”), anche se noi non riusciamo a vederlo, data la sua piccolezza, subiscono un lieve spostamento in un istante e in un punto a noi ignoti (“incerto tempore ferme incertisque loci spatio depellere paulum”), quel tanto che basta perchè si possa dire che il loro movimento è mutato.

Senza tale deviazione tutte le cose (si intende anche le fiamme e le travi nell’acqua) cadrebbero nel vuoto profondo come gocce di pioggia e la natura non avrebbe potuto mai nulla creare.

Ciò per la stessa ragione che non è nemmeno possibile pensare che i corpi più pesanti possano, nel vuoto, sopraggiungere i più leggeri, perchè nel vuoto, che non oppone alcuna resistenza ai corpi, come invece osserviamo per l’aria e per l’acqua, tutti i corpi devono cadere con lo stesso movimento indipendentemente dal proprio peso.

Perciò è necessario che i corpi (anche quando sulla terra si muovono per effetto del loro peso) debbano deviare dal loro cammino almeno per poco anche se noi non possiamo scorgerlo.

Altrimenti come spiegare la volontà, negli uomini e anche negli animali, che sembra interrompere i decreti del fato, foedera fati?

Bisogna dunque ammettere che oltre agli urti e al peso, (che con lin­guaggio moderno chiameremmo “forze esterne”), vi sia un’altra causa di moto per gli atomi, dal momento che abbiamo ammesso che nulla può nascere dal nulla.

Infatti abbiamo visto che il peso non può generarla perchè non è capace di fare urtare i corpi tra loro (nel vuoto), quindi tale forza deve essere interna ai corpi stessi (“forza di inerzia”, che è sempre uguale alla “forza acceleratri­ce”, come dirà Newton), la stessa mente ha un tale interno (“intestinum”) movente, la cui causa si deve attribuire a quella piccola deviazione degli atomi (“exiguum clinamen pricipiorum”) anche se noi non sappiamo né il tempo, nè il luogo in cui essa si manifesta (“nec regione loci certa nec tempore certo”, versi 288 - 293).

Questa deviazione non altera la compattezza della materia nè aumenta gli intervalli tra le sue parti, poichè la materia né può aumentare, né diminu­ire. Per cui tale movimento sarà ora esattamente lo stesso come nel passato e come lo sarà nel futuro secondo i decreti della natura (“foedera naturai”).

Non esiste forza che possa mutare il corso dell’universo, né esiste luogo dove possa fuggire parte della materia, nè esiste luogo da dove possa venire nuova energia che possa sconvolgere il moto dell’universo.

Quindi, da quanto abbiamo esposto, si deduce che il “clinamen” è una forza propria degli atomi, cioè della “materia solidissima”, che permette loro di aggrupparsi, per dare origine ai corpi sensibili, pur nel loro vorticoso movimento, e non si deve pensare che gli atomi possano star fermi attaccati tra loro, ma le parti del corpo restano assieme pur rimanendo in moto, per effetto di tale deviazione, che è piccola per cui non possiamo osservarla tra due corpi che cadessero sulla terra nel vuoto. Niente di diverso da quanto Simplicio attribuisce a Democrito citando Aristotele.21

Trascurando il contesto in cui Lucrezio parla del “clinamen”, si possono dedurre solo cose che non hanno senso, attribuendo a Lucrezio cose assolu­tarnente lontane dal suo pensiero.

Non c’è dubbio che il clinamen di Lucrezio possa spiegare la “turbolenza” di Prigogine, perché è un concetto molto più generale, ma altrettanto vero è che non abbiamo bisogno dei fenomeni di turbolenza per dedurre che è necessario il clinamen, cioè l’attrazione universale tra i corpi, per spiegare la realtà fisica.

Per Lucrezio, la natura non è soggetta ai voleri capricciosi degli dei, ai “foedera fati”, a leggi indotte dall’esterno ad essa, ma opera “sponte sua forte”, grazie cioè a sue leggi, che sono i “foedera naturai”.

Non c’è alcun “caos creatore” o “caso che decide” l’ordine o la ratio della natura, che è sempre la stessa (simili ratione, verso 299), nella quale ogni cosa che soleva nascere nascerà nella stessa condizione (eadem conditione), e vivrà e crescerà raggiungendo il pieno vigore, nei limiti a ogni cosa assegnati dai decreti della natura.

In realtà l’oggetto polemico dell’opera di Lucrezio, come di tutto 1’epicu­reismo, è lo stoicismo, per il quale, leggiamo nelle testimonianze di Diogene Laerzio, il fato è dio, che regola il mondo a suo piacimento, secondo una sua ratio (“logos” in lingua greca).

Scrive infatti Diogene Laerzio:

“Che tutto avviene secondo il fato è tesi sostenuta da Crisippo nel suo trattato ‘Del fato’, da Posidonio nel suo secondo libro ‘Del fato’, da Zenone e da Boeto nel primo libro ‘Del Fato’. Il fato è  una concatenazione di cause di ciò che è oppure la ragione (logos) che dirige e governa il cosmo.” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro settimo, 149).

E in un altro passo ancora:

“Secondo gli stoici, i principi dell’universo sono due, l’attivo e il passivo. Il principio passivo è l’essenza senza qualità, la materia; il principio attivo è la ragione nella materia, cioè dio. E dio, che è eterno, è il demiurgo creatore di ogni cosa nel processo della materia.” (ibidem 134).

E più avanti:

“Dio è un’unica sostanza sia che si chiami mente o fato o Zeus, ma è designato anche con  molti altri nomi.” (ibidem 135).

È questo “dio = fato = logos = ratio esterna alla natura” che Lucrezio critica, come prima aveva fatto Epicuro, come d’altra parte emerge dal se­guente brano di Cicerone, nella sua opera De natura deorum, quando fa dire a C. Velleio, epicureo, che critica il fatalismo degli stoici:

“E chi non avrebbe paura di un dio curioso e intrigante (curiosum et plenum negotii), che a tutto pensa e provvede, che tutto osserva e ritiene che tutto lo riguardi? Da qui derivò prima di tutto la necessità del fato (fatalis necessitas) che chiamate ‘heimarméne’: ogni evento, secondo voi, prenderebbe origine dalla realtà eterna e da un concatenamento di cause. Ma questa filosofia deve apparire assai valida a chi, come le vecchiette (ma quelle ignoranti!), ritiene che tutti gli avvenimenti siano determinati dal fato! Segue poi la vostra ‘mantiké’, che in latino è detta ‘divinazione’, per la quale saremmo totalmente imbevuti di superstizione, che, se volessimo dar ragione a voi, dovremmo venerare gli aruspici, gli auguri, gli astrologi, gli indovini, gli intepreti dei sogni. Epicuro ci ha liberati da queste paure e ci ha liberati dalla schiavitù, per cui non temiamo quegli dei che, come capiamo, non creano fastidio a se stessi e non ne procurano agli altri, e veneriamo con devozione e con reverenza una natura eccellente e superiore.” (ibidem libro I, 54, 55 e 56).

La natura opera per l’epicureo con le sue leggi, i foedera naturai di Lucrezio, che non sono le leggi o i voleri di un dio ‘curiosum et plenum negotii’, che a guisa di ‘fatalis necessitas’ regola le vicende umane.

L’attacco di Lucrezio non è solo alla superstitio, ma anche alla religio, essendo già chiara al suo tempo la distinzione dei due termini, come espressa, d’altra parte, dallo stesso Cicerone in un brano dell’opera citata.22

Ma allora qual è il senso del clinamen di Lucrezio?

Intanto bisogna ancora premettere che negli scritti di Epicuro, che ci sono rimasti, e in testimonianze su Epicuro, anche abbastanza ampie, che ci sono pervenute, quale quella ad esempio di Diogene Laerzio, tranne in Cicerone, non si fa cenno alcuno al clinamen. L’interpretazione del moto dell’atomo, per cui nel suo moto secondo una linea retta verso il basso, devia, “declinat sine causa”, spezzando così la necessità del fato, salvando quindi la libertà umana, nasce da un’idea di Cicerone. Scrive infatti nel suo De fato:

“Epicuro pensa di evitare la necessità del fato (necessitatem fati) per mezzo della declinazione dell’atomo. In tal modo si origina un terzo tipo di movimento oltre a quello del peso e dell’urto, quando l’atomo declina di un intervallo minimo - chiama questo “eláchiston”; che tale declinazione si pro­duca senza causa, è costretto ad ammetterlo nei fatti, se non a parole. Infatti un atomo non declina in quanto urtato da un altro. Come possono urtarsi gli uni con gli altri, se i corpi individuali sono portati dalla gravità perpen­dicolarmente in linea retta, come piace ad Epicuro? Ne segue che, se non si respingono tra loro, non possono toccarsi. Pertanto, ammesso, che esista e che declina, declinerà senza causa. Il motivo per cui Epicuro introdusse tale dottrina (rationem) era la sua preoccupazione che non restasse nessun mar­gine di libertà in noi qualora gli atomi si muovessero di un moto naturale e necessario dovuto alla loro gravità (gravitate), visto che pure i moti dell’ani­ma sono determinati dal moto atomico. Invece Democrito, l’inventore degli atomi, preferì ammettere che tutto accade per necessità piuttosto che privare i corpi individuali (corpora individua) del loro moto naturale.” (ibidem 10, 22-23).

La fisica di Lucrezio non è una fisica empirista, ma una fisica costruita a partire da enti razionali e ideali, secondo la tradizione pitagorico-democritea, perseguita da Galileo e successivamente da Newton. Il paradigma empirista, incapace di capire la fisica lucreziana, interpreta “incerto tempore” e “incertis locis” di Lucrezio, come l’intervento del “caso” o della “libertà” nella realtà fisica, sino ad allora retta dalla dura necessità e dai decreti del fato. Questa lettura, in verità, è partita da Cicerone e si è trasmessa lungo i secoli, sino al nostro Prigogine.

Tale assurda concezione porta i traduttori a parlare di “atomi” quando nel testo lucreziano si parla di “corpi” , cioè non si parla di “atomi” ma di “corpi composti”. Inoltre, “alto e basso” in Lucrezio hanno un chiaro significato, quando riferiti alla nostra sensazione qui sulla terra e che invece non possono più avere in un universo infinito. Tali assurdità invece emergono dai brani citati di Cicerone del De fato e del De natura deorum, dove tra l’altro si trova il nesso curioso tra il tema del clinamen e della libertà umana, che è l’oggetto dei versi lucreziani 251- 293, dove invece si indica una semplice analogia.

Sino al verso 250, Lucrezio si è limitato a parlare solo del moto dei “corpora”, ovvero di “corpi composti” da primordia rerum, dal verso 251 comincia a parlare invece del moto dei “primordia” (verso 253), dei “semina” (verso 284), e non ha senso trasferirli là dove si parla del moto verso il basso dei “corpi composti”, che i “primordia” o “semina” non hanno, poiché “multimodis volitent”, come dice Lucrezio nel verso 1055.

Nel libro I la libertà, come abbiamo visto, è un “eventum”, quindi mera apparenza, in tale assurda interpretazione diventa invece un “coniunctum”, cioè una proprietà essenziale dell’atomo.

La declinazione degli atomi spezza i decreti dei fato, foedera fati, che vengono sostituiti dalle leggi della natura, foedera naturai, non lasciando spazio alcuno al “caso”, all’emergere del “nuovo”, dell’imprevisto.

Come si possa inserire il tema della libertà umana, argomento di carat­tere morale, entro un discorso prettamente fisico, come quello del libro II, mi riesce difficile da comprendere.

Una simile confusione come quella di legare il “caso” con la “libertà umana” è difficilmente comprensibile per una mente razionale, essa poteva solo essere il parto di una mente eclettica, quale quella di Cicerone. Per Democrito, che è poi la mente ispiratrice di Epicuro e dello stesso Lucrezio:

“Gli uomini si sono foggiati l’idolo del caso, come una scusa per la propria mancanza di senno. Perché raramente il caso viene in contrasto con la saggez­za, mentre il più delle volte nella vita è lo sguardo acuto dell’uomo intelligente quello che sa dirigere le cose.”23

A partire da questa confusione è chiaro che tante altre possibili interpre­tazioni si possono avanzare.

La filosofia naturale di Lucrezio può essere riassunta con le seguenti parole di Newton:

“L’estensione, la durezza, l’impenetrabilità, la mobilità e la forza d’iner­zia del tutto nasce dall’estensione, dalla durezza, dall’impenetrabilità, dalla mobilità e dalle forze d’inerzia delle parti;  di qui concludiamo che tutte le minime parti di tutti i corpi sono estese e dure, impenetrabili, mobili e dotate di forza d’inerzia. E questo è il fondamento dell’intera filosofia.”24

 

 

Conclusione

 

Se nella scienza newtoniana e laplaciana è chiaro il significato del “caso”, che altro non è che la nostra ignoranza sulle cause ultime di un fenomeno, non si capisce più cosa esso significhi nelle teorie (?!) scientifiche cosiddette moderne.

In Prigogine, come già ricordato, il caso addirittura “decide” come debba evolvere, ad esempio, in punti di biforcazione, una determinata realtà fisica, chimica, biologica, storica, ecc. Come decide, chi decide, perché decide in un modo o in un altro, di tutto questo non si dice. È il caso, nuovo “deus absconditus” o “deus ex machina”, che dirige le sorti del mondo!

Così invece di denunciare il limite della nostra conoscenza, la nostra ignoranza su come evolve il mondo, denuncia che ci inviterebbe a proseguire nella ricerca, si nasconde tale ignoranza sotto il pomposo e misterioso nome del “caso”, che, come Dio, ci acqueta e ci soddisfa.

La stessa cosa avviene nelle società clericalizzate a proposito del “mira­colo”. Scrive il filosofo Spinoza: “Non fanno che cianciare a vuoto coloro che, quando ignorano una cosa, fanno appello alla volontà di Dio: modo, que­sto, davvero ridicolo di confessare la propria ignoranza.” (Cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Utet, 1972, p. 493).

“Caso” e “miracolo” sono il frutto di un identico atteggiamento, di una identica filosofia. Del resto già Leibniz li accomunava come espressione di una medesima visione metafisica.

“Secondo me, scrive Leibniz, tutto è connesso nell’universo, in virtù delle ragioni metafisiche per le quali il presente è gravido dell’avvenire, onde nessuno stato è naturalmente spiegato se non per mezzo dello stadio che l’ha immediatamente preceduto. Se lo si nega, il mondo avrebbe discontinuità, il che obbligherebbe, nella spiegazione dei fenomeni, a ricorrere ai miracoli e al caso.” (Cfr. G. W. Leibniz, Lettera a Varignon sul principio di continuità in Scritti filosofici, Utet, l968,p.768 )

In una società laicizzata nella propria cultura, quale quella contempora­nea (si dice!), come spiegare “certi eventi”? Sarebbe da folli spiegarli con il “miracolo”. Si preferisce, con un altro nome, ricorrere al “caso che decide”!

Il fatto più grave, direi più sconcertante, di certa metafisica del caso, non è tanto questa mistificazione, quanto che, se è vera l’ipotesi per cui il caso è la nostra ignoranza, questo, quasi per incanto, diventa il principio di tutte le cose. Infatti, se è vero che il caso “decide” in larghissima parte dell’evoluzione del mondo ed esso è la nostra ignoranza, questa alla fine diventa il principio di tutte le cose.

Così non è più vero neanche il detto bibblico che il “Logos” è al principio di tutte le cose e da esso furono create! Invece ci siamo avvicinati di nuovo al “caos primordiale” a mezzo di questa teologia o metafisica del “caso”!

 

NOTE       

 

1    Cfr. a questo proposito l’introduzione di Giulio Casati al volume Il caos. Le leggi del disordine, Le Scienze S.p.A editore, 1991.   TORNA

2    Di un nuovo paradigma ha parlato D. Ruelle in Caso e caos, Bollati Boringhieri, 1991, p. 75.   TORNA

3    Cfr. il volume citato Il caos. ... p. 29.   TORNA

4    Cfr. I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, 1993, pp. 146-147.   TORNA

5    ibidem p. 174.   TORNA

6    ibidem p. 80.   TORNA

7    Cfr. Grégoire Nicolis e Ilya Prigogine, La complessità, Einaudi, 1987, pp. 16-17.   TORNA

8    Cfr. I. Prigogine, La nuova alleanza. p. 165.   TORNA

9    In La complessità, p. 92.   TORNA

10 Sul significato della scienza aristotelica della sostanza si veda quanto ho scritto nel N.8 della Rivista “Mondotre”.   TORNA

11 M. Serres, La naissance de la physique dans le texte de Lucrèce, Minuit, Paris 1977.   TORNA

12 Cfr. K.Popper, La logica della scoperta scientifica, pp.269-274, Einaudi, 1970.   TORNA

13 Cfr. K. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, pp. 55-60., Il sag­giatorc, 1984.   TORNA

14 Cfr., ad esempio, A. Koyré, Studi galileani, Einaudi, 1976.   TORNA

15 L. Geymonat discute l’interpretazione platonica del pensiero galileano nel suo libro Galileo Galilei, Einaudi, 1969, pp.13l-l38.   TORNA

16 Cfr. Quaderni di Mondotre, Ripensando Peano e la sua scuola, 1989, Grandezze fisiche e numeri matematici, 1991, La logica della grammatica e la grammatica della logica, 1992, Teorie interpretative ed esperimenti cruciali, 1993.   TORNA

17 Nel poscritto alla seconda edizione de “Il capitale”, Marx difende Hegel, trattato dalla critica come un “cane morto”, aggiungendo che Nella sua forma mistificata, la dialettica era diventata una moda tedesca....   TORNA

18 Cfr. G. Boscarino, Sul significato di “significalo fisico”, in Mondotre, 1993.   TORNA

19 Il brano citato si trova nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, giornata seconda, in Opere di Galileo Galilei, Utet, Vol. I, pp. 307-316.   TORNA

20 Cfr. Gemino, Elementa astron., ed. Manitius, p.11   TORNA

21 Diels-Kranz, I Presocratici, Laterza, 1983, p. 681.   TORNA

22 Cfr. M. T. Cicerone, De natura deorum, libro II, 71, 72.   TORNA

23 Cfr. I presocratici , 68, B, 119, Laterza.   TORNA

24 Cfr. I.Newton, Principi matematici della filosofia naturale, libro III, Utet, 1965.   TORNA